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I competenti

Qualche dato interessante sull’attività dei leader politici in Parlamento (che è quello che dovrebbero fare) lo rilascia Pagella Politica. Si nota ad esempio che il leader di Azione Carlo Calenda – nonché presunto leader del cosiddetto Terzo polo del promesso partito unico che non si farà mai – tra il primo gennaio e il 7 aprile è stato ospite in televisione 26 volte, una ogni tre giorni, per spiegarci che la competenza, la serietà e l’impegno sono caratteristiche solo sue.

E come siamo messi con l’impegno? Maluccio. Il 22 marzo Openpolis, una fondazione indipendente che promuove la trasparenza nella politica, ha pubblicato i dati sulla presenza dei leader di partito in Parlamento. Nei primi sei mesi di questa legislatura il senatore Calenda, che non ricopre incarichi di governo, ha partecipato all’11,2 per cento delle votazioni in Senato, la seconda percentuale più bassa tra i leader di partito, davanti solo allo 0,5 per cento del senatore e leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. Il deputato Angelo Bonelli, co-portavoce di Europa verde, è il leader di partito più presente in Parlamento, avendo partecipato all’83 per cento delle votazioni. Il deputato Giuseppe Conte e la deputata Elly Schlein hanno registrato finora rispettivamente il 65,2 per cento e il 53,7 per cento di partecipazione alle votazioni. Il senatore Matteo Salvini, che ricopre l’incarico di ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, il 14,9 per cento, mentre il senatore Matteo Renzi, leader di Italia viva, il 41,7 per cento.

Il leader di Azione ha presenziato a tutti i programmi di approfondimento politico: quattro volte a Tagadà su La7, tre volte a L’aria che tira e due volte a Piazzapulita e Dimartedì. Non si è fatto nemmeno mancare due ospitate alla trasmissione mattutina di Fiorello. Ospite di La7 (considerata dai calendiani la rete televisiva che non si dovrebbe guardare perché troppo populista, troppo poco competente) Calenda ha spiegato in diverse occasioni che “la politica è una cosa seria” e che il suo partito è “una chiamata per l’impegno per l’Italia”.

I numeri del cosiddetto Terzo polo rimangono comunque inchiodati a percentuali ritenute insoddisfacenti. I competenti.

Buon lunedì.

Nella foto: frame dell’intervista di Carlo Calenda al Tg1Mattina, 7 aprile 2023 (Youtube Azione)

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Pd, Elly Schlein e il rinnovamento disinnescato

La speranza di rinnovamento è un’aspettativa sempre difficile da “mettere a terra”, come si usa orrendamente dire in questi tempi di Pnrr e di incapacità di dare forma a progetti la cui realizzazione è diventata una fastidiosa fase due. Il capitale di speranza ha soffiato forte su Elly Schlein, catapultata alla segreteria del Partito Democratico perché ci si augura intercetti voti (non sono i voti le certificazioni più tangibili delle speranze?) che non sarebbero mai passati da quelle parti se non avessero trovato lei come interlocutrice. Utilizzare la leva del rinnovamento all’interno del Partito democratico funziona. Ha funzionato, eccome, quando Matteo Renzi divenne segretario chiamandolo spigolosamente “rottamazione”. A Renzi, piaccia o meno, non si può non riconoscere di avere cambiato i connotati dirigenziali dei dem (che poi li abbia sostituiti con dirigenti ancora più reazionari nonostante la nomea di riformisti è tutt’altro discorso). Sulla modifica della “facciata” del suo partito Schlein ha un precedente non da poco.

Pd, Schlein dice no al ticket con Bonaccini: «Non ha senso, finito il tempo delle donne vice». Domenica il voto nei gazebo
Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Twitter)

Il Pd può bastarsi? Per Schlein la risposta è no

Qui si inserisce “l’unità del partito”, esigenza reale che viene sventolata come scure dagli avversari interni. Che il Pd contenga molte anime e abbia bisogno di un continuo processo di sintesi è un suo ingrediente fondativo. C’è differenza però tra anime politiche – sensibilità diverse che possono coabitare per elaborare una lettura complessa del presente – e bande perennemente impegnate nel logoramento dell’area avversaria. Nel primo caso saremmo di fronte al partito a vocazione maggioritaria pensato dai fondatori, nel secondo invece ci ritroviamo – come ora – di fronte a un partito ben lontano dal non avere bisogno di un’alleanza più ampia possibile. Il primo nodo di Schlein è questo: il Pd può bastarsi? Secondo la segretaria (e i suoi) la risposta è no. Il Pd viene sempre immaginato come “perno” di un’area che prima di ogni elezione assume etichette diverse (l’ultima di Enrico Letta era “il campo largo”) ma che sostanzialmente è sempre la stessa cosa: una coalizione che punta a raccogliere i partiti a sinistra e quelli al centro. Lo scopo era allargarsi il più possibile, anche mettendone a rischio la tenuta e l’affidabilità. Vale la pena quindi sculettare da partito con aspirazione maggioritaria o conviene una volta per tutte prendere coscienza che il Pd non può pensare di vincere le elezioni senza una coalizione? Perché, pensateci, questo cambierebbe tutto.

