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Il governo Meloni e l’ossessione di prendersela con le minoranze più indifese

Vedono minoranzocrazia dappertutto per non ammettere di essere minoranzofobici. Non è una malattia nuova: temere le minoranze è l’ossessione di qualsiasi governo autoritario nella storia dell’uomo, è il tarlo di qualsiasi segretario o amministratore delegato. Non serve nemmeno che si oppongano: il solo fatto di essere pochi e indifesi paventa agli occhi del governo il rischio che possano ribellarsi. Osservando la parabola del governo Meloni dal suo insediamento si scorge un mostruoso sforzo contro minoranze e deboli. Si potrebbe usare il vecchio adagio del “forti con i deboli e deboli con i forti”, ma nel nostro caso c’è qualcosa di più: qui siamo di fronte a un governo con traumi evidenti mai superati, con psicosi che richiederebbero un intervento farmacologico.

La caccia ai colpevoli per i giustificare i propri fallimenti

Riavvolgiamo il nastro. Sforziamoci di ricordare che Giorgia Meloni ha ottenuto le chiavi di Palazzo Chigi per ribaltare l’Italia, l’Europa e per cambiare gli equilibri del mondo. Ci sono nei voti per Meloni le aspirazioni rivoluzionarie di chi ha sempre trovato colpevoli esterni per i propri fallimenti. Colpa dei migranti, colpa dell’Europa, colpa di Roberto Speranza, colpa della comunità scientifica, colpa della Cina, colpa degli antifascisti, colpa del Pd, colpa del M5s, colpa di Matteo Renzi, colpa di Mario Draghi (questo meno, Giorgia sapeva che le sarebbe tornato utile), colpa della globalizzazione, colpa delle tasse, colpa del reddito di cittadinanza, colpa dei giovani sfaticati, colpa dell’abolizione del servizio militare, colpa delle femministe, colpa della lobby gay, colpa di Joe Biden, colpe (solo ultimamente) di Vladimir Putin, colpa degli ambientalisti, colpa dei senza religione, colpa degli islamici, colpa dei fruttivendoli Bangla, colpa della riforma Fornero, colpa di Luciana Lamorgese, colpa dei virologi, colpa delle Ong. Ne ho dimenticato sicuramente qualcuno, ma se vi impegnate a trovare i “colpevoli” additati in questi anni ricorrerete a una sfilza spaventosa. Però sono riusciti a snocciolarla con un tempismo perfetto, senza incorrere nell’effetto inverso del vittimismo. Il vittimismo, appunto, è la proteina nazionale di qualsiasi minoranzofobia.

Chi è Alfredo Mantovano, nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio del governo Meloni, che ha giurato oggi.
Mario Draghi e Giorgia Meloni. (Getty Images)

Emergenze e decreti che a riguardarli ora fanno tenerezza

Arrivati al governo, nemmeno il tempo di togliersi il soprabito, i nostri giustizieri hanno sfornato un decreto rave che a riguardarlo adesso fa tenerezza. Un governo che come primo atto politico decide di “punire” ferocemente qualche sparuto centinaio di persone per presentarsi agli italiani e al mondo. Poi ovviamente non se n’è più parlato. Gli elettori di questo governo devono essersi tastati, hanno guardato in giro e in effetti no, la loro vita non era migliorata sensibilmente. Poi hanno deciso di lanciare la sfida alla farina di grillo. Non esistono dati ma si può affermare con certezza che gli affezionati della farina di grillo non siano una consistente parte della popolazione (oltre alla scontata innocuità). La difesa del gusti della patria, hanno detto. Poi i loro elettori devono averci pensato alla sera, con il naso su una braciola o su un piatto di pasta, devono essersi bloccati per qualche secondo con la forchetta a mezz’altezza e si sono confessati che no, che la loro vita non è sensibilmente migliorata e che nemmeno la cena era più gustosa.

Sulla vicenda del rave di Viterbo, ora il proprietario del terreno location dell'evento illegale parla del decreto Meloni.
Rave party.

