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Ucraini ridotti alla fame. Ma continuiamo a ingozzarli di bombe

La narrazione della “guerra che è bella anche se fa male” li dipinge come eroi al fronte che hanno bisogno solo di una cosa: armi. Gli ucraini, come tutte le vittime delle guerre che avvengono sulle loro teste, devono affrontare la ferocia disumana di Putin che vorrebbe strappargli le loro terre e la cupidigia dei signori delle armi che si fregano le mani. Ma come stanno gli ucraini? Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità e il Paese, un anno dopo l’intensificarsi del conflitto, sta affrontando tassi di sfollamento, inflazione e disoccupazione senza precedenti.

Due famiglie su cinque in Ucraina hanno estremo bisogno di mezzi di sostentamento e di beni di prima necessità

Secondo l’ultimo Rapporto sui bisogni multisettoriali dell’Ucraina dell’Ocha, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari comunitari, più del 40% delle famiglie ha dichiarato di avere difficoltà a soddisfare le esigenze quotidiane di cibo, acqua e beni di prima necessità, nelle aree più colpite dai combattimenti, nell’Est e nel Sud del Paese, il numero sale al 60%. La Banca Nazionale Ucraina il mese scorso ha stimato un tasso di inflazione del 25%, con il costo dei prodotti che è cresciuto della metà nelle regioni orientali.

A settembre, un consumatore su cinque in Ucraina ha dichiarato di non potersi permettere l’acquisto dei prodotti disponibili nei negozi. 5,3 milioni di persone si trovano ancora lontano da casa e per le famiglie sfollate la necessità di assistenza finanziaria cresce di giorno in giorno.

Una persona su quattro è attualmente disoccupata perché molti faticano a trovare un lavoro stabile nel loro luogo di residenza temporaneo. Alcuni di loro scelgono di tornare nelle città d’origine devastate dalla guerra lavorare. Save the Children racconta il caso della famiglia di Anton, 12 anni: lo scorso marzo, con i suoi genitori ha lasciato Kharkiv per spostarsi nell’Ucraina occidentale, a causa dei continui bombardamenti.

Qualche mese dopo, il padre di Anton è stato costretto a tornare. “Mio marito è stato richiamato al lavoro” racconta Olha, madre di Anton. “I miei figli sono preoccupati, chiedono continuamente quando papà tornerà a vivere con noi e quando saremo di nuovo tutti insieme. Non passa giorno che non ci pensino”. Sono molte le Ong che da più di un anno provano a portare ristoro. Tra i bambini che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Queste bambine e questi bambini hanno bisogno di essere protetti dalle ferite fisiche ed emotive che inevitabilmente riportano. Questi bambini avrebbero bisogno di essere raccontati. Questi bambini non possono mangiare munizioni.

Nonostante i buoni propositi di chi augura sforzi diplomatici per risolvere il conflitto la questione umanitaria in Ucraina scompare perché inevitabilmente non fa il gioco di chi chiede sempre più guerra, ancora guerra. Nel corso del primo anno di guerra, Solo Save the Children ha distribuito aiuti essenziali come cibo, acqua, denaro, vestiti invernali e spazi sicuri a più di 800mila persone, di cui la metà sono bambini, e fornito sostegno economico a più di 100mila famiglie, per un totale di oltre 29 milioni di dollari. Una cifra irrisoria rispetto a quella per le armi.

I bambini non causano le guerre, ma sono le vittime più vulnerabili. Tra quelli che riescono a sopravvivere, alcuni non hanno conosciuto altro che violenze o campi profughi. Come stanno gli ucraini è scomparso dal dibattito pubblico. A leggerla da qui sembra una guerra solo di soldati. Diceva Gino Strada: “Nella macchina della guerra, c’è posto anche per il mondo umanitario. Anzi, un posto importante, una specie di nuovo reparto Cosmesi della guerra. Far vedere quanti aiuti arrivano con la guerra, quante belle cose si possono fare per questa povera gente. Per i sopravvissuti, naturalmente”. Ora siamo arrivati a ritenere un vezzo anche quello. Anche gli affamati rovinano la narrazione.

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Schlein incassa i capigruppo. Ma la fronda interna al Pd si rafforza

Il diavolo sta nei dettagli e i dettagli della giornata di ieri mentre i parlamentari del Pd eleggevano i capigruppo proposti dalla segretaria Elly Schlein che tutti si aspettavano (Chiara Braga alla Camera e Francesco Boccia al Senato) parlano chiaro.

La segretaria del Pd Elly Schlein ora punta ad allineare la rotta politica a quella parlamentare

La giornata inizia con la segretaria Schlein in riunione con i senatori dem. Schlein ringrazia la capogruppo uscente Simona Malpezzi per aver guidato “un gruppo che è stato reattivo sui temi importanti anche in questi mesi, dopo la sconfitta elettorale, in cui la destra ci ha impegnato a opporci con responsabilità e determinazione alle sue scelte sbagliate”, spiega. La sottolineatura alla sconfitta elettorale è il diavolo.