L’unità del partito passa in secondo piano rispetto all’identità

Nel secondo caso “l’unità del partito” è un aspetto secondario rispetto all’identità e alle chiare prese di posizione che occorrono per avere una precisa collocazione (e per rispettare i voti presi alle primarie dalla segretaria). Chi ha votato Schlein non ha nessun interesse per le rimostranze dei Fioroni di turno (nonostante l’umano dispiacere per le loro eventuali dipartite) semplicemente perché il progetto è altro. Se i riformisti vogliono trasformare il Pd nel cosiddetto Terzo polo non hanno altro da fare che impacchettare le valigie e traslocare. Prima delle prossime elezioni si siederanno con i loro ex compagni di partito per valutare se i punti di intesa siano tali da poter correre insieme. La tragedia sventolata continuamente non esiste: si chiama politica, si fa politica.

Sondaggi politici, tra FdI e Pd meno di dieci punti. I due partiti mai così vicini dal mesi. La rilevazione di Swg mostra una crescita anche per M5s e Terzo Polo
Elly Schlein (Getty)

Se la segretaria si siede al tavolo coi capibastone sa di legittimare la nomenclatura correntista

Arriviamo dunque a queste prime settimane del “nuovo Pd” di Elly Schlein. Le correnti che avrebbero dovuto cessare di esistere si sono moltiplicate. Non basta essere “contro le correnti” se gran parte delle energie e delle parole sono state spese per soddisfare maggioranze, minoranze delle maggioranze, maggioranze delle minoranze, minoranze delle minoranze e correnti dell’ultima ora. Era un passo necessario, certo. Nessuno poteva credere che la segretaria provocasse un bailamme talmente fragoroso da spezzare le antiche connessioni. Schlein sa però che sedersi al tavolo con i capibastone significa legittimare la nomenclatura correntista. È un capitale di speranza consumato. L’ha fatto consapevolmente e l’ha dovuto fare, certo, ma è l’ennesimo tributo alla partitocrazia che molti suoi elettori vivono come un fardello di cui liberarsi il prima possibile. Il fardello, appunto. L’opposizione interna (che si oppone a sua volta anche al proprio interno, un’opposizione al quadrato) sa bene che sfidare Elly Schlein oggi è impossibile. Per logorarla le basterebbe continuare a irrorare il fardello. Come accaduto per la composizione della segreteria: mostrare Schlein immersa in trattative che avrebbe dovuto estirpare è il modo migliore per renderla uguale tra gli uguali. E quindi disinnescarla.

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Senza Berlusconi, Forza Italia non può esistere. La successione è utopia. Il partito del Cavaliere non ha mai fatto un Congresso

Silvio Berlusconi è malato. Forza Italia è malata con lui. Non c’è da stupirsi se tra i parlamentari e gli iscritti al partito personale di Berlusconi si sia già diffuso il panico e tiri aria di smobilitazione. Il partito è pronto già da un bel po’ a svuotarsi in tre rivoli (Fratelli d’Italia, pochi nella Lega e qualcuno con Renzi che si staccherà da Calenda) e le condizioni del padrone stanno solo accelerando un processo in atto da tempo. Forza Italia del resto è il comitato d’affari permanente e legalizzato di Berlusconi.

Comitato d’affari

È nata per questo e di questo principalmente si è occupata nella sua storia politica. Ieri il coordinatore del partito, il ministro Antonio Tajani, ha detto ai giornalisti: “Nessuno ha mai parlato di congresso o di dopo Berlusconi. Berlusconi grazie a Dio è ancora lì, si è raccomandato di preparare le elezioni amministrative fino al giorno prima il ricovero. Queste indiscrezioni sembrano un pò iettatorie. Voglio smentire anche di fronte agli elettori che non c’è lite, nessuno scontro, nessuno spettro di congresso. Berlusconi tornerà ad essere la guida come sempre”.

Si è dimenticato di specificare che Forza Italia, come tutti i partiti padronali, un congresso non saprebbe nemmeno come organizzarlo. Lo stesso Tajani, nominato vicepresidente di Forza Italia nel luglio 2018 e coordinatore nazionale nel 2021, ricopre cariche che non esistono nello Statuto del partito. Forza Italia ha una sola regola interna: decide Berlusconi. Per questo il partito si ammala con lui.