I nemici del governo Meloni sono meno dei tesserati alla bocciofila

Poi se la sono presa con le coppie omosessuali che ricorrono alla maternità surrogata. Sono un centinaio e sono una minoranza nel computo delle coppie che si affidano alla gestazione per altri. Per qualche giorno sembrava che su quella manciata di persone fosse in bilico la credibilità dello Stato e la salvezza nel regno dei cieli di noi cittadini. Iconico il rischio anarchico in cui la maggioranza è riuscita a trascinare (e quelli si fanno sempre trascinare volentieri) anche pezzi del centro e del centrosinistra. I dai dell’intelligence italiana dicono che il “pericolo anarchico” è un gruppo di meno di 200 persone in tutto il Paese. Ha più tesserati la bocciofila sotto casa. Anche in questo caso la catastrofe incombente è magicamente scomparsa dal dibattito pubblico. Non è stata sconfitta, semplicemente era una farsa.

Meloni, la guerra alla maternità surrogata e l'idea della donna
La ministra per la Famiglia Eugenia Roccella (da Fb).

Una narrazione sempre distorta rispetto alla realtà dei numeri

Negli ultimi giorni i nemici del governo sono le madri in carcere con i bambini. La narrazione immagina orde di donne che partoriscono per farsi scarcerare. Fate un salto sul sito del ministero: sono 23 donne con 26 figli. Un impeto così largo contro un gruppo così ristretto sarebbe roba buona per una Corte dei conti dell’opportunità. I “grandi rischi” che il governo ha affrontato questi mesi sono temi che faticherebbero a entrare in un piede di cronaca. Mettendo in fila i rischi presunti a essere spaventosi sono quelli al governo. Aspettando la prossima minoranza da martellare a ministeri unificati.

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“Da Giorgia i soliti slogan. L’unico a battere i pugni a Bruxelles è stato Conte”. Parla il vice presidente M5S, Gubitosa: “Sul green Meloni lotta coi mulini a vento”

Michele Gubitosa, vice presidente M5S, nei giorni successivi alla strage di Cutro Giorgia Meloni aveva promesso che avrebbe risolto il problema dei morti in mare battendo i pugni sul tavolo in Europa. Come è andata
“L’impressione è che, al ritorno da Bruxelles, i pugni della Presidente Meloni siano pieni di mosche. È molto semplice gonfiarsi il petto, in Parlamento, e dire che si alzerà la voce in Europa. Più difficile è farlo davvero, far valere gli interessi dell’Italia di fronte ad altri 26 leader. È quello che fece Conte, che nel 2019 ottenne risultati concreti sulla redistribuzione. Questo governo, invece, si sta scontrando ormai ogni giorno con la dura realtà: con gli slogan si possono vincere le elezioni, ma poi non si può governare. Né difendere gli interessi nazionali, per tutelare i quali non basta riempirsi la bocca con la parola “sovranità”. Nemmeno se poi ci si presenta a Bruxelles con il cappello in mano”.

Altra promessa di Meloni era di portare l’Europa al ripensamento del limite del 2035 per i motori termici. Anche questo non sembra andato benissimo…
“Quella contro la transizione ecologica mi sembra una guerra contro i mulini a vento. Solo che Cervantes usava Don Chisciotte per parlare di battaglie impossibili, Meloni conduce una battaglia sbagliata. Sul clima, ha ragione il Presidente Mattarella: non c’è un secondo tempo. Abbiamo fatto fin troppo tardi, il tempo è già scaduto. Si può ovviamente ragionare su come aiutare il settore auto nella transizione, ma continuare a scandire dei “no”, per quanto urlati e con la faccia cattiva, non fermerà fenomeni globali. Può forse portarti un applauso dai tuoi elettori in piazza o dalla tua claque in Parlamento, ma da Bruxelles ti può portare solo una procedura d’infrazione per l’Italia”.

Ma l’Italia in Europa è sola o come dice il governo è autorevole?
“Non è sola, ma male accompagnata, che forse è anche peggio. Il nostro Paese paga purtroppo un isolamento a livello europeo che è dovuto alla linea storicamente tenuta, almeno a parole, dai partiti che compongono questa maggioranza, con Fratelli d’Italia in testa. Continuare a strizzare l’occhio ai Paesi del blocco di Visegrad, dai quali ci separano interessi nazionali e tessuto culturale, non può che minare la nostra credibilità ai tavoli che contano. Non può che farci bollare come inaffidabili. L’Italia targata Meloni, purtroppo, è decisamente più debole”.