Viene eletto Francesco Boccia (proposto dalla segretaria “per la sua solidità, capacità politica ed esperienza”) ma quello che c’è da sapere è tutto nelle dichiarazioni della ex Malpezzi, termometro ideale per tastare il polso dei bonacciniani: “Dico con franchezza e nella trasparenza che comprendo la necessità della segretaria di fare delle scelte ma avrei preferito che la discussione avvenisse prima tra di noi che sui giornali. È fondamentale garantire autonomia e libero spazio di discussione all’interno del gruppo”, dice Malpezzi ai cronisti sottolineando la necessità di “tutelare gli spazi di autonomia dei gruppi”.

“Autonomia dei gruppi”, per chi legge il politichese significa solo una cosa: la minoranza del partito farà pesare i suoi voti, eccome, se ci sarà da far ballare la segretaria. Come se non bastasse Malpezzi manda un messaggio alla sua leader: “La segretaria Schlein – dice – ci ha chiesto la fiducia necessaria per lavorare tutti insieme: condivido e aggiungo che questa fiducia deve essere reciproca perché non ci conosciamo ancora e dobbiamo darci il tempo. Serve la volontà di conoscersi e riconoscersi nelle differenze che sono la nostra ricchezza”.

Ovvero: non pensi Schlein di poter fare il bello e il cattivo tempo forte del gradimento popolare perché i voti dei cacicchi interni hanno affossato leader ben più strutturati di lei. Boccia viene eletto per acclamazione. “Non si è voluto andare al voto, chissà perché”, bofonchia un senatore di Base riformista, “e per acclamazione da sempre tutti battono le mani”.

Passa poco tempo e il rito si ripete alla Camera. Schlein ringrazia la capogruppo Serracchiani (anche lei sostenitrice di Bonaccini) “per dedizione e spirito di servizio alla comunità democratica. Ha retto, – dice Schlein – insieme a Malpezzi e Letta, un peso enorme dopo la sconfitta elettorale e lo ha fatto nel migliore dei modi presiedendo ottimamente il gruppo alla Camera dei deputati”. Anche qui la sconfitta elettorale evocata dalla segretaria non passa inosservata. Serracchiani ringrazia e saluta, non prima di ricordare che “l’autonomia dei gruppi va tutelata e salvaguardata sempre anche perché rende più forte il partito”.

Il copione si ripete anche per la proclamazione della nuova capogruppo Chiara Braga: acclamazione. Vera o presunta che sia l’importante è che venga rappresentata così. “Il nuovo che avanza è Chiara Braga, amica di Michela De Biase a sua volta moglie dell’ex ministro della Cultura Dario Franceschini”, bisbiglia un deputato che pure qualche minuto prima ha “acclamato”.

L’aria per ora è questa: una malriuscita recitazione di unità di intenti che frana apnea si porge l’orecchio alle voci interne. Lei, la segretaria Schlein, non vede l’ora di sistemare gli assetti di partito (si parla degli esteri ceduti a Base riformista in segreteria) e “cominciare a fare politica”. Il punto è sempre se glielo permetteranno.

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Disuguali perfino nelle guerre

La risposta della comunità internazionale «all’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia» e alla crisi umanitaria che questa ha provocato è stata «robusta e apprezzabile» ma ha anche svelato un sistema di “doppi standard”. Dal Myanmar all’Etiopia, diverse sono state le situazioni di conflitto che hanno avuto infatti una risposta “vergognosa” da parte del sistema internazionale. È la fotografia scattata dal Rapporto 2022-2023. La situazione dei diritti umani nel mondo, presentato in queste ore da Amnesty International e pubblicato in Italia da Infinito Edizioni.

In una nota, l’organizzazione premette che l’offensiva russa in Ucraina «ha provocato non solo sfollamenti di massa, crimini di guerra e insicurezza alimentare ed energetica a livello globale, ma ha anche sollevato il tremendo spettro di una guerra nucleare». La risposta alla guerra, prosegue Amnesty, «è stata rapida: gli Stati occidentali hanno imposto sanzioni economiche a Mosca e inviato assistenza militare a Kyiv, la Corte penale internazionale ha avviato un’indagine sui crimini di guerra in Ucraina e l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha condannato l’invasione russa come atto di aggressione». Tuttavia, denuncia il rapporto dell’ong, «questo robusto e apprezzabile approccio è risultato in profondo contrasto con precedenti risposte a massicce violazioni dei diritti umani commesse dalla Russia e da altri stati e con la vergognosa risposta in atto a conflitti come quelli in Etiopia e Myanmar».

L’anno scorso il Paese africano è stato teatro, per il secondo anno di fila, di un conflitto nel nord poi terminato con un accordo per la cessazione delle ostilità raggiunto dalle parti belligeranti lo scorso novembre. In circa due anni di guerra sarebbero morte circa 600mila persone stando alle stime del capo mediatore dell’Unione Africana nel conflitto, l’ex presidente della Nigeria Olusegun Obasanjo. Anche in Myanmar nel 2022 è proseguita la crisi cominciata con un colpo di Stato che si è verificato nel febbraio 2021. Nel Paese va avanti da mesi anche un conflitto fra le forze armate e le milizie di base nei vari Stati etnici del Paese.

