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L’Ucraina, le mine, i bambini

Dopo più di 13 mesi di guerra su vasta scala, il numero confermato di bambini uccisi in Ucraina ha superato i 500. Alla data del 2 aprile, almeno 501 bambini sono stati uccisi e 991 feriti a causa dell’escalation del conflitto, la maggior parte dei quali ha dai 12 anni in su, ma si teme che i numeri reali siano significativamente più alti. Basti pensare che 1 civile su 8 ucciso o ferito da mine antiuomo e ordigni inesplosi è un bambino. È Save the Children, l’Organizzazione che da oltre 100 anni lotta per salvare le bambine e i bambini a rischio e garantire loro un futuro, a sottolineare queste tragiche cifre in occasione della Giornata internazionale per la consapevolezza e l’assistenza nelle azioni antimine. Dal febbraio 2022 in Ucraina è stato ucciso almeno un bambino al giorno, secondo l’analisi di Save the Children su dati verificati delle Nazioni Unite. Gli incidenti a causa delle mine, che ora vengono segnalati quotidianamente, hanno causato 126 vittime nell’ultimo mese e mezzo, ovvero una media di 3 civili uccisi o feriti al giorno da residui bellici esplosivi. Dall’escalation del conflitto nel febbraio dello scorso anno, le vittime causate dai residui bellici sono state 758, quasi il 12% sono bambini. Ogni giorno in Ucraina, bambine e bambini corrono un rischio crescente di calpestare una mina antiuomo o di raccogliere parte di una munizione, e quindi di subire ferite mortali o di venire uccisi. Prima che scoppiasse la guerra, l’Ucraina era già uno dei paesi più minati al mondo. Da allora, i terreni contaminati da mine sono aumentati di dieci volte, occupando il 30% del Paese, circa 180 chilometri quadrati, un’area grande il doppio del Portogallo o uguale allo stato della Florida negli Stati Uniti.

A questo si aggiungono le armi esplosive ad ampio raggio, altra causa predominante delle vittime tra i bambini in Ucraina. Nel primo anno di guerra su vasta scala, 404 bambini sono stati uccisi da bombardamenti, missili e attacchi di droni e altri 850 sono rimasti feriti. La maggior parte delle vittime si è verificata nelle regioni di Kharkiv e Donetsk, dove i combattimenti sono in corso dallo scorso febbraio. Nei centri urbani nell’est e nel sud del paese continuano i combattimenti e i bombardamenti. Molti ragazzi e ragazze sono costretti ancora a rifugiarsi negli scantinati degli edifici residenziali sotto attacco. Secondo Save the Children, solo lo scorso anno, i bambini in Ucraina sono stati costretti a trascorrere in media più di 900 ore (38,3 giorni) in bunker sotterranei.

”Mezzo migliaio di bambini uccisi è l’ennesimo tragico traguardo raggiunto in questa guerra. 500 in più di quanti dovrebbero essere. Ogni giorno in Ucraina, ragazze e ragazzi innocenti vengono ancora feriti o uccisi. Un Paese dove la violenza, che comprende l’uso di armi esplosive nelle aree urbane, incombe all’orizzonte. La conseguenza è che, durante il primo anno di guerra rispetto ai precedenti otto anni di conflitto nell’est del paese, le vittime tra i bambini sono state tre volte più alte rispetto alle altre. Ma i bambini in Ucraina hanno anche sperimentato un immenso disagio psicologico a causa della violenza e dell’instabilità: molti sono stati separati dai loro genitori o hanno visto i loro cari uccisi o feriti”, ha dichiarato Sonia Khush, direttrice di Save the Children in Ucraina.

La primavera sta arrivando, la neve si scioglie e le piogge faranno emergere mine sepolte e frammenti di proiettili e di artiglieria inesplosi. Questo paesaggio letale si rivelerà altamente pericoloso per le bambine e i bambini, che trascorreranno più tempo all’aria aperta. A febbraio, 8 adolescenti sono rimasti feriti dopo che un sedicenne aveva giocato con una mina alla fermata dell’autobus a Izyum. Per educare i bambini ai rischi degli esplosivi, Save the Children distribuisce opuscoli informativi sulle mine e organizza sessioni di sensibilizzazione nelle scuole di tutta l’Ucraina. ”Prima di tutto, dobbiamo comunicare ai bambini che non esistono oggetti esplosivi sicuri. Sono tutti pericolosi, è vietato avvicinarsi, toccarli. Insegniamo ai bambini come riconoscere un’area contaminata o un esplosivo solitario e cosa fare quando vengono individuati”, afferma Yevhen, l’istruttore dell’Associazione degli sminatori ucraini. ”E’ molto importante che [i bambini] vivano a lungo e felici e non si espongano al pericolo”, conclude.

Buon mercoledì.

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Renzi che se ne scappa e Calenda lasciato solo a spalare le macerie

In politica e in democrazia accade così: contano i numeri. Possono esserci quintali di editoriali o decine di testimonial presunti competenti ma i voti certificano il peso degli attori in campo. Anche quando vince qualcuno che può non piacerci dovremmo ricordarci che i voti sono ancora il primo vero argine a un’oligarchia che vorrebbe istituzionalizzarsi. Non è un caso che a ogni elezione, che sia locale o regionale o nazionale, vengono smutandati decine di presunti esperti di politica e decine di presunti leader.

Le elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia per esempio certificano che le regioni del nord sono di destra, come quasi tutto il resto del Paese. Quelle regioni di destra per diversi motivi, primo su tutti l’appeal quasi nullo del centrosinistra che per anni ha inseguito il potere fottendosene dei voti. Quelle regioni sono di destra perché la Lega riesce (in Lombardia, in Veneto, in Friuli Venezia Giulia e in Piemonte) a sopravvivere nonostante Salvini. Quelle regioni sono di destra perché il centrosinistra spesso (Pd in primis) è apparso identico nei desideri con la considerevole differenza di non tirare i fili del governo. Ce ne vorranno parecchi di Majorino per cambiare l’immagine consolidata.