Come giudica i ritardi sul Pnrr? Il governo dice che è colpa del governo precedente e intanto i comuni insorgono. Siamo di fronte a un rischio reale di perdere la prossima rata
“Sarebbe un vero e proprio disastro, non possiamo assolutamente permettercelo. Qui non è questione di assegnare colpe a qualcuno, ma di assumersi le proprie responsabilità. Meloni ha ereditato la situazione? Allora inizi ad accelerare, oppure tratti per ottenere una dilazione della scadenza. Tertium non datur. Nessuno fa il tifo contro il governo, sarebbe un danno enorme per il Paese. Si getterebbero al vento miliardi di euro fondamentali per l’Italia. Miliardi, quelli sì, ottenuti battendo i pugni sul tavolo in Europa. Ma da Giuseppe Conte”.

Capitolo guerra. È inevitabile un innalzamento del conflitto? Ritiene impossibile creare un blocco contro la guerra e per chiedere maggiore impegno diplomatico, oltre al Movimento 5 Stelle?
“Come gettando benzina sul fuoco non si otterrà altro che un incendio più grande, così continuando a inviare armi in un teatro di guerra otterremo solo un’escalation del conflitto. È inevitabile. Quando ci fermeremo? L’unica soluzione possibile è la via diplomatica, lo dice ogni esperto di diplomazia internazionale con cui ci siamo confrontati. Per fortuna, alcuni spiragli, all’interno delle forze politiche, si stanno aprendo. Ho sentito un esponente del Partito Democratico dichiarare in Parlamento che “nessuno parla di pace”. Forse è stato all’estero, negli ultimi mesi. Registriamo però con soddisfazione che nel PD inizia a farsi strada questa idea. Speriamo che con la nuova Segretaria Schlein i dem abbandonino definitivamente la linea bellicista tenuta da Letta. Del resto, persino la Lega ha espresso di recente dei dubbi sulla soluzione militare del conflitto. Aspettiamo che anche Meloni se ne renda finalmente conto”.

Come giudica la saldatura della maggioranza
“Decisamente precaria. Quella sulla guerra non è l’unica nota stonata nel loro spartito. Sembra evidente che, una volta finita la campagna elettorale, nella quale si può dire tutto e il contrario di tutto, i nodi stiano venendo al pettine. Di fronte alla politica di governo, alle prese con le risposte concrete da dare al Paese, sapevamo che su tanti temi le diverse anime che compongono la maggioranza avrebbero finito per rivendicare ognuna il proprio spazio. Anche sul dossier nomine, appare chiaro che Meloni stia pestando più di un piede e creando più di un fastidio ai suoi alleati. Purtroppo, però, ci sono anche momenti nei quali Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia vanno perfettamente d’accordo. Quando tolgono diritti e garanzie ai cittadini, ad esempio. Quando smantellano norme che servono al Paese, come il Reddito di Cittadinanza e il Superbonus. Quando fanno fare sesquipedali passi indietro all’Italia, come sulla transizione ecologica o i diritti civili. Nel momento in cui è possibile colpire i più fragili, nella maggioranza torna immediatamente il sereno”.

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Lollobrigida ha una ricetta per i migranti, fare dell’Africa un Supermarket Ue

Quale può essere il primo scopo di un governo reazionario formato da partiti che da sempre sono inchiodati (al limite della nostalgia) a un (nero) periodo storico del nostro Paese?

Apparire moderni di fronte al mondo continuando a solleticare i proprio elettori. Così accade che fin dall’insediamento del governo Meloni ci ritroviamo di fronte a contorsioni logiche e linguistiche sul confine del paradosso.

Per fortuna – loro – un bel pezzo di stampa volentieri s’offre per rendere dignitose idee che non lo dovrebbero essere.

Francesco l’africano

Fuoriclasse in questo teatro dell’assurdo è il cognato d’Italia Francesco Lollobrigida, tra le altre cose ministro all’Agricoltura, che volentieri s’immola in conturbanti piani in difesa della Patria e della tradizione che agevola con levità su giornali e televisioni.

L’ultima grande idea del ministro è “un nuovo piano dell’Africa” per liberare le nostre coste del fastidioso incomodo di disperati che bussano alle porte dell’Europa per salvarsi. “La nostra ricetta base – dice Lollobrigida, sempre più immerso nel suo ruolo di alfiere culinario – è sempre: meno partenze, meno morti”.

La cognata presidente del Consiglio ha insistito per anni con il “blocco navale” (roba spietata da videogame che non esiste nel diritto internazionale) ma non ha funzionato. La nuova idea è sconfiggere la povertà in Africa.