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La Schlein chiude la segreteria è un Pd da manuale… Cencelli. Trovata l’intesa sul nuovo vertice del Nazareno. Renziani ridimensionati, ma tutte le correnti sono dentro

Un mese dopo la sua elezione a guidare il partito Elly Schlein presenta la nuova segretaria del Partito democratico. Lo fa con una diretta Instagram nel primo pomeriggio. “Scappa dai giornalisti”, bisbiglia velenoso qualcuno dei soliti noti tra i parlamentari. Schlein spiega che “siamo andati un po’ lunghi effettivamente” ma sono stati “mesi complicati sia professionalmente che per la vita privata”.

Nessun retroscena, solo “qualche giorno di pausa per poter staccare, riposare e tornare a fare tutto il lavoro che ci aspetta, che è enorme”, dice la segretaria. In totale sono ventuno componenti che rispettano le attese. Coordinatrice della segreteria è la consigliera regionale del Lazio Marta Bonafoni.

Agli Esteri è andato l’ex ministro per il Sud Peppe Provenzano (niente da fare per la minoranza che reclamava il posto). All’Informazione e Cultura c’è l’ex senatore e giornalista Sandro Ruotolo. Ai diritti ovviamente Alessandro Zan, deputato e protagonista della legge contro l’omobilesbotransfobia, sostenitore di Schlein fin dall’inizio delle sue primarie.. All’Economia è stato invece assegnato, come da previsioni, Antonio Misiani, senatore ed ex viceministro al Mef. All’Organizzazione, Schlein ha scelto Igor Taruffi, assessore regionale al Welfare in Emilia Romagna e già esponente della lista Coraggiosa con cui Schlein aveva corso le elezioni regionali.

Emiliana anche Marwa Mahmoud, consigliera comunale di Reggio Emilia e tra le fondatrici del movimento Italiani senza cittadinanza: si occuperà di formazione e partecipazione politica. Marco Furfaro, deputato e portavoce nazionale della mozione Schlein durante le primarie, è entrato come Responsabile iniziative politiche, contrasto alle diseguaglianze, welfare.

Per la Conversione ecologica, clima, green economy e Agenda 2030, la segretaria dem ha scelto Annalisa Corrado, da tempo vicina a Schlein. L’ex sindaca di Crema Stefania Bonaldi di occuperà di Pubblica amministrazione, professioni e innovazione; al Lavoro è andata l’ex sottosegretaria al Tesoro ed ex esponente di Leu Maria Cecilia Guerra; alle Politiche agricole l’europarlamentare, subentrata al posto di David Sassoli, Camilla Laureti. C’è anche Pierfrancesco Majorino, ultimo candidato del centrosinistra in Lombardia, al quale sono state affidate le Politiche migratorie e il Diritto alla Casa, i suoi temi da sempre. Alla scuola, educazione dell’infanzia, istruzione e povertà educativa va invece la deputata Irene Manzi.

Schlein ha anche voluto creare un incarico ad hoc per il Contrasto alle mafie, legalità e trasparenza: per questo è stata scelta la senatrice ed ex vicepresidente di Libera Vincenza Rando. Alla Coesione territoriale, Sud e Aree interne è stato poi assegnato il deputato e segretario a Napoli Marco Sarracino. Alla Salute e sanità, è andata l’ex viceministra degli Esteri del governo Conte 2 e Draghi Marina Sereni.

Spazio per tutti

Per la minoranza invece i nomi sono tre: alla Giustizia la deputata dem ed ex vicesegretaria Debora Serracchiani; agli Enti locali il sottosegretario della giunta dell’Emilia-Romagna (e braccio destro di Bonaccini) Davide Baruffi; alle riforme e Pnrr il senatore Alessandro Alfieri. Per Articolo 1 entra all’Università Alfredo D’Attorre.

Nei prossimi giorni verranno comunicati anche i dipartimenti. Per ora si sa di Mauro Berruto confermato allo Sport e Iacopo Melio all’Inclusione e abbattimento delle barriere. Capo Segreteria è stato nominato Giovanni Gaspare Righi (assistente di Schlein dai tempi dell’europarlamento) mentre il suo portavoce d Flavio Alivernini diventa anche responsabile della comunicazione del partito. La segreteria, almeno sulla carta, assomiglia alla segretaria.