Le elezioni regionali di ieri però ci offrono spunti interessanti. Il primo è che Giorgia Meloni ha trainato il suo partito sull’onda delle ultime elezioni politiche ma la mancanza di una classe dirigente ritenuta capace e davvero radicata sul territorio si fa sentire. Così Salvini può esultare e appropriarsi di un vittoria che è ben poco sua: Fedriga, rieletto presidente della Regione, è la linea opposta di Salvini dentro la Lega e da solo con la sua lista pesa poco meno di tutta la Lega. Salvini ha perso il 16% rispetto alle regionali del 2018 e la lista personale di Fedriga ha guadagnato più dell’11%. Il ministro alle Infrastrutture e ai Ponti esulta ma sa benissimo che la fronda interna cresce giorno dopo giorno.

Elly Schlein per ora è un effetto più mediatico che politico quando si tratta di elezioni. È naturale che sia così: l’onda su Schlein è vincolata a un cambiamento reale del Pd che molti ora si aspettano nei fatti. Queste elezioni dicono pochissimo della nuova segretaria (anche se qualcuno già da oggi le userà contro di lei) ma confermano che l’aspettativa si consolida in voto solo di fronte a un concreto cambiamento. Schlein lo sa, sta lavorando proprio su questo. Resta da vedere se glielo permetteranno. Nel frattempo il M5s, che la neo segretaria del Pd considera partner affidabile per la costruzione del centrosinistra, continua a essere altalenante: avrebbe potuto essere determinante a Udine ma se n’è andato da solo.

Il cosiddetto Terzo polo è un’invenzione letteraria di alcuni giornali che non legge quasi nessuno. Essere superati in Friuli Venezia Giulia da una lista strampalata come quella che tiene insieme Italexit, Movimento 3V, Movimento Gilet Arancioni, Alister e Comitato Tutela Salute Pubblica Fvg significa essere i re degli incompetenti che vorrebbero dare patenti di incompetenza. L’analisi del voto di Carlo Calenda a caldo ieri sera (“Il risultato in #FVG è per noi deludente e purtroppo non si discosta da quello delle altre Regionali, elezioni più polarizzanti fra tutte e difficili per un partito di centro. Complimenti a Fedriga e tanta stima al nostro @MaranAlessandro, persona di grande qualità. Avanti e al lavoro”) è un capolavoro di inettitudine: dentro c’è la colpa data agli elettori e la sindrome del tennista che dà sempre la colpa alla racchetta. Che poche ore prima dell’ennesima disfatta (dopo la Lombardia e il Lazio) Matteo Renzi abbia deciso di “tirarsene fuori” spiegandoci che si sarebbe preso “una pausa” (una pausa televisiva, perché per lui la politica è poco più dell’apparire) conferma quello che si dice da tempo: Renzi e Calenda si scinderanno, uno andrà a destra e l’altro a sinistra, tutti e due stampelle pleonastiche di poli politici che esistono anche nel mondo reale.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video dell’apertura della campagna elettorale di Azione-Italia viva, Milano, 2 settembre 2022

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L’Italia multata per deportazione. Ancora

Giovedì 30 marzo la Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) di Strasburgo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani e ha ordinato alle autorità italiane di risarcire i ricorrenti.

I ricorrenti sono quattro migranti tunisini che tentarono di raggiungere l’Italia a bordo di un’imbarcazione di fortuna nell’ottobre 2017, soccorsi in mare e portati sull’isola di Lampedusa. All’arrivo a Lampedusa, spiegano gli atti del tribunale, i quattro migranti sono stati condotti presso l’hotspot dei migranti per una prima identificazione, registrazione e colloqui.

Secondo il tribunale, i migranti sono stati collocati nell’hotspot per dieci giorni “durante i quali affermano di non essere stati in grado di andarsene e di interagire con le autorità”. I ricorrenti affermano inoltre che il loro trattamento nell’hotspot è stato “disumano e degradante”.

Più tardi, in ottobre, i quattro ricorrenti, insieme ad altri 40 migranti, sono stati portati all’aeroporto di Lampedusa. Dicono di aver ricevuto documenti da firmare, che non hanno capito, e solo successivamente hanno scoperto che si trattava di provvedimenti di respingimento che impedivano loro di rientrare in Italia. Da Lampedusa, il gruppo racconta di essere stato prima trasportato all’aeroporto di Palermo e poi “trasferito con la forza in Tunisia”.

A causa di questo trattamento, la Cedu ha ritenuto che l’Italia violasse gli articoli 3, 4 e 5 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’articolo 3 riguarda i trattamenti inumani o degradanti, l’articolo 5 riguarda il diritto alla libertà e alla sicurezza e l’articolo 4 riguarda il divieto di espulsione collettiva degli stranieri.

In particolare, l’Italia è stata giudicata in violazione dell’articolo 4 in quanto non aveva fatto alcun tentativo di valutare il caso di ciascuna persona separatamente: non ci sono stati colloqui individuali e al gruppo nel suo insieme sono stati impartiti ordini di respingimento.

I quattro migranti, precisa il tribunale, sono tutti cittadini tunisini, nati tra il 1989 e il 1993, e che attualmente risiedono in Tunisia. La loro domanda è stata presentata per la prima volta al tribunale nell’aprile 2018.