Se il sistema messo in moto dopo lo scoppio della guerra in Ucraina «avesse funzionato per chiamare la Russia a rendere conto dei crimini commessi in Cecenia e in Siria, allora come oggi migliaia di vite avrebbero potuto essere salvate, in Ucraina e altrove. Invece, abbiamo altra sofferenza e altre devastazioni», ha affermato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. «Se la guerra di aggressione russa ha dimostrato qualcosa per il futuro del mondo, è l’importanza di un ordine internazionale basato su regole efficaci e applicate in modo coerente. Tutti gli Stati devono raddoppiare gli sforzi nella direzione di un nuovo ordine basato sulle regole a beneficio di tutte le persone, ovunque».

Le reazioni della comunità internazionali davanti a violazioni e abusi sono emerse in modo evidente anche nella Cisgiordania occupata, secondo quanto riporta Amnesty. Per i palestinesi che vivono in questa regione «il 2022 è stato uno degli anni più mortali da quando, nel 2006, le Nazioni Unite hanno iniziato a registrare i numeri delle vittime: lo scorso anno sono stati 151 i palestinesi uccisi, tra i quali decine di minorenni, dalle forze israeliane. Queste hanno anche continuato a espellere i palestinesi dalle loro case. Il governo israeliano ha in programma una grande espansione degli insediamenti illegali nella Cisgiordania occupata. Invece di chiedere la fine del sistema israeliano di apartheid-  si denuncia -, molti Stati occidentali hanno scelto di attaccare i promotori di tale richiesta». Doppi standard anche nella gestione dei flussi migratori, come si osserva negli Stati Uniti e in Unione europea.

«Gli Usa – afferma Amnesty – hanno condannato ad alta voce le violazioni dei diritti umani russe in Ucraina e hanno accolto decine di migliaia di ucraine e ucraini in fuga dalla guerra; ma le loro politiche e prassi razziste contro i neri hanno causato l’espulsione, tra il settembre 2021 e il maggio 2022, di oltre 25mila persone fuggite da Haiti, sottoponendo molte di esse a torture e ad altri maltrattamenti. Gli Stati dell’Unione europea – continua la ong – hanno aperto le frontiere alle persone in fuga dall’Ucraina dimostrando di essere, in quanto uno dei raggruppamenti più ricchi al mondo, più che in grado di ricevere grandi numeri di persone in cerca di salvezza e di dar loro l’accesso alla salute, all’educazione e all’alloggio. Al contrario, molti di quegli Stati hanno chiuso le porte a chi fuggiva dalla guerra e dalla repressione in Siria, Afghanistan e Libia».

«Le risposte all’invasione russa dell’Ucraina ci hanno detto qualcosa su ciò che si può fare quando c’è la volontà politica di farlo: condanna globale, indagini sui crimini, frontiere aperte ai rifugiati. Quelle risposte devono essere un manuale su come affrontare tutte le massicce violazioni dei diritti umani», ha sottolineato Callamard nella nota. Stando a quanto emerge dal rapporto di Amnesty, «i doppi standard dell’Occidente hanno poi rafforzato Stati come la Cina e consentito a Egitto e Arabia Saudita di evadere, ignorare o respingere le critiche sulla loro situazione dei diritti umani. Nonostante le massicce violazioni dei diritti umani, equivalenti a crimini contro l’umanità, nei confronti degli uiguri e di altre minoranze musulmane – spiega l’organizzazione -, Pechino è riuscita a eludere le condanne, a livello internazionale, da parte dell’Assemblea generale, del Consiglio di sicurezza e del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite».

«Gli Stati applicano le norme sui diritti umani caso per caso, mostrando in modo sbalorditivo la loro clamorosa ipocrisia e i doppi standard. Non possono criticare le violazioni dei diritti umani in un luogo e, un minuto dopo, perdonare situazioni analoghe in un altro solo perché sono in ballo i loro interessi. Tutto questo è incomprensibile e minaccia l’intera struttura dei diritti umani universali», ha aggiunto Callamard. «C’è anche bisogno che gli Stati che finora hanno esitato assumano una chiara posizione contro le violazioni dei diritti umani ovunque si verificano. Servono meno ipocrisia, meno cinismo, più coerenza, più azione basata sull’ambizione e sui principi da parte di tutti gli Stati per promuovere e proteggere tutti i diritti», ha concluso la massima dirigente di Amnesty.

Non serve aggiungere altro, vero? Buon mercoledì.

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Povertà, il 13% degli italiani è sul lastrico

Chissà quando si troveranno le parole giuste per uscire dalla bolla dei dibattiti televisivi o dal poco senso di realtà delle dichiarazioni politiche. A quel punto potremmo discutere di un Paese in cui l’aumento dei costi in questo ultimo anno per l’impennata dei prezzi di prodotti e servizi – complice la coda della pandemia, la guerra, il cambiamento climatico e la crisi energetica – sta mettendo a dura prova gli italiani.