Proposito nobilissimo, non c’è che dire, se non fosse che nella testa di Lollobrigida e del governo il problema dell’Africa sarebbe soltanto la fame, in una banalizzazione degna dei calendari che andavano per la maggiore qualche anno fa per raccogliere fondi, con i bambini denutriti con la mosca al naso e l’Occidente colpevole che prometteva un po’ di elemosina.

Così il ministro ha deciso che “dobbiamo mandare i nostri tecnici, i nostri agricoltori ad implementare queste produzioni con le loro capacità per creare lavoro e ricchezza” perché “in Egitto, come nel Sahel, – spiega – ci sono spazi infiniti da utilizzare. Bisogna sostenere e formare questi popoli che hanno vissuto soprattutto di pastorizia”.

Al di là dell’evidente problema nel far di conto (l’agricoltura italiana vive sulle spalle afflitte degli stranieri per non vedere crollare l’intero settore) la proposta di Lollobrigida contiene un amaro retrogusto di colonialismo. Roba di cui ci siamo liberati – faticosamente – qualche decennio fa.

C’è nella proposta tutta la presunta “superiorità” di bianchi che istruiscono i neri considerati meno evoluti. A fugare ogni dubbio potrebbe bastare anche la dichiarazione successiva del ministro e cognato, quella in cui spiega che il rischio è di consegnare “ad altri quel continente che è uno straordinario magazzino di materie prime e produzioni”.

Sì, avete letto bene: il magazzino è l’Africa. E gli africani dovrebbero smetterla di spostarsi per la fame, per la siccità e per il piombo e dovrebbero rimettersi buoni a fungere da “magazzino” per le tavole europee. In cambio potremmo dargli qualche collana di perline finte, come si usava una volta.

La fulminante idea di Lollobrigida arriva pochi giorni dopo l’intervento del ministro al Consiglio Agricoltura e Pesca dell’Ue in cui aveva spiegato che non è vero che “i pesticidi fanno male alle api” e in cui aveva difeso la pesca strascico “perseguitata dall’Ue”.

Dichiarazioni “sorprendenti e preoccupanti” secondo il Wwf che ha risposto snocciolando decine di studi che da anni dimostrano il contrario. Incompetenza in purezza: solo che questa passa casualmente inosservata. Aspettando la prossima sparata.

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Violante, Minniti & C. Gli amici… sinistri della Meloni

Carmelo Caruso l’ha raccontato per Il Foglio ma la notizia è un segreto di Pulcinella, sulla bocca di tutti. Tra le personalità di sinistra (vera o presunta) Giorgia Meloni miete compensi insospettabili. Sarà l’innata passione per il capo (altresì detta servilismo) o una mai risolta confusione di ideali eppure i rapporti personali e politici tra la destra più a destra (al governo) di sempre e i presunti avversari sono numerosi. E si parla solo di quelli “allo scoperto”, sia chiaro.

Tra le personalità di sinistra (vera o presunta) il premier Giorgia Meloni miete compensi insospettabili

Non corre rischi nel suo ruolo l’ex ministro dell’Interno Marco Minniti – il peggior ministro all’Interno del centrosinistra nonostante il Pd non se ne sia ancora accorto – ora presidente della Fondazione Med-Or collegata alla società di armamenti Leonardo. Meloni e Minniti del resto sull’immigrazioni hanno la stessa idea e la presidente del Consiglio ha avuto gioco facile nell’appropriarsi delle sue politiche rivendendole come eccellenze di destra: erano già di destra. Stesso discorso per Luciano Violante (nella foto).

Come racconta Caruso Giorgia Meloni nel 2021 volò a battere le mani a uno spettacolo teatrale firmato dall’ex ministro. L’ex presidente della Camera e presidente della Commissione antimafia è stato anche uno dei primi a congratularsi con Giorgia Meloni per la sua nomina a presidente del Consiglio. Non è un caso che anche lui sia presidente della Fondazione Leonardo, legata alla società di armamenti.

Si dice che Meloni abbia un dialogo aperto anche con Giuliano Amato, deputato con L’Ulivo, ex presidente del Consiglio oltre che più volte ministro. Ci sarebbe poi Roberta Pinotti, ex ministra ala Difesa oltre a Bruno Frattasi, l’ex prefetto considerato “di sinistra” e ora magicamente catapultato al ruolo di capo della cybersicurezza proprio dal governo Meloni.