Il caso è stato deciso da una camera di sette giudici, di cui uno italiano. La corte ha osservato “che il governo [italiano] non ha contestato le affermazioni dei ricorrenti riguardanti le condizioni (in particolare scarsa igiene e mancanza di spazio) presso l’hotspot di Lampedusa, dove erano stati trattenuti per dieci giorni”.

I ricorrenti, ha affermato il tribunale, sono stati effettivamente privati ​​della loro libertà per tutto il tempo in cui sono stati trattenuti nell’hotspot perché la struttura era “circondata da sbarre, recinzioni e cancelli, e da cui non erano stati in grado di uscire legalmente”.

La loro detenzione di dieci giorni non aveva una “base giuridica chiara e accessibile”, ha anche rilevato la corte, aggiungendo che ai ricorrenti non sono state fornite informazioni sufficienti o non è stata data la possibilità di contestare i motivi della loro detenzione de facto davanti a un tribunale.

Dal momento che sembravano non aver compreso gli ordini né aver avuto tempo tra la loro firma e l’imbarco sull’aereo, la corte ha ritenuto che ai ricorrenti non fosse stata data la possibilità di appellarsi contro le decisioni.

Il tribunale ha condannato l’Italia a pagare a ciascun ricorrente 8.500 euro a titolo di risarcimento danni e 4.000 euro a titolo di costi e spese.

Secondo i dati raccolti dall’organizzazione italiana Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), tra novembre 2020 e gennaio 2021 sono aumentati i provvedimenti di espulsione nei confronti di cittadini tunisini emigrati in Italia.

Infatti, secondo uno studio Asgi diffuso nel 2022, i cittadini tunisini costituivano l’80,5% dei cittadini stranieri transitati nei Centri di detenzione e rimpatrio (Cpr) in Italia, e il 75,5% dei cittadini stranieri rimpatriati dall’Italia.

L’Ong per i diritti umani Borderline Sicilia ha definito il sistema di rimpatrio dei tunisini in Italia una “macchina perfetta”.

Italia e Tunisia hanno firmato un accordo, secondo il quale la Tunisia è considerata dall’Italia un Paese ‘sicuro’, il che significa che la maggior parte dei cittadini tunisini è esclusa a priori dalla protezione internazionale. Ciò significa che il loro rimpatrio può avvenire attraverso una procedura accelerata.

Durante la pandemia di Covid-19, il rimpatrio dei migranti tunisini sembrava essere facilitato, sostiene l’Asgi. La maggior parte dei migranti tunisini arrivati ​​in Italia durante la pandemia sono stati prima portati in un hotspot per l’identificazione. Da lì, sarebbero stati portati in un Cpr e messi su una nave di quarantena per il periodo di isolamento obbligatorio.

Borderline Sicilia descrive la nave quarantena come “anticamera del rimpatrio per completare la fase di canalizzazione legale della procedura hotspot: il tempo trascorso sulla nave è servito a completare la selezione dei cittadini stranieri, distinguendo tra ‘richiedenti asilo’ e ‘migranti economici, ‘ tra chi ha accesso all’accoglienza e chi viene espulso”.

Una volta che i cittadini hanno lasciato la nave quarantena, organizzazioni come Borderline Sicilia affermano che alla maggior parte dei tunisini è stato chiesto di firmare un documento senza alcuna spiegazione o accesso alle informazioni. Non hanno avuto la possibilità di raccontare la loro storia personale e nemmeno di presentare domanda di protezione internazionale. In genere veniva loro emesso un ordine di allontanamento e gli veniva chiesto di lasciare l’Italia entro sette giorni.

Un articolo del 2022 di Borderline Sicilia ha evidenziato i casi di tre uomini tunisini che erano stati tutti detenuti in Cpr in Italia. Due di loro sono morti durante la detenzione o subito dopo.

Borderline Sicilia scrive che uno di loro è stato detenuto per due mesi in un Cpr vicino Trapani. Durante il suo periodo di detenzione, “Sami si è ripetutamente autolesioniato, cucendosi le palpebre, le labbra e i genitali”. Dopo aver minacciato di impiccarsi, alla fine è stato rilasciato ed è stato in grado di raggiungere la sua famiglia in Europa. Un altro migrante tunisino, Wissem, è morto durante la contenzione psichiatrica all’ospedale San Camillo di Roma. Il 26enne di Kebili in Tunisia sarebbe stato “sedato e legato mani e piedi a un letto d’ospedale, dopo essere passato per il Cpr di Ponte Galeria, dove era detenuto”.

Infine, Borderline Sicilia ha raccontato anche la storia di Bilel, tunisino di 20 anni di Sfax, morto nel maggio 2020 mentre era in quarantena sulla nave Moby Zaza, ormeggiata al largo di Porto Empedocle in Sicilia.

Dall’inizio del 2023, secondo i dati del governo italiano, più di 27.000 migranti in totale sono arrivati ​​via mare sulle coste italiane. 1.862 di loro sono registrati come cittadini tunisini.

Buon lunedì.

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Il pullman dei 26 migranti spaesati, emblema del fallimento dell’accoglienza

La scena potrebbe essere l’incipit di un libro di Leonardo Sciascia. C’è questo pullman – le cronache non ci dicono se fosse scassato – che possiamo immaginare cigolante per esigenze d’atmosfera, con a bordo 26 migranti partiti da Siracusa. Il «partiti da Siracusa» è una definizione che forse non rende l’idea, che rende tutto colpevolmente superficiale. I 26 arrivano dall’Africa subsahariana, lembo sofferente in un continente sofferente in cui l’unica salvezza spesso è tirare fuori la testa in Europa, come un annegato che cerca l’ossigeno. Nascere dalla parte sbagliata del mondo (l’Africa sotto il Sahara è una delle parti sfortunate in cui venire al mondo) significa intraprendere un viaggio che contiene molti viaggi. Nel loro caso c’è da trovare un trafficante che curi il prelievo nel villaggio, la traversata del deserto che offre una letteratura della violenza con uomini bruciati dopo essere stati ricoperti di benzina fino al collo dell’imbuto, la Libia. La Libia, che dovrebbe essere primo passo della speranza, è il tonfo ancora peggiore.