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Silvio è un cataclisma per l’Italia ma adesso lo si può solo santificare. C’è la malattia: chi parla di scandali e condanne è linciato e su giornali e tv pure a sinistra la memoria vacilla

Silvio Berlusconi risponde positivamente alle cure a cui è sottoposto. Dopo avere sentito telefonicamente Matteo Salvini e Giorgia Meloni nei giorni scorsi ieri l’ex Cavaliere ha sentito alcuni dirigenti di Forza Italia e ha trovato il tempo anche per scambiare due battute con il suo fedele Augusto Minzolini, direttore de Il Giornale. “È dura ma ce la farò”, avrebbe detto. Per Fedele Confalonieri “Berlusconi sta meglio di prima”. Ma qui ormai siamo ai portatori dell’epica, non è più cronaca.

Tanti auguri

Che Berlusconi stia meglio è una buona notizia. Questa è la precisazione che ormai si deve mettere come appello ogni volta che si scrive e si parla di lui in questi giorni perché la tossicità del dibattito (e la conseguente morte del giornalismo). Niente di nuovo: specularmente alle discussioni sulla guerra (dove la frase da ripetere come un mantra è la premessa obbligatoria che si riconosce la responsabilità di Putin nell’invasione) la tossicità servile degli oltranzisti usa il dramma personale dell’ex presidente del Consiglio (la leucemia mielomonocitica cronica, una malattia da prendere terribilmente sul serio) per provare a tarpare la discussione politica.

Ma Silvio Berlusconi anche da malato è uno dei peggiori cataclismi politici che si è abbattuto sull’Italia. Si può dire? Si riesce a cogliere la differenza tra una profonda disistima politica verso un uomo circondato da corrotti e corruttori che ha avuto come braccio destro un uomo in stretto contatto con i boss di Cosa nostra e un “augurio di morte” che alcuni suoi servili protettori vedono dappertutto? Non sembra.

Ieri il direttore de La Notizia, Gaetano Pedullà, è stato ferocemente attaccato in una trasmissione televisiva perché si è concesso il lusso di ricordare che la fortuna di Berlusconi (inversamente proporzionale alla fortuna degli italiani) è figlia di regalie politiche per costruire il suo impero televisivo, condita da momenti di imbarazzo internazionale come il Parlamento che votò Ruby Rubacuori nipote di Mubarak o il lettone di Putin. Apriti cielo. Berlusconi malato è sull’uscio della santità.

La malattia, secondo alcuni, diventa l’ennesima prescrizione di fronte a cui bisogna chinare la testa. Amici, amici degli amici e pure chi l’ha duramente combattuto. Ieri si sono lette righe di editorialisti sconcertati perché la segreteria del Pd – in tutt’altre faccende affaccendata – non aveva ancora espresso solidarietà al pregiudicato ospedalizzato. E così si è ripetuta la scena: Elly Schlein, prima di presentare i membri della sua segreteria – ha ripetuto la formula magica: “Auguri di pronta guarigione a Silvio Berlusconi, in questo momento di grande apprensione”, dice la segretaria del Pd.

“Troppo tardi”, rispondono quelli. Tanto a loro delle condizioni di salute di Silvio Berlusconi (come della sofferenza degli ucraini) interessa ben poco: l’importante è usare la sofferenza altrui come roncola contro gli avversari. Ha un nome il coraggio di compiere un’azione del genere: meschinità. Perfino Calenda (che questo trucco lo usa spesso su altri temi) ieri si è ritrovato sommerso dagli attacchi dei parlamentari di Forza Italia (e dal renziano Giachetti, indizio utile per leggere il futuro) perché ha detto quello che tutti sanno: dopo Berlusconi si chiude la Seconda Repubblica.

Il partito unico della destra dichiarata e della destra dissimulata accetta santificazioni. Allora lo scriviamo forte: Berlusconi politicamente fa schifo da sano e da malato. Nessuno si permette di considerare la sua malattia un’occasione di rivincita ma i giudizi contano, eccome.

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Palazzo Madama, idea Aventino contro La Russa

Cuperlo lancia l’Aventino. Le opposizioni dovrebbero uscire dall’Aula ogni volta che la presiede Ignazio La Russa e i vice presidenti non espressi dalla maggioranza dovrebbero dimettersi dalla carica. Così vediamo che fa”. Lo dice il dem Gianni Cuperlo in una intervista a La Stampa.

Secondo Gianni Cuperlo le opposizioni dovrebbero uscire dall’Aula del Senato ogni volta che la presiede Ignazio La Russa

“Perché – aggiunge – quando il presidente del Senato derubrica via Rasella ad un attentato a “una banda musicale di semi pensionati” certifica di essere una figura inadeguata a ricoprire quell’incarico”. Non bastano le scuse e la marcia indietro? “Le scuse, – risponde Cuperlo – espresse in maniera e misura goffe, non riparano lo sbrego istituzionale e la ferita che ha prodotto. Sull’episodio credo Edith Bruck abbia speso frasi definitive, “La Russa mente sapendo di mentire e lancia una sfida, cosciente di rimanere impunito. Per questo non è perdonabile”.