Impietoso studio di Nomisma sulla povertà nel Paese. In 43 casi su cento si arriva a stento a fine mese

Potremmo sapere che il 13% delle famiglie considera il proprio reddito insufficiente per far fronte alle necessità primarie, ovvero il cibo e la casa (mutuo, affitto e bollette). A questo gruppo di famiglie, che potremmo definire ‘compromesse’, si aggiunge un altro contingente numeroso (il 43% delle famiglie intervistate) che valuta la propria condizione reddituale appena sufficiente a far fronte a tali spese, in una sorta di equilibrio precario che potrebbe essere messo a rischio da un evento imprevisto anche di modesta portata.

Sono i risultati della ricerca condotta dall’Osservatorio Sguardi Famigliari di Nomisma. Negli ultimi mesi, evidenzia lo studio, il principale motivo di percezione dell’inadeguatezza delle risorse economiche a disposizione delle famiglie è rappresentato dall’elevato costo della vita: il 78% delle famiglie si dichiara insoddisfatto della propria condizione reddituale, molto più delle difficoltà lavorative (10%).

Secondo Nomisma, un’eventuale spesa imprevista, anche di piccola entità, potrebbe quindi diventare un serio problema da affrontare per il 22% delle famiglie totali, percentuale che sale al 30% tra le persone sole non anziane, al 31% per i genitori soli con figli, e al 41% per le famiglie in affitto. Più nel dettaglio dello studio, l’impennata dell’inflazione e l’aumento dei prezzi hanno depresso fortemente il potere di acquisto delle famiglie: più della metà degli intervistati ha visto crescere le bollette energetiche di oltre il 50% rispetto ai livelli di un anno fa, con il 16% che dichiara di aver avuto molte difficoltà nel pagare le utenze: di questi il 4% ha accumulato ritardi nei pagamenti.

Per far fronte ai rincari energetici le famiglie hanno dovuto innanzitutto comprimere le spese ritenute ‘’superflue’’, vale a dire quelle per il tempo libero, per le attività culturali e per quelle sportive. Il 39% delle famiglie che si è dichiarata in difficoltà nel pagare le bollette ha dovuto ridurre anche spese basilari come quelle sanitarie, il 31% ha tagliato le spese in istruzione mentre il 27% ha manifestato difficoltà nel pagare il mutuo o l’affitto della propria abitazione.

Volgendo lo sguardo ai prossimi mesi, il numero di famiglie che teme di poter incontrare forti difficoltà nel pagare le utenze sale al 24%, un campanello di allarme che non deve rimanere inascoltato. Vi sono molti gradi di vulnerabilità, indica quindi Nomisma, e alcune condizioni che determinano delle difficoltà oggettive per le famiglie: la presenza di una sola fonte di reddito è certamente una di queste, considerando che se nel complesso del campione la percentuale di famiglie che reputa il proprio reddito non completamente adeguato o insufficiente a far fronte alle necessità primarie è pari al 57%, tra le persone giovani che vivono da sole questa percentuale sale al 69%, mentre tra i genitori soli con figli arriva addirittura al 78%. Chissà che ne pensano questi di un governo che finora si è occupato di farina di grilli, di affondare i disperati in mare, dei figli delle famiglie omogenitoriali e di rave party come emergenze nazionali.

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Abolizione del reato di tortura. “La destra paladina dell’impunità”

La folle proposta, manco a dirlo, è arrivata da Fratelli d’Italia, il partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni: abolire il reato di tortura introdotto con molta fatica nell’ordinamento italiano nel 2017, approvato sul sangue sparso durante il G8 di Genova nel 2001 e sulla sanzione all’Italia comminata nel 2015 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la mancanza di adeguate ed efficaci misure di prevenzione e repressione delle condotte di tortura, contrarie all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

FdI vuole abolire il reato di tortura introdotto con molta fatica nell’ordinamento italiano nel 2017

Già nel 2018 Meloni – a quel tempo arrembante oppositrice prodiga di facili promesse – spiegava che il reato di tortura “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. Meloni dava per scontato evidentemente che la violenza fosse parte integrante degli strumenti delle nostre forze dell’ordine. Una concezione piuttosto sudamericana dell’ordine pubblico, indubbiamente. Tant’è che nel 2018 Giorgia Meloni cancellò il tweet della sua strampalata idea. Poi sono passati 5 anni, Meloni è diventata capa del governo e quella follia s’è fatta proposta di legge.

Esultano, manco a dirlo, le forze dell’ordine: “L’abrogazione del reato di tortura è un modo per tutelare tutte quelle Forze di polizia che operano senza tutele giuridiche e regole d’ingaggio, esposte quotidianamente a denunce e processi strumentali”, spiega Unarma, associazione sindacale a difesa del personale dell’Arma dei carabinieri. Sulla stessa linea alcuni sindacati di Polizia. Amnesty International, per bocca del portavoce italiano Riccardo Noury, lancia l’allarme: “Ci sono voluti 28 anni (1989-2017) per introdurre nel codice penale il reato di tortura. Negli ultimi sei anni ci sono stati processi e condanne, sono in corso molte indagini. L’intento di chi vuole abolirlo è quello di rendere di nuovo impunito un crimine gravissimo”.