Migranti, click day, oggi 27 marzo 2023
Migranti in Sicilia. (Getty Images)

La Libia della schiavitù, degli stupri e delle torture

Il rapporto dell’Onu spiega che in Libia la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali e hanno incentivato la continuazione delle violazioni. Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù in centri di detenzione ufficiali così come in «prigioni segrete» e che lo stupro sia stato commesso come crimine contro l’umanità. Nel contesto della detenzione, le autorità statali e le entità affiliate – tra cui l’Apparato di deterrenza della Libia per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (Dacot), le Forze armate arabe libiche (Laaf), l’Agenzia per la sicurezza interna (Isa) e l’Apparato di supporto alla stabilità (Ssa) e la loro leadership – sono state ripetutamente trovate coinvolte in violazioni e abusi. I detenuti sono regolarmente sottoposti a tortura, isolamento, detenzione in isolamento e gli viene negato un adeguato accesso ad acqua, cibo, servizi igienici, luce, esercizio fisico, cure mediche, consulenza legale e comunicazione con i familiari.

Il parlamento ha votato compatto: l'Italia continuerà a pagare i miliziani e la guardia costiera libica per limitare gli sbarchi
Migranti in un centro di detenzione in Libia. (Getty)

Spargerli in giro perché si notino il meno possibile

Immaginiamo questi 26. Le donne regolarmente stuprate sperando di essere brutte, di diventare sempre più brutte per poter partire. Gli uomini con i polsi e le caviglie fratturate per gioco dagli schiavisti. Nell’orrore si imbarcano. Arrivati a questo punto del viaggio – lo dicono tutti – rischiare di morire su un barchino instabile ha il sapore della buona notizia. Dopo quell’orrore i corpi hanno imparato a non avere più paura. I nostri 26 sbarcano in Italia. Anche qui sono numeri. In Italia concorrono a scassare la propaganda che risponde ingrassando l’odio. Quei 26 rientrano nelle statistiche di un governo che ha bisogno di numeri bassi da dare in pasto ai propri elettori: sono persone che sbrodolano e danno fastidio. Qui per fortuna non si possono nascondere le persone in scantinati illegali e non si possono eliminare per togliersi il problema. A Siracusa tocca spargerli in giro perché si notino il meno possibile. Destinazione Piemonte.

Il pullman dei 26 migranti spaesati, emblema del fallimento dell'accoglienza
I 26 migranti fatti scendere dal pullman.

Il capolinea molto prima del centro d’accoglienza

Torniamo al pullman che non sappiamo se scassato. Il torpedone attraversa l’Italia e arriva a Rocca Canavese, un paesino di poco più di mille abitanti a una trentina di chilometri da Torino. I migranti sarebbero destinati a diversi centri d’accoglienza in Piemonte, ma nella piazza cittadina il pullman ferma, sbuffa e l’autista stentoreo dice che siamo al capolinea. Al capolinea di cosa, avranno pensato quelli. Scendono e si ritrovano in mezzo a una piazza, con le valigie che hanno tutta una vita dentro. Rimangono lì, si guardano in giro. Qualche anima buona decide di telefonare al sindaco. «Quando me lo hanno riferito non riuscivo a crederci», racconta il sindaco Alessandro Lajolo al Corriere Torino. «Poi sono sceso in piazza e ho visto questi poveri ragazzi, stanchi e spaesati, in strada. Siamo di fronte a un’emergenza umanitaria e qui a Rocca facciamo quello che è nelle nostre possibilità, ma l’accoglienza non può funzionare così». Dice il sindaco: «Ci hanno messo in contatto con gli autisti e dopo due ore la situazione è stata risolta. Mi spiace per queste persone che hanno dovuto affrontare pericoli e difficoltà e di certo non meritavano di essere trattate come pacchi. Ho chiesto spiegazioni ai conducenti del pullman, da quello che ho capito erano convinti che questo fosse un punto di smistamento. O forse erano semplicemente troppo stanchi». Talvolta accadono episodi che valgono più di mille editoriali. Il pullman degli spaesati è uno di questi.

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Codice degli appalti, De Magistris: “La riforma è un regalo al sistema criminale”

Il governo, Salvini in primis, esultano per il nuovo Codice appalti parlando di cancellazione della burocrazia e maggiore rapidità nei lavori pubblici. Luigi De Magistris, (Unione popolare), quanto costa in termini di legalità questo risultato?
“La politica vuole mani libere per avere mani in pasta. C’è un fiume di denaro pubblico da spendere: una grande opportunità per il paese ma anche una occasione ghiotta per il sistema criminale che sempre più si è mimetizzato a tutti i livelli istituzionali. Il 98% dei lavori sarà affidato senza gara pubblica, i sub-appalti saranno senza limiti, meno sicurezza e tutele per i lavoratori, meno vincoli a tutela del paesaggio. Si doveva invece semplificare il quadro normativo e ridurre la burocrazia, non cancellare le regole che garantiscono trasparenza e legalità e impediscono una devastazione dei nostri territori. Stiamo affidando la cura a chi ci ha portato alla distruzione di ambiente e territori ed è come affidare a Dracula la banca del sangue”.