Bisogna tuttavia vedere se Renzi, Calenda o i Cinque stelle siano d’accordo: “Non rimuovo che a Palazzo Madama una frangia dell’opposizione lo votò con lo scudo della segretezza, oggi penso che chiunque abbia partecipato alla sua elezione dovrebbe provare un senso di imbarazzo. Vadano alle Fosse Ardeatine o alla Risiera di San Sabba e dinanzi a quei luoghi interroghino la loro coscienza. Questa destra vorrebbe piegare il passato, anche quello più tragico, a un riscatto delle ragioni sciagurate di chi ha trascinato l’Italia in una pagina buia”.

Poi, con calma, bisognerebbe capire cosa dire mentre si sta in quell’Aula, provando a proporre quel Paese diverso da quello disegnato dal governo Meloni.

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Solita guerra per le poltrone. La segreteria del Pd slitta ancora

Il giorno fatidico doveva essere ieri invece, come spesso accade in questo nuovo Pd, tocca aspettare un altro giorno. La nuova segreteria del partito ha subito un altro stop. Il problema, mano a dirlo, è sempre lo stesso: i posti per sfamare gli irrefrenabili stomaci delle correnti. La segretaria Schlein ha avuto il suo bel daffare per spiegare a Stefano Bonaccini che la nuova corrente di lettiani che ha deciso di sostenerla (i ribattezzati “neoulivisti”) non hanno nulla a che vedere con i posti che le spettano. “Letta ti ha sostenuto alle primarie, è roba tua”, avrebbe detto la segretaria a Bonaccini.

Pomo della discordia i posti reclamati dai lettiani. Che la segretaria del Pd Schlein vuole recuperare togliendoli a Bonaccini

L’intesa di massima c’è ma il diavolo è nei dettagli. A quanto si apprende, Schlein non avrà vicesegretari. La segreteria sarà composta da una ventina di personalità, più o meno, e di queste cinque dovrebbero andare alla minoranza. Tra questi, al momento, sarebbe definita la delega per le Riforme istituzionali per Alessandro Alfieri, già Base Riformista, e gli Enti locali per Davide Baruffi, braccio destro del presidente PD. Ci sarebbe la Giustizia per Debora Serracchiani, mentre non è certo invece l’ingresso di Simona Bonafè.

Un dato che crea malumori dentro un pezzo di Base Riformista che vede poco riconosciuto il proprio peso. Sulle altre caselle destinate alle minoranza – oltre Alfieri, Baruffi e Serracchiani che sarebbero più solidi- regna ancora incertezza e si auspica l’ingresso di un amministratore o amministratrice locale. Per quanto riguarda la maggioranza, sul fronte ‘sinistra’ dem (oltre a Michele Fina che è già tesoriere) ci sono Peppe Provenzano agli Esteri, Antonio Misiani in pole per la riconferma all’Economia e Marco Sarracino, dato in queste settimane all’Organizzazione, ruolo che però potrebbe essere affidato a Gaspare Righi, molto vicino alla segretaria. E vicino a Schlein è anche Marco Furfaro, già in pole come vicesegretario, potrebbe essere nominato coordinatore. Ed ancora Alessandro Zan ai Diritti.

Intanto nella minoranza Base riformista sta già mollando Bonaccini

Un ruolo potrebbe averlo anche Stefania Bonaldi, ex-sindaca di Crema, che ha coordinato la rete degli amministratori con la mozione Schlein al congresso. Non ci sarà invece Rossella Muroni, che lo ha ufficializzato sui social. Si parla di personalità esterne come lo scrittore Maurizio De Giovanni, che aveva fatto parte – per poi dimettersi – anche della comitato costituente del nuovo Pd. Intanto nella minoranza Base riformista sta già mollando Bonaccini (com’era facilmente prevedibile).

“Bonaccini ha fatto una partita per sé”, è l’accusa che viene mossa. Anche la scelta, maturata nelle ultime ore, di non nominare nessun vicesegretario viene letta in chiave polemica: “Non fa nemmeno un vice per non doverne dare uno alla minoranza”, la sintesi. Tra i dirigenti di Base riformista le accuse rimbalzano nelle chat: “Bonaccini, purtroppo, non è stato in grado di tenere insieme un’area che aveva ottenuto un risultato importante al congresso ed è voluto entrare in segreteria ad ogni costo con un accordo oggettivamente al ribasso”, è il refrain.