Opposizioni e Ong contro la proposta di FdI. Amnesty: così si cancellano 28 anni di battaglie

Di “proposta che rasenta i limiti dell’oscenità” parla Ivan Scalfarotto, senatore di Azione-Italia Viva, che spiega come “il rispetto del principio dell’habeas corpus è garantito ed è parte integrante della costituzione e quindi della democrazia. Il vero problema non è allora il reato stesso ma il fatto che una parte delle forze di maggioranza non è a suo agio con questa idea: questo sì che è il vero problema”, conclude Scalfarotto.

Nei giorni scorsi la senatrice M5S Anna Bilotti, componente della commissione Giustizia di Palazzo Madama, aveva già ricordato “ai sovranisti dell’impunità” che “il reato di tortura in Italia è stato introdotto osservando la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e la Convenzione Onu del 1984 ratificata dall’Italia nel 1988, la quale prevede l’obbligo per gli Stati di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura sia contemplato come reato”.

“È agghiacciante la proposta di FdI di cancellare il reato di tortura. Meloni dica qualcosa: il suo governo e la sua forza politica – ha scritto su Twitter la presidente dei senatori del Pd, Simona Malpezzi – vogliono attaccare una norma in difesa dei diritti umani?”. Intanto, appena due giorni fa a Biella sono stati sospesi dal servizio 23 agenti di polizia penitenziaria in esecuzione di un’ordinanza del giudice per le indagini preliminari per il reato di tortura commesso all’interno del carcere nei confronti di tre detenuti. Di decisione di “stampo fascista” ha parlato ieri la senatrice di AVS Ilaria Cucchi: “Pensate oggi alle vittime di quei terribili fatti accaduti a Santa Maria Capua Vetere, quel processo non potrebbe svolgersi, per la felicità dei picchiatori”.

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Signori, ecco cos’è “a casa loro”. Lo scrive l’Onu

L’Onu esprime «profonda preoccupazione per il deterioramento della situazione dei diritti umani in Libia», e spiega che «vi sono motivi per ritenere che sia stata commessa un’ampia gamma di crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dalle forze di sicurezza dello Stato e da gruppi di milizie armate». Così parla il rapporto pubblicato ieri dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite, una inchiesta che delinea «un ampio sforzo delle autorità per reprimere il dissenso della società civile» e che ha documentato «numerosi casi di detenzione arbitraria, omicidio, stupro, riduzione in schiavitù, esecuzioni extragiudiziali e sparizioni forzate, e ha affermato che quasi tutti i sopravvissuti intervistati si sono astenuti dallo sporgere denuncia ufficiale. Paura di rappresaglie, arresti, estorsioni e sfiducia nel sistema giudiziario».

Secondo l’Onu i migranti, in particolare, sono stati presi di mira e ci sono prove schiaccianti che siano stati sistematicamente torturati. Il rapporto afferma che vi sono ragionevoli motivi per ritenere che la schiavitù sessuale, un crimine contro l’umanità, sia stata commessa contro i migranti. «C’è un urgente bisogno di responsabilità per porre fine a questa pervasiva impunità», ha affermato Mohamed Auajjar, presidente della missione Onu per la Libia. «Chiediamo alle autorità libiche di sviluppare senza indugio un piano d’azione per i diritti umani e una tabella di marcia completa incentrata sulle vittime sulla giustizia di transizione e di ritenere responsabili tutti i responsabili delle violazioni dei diritti umani». Il governo libico è obbligato a indagare sulle accuse di violazioni dei diritti umani e crimini nelle aree sotto il suo controllo in conformità con gli standard internazionali. Ma «le pratiche e i modelli di gravi violazioni continuano senza sosta, e ci sono poche prove che siano stati compiuti passi significativi per invertire questa preoccupante traiettoria e portare ricorso alle vittime», afferma il rapporto.

Il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha istituito la missione nel giugno 2020 per indagare sulle violazioni e gli abusi dei diritti umani da parte di tutte le parti dall’inizio del 2016, al fine di prevenire un ulteriore deterioramento della situazione dei diritti umani e garantire la responsabilità. Da allora, la Independent fact-finding mission on Libya (Ffm) ha intrapreso 13 missioni, condotto più di 400 interviste e raccolto più di 2.800 informazioni, comprese immagini fotografiche e audiovisive. Secondo il rapporto finale la situazione dei diritti umani in Libia, lungi dal migliorare, «si sta deteriorando, stanno emergendo autorità statali parallele e le riforme legislative, esecutive e del settore della sicurezza necessarie per sostenere lo stato di diritto e unificare il Paese sono lungi dall’essere realizzate». In questo contesto polarizzante, «i gruppi armati che sono stati implicati in accuse di tortura, detenzione arbitraria, tratta e violenza sessuale rimangono irresponsabili».

Le indagini hanno rilevato che le autorità libiche stanno riducendo i diritti di riunione, associazione, espressione e credo per garantire l’obbedienza e punire le critiche contro le autorità e la loro leadership. «Gli attacchi contro, tra l’altro, difensori dei diritti umani, attiviste per i diritti delle donne, giornalisti e associazioni della società civile hanno creato un’atmosfera di paura che ha spinto le persone all’autocensura, alla clandestinità o all’esilio in un momento in cui è necessario creare un’atmosfera che sia favorevole a elezioni libere ed eque affinché i libici esercitino il loro diritto all’autodeterminazione e scelgano un governo rappresentativo per governare il Paese», afferma il rapporto.