Secondo la sua esperienza da magistrato e da amministratore è esagerato definire questo Codice un regalo alle mafie?
“Non è affatto esagerato, è un regalo a quel sistema criminale che vive di rapporti tra un pezzo significativo della politica, diverse imprese e le organizzazioni mafiose guidate da colletti bianchi e sempre più infiltrate nell’economia e nelle istituzioni. Il denaro pubblico serve alla mafie per entrare nelle istituzioni a livelli locali e nazionali”.

In vista delle ingenti somme che arrivano dall’Europa (se arrivano) questo paese le sembra strutturato per difendersi da mafie e corruzione?
“La lotta alle mafie e alla corruzione da troppi anni non è più la priorità di governi e parlamenti. Anche un pezzo dell’opinione pubblica, in buona fede, pensa che meno tritolo=meno mafie. Mentre invece le mafie, soprattutto la ’ndrangheta, sono penetrate ad ogni livello ed in ogni parte del nostro paese. Si assiste ad un crollo complessivo della tensione morale su questi temi ed anche la magistratura, con lodevoli eccezioni, sembra arretrare nel contrasto alla borghesia mafiosa avendo perso anche credibilità negli ultimi anni per troppi scandali. Chi si è opposto da dentro le istituzioni al sistema criminale è stato ed è duramente contrastato e talvolta fermato e gli organi di controllo efficaci vengono sistematicamente depotenziati. I prossimi passaggi saranno ridimensionamento della giustizia amministrativa e delle sovrintendenze”.

Cosa ne pensa del combinato disposto Cartabia-Salvini che consentirà anche a imputati, indagati, sotto processo, di accedere agli appalti pubblici?
“Semplicemente una conferma di un disegno politico che non vuole contrastare opacità e zone d’ombra. Addirittura chi ha patteggiato reati gravi può partecipare. Gli onesti sono i fessi, per i furbi si trova sempre il cavillo. Il governo Draghi, con la Cartabia alla giustizia, non era l’esecutivo dei migliori, forse lo era per i poteri forti e per un certo circuito mediatico-finanziario-politico, ma non per chi crede nella giustizia e nella legalità. La riforma Cartabia più entra in funzione e più fa danni, sembra un percorso ad ostacoli per non rendere giustizia ma una serie di uscite di emergenza per garantire al sistema e ai suoi accoliti di poter agire sempre più indisturbati. Per non parlare di quello che vuole fare Nordio e la maggioranza per scardinare definitivamente l’autonomia e l’indipendenza della magistratura: stop intercettazioni proprio sui reati in materia di appalti e corruzioni, più ostacoli per i pm scomodi, via obbligatorietà dell’azione penale. La magistratura conformista quella voluta dalle riforme Mastella e Cartabia. Il sistema è allergico ai controlli del potere diffuso”.

Cosa servirebbe a questo Paese per avere una seria riforma del codice degli appalti?
“In primo luogo una politica onesta, libera, autonoma, competente e coraggiosa. Meno regole, non il ginepraio incomprensibile che nasconde corruzioni, ma che siano chiare ed efficaci, comprensibili a tutti. Semplificazione delle procedure, controlli sostanziali e non solo formali, assumere giovani bravi nella pubblica amministrazione, commissioni di aggiudicazione non condizionabili scelte se del caso anche con sorteggio tra persone qualificate, promuovere le imprese che denunciano pizzo e mafie e che rispettano i diritti dei lavoratori e che applicano anche clausole sociali. Si deve rompere il rapporto opaco pubblico-privato che attraverso il denaro pubblico cementifica il legame con le mafie e alimenta i cosiddetti prenditori, quelli che prendono i soldi dei contribuenti e non fanno nulla per l’interesse pubblico. E l’autonomia differenziata darà ancora più potere ai vertici regionali dove transita una quantità enorme di denaro pubblico e si addensano spesso le relazioni più opache”.

Come valuta, più in generale, la postura di questo governo nei confronti delle organizzazioni criminali?
“Un governo con la spada di ferro verso i più deboli, gli oppressi e i dissenzienti e con la spada di latta nei confronti delle organizzazioni criminali. Un indizio è un indizio, due indizi fanno due indizi, tre indizi una prova. Gli indizi ad oggi sono gravi, precisi e concordanti. E anche la sicurezza nelle grandi città è peggiorata addirittura con questo governo, più crimini, meno prevenzione e controllo del territorio, più paura tra i cittadini. Avremo sempre di più poi il manganello per le piazze ed i regali per le mafie”.

È pensabile che di fronte a un colpo di mano del genere in Italia si strutturi una reale protesta in Parlamento e in piazza
“In Parlamento le opposizioni più che protestare devono fare la loro parte istituzionale mostrandosi possibilmente coese, ma hanno anche molto perso in credibilità complessiva nel paese per avere profondamente deluso quando hanno governato ed agito male anche su questi temi. Nelle piazze il popolo dovrebbe invece protestare, ritrovare la coscienza collettiva di che vuol dire avere la forza del popolo, vediamo quello che accade in Francia, lottare e conquistare i propri diritti, rompere il sistema e costruire dal basso l’alternativa di governo. Questo anche significa che la sovranità appartiene al popolo”.

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Marcucci sogna Calenda: ma che aspetta a seguirlo?

Volendo essere precisi sarebbe da capire anche quando hanno scippato la definizione di “riformisti”. Che al riformismo si siano sovrapposte bande di potere che si sono sparse dentro e fuori dal Pd rivendicando l’unico comune denominatore di sparare contro il loro partito o ex partito è già un elemento da antropologia.