E ancora: “Si dovrà ricostruire un’area riformista che è uscita indebolita e sottorappresentata, rispetto ai risultati del congresso e delle primarie, dalla trattativa per arrivare alla segreteria unitaria”. Lo schema Schlein comunque è chiaro: nessun vicesegretario, valorizzazione delle deleghe di organizzazione e coordinamento, assegnate a figure vicine alla leader dem, e spazio alla minoranza interna. Il tutto sperando che poi si possa assistere a una vera pacificazione. “Che non accadrà mai perché è contro la natura del Pd”, sospira un senatore.

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I primi articoli di Renzi. Editorialista già con gli scout

“È un bel casino vivere la quotidianità. Un sacco di problemi, un sacco di questioni da risolvere. Se abbiamo aperto ad esempio un quotidiano in questi giorni, abbiamo letto che nel mondo ogni tre secondi muore un bambino semplicemente… per povertà”. Leggete bene l’apertura fulminante di questo editoriale. È di Matteo Renzi giornalista.

Matteo Renzi in giovane età è stato anche “caporedattore”. Nella redazione di Camminiamo insieme, giornale degli scout Agesci

Matteo Renzi, neo direttore de Il Riformista, oltre che leader del partito personale Italia Viva, nonché conferenziere per il poco democratico principe saudita bin Salman, nonché maratoneta a tempo perso. Nonché ex pilastro inamovibile del partito unico del cosiddetto Terzo polo, che chissà mai se si farà, in giovane età è stato anche “caporedattore”. Nella redazione di Camminiamo insieme, giornale degli scout Agesci, l’ex presidente del Consiglio si firmava Zac, in onore del personaggio biblico Zaccheo, capo dei pubblicani di Gerico, che salì su un sicomoro: da sopra i rami dell’albero volle vedere l’Uomo della Galilea. Già giovanissimo Renzi aveva capito che l’arrampicata (in senso stretto e in senso figurato) è la chiave per la svolta.

Dalle citazioni di Mike Bongiorno al G8 di Genova. Il direttore del Riformista prometteva bene

Ci sono nel Renzi “Zac” caporedattore tutti gli stilemi del politico imprenditore di sé stesso. Nel suo editoriale “cambiare cuore o canale” (era il numero del 22 gennaio del 2001) il giovane Matteo discetta di cuore e di mente, coltivando gli slogan con cui ha provato a rottamare la politica: “Strana la storia della parola “cuore”. – scrive Renzi -. Oggi vanno di moda le frasine stile cioccolatini, che invitano a seguire il cuore, ad assecondare il proprio istinto. Hanno rovinato persino la bellissima frase di quel grande filosofo che fu Blaise Pascal “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”; l’hanno devastata immaginando che cuore e ragione siano due cose incompatibili, l’un contro l’altra armata. Ed invece non è così: il cuore è, sin dall’antichità, l’organo della ragionevolezza, dell’intelligenza. E la frase di Pascal sta a dire che il cuore non va contro la ragione, ma arriva oltre i confini davanti ai quali la ragione si arresta”.

Chissà se è il cuore o la ragione che l’ha convinto ad abbandonare la politica come promesso dopo il referendum o a stringere affari con un sultano che fa a pezzi i giornalisti oppositori. Ma andiamo avanti. Tra frasi a effetto tubate a Kennedy, l’editorialista Renzi incita i suoi compagni scout a non arrendersi passando da una poesia di Rodani a Mike Bongiorno: “Davanti alle cose difficili ci si può arrendere oppure ci si può credere fino in fondo. Mettiamola semplice, – scrive Renzi nel numero di febbraio 2001- parafrasando il noto opinionista Mike Bongiorno: davanti a ciò che non va, a ciò che costa fatica, o si lascia o si raddoppia”.

Che Mike Bongiorno fosse un “opinionista” secondo il nostro caporedattore dimostra una confusione già antica sull’autorevolezza che non è direttamente proporzionale alla popolarità. Chissà che ne direbbe Mike Bongiorno di un ex caporedattore che motivava i suoi citandone estasiato il pensiero e che poi con gli anni abbia abusato, proprio lui, della parola “competenza” per stagliarla contro i suoi avversari politici.

E la politica Nel numero dell’8 giugno del 2001 l’ex giornalista e presidente della Regione Lazio a pagina 15 tuonava contro l’Olanda che “dopo avere legalizzato la prostituzione e i matrimoni gay” stava pensando all’eutanasia: Dio non ha più l’ultima parola” tuonava Badaloni e Zan Renzi in ultima pagina vergava invitava a “scegliere la vita contro la cultura della morte”.