Il rapporto spiega che la tratta, la riduzione in schiavitù, il lavoro forzato, la detenzione, l’estorsione e il traffico di migranti vulnerabili hanno generato entrate significative per individui, gruppi e istituzioni statali e hanno incentivato la continuazione delle violazioni. Ci sono ragionevoli motivi per ritenere che i migranti siano stati ridotti in schiavitù in centri di detenzione ufficiali così come in “prigioni segrete” e che lo stupro sia stato commesso come crimine contro l’umanità. Nel contesto della detenzione, le autorità statali e le entità affiliate – tra cui l’Apparato di deterrenza della Libia per la lotta alla criminalità organizzata e al terrorismo (Dacot), le Forze armate arabe libiche (Laaf), l’Agenzia per la sicurezza interna (Isa) e l’Apparato di supporto alla stabilità (Ssa) e la loro leadership – sono stati ripetutamente trovati coinvolti in violazioni e abusi.

I detenuti sono stati regolarmente sottoposti a tortura, isolamento, detenzione in isolamento e negato un adeguato accesso ad acqua, cibo, servizi igienici, luce, esercizio fisico, cure mediche, consulenza legale e comunicazione con i familiari. La missione ha invitato il Consiglio per i diritti umani a istituire un meccanismo di indagine internazionale indipendente dotato di risorse sufficienti e ha esortato l’Ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) a istituire un meccanismo distinto e autonomo con un mandato permanente per monitorare e riferire in merito gravi violazioni dei diritti umani «al fine di sostenere gli sforzi di riconciliazione libici e assistere le autorità libiche nel raggiungimento della giustizia e della responsabilità di transizione».

E la cosiddetta Guardia costiera libica «Il sostegno fornito dall’Ue alla Guardia costiera libica in termini di allontanamenti, respingimenti e intercettazioni ha portato a violazioni di alcuni diritti umani», ha dichiarato uno degli investigatori incaricati dal Consiglio per i diritti umani sotto l’egida dell’Onu, Chaloka Beyani. «Non si possono respingere le persone in aree non sicure, e le acque libiche non sono sicure per l’imbarco dei migranti», ha proseguito, precisando che l’Ue e i suoi Stati membri non sono stati ritenuti responsabili di crimini, ma «il sostegno fornito ha aiutato e favorito la commissione dei crimini» stessi.

Vergognatevi.

Buon martedì.

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Pd, Schlein non molla sui capigruppo

Assicurano tutti che entro la fine della settimana sarà tutto risolto, capigruppo e segreteria, ma l’organizzazione della macchina del Partito democratico guidato dalla neo segretaria Elly Schlein è ben lungi dal trovare una quadratura. “È la segretaria che ha il vento in poppa, è lei a dover decidere”, spiega un pezzo pregiato della mozione Bonaccini. Schlein ha deciso. Ieri ha spiegato a tutti che il partito avrà bisogno di essere nelle piazze a riconquistare elettori ma dovrà essere conseguente nelle azioni politiche in Parlamento. Per questo Schlein ritiene indispensabile alla Camera e al Senato avere due persone a cui affidarsi mentre lei proverà a riconnettere il partito con la presenza anche fisica nei luoghi caldi del Paese.

Ieri la leader del Partito democratica Schlein ha incontrato deputati e senatori. Oggi nuovo vertice per blindare i nomi dei capigruppo

Su Francesco Boccia capogruppo al Senato e Chiara Braga capogruppo alla Camera non si tratta. Saranno loro a essere eletti dai gruppi parlamentari nei prossimi giorni nonostante i mal di pancia di Base riformista la corrente che fa riferimento all’ex ministro Lorenzo Guerini e al senatore Alessandro Alfieri e che più di tutti ha sostenuto Stefano Bonaccini. Lo scontro però rischia di essere solo rimandato. “La segretaria continua a parlare di unità di partito ma bisognerà vedere se vuole davvero cedere i ruoli”, dicono da Base riformista. Tradotto: non basterà qualche posto in segreteria per fingere unità.

Anche ieri nella trattativa tra le due parti (gestita da Boccia per Schlein e da Davide Baruffi per Bonaccini) si è chiarito che l’accordo sui capigruppo è “condizionato” dalle mosse successive. “Elly non è espressione di un pacchetto di mischia”, riflette un senatore del Pd che i meccanismi interni del partito li conosce molto bene. “Renzi era espressione di un pacchetto mentre Schlein nonostante usi sempre il plurale ha intorno pochissime persone che toccano palla. Ci sono Alivernini (il portavoce) e Righi (lo storico “braccio operativo” di Schelin) ma se si va in un cerchio più esterno gli altri sono solo supporter”. Lo sondo politico del Pd che verrà sta tutto qui.