L’ex capogruppo del Pd Marcucci in un’intervista martella la neo segretaria Schlein con la stizza di un bimbo escluso dalla partitella in cortile

Fatto sta che i riformisti (che nel Pd si sono radunati nella corrente di Base riformista che fu di Lotti, poi capeggiata da Guerini e poi sdraiata sulla mozione di Bonaccini) utilizzano una strategia talmente prevedibile che se ne potrebbe ogni mattina ancor prima che comincino a parlare: indebolire Elly Schlein, consequenzialmente indebolire il Pd e leccare il cosiddetto Terzo polo. Il tutto, badate bene, solo per custodire i propri cabotaggi e le sempre più piccole posizioni di rendita.

Ieri è stata la volta dell’ex capogruppo dem Andrea Marcucci (nella foto) che in un’intervista martella la neo segretaria con la stizza di un bimbo escluso dalla partitella in cortile. “Una minoranza esclusa di fatto dalla presidenza dei gruppi, – dice Marcucci intervistato da QN – e presto lo capiremo, anche con incarichi di segreteria, definiamoli così, abbastanza leggeri. Non era mai successo prima, per dire sia Renzi che Zingaretti confermarono capigruppo più in equilibrio con le anime del Partito, pur in presenza di percentuali di vittoria alle primarie ben più eclatanti’’.

Dopo la critica apocalittica sul metodo Marcucci si lascia andare al solito parallelismo Schlein/Melenchon (che da quella parti viene visto come un’onta) spiegandoci che “Elly Schlein vuole costruire un partito più marcatamente di sinistra, mentre il Pd è nato di centrosinistra. Per dirla con una battuta, io ricordo l’entusiasmo di Valerio Zanone quando vi aderì, oggi il modello che si vuole assumere è quello di Jean-Luc Mélenchon. C’è una certa differenza’’.

La critica è legittima, per carità, ma risulta terribilmente identica alle trollate biliose degli esagitati del Terzo polo che vedono il pericolo comunismo nascosto nelle pupille di Schlein. Solo loro, Salvini, Berlusconi, Libero e Il Giornale insistono con questa puttanata. E che la compagnia di giro sia quella non stupisce: chi si somigli si piglia, recita un antico adagio. L’unità del partito e la collaborazione annunciate da Stefano Bonaccini quando signorilmente perse le primarie per la segreteria del Pd sono una promessa che si è sciolta nel giro di pochi giorni.

Marcucci dice pubblicamente ciò che privatamente si dicono in molti. La differente cautela non cambia la sostanza delle cose: Schlein dopo poche settimane si ritrova già a fare i conti con una minoranza che è in tutto e per tutto opposizione. Gli appelli dei “riformisti” non sono altro che messaggi in codice perché suocera intenda di renziana memoria. Marcucci ci fa sapere anche di essere molto interessato a quello che accade al Terzo polo. Anche questa una scena già vista, l’”altrimenti me ne vado”.

E perché non se ne vanno? Perché un altro partito che gli garantisce i posti e la tolleranza del Pd non lo trovano. E forse perché i riformisti alla resa dei voti sono sempre molto meno “credibili” di quello che pensano di essere mentre si fanno i complimenti a vicenda davanti ai loro caminetti sempre più vuoti.

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Il governo degli orrori

Fatti accaduti ieri.

L’Eurocamera ha approvato l’emendamento al testo della Risoluzione sullo Stato di diritto che «condanna le istruzioni date dal governo italiano alla municipalità di Milano di sospendere la registrazione delle adozioni delle coppie omogenitoriali». L’emendamento è stato presentato dal gruppo di Renew europe e supportato da Sinistra, Verdi e Socialisti. Il Parlamento europeo ha approvato per alzata di mano, in plenaria a Bruxelles l’emendamento. Il Parlamento europeo, si legge ancora nell’emendamento, «ritiene che questa decisione porterà inevitabilmente alla discriminazione non solo delle coppie dello stesso sesso, ma anche e soprattutto dei loro figli; ritiene che tale azione costituisca una violazione diretta dei diritti dei minori, quali elencati nella Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989; esprime preoccupazione per il fatto che tale decisione si iscrive in un più ampio attacco contro la comunità Lgbtqi+ in Italia; invita il governo italiano a revocare immediatamente la sua decisione».

La Lega vuole cacciare Giuseppe Busia dal vertice dell’Autorità Anticorruzione. La sua colpa Aver aspramente criticato il nuovo Codice degli appalti varato dal governo di Giorgia Meloni e rivendicato da Matteo Salvini. «Gravi, inqualificabili e disinformate dichiarazioni del presidente Busia sul Codice Salvini: se parla così di migliaia di sindaci e pensa che siano tutti corrotti, non può stare più in quel ruolo», è l’attacco lanciato da Stefano Locatelli, responsabile Enti locali della Lega. «Busia ha dei compiti di controllo – prosegue il dirigente del Carroccio – invece certifica di essere prevenuto, non neutrale e quindi non credibile».

In Veneto vogliono un loro inno. La proposta di legge è della Regione governata dal leghista Luca Zaia: ha già ottenuto l’ok della commissione Cultura e a breve giungerà nell’aula del Consiglio regionale. L’indicazione è di scegliere tra «motivi esistenti» o di «nuova ideazione». A favore hanno votato i consiglieri della Lega-Liga Veneta, contrari i membri di opposizione Pd e Veneto che vogliamo; l’alleata di maggioranza Fratelli d’Italia si è invece astenuta.