Come una Meloni o un Salvini qualsiasi. Affinità elettive fin da giovane. Nello stesso pezzo Renzi, al solito, impartisce lezioni di vita con frasi da baci Perugina: “C’è qualcosa di straordinariamente affascinante nel riempire uno zaino, – scrive Renzi – nel caricarselo sulle spalle, nell’allacciarsi i soliti scarponi, nel respirare profondamente e nel partire. Perché – come direbbe qualche prestigiatore da tre lire – “non c’è trucco e non c’è inganno” nel nostro stare sulla strada. Siamo noi, i nostri pensieri, i nostri amici senza maschere; è la nostra vita, che si mette umilmente in marcia, in marcia verso l’Infinito”.

“Frasi fatte?”, scrive Renzi. Lui dice di non crederlo. Noi un po’, lo ammettiamo, sì. Sempre a proposito di impronta politica conviene rileggersi l’editoriale di Renzi a luglio di quell’anno, quando il mondo rimase sconvolto per la violenza delle nostre forze dell’ordine al G8 di Genova contro i manifestanti. Tutti i giornali di tutto il mondo sottolineavano la carneficina del braccio armato del governo. Zac Renzi no. “Ci sono poche cose più stupide al mondo che immaginare che si possano aiutare i poveri facendo violenza. Sprangare vetrine e bruciare macchine, ferire forze dell’ordine e mettere a fuoco città non è il modo per rispondere all’ingiustizia”, scriveva Renzi mostrando già così giovane un’invidiabile capacità di leggere la realtà sempre dal lato sbagliato, in attesa che i fatti lo smentiscano con il tempo.

“Il nostro nemico – scrive Renzi – non è un avversario invisibile, come ci siamo provocatoriamente chiesti nella prima pagina. Il nostro nemico non è nemmeno la globalizzazione o la politica. Il nostro nemico non è men che mai un ragazzo come noi che fa il carabiniere, né un capo di stato, né un’ideologia. Il nostro nemico siamo noi. Siamo noi quando ci abbandoniamo alla pigrizia e alla rassegnazione; ma anche quando, arroganti, pensiamo di cambiare il mondo senza cambiare noi stessi. Siamo noi quando cediamo alla banalizzazione, a credere a quello che ci dicono senza informarsi davvero. Senza capire davvero”.

Sì, avete letto bene: ci sono dentro tutti gli artifici retorici che usa ancora oggi. Solo una cosa era davvero inimmaginabile in quel lontano 2001: che ci potesse essere gente dentro e fuori il Partito democratico così spericolata da ritenere Renzi un portatore di pensiero non dico di sinistra (bestemmia!). Ma lontanamente progressista. Ci sono, negli articoli di Renzi, tutte le caratteristiche del reazionario smart fin da giovane. Un anziano imbolsito che sa usare un vocabolario empatico per apparire giovane e intanto assecondare la propria natura. Non male.

Sulla guerra, ad esempio, scriveva Renzi: “Talvolta in clan siamo di quelli che si preoccupano della pace nel mondo, della fine dei conflitti, e poi in casa, in comunità siamo in perenne lite con il mondo fuori”. Fa un certo effetto rileggerla oggi, eh? C’è il suo amore per le crisi: “Ma se viviamo aspirando alla libertà, anelando l’Infinito, respirando la nostalgia di una felicità senza tramonto, allora – scrive Renzi – crisi è la parola per noi. Non riduciamola a questioncina da tre lire, a problemuccio pissssicologggico: essere in crisi, sembrerà un paradosso, è la condizione per essere felici, davvero”.

E in effetti nelle crisi (provocate) Renzi ha sempre ritrovato un po’ di felicità. Quella di autopreservarsi fingendo di occuparsi di altro. Un cosa che gli viene benissimo. Compreso questo nuovo giro a Il Riformista.

 

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Salari contro la Costituzione

È qualcosa di storico perché in una sentenza sta scritto ciò che da anni scriviamo sgolandoci. La causa è stata intentata da una donna di Padova che lavorava per la Civis, un’importante società di vigilanza privata con sede a Milano. Secondo il giudice avere un contratto regolare percependo 3,96 euro all’ora è incostituzionale. Si tratta di uno stipendio di appena 640 euro netti mensili, ben al di sotto della soglia di povertà stimata dall’Istat a 840 euro.

Secondo il giudice quello stipendio è contro la Costituzione. A stabilirlo, secondo il togato, è l’articolo 36 della Carta in cui si legge che «il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». Diritto che, secondo il giudice, non veniva garantito dalla paga offerta dall’azienda per la quale la donna lavorava per 12 mesi all’anno.