Schlein è approdata al Partito democratico con una rete “leggera” che in tempi brevissimi dovrà strutturarsi

Al di là delle polemiche strumentali Schlein è approdata al Partito democratico con una rete “leggera” che deve strutturarsi in tempi brevissimi e che deve inevitabilmente essere allargate anche alle altre anime del partito. Anche perché, come osserva qualcuno, già intorno a Schlein stanno Franceschini, Zingaretti, Orlando e Letta, ovvero il gotha del Nazareno degli ultimi cinque anni, seppur con nomi più masticabili (non hai Franceschini ma Braga, D’Elia per Zingaretti, Misiani per Orlando). “Ma quanto sono davvero dentro le decisioni di Elly?”, si chiede qualcuno. Ieri la segretaria nel suo incontro con i parlamentari dem ha rinviato la trattativa sui nomi.

“Ritenevo utile un primo momento di confronto sulla nuova fase e sulle priorità dell’attività politica e parlamentare. Domani, invece, affronteremo la questione degli assetti”, ha detto ai suoi colleghi, rivendicando la crescita del partito nei sondaggi e “una fase positiva testimoniata dalle 16mila tessere che sono arrivate in pochissimo tempo”. Ha ringraziato i capigruppo uscenti Debora Serracchiani e Simona Malpezzi oltre all’ex segretario Enrico Letta. I lettiani intanto hanno ufficializzato la costruzione di una nuova corrente “neo ulivista” guidata da Marco Meloni. “E voglio sperare per loro che abbiano messo in piedi tutto questo almeno per trattare qualche posto in segreteria, almeno per questo”, riflette un sostenitore di Bonaccini. Sembra una battuta cattiva e invece è il vero nodo di sempre del Partito democratico.

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Dalla Francia a Israele alla Germania. Lezioni per la democrazia italiana

In Francia e Israele la crisi politica è divampata diventando una crisi sociale. In Germania la richiesta di aumento dei salari ha dato vita a uno degli scioperi più impattante degli ultimi decenni. In Italia qualcuno, pur di non farsi carico della lezione che arriva dall’estero, ha il coraggio di storpiare il significato della democrazia.

In Italia qualcuno, pur di non farsi carico della lezione che arriva dall’estero, ha il coraggio di storpiare il significato della democrazia

In Israele il capo del governo Benyamin Netanyahu sta facendo i conti con il milione di persone che da giorni manifesta contro una finta riforma della giustizia che gli servirebbe per mettersi al riparo da un processo per corruzione. Il licenziamento del ministro della Difesa Yoav Gallant che si era opposto alla legge ad personam ha scatenato una protesta che ha bloccato aeroporti e ospedali. L’Histadrut, il più grande gruppo sindacale israeliano, ha annunciato uno sciopero generale ‘storico’ per protestare contro la riforma giudiziaria del governo di Netanyahu.

Una delle più grandi catene di centri commerciali del Paese, Big, ha annunciato che si unirà allo sciopero generale. Le rivolte, oltre alle “preoccupazioni” degli Stati Uniti e alle dimissioni del console a New York, hanno spinto diversi membri di governo e sostenitori della maggioranza a chiedere una riflessione sulla legge che il primo ministro israeliano vuole approvare a tutti i costi. Ieri in serata.

In Francia da giorni continuano le proteste e i disagi in tutto il Paese per la contestata riforma delle pensioni voluta da Macron che non dispone della maggioranza parlamentare. Invece di prenderne atto, il governo realizza un golpe bianco ricorrendo al famigerato 49.3, che consente al Presidente di varare una legge senza passare per il voto del Parlamento. Dominique Rousseau, professore alla Sorbonne, ha scritto su le Monde: “Siamo di fronte a una crisi di regime, perché è il principio stesso della rappresentanza del popolo attraverso gli eletti, quello ereditato dal 1789, e sul quale poggiano le nostre istituzioni, che è messo in causa”.

In Italia la schiera (sempre quella) dei competenti esulta. “Viva i capi di governo che se ne fregano del popolo!”, ci spiegano, elogiando chi ignora il consenso popolare perché “i governanti sono illuminati” e invece il popolo è bue. La curiosa tesi sarebbe che un capo del governo (badate bene, basta il capo perché qui si parla di decisioni che le maggioranze di governo non condividono in toto) sia legittimato dalle elezioni e debba tirare dritto. Qualcuno teorizza addirittura che solidarizzare con gli scioperanti francesi e israeliani sia un attacco alla stabilità democratica italiana (quella che si allarma per un po’ di vernice lavabile su un muro).

Siamo oltre la post-democrazia. Siamo alla corruzione del pensiero democratico: si prova ad alimentare l’idea che ignorare le scelte della maggioranza sia il dovere di un bravo cittadino, buttando l’azione sostanziale di un governo che deve attenersi ai limiti costituzionali. Mentre qualcuno si straccia le vesti pur di difendere Macron (per difendere il dogma neoliberale, perché a loro non interessa nulla di Macron) ci si dimentica che il punto non è il “chi” ma il “come”.