Nordio bluffa sul reato di tortura. Come scrive Giulia Merlo per Domani: «Apparentemente, il guardasigilli e il partito che lo ha eletto sono in aperto contrasto. FdI, infatti, ha presentato un disegno di legge per abrogare gli articoli 613 bis e ter del codice penale, ovvero il reato di tortura e di istigazione alla tortura, trasformandole in una semplice aggravante, che prevede l’aumento fino a un terzo della pena. Il ministro, invece, ha risposto al question time del Pd dicendo che “senza se e senza ma, il governo non ha intenzione di abrogare il reato di tortura”, sia per ragioni di “ottemperanza a norme internazionali” che di “coerenza”. Tuttavia, ha aggiunto, “vi sono aspetti tecnici da rimodulare”, perchè l’attuale formulazione del reato “ha delle carenze tecniche di specificità e tipicità”. Proprio in questo corollario solo apparentemente secondario si nasconde invece l’elemento determinante».

Prima di questo c’è stata la strage di Cutro, le parole di Piantedosi e il suo decreto, la legge per i “rave party” come urgenza nazionale, la guerra ai poveri e poi tutto quel pullulare nel sottobosco di fascisti. E siamo solo all’inizio.

Buon venerdì.

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Graviano ritira in ballo Berlusconi

Sembra che se ne siano accorti davvero in pochi delle dichiarazioni del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, condannato all’ergastolo con Rocco Santo Filippone nel processo “Ndrangheta stragista” che ha riscritto il periodo delle stragi mafiose in Italia.

Il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, torna a parlare dei rapporti con Berlusconi. “Con l’imprenditore del Nord contatti solo per i soldi”

Anche la Corte d’Assise d’Appello ha confermato che gli imputati sono i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi il 18 gennaio 1994 sull’autostrada all’altezza dello svincolo di Scilla in provincia di Reggio Calabria ma soprattutto ha confermato il disegno di una “strategia stragista” che ha insanguinato il Paese nella prima metà degli anni novanta e che era stata messa in atto da Cosa nostra e ’Ndrangheta in una sorta di guerra contro lo Stato con l’aiuto di pezzi dello Stato.

In quel processo Graviano ha reso dichiarazioni spontanee in cui negava di conoscere Marcello Dell’Utri (fondatore di Forza Italia, braccio destro di Silvio Berlusconi e ritenuto in via definitiva l’anello di congiunzione tra il leader di Forza Italia e Cosa nostra). Ma in quello stesso processo Graviano ha ripetutamente tirato in ballo Berlusconi (pur non facendone il nome) chiarendo che la sua famiglia aveva rapporti economici con l’imprenditore e ha dichiarato di avere incontrato più volte l’ex Cavaliere perfino durante la sua latitanza.

“Riguardo all’imprenditore del Nord – dice Graviano – ho sempre riferito che i miei contatti erano solamente per i soldi che aveva consegnato mio nonno. E ho dato tutte le date. E questo è stato riscontrato. Pochi giorni fa tutti abbiamo appreso quello che dicono i mezzi di informazione, la Procura di Firenze ha riscontrato quello che ho detto io”. Sembra che se ne siano accorti in pochi che Graviano ha riferito di alcuni “imprenditori di Milano” che non volevano “fermare le stragi”.

Sembra che la politica (e pure certa antimafia) si ostinino a non accorgersi che l’ex presidente del Consiglio, assieme a Dell’Utri, già condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa, sia anche indagato dalla Procura di Firenze con l’accusa di essere tra i possibili mandanti occulti delle stragi del ‘93. Un’accusa che gli è già stata rivolta due volte sia dalle toghe toscane che da quelle di Caltanissetta. Un’accusa che magicamente è sparita dai pensosi editoriali dell’antimafia liquida che ogni tanto si sparge su pensosi editoriali e in compite celebrazioni.

Ma Graviano ha detto anche altro nelle sue dichiarazioni spontanee rese durante il processo d’appello: “Non distruggete i dischetti con le intercettazioni” in quanto “potrebbero servire in qualche prossimo grado”, ha detto il boss in Aula. Si riferisce alle trentadue conversazioni, registrate durante le ore di socialità nel carcere marchigiano tra il marzo 2016 e l’aprile del 2017 che adesso sono finite agli atti del processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Graviano intercettato disse: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia. Per questo è stata l’urgenza”, riferendosi alle stragi.

E poi: “Lui voleva scendere, però in quel periodo c’erano i vecchi e lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa”. E ancora: “Nel ’93 ci sono state altre stragi ma no che era la mafia, loro dicono che era la mafia”. Il boss di Brancaccio, si sa, è un personaggio scivoloso. Ma oggi più del tritolo funziona la minaccia di alludere a una certa verità. Cosa potrebbe volere Graviano? La risposta è semplice: l’abolizione (per sé e per i suoi compari) del 41 bis. E questa è un’informazione utilissima per leggere il futuro, più del passato.

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Appalti, mafie e amici degli amici già si sfregano le mani

Non c’è bisogno di essere esperti di appalti né di mafie per comprendere quanto il codice degli appalti pensato dal Governo Meloni possa essere un enorme regalo alle mafie. “Sotto i 150mila euro si dà mano libera, si dice non consultate il mercato, scegliete l’impresa che volete, il che vuol dire che si prenderà l’impresa più vicina, quella che conosco, non quella che si comporta meglio”, spiega il presidente dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, Giuseppe Busia.

Con il nuovo Codice degli appalti, gli affidamenti sotto i 150mila euro spalancano le porte ai clan

Non proprio uno qualsiasi. “Sotto i 150.000 euro – spiega Busia – va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri: è come permettere di guidare in città senza patente dove c’è il limite dei 50 km”, aveva avvertito Busia. Nessuno l’ha ascoltato. Decidere di mettere in secondo piano la trasparenza, la controllabilità e la concorrenza significa concimare il terreno perfetto perché “gli amici” diventino privilegiati nella scelta.