Con la sentenza in favore della lavoratrice, il giudice Tullio Perillo ha condannato Civis a pagare un risarcimento di 372 euro lordi in più per ogni mese di lavoro svolto dalla donna, ossia più di 6.700 in totale. In pratica il differenziale tra la paga versata e quella prevista per un servizio di portierato. «È una vittoria storica – spiega Zanotto di Adl Cobas – che apre la strada anche ad altri lavoratori nella stessa situazione in Italia, circa 100mila. E soprattutto dice ai sindacati che avevano siglato questo contratto collettivo, nel caso specifico Cgil e Cisl, che quei contratti da fame non vanno firmati». Anche perché quel contratto è utilizzato – aggiunge Zanotto – «in settori del pubblico impiego, Esu, Ospedali, Agenzia delle Entrate».

Non è ora di una legge sul salario minimo? Il capogruppo di Alleanza Verdi e Sinistra in commissione Lavoro della Camera, Franco Mari, sottolinea come «dopo la sentenza del giudice del lavoro di Milano tocca al Parlamento. Le opposizioni hanno il dovere di fare una sintesi, non al ribasso, tra le cinque proposte di legge sul salario minimo in discussione».

Buon venerdì.

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Conflitto di interessi permanente per vanità

Per contestualizzare la notizia si potrebbe partir da un episodio raccontato ieri da Stefano Menichini. Matteo Renzi, ai tempi presidente della Provincia di Firenze, partecipò a un evento promosso dal giornale Europa di cui Menichini era direttore. Racconta Menichini: «Renzi prende una copia, la guarda appena, si gira al vicino e chiede: “Ma un giornale vero non c’è?”». Dieci anni dopo Renzi segretario del Partito Democratico ordinò la chiusura di quel giornale.

Per avere un’idea del senso per la stampa di Matteo Renzi bisogna tornare a L’Unità, che Renzi chiuse per ben due volte. Come scrive Andrea Carugati per Il Manifesto «la prima nel 2014, quando da neo segretario del Pd favorì la liquidazione della società editrice per costituirne una nuova di zecca in cui la fondazione del partito – Eyu – era socia di minoranza insieme al gruppo Pessina. La seconda nel 2017: quando l’Unità renziana tracollò a causa di una linea turboriformista sdraiata sul “caro leader”, lui battezzò una nuova testata di partito, Democratica, diretta da Andrea Romano, solo online e presto affondata».

Forte del suo curriculum ieri Matteo Renzi è tornato sul luogo del delitto annunciando con una recita di famiglia in sala Stampa estera di essere il nuovo direttore de Il Riformista che ora dovrà decidere che redazione avere, visto che gran parte passerà in blocco proprio a l’Unità che l’editore Romeo ha resuscitato per affidarla alla direzione di Piero Sansonetti. Dal punto di vista giornalistico per ora siamo nel campo della mera speculazione pubblicitaria e politica (lo scrive in un suo comunicato anche la Fnsi). Dal punto di vista politico siamo al giornale di partito di un partito senza elettori e presumibilmente senza lettori. Al solito.

Quando qualche giorno fa scrissi proprio qui che Renzi avrebbe lasciato Calenda a spalare macerie qualche terzopolista si è incupito. Forse non sapeva o forse non capiva. Siamo di fronte all’ennesimo “conflitto di interessi” per vanità. Solo che ogni volta diventa più raggelante. Un senatore direttore di un giornale edito da un editore coimputato di suo padre per traffico di influenze (insieme a Italo Bocchino, altro direttore) dice tutto quello che c’è da dire sullo stato dell’editoria italiana, dove le testate sono un orpello da indossare per oliare gli ingressi di certi salotti e un tubetto di stagno per saldare amicizie. Da parte sua Renzi aggiunge all’elenco di attività extraparlamentari un altro tassello che stride parecchio con il senso per il giornalismo del suo amico bin Salman, coautore con il senatore fiorentino di quel Rinascimento saudita che vorrebbe lavarsi dal sangue di Kashoggi.

C’è un ultimo particolare interessante. Dice Renzi di avere avvisato il suo compare Calenda (che raccontano furioso nella giornata di ieri) e Giorgia Meloni. Cosa c’entri la presidente del Consiglio in un affare del genere non si capisce. Meglio: si capisce benissimo. Se si trattava di cortesia istituzionale Renzi avrebbe dovuto avvisare il presidente del Senato, non certo la capa del governo. Il direttore del Corriere Luciano Fontana dice quello che pensano tutti: «Mi stupisce che voglia fare tremila mestieri e non l’unico per cui è stato eletto dal popolo italiano». E Calenda mette subito le mani avanti: «Non sarà il nostro giornale».

Buon giovedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Matteo Renzi alla Stampa estera

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