La stima reciproca tra Meloni e Anna Finocchiaro è cosa nota. Qualche tempo fa l’attuale presidente del Consiglio la considerò perfino un’ottima soluzione per la presidenza della Repubblica. Ultimo ma non ultimo c’è Mario Draghi, quel Draghi che il Partito democratico per lungo tempo ha considerato “cosa sua” infilandosi nei gangli dell’agenda Draghi in campagna elettorale. Draghi, anche questo lo sanno tutti, è un consigliere talmente vicino a Meloni che ogni tanto sembrano confondersi.

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Cavalli e Scavo “A casa loro” tra inchiesta e palcoscenico

(da Il Cittadino)

La premessa è che «il mare non uccide». E che «ad uccidere sono le persone, la povertà, le politiche sbagliate e le diseguaglianze che rendono il mondo un inferno se nasci dalla parte sbagliata». Parte dalle coraggiose inchieste di un reporter internazionale come Nello Scavo – classe 1972, dal 2001 firma di “Avvenire”, le sue inchieste sono state rilanciate dalle principali testate di tutto il mondo -, per «provare a raccontare quella parte del mondo che ci illudiamo di conoscere e di poter giudicare guardando le immagini dei profughi mentre invece ci viene nascosta nel buio delle notizie non date», lo spettacolo “A casa loro” firmato dal lodigiano Giulio Cavalli, giornalista (La Notizia, Left, Oggi), autore teatrale, attore, questa sera sul palcoscenico del Teatro Bello di Milano (via San Cristoforo 1) insieme a un altro lodigiano, il chitarrista Federico Rama, come lodigiano è anche il supporto tecnico di Mario Raimondo. «Una nuova piccola comunità teatrale in nuce a Lodi – spiega Cavalli che, dopo essersi concentrato sulla scrittura (il suo Carnaio, Fandango Libri, è stato finalista al premio Campiello 2019) ha deciso di tornare al teatro civile e sul palcoscenico -: con la giullarata “Falcone, Borsellino e le teste di minchia” abbiamo fatto il tutto esaurito, e lasciato fuori un centinaio di persone, a Milano. La verità è che la risposta del pubblico in questo ritorno a teatro è stata eccezionale». E con la giullarata pungente per deridere le mafie, con cui Cavalli pesca nel lavoro fatto con Dario Fo, mercoledì è stato anche a Catania, al Piccolo Teatro di Città, nell’ambito dell’iniziativa della Fondazione Fava che si conclude con la consegna del premio Fava Giovani 2023. 

«Al progetto “A casa loro”, nato come un libro per People, io e Nello Scavo abbiamo iniziato a lavorare quando ancora il tema della migrazioni non era risalito come è accaduto poi – sottolinea Cavalli – e attraverso gli stralci di reportage e le testimonianze raccolte da Nello e da me, si concentra sulle condizioni di detenzione illegale che lo Stato Libico applica ai migranti. Dopo la tragedia di Cutro si è diffusa lancinante comprensione del dolore che obbliga tutti a uscire dalla dialettica politica per rendersi conto che si tratta di un’emergenza umanitaria. Il fenomeno delle migrazioni può essere gestito in base alla propria sensibilità da parte delle forze politiche, soccorrere invece è un pre-requisito dell’essere umani. Su questo tema, il mondo della Chiesa si muove con molto coraggio». •

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Montanari: “Con la Schlein il Pd cresce. Ma è solo un effetto mediatico”

L’effetto Schlein va oltre ogni più rosea previsione. Due mesi fa gli elettori del Pd si erano ridotti a circa 4 milioni, oggi, con un’affluenza tornata a crescere al 66%, il Partito democratico potrebbe contare su quasi 6 milioni di elettori: una crescita di 1 milione e 800 mila voti in circa 50 giorni. Rettore Tomaso Montanari, quali sono secondo lei le chiavi di questo immediato successo?
“Io credo che sia un effetto puramente mediatico. E infatti bisognerà capire quanto di questo effetto rimane, alla luce delle scelte concrete che farà Elly Schlein. C’è un diffuso desiderio di crederci, perché gli elettori potenziali di sinistra sono disperati. Qualunque cosa è meglio di nulla e Bonaccini sarebbe stato il nulla, cioè la prosecuzione di una deriva a destra del Pd. Per la prima volta, di fronte a un bivio con una strada ancora più a destra e una strada che tornava verso sinistra, si è imboccata la strada verso sinistra. Basterà? Certo che no. Bisogna vedere cosa c’è in quella strada, bisogna vedere quali saranno le scelte concrete, reali di Elly Schlein. D’altra parte, non basta un segretario se non c’è un progetto e una discussione reale