Ci si dimentica il ruolo in una democrazia dei corpi intermedi, come i sindacati, che agiscono ben oltre il periodo elettorale. O forse si vuole dimenticare che i socialisti europei, quelli che dovrebbero appoggiare le proteste francesi, hanno approvato spesso leggi peggiori di quelle di Macron e hanno concesso leggi ad personam come vorrebbe Netanyahu. Poi, mi raccomando, tutti a piangere perché la gente non vota.

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Piantedosi stanerà l’opinione pubblica in tutto l’orbe terracqueo

All’inizio era colpa dell’Unione europea. Poi è stata colpa dell’ex ministra all’Interno Lamorgese, Poi è stata colpa delle madri che si intestardivano nel voler salvare i figlio. Poi è stata colpa della Russia. Ora il ministro dell’Inferno Piantedosi ha trovato il responsabile degli sbarchi: l’opinione pubblica. I migranti sbarcano in Italia perché ci sono troppe persone aperte verso l’accoglienza.

L’ultima del ministro dell’Inferno Piantedosi: i migranti sbarcano in Italia perché ci sono troppe persone aperte verso l’accoglienza

“L’Italia è una piattaforma logistica nel Mediterraneo che permette di andare anche nei Paesi del Nord. Poi c’è anche l’elemento che si percepisce il fattore attrattivo di una opinione pubblica che ha una ampia fetta di persone che mostra apertura verso l’accoglienza dei migranti”, ha detto Piantedosi, intervenendo alla scuola di formazione politica della Lega a Milano.

“Nei Paesi più piccoli, ma anche in Grecia, io ho registrato una assoluta intransigenza in maniera anche abbastanza trasversale tra schieramenti politici di destra e di sinistra. La Grecia ad esempio ha avuto una posizione molto netta e molto ferma; e lo ha potuto fare senza avere forti contrapposizioni interne”, ha poi aggiunto.

Per Piantedosi quindi bisognerebbe liberalizzare le bastonate contro i migranti (come avviene in Grecia) per convincerli a non partire. Nella sequela di idee sceme del maldestro ministro questa vince. In pochi mesi al ministero Piantedosi è riuscito a teorizzare decine di soluzioni sull’immigrazione senza dimostrare una sola volta di conoscerne le cause. Ora probabilmente andranno a stanare l’opinione pubblica in tutto l’orbe terraqueo. E alla fine daranno la colpa al maggiordomo. Che pena.

 

Leggi anche: Record di sbarchi in Italia, sono oltre 3.000 i migranti arrivati dalla Tunisia

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Reato di soccorso con l’aggravante di avere telefonato per chiedere aiuto

La nave Louise Michel dell’omonima Ong è inchiodata nel porto di Lampedusa grazie al vomitevole decreto contro le Ong del governo Meloni. L’accusa: «L’unità, nello specifico, dopo aver effettuato il primo intervento di soccorso in acque libiche, contravveniva all’impartita disposizione di raggiungere il porto di Trapani, dirigendo invece su altre 3 unità di migranti sulle quali, peraltro stavano già dirigendo in soccorso i mezzi della Guardia Costiera italiana».

Hanno il fegato di scriverlo nero su bianco: dovevano salvare meno. Prima di giungere a Lampedusa l’altro ieri la nave aveva soccorso alcuni barchini nel Mediterraneo sui quali viaggiavano diversi migranti e i salvataggi erano stati effettuati anche da motovedette di Capitaneria e Guardia di finanza. Alle 2:10 il primo intervento nei confronti di due gruppi di 38 migranti ciascuno, trasbordati successivamente sulla motovedetta Cp273 della Guardia Costiera. Alle 6:30 la nave ha fatto poi sbarcare sul molo commerciale di Lampedusa altre 78 persone che erano su un gommone, altre 39 che viaggiavano su un’imbarcazione in ferro di circa 7 metri, altre 39 (compreso un minore) e, infine, un ultimo gruppo di 24 migranti (compreso un minore).

In questo ciarpame arriva anche un comunicato della Guardia costiera italiana che probabilmente spinta dal vento politico verga una nota in cui ci fa sapere che “le continue chiamate dei mezzi aerei ong hanno sovraccaricato i sistemi di comunicazione del Centro nazionale di coordinamento dei soccorsi, sovrapponendosi e duplicando le segnalazioni dei già presenti assetti aerei dello Stato”. Stiamo parlando, si badi bene, dello stesso telefono squillato a vuoto mentre morivano persone sulla spiaggia di Cutro. Il reato di intasamento di linee telefoniche per chiedere aiuto potrebbe essere un’idea per il prossimo decreto, tenuto conto che il senso del ridicolo è stato oltrepassato da un bel pezzo.

La Guardia costiera accusa anche Sos Méditeranée, colpevole di essersi fatta sparare addosso dalla cosiddetta Guardia costiera libica: “l’episodio citato dalla ong Ocean Viking e riferito ai presunti spari della guardia costiera libica nella loro area Sar, non veniva riportato al Paese di bandiera, come previsto dalle norme, bensì al Centro di coordinamento italiano, finendo anche questo col sovraccaricare il Centro in momenti particolarmente intensi di soccorsi in atto”. Sì, avete letto bene: dovevano telefonare ai libici per denunciare che i libici gli sparavano addosso.

Buon lunedì.

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