Le “amicizie” che influiscono sugli appalti – soprattutto in quelli che si riescono a spezzettare per farsi notare meno – sono da sempre le organizzazioni criminali, con la ‘Ndrangheta in testa come testimoniano decine di processi celebrati e in corso nel nostro Paese. Anche per questo i costruttori avevano lanciato l’allarme. La presidente dell’Ance Federica Brancaccio (nella foto) spiega che il nuovo Codice “sta optando per rendere stabili le procedure emergenziali introdotte con il decreto Semplificazione” e “consentirà ad un’ampia quota di appalti di non essere più sottoposti alle regole di piena pubblicità e concorrenza”.

La burocrazia “negativa che frena la dobbiamo eliminare, siamo tutti d’accordo, ma non possiamo eliminare la burocrazia che fa controlli per far bene, che fa controlli per rispettare i diritti, che fa controlli perché i soldi vanno spesi bene, per garantire tutti coloro che lavorano nei cantieri e perché si usino materiali corretti. Si spendono meglio i soldi, non si violano i diritti, le opere durano di più e si rispetta la concorrenza”, spiega Busia di Anac. Bisogna avere il coraggio di scriverlo. Il nuovo Codice sugli appalti è esattamente ciò che le mafie desiderano da tempo. Prima avevano bisogno di un’emergenza per infilarsi, ora lo possono fare nei termini di legge.

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Le mafie ringraziano. C’è da stupirsi?

Io non so se ci si renda conto di cosa contiene il nuovo Codice appalti che Salvini si è subito intestato. Non so cosa altro serva oltre alle parole gravissime di chi lavora nel settore di quegli appalti. “Sotto i 150.000 euro va benissimo il cugino o anche chi mi ha votato e questo è un problema, soprattutto nei piccoli centri”, ha detto ieri il presidente Giuseppe Busia di Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione, riferendosi agli affidamenti senza gara che, allargati a dismisura durante la pandemia, ora diventano strutturali.

Non so cosa altro serva oltre ai numeri (i numeri non sono opinioni) che ci dicono che il 98% degli appalti pubblici verrà sottratto ai controlli, al mercato, alla libera concorrenza. Non so cosa altro serva per capire che proprio mentre stanno arrivando ingenti somme dall’Europa (se arrivano, se Meloni e compagnia non continueranno a fare troppo casino anche con il PNRR) si decide di lasciare mano libera ai profittatori che potranno agevolmente infilarsi.

Non so cosa altro serva per indignarsi oltre a Matteo Salvini che esulta per essere riuscito a includere negli appalti che verranno anche imprenditori indagati, imputati, a processo o condannati con patteggiamento (anche definitivo) per bancarotte, reati tributari, societari e urbanistici, corruzioni, traffici di influenze, turbative d’asta o frodi in pubbliche forniture. Dice Salvini che escluderli sarebbe da “sistema sovietico”. Li sentite i bicchieri tintinnare mentre questi brindano?

Non so cosa serva oltre alle parole dei sindacati. “Se non arriveranno risposte – ha spiegato a Repubblica Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil, la categoria degli edili – dal primo luglio, quando il nuovo Codice degli appalti entrerà in vigore, siamo pronti ad avviare una stagione di vertenze sindacali e legali a partire dalle responsabilità delle stazioni appaltanti: Comuni, Regioni, Anas, Ferrovie. Qui siamo passati dal fare presto e bene, a spendere a prescindere e non per forza bene”. Per Pierpaolo Bombardieri, leader della Uil, così ci saranno “gare al massimo ribasso e si rischia di indebolire tutto ciò che si è provato a costruire per la sicurezza sul lavoro e per l’applicazione dei contratti, soprattutto nell’edilizia. La logica della semplificazione che si scarica sempre sui lavoratori non è più accettabile”.

Oppure si potrebbe ascoltare Vincenzo Musacchio. Musacchio non è uno qualunque: criminologo forense, giurista e associato al Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di Newark (USA). Ricercatore indipendente e membro dell’Alta Scuola di Studi Strategici sulla Criminalità Organizzata del Royal United Services Institute di Londra. Musacchio è stato chiamato nel 2022 dal Presidente della Commissione Bilancio del Parlamento europeo come consulente per occuparsi del controllo sullo stanziamento dei fondi europei (tra cui il Pnrr) elaborando proposte d’interventi per evitare le infiltrazioni mafiose proprio su questi aiuti. Musacchio dice: “Nel nuovo testo del Codice degli appalti il Consiglio dei ministri ha previsto un aumento del tetto sotto il quale è possibile affidare direttamente i lavori. Il nuovo tetto sarà di 500mila euro. Lo avevano chiesto i Comuni italiani e lo aveva fortemente sconsigliato l’Anac. A oggi la soglia è fissata a 40mila euro per l’acquisto di beni e servizi e a 150mila per l’affidamento dei lavori. Non condividevo la scelta del Governo Conte allora, non condivido oggi, a maggior ragione, quella del Governo Meloni”.

“Le nuove mafie – spiega Musacchio – puntano da qualche tempo sugli appalti pubblici. I Comuni sono la parte più vulnerabile e quella più facile da infiltrare. Sfrondare il codice degli appalti in questo modo significa imbandire la tavola dove siederanno i mafiosi per lucrare e lo faranno persino legalmente. L’ultima relazione semestrale presentata dalla DIA al Parlamento ha illustrato come le organizzazioni criminali guardino agli appalti pubblici come una risorsa economica per incrementare i loro guadagni. Ben vengano le semplificazioni per aiutare amministrazioni pubbliche e imprese private, ma ben altro significa affidare direttamente, senza gara, i lavori fino a 500mila euro. In questo modo il sistema non solo non funzionerà meglio, ma si farà un regalo alle mafie favorendo anche la corruzione. Aggiungendo a ciò i subappalti liberi, il disastro sarà totale”.

Buon giovedì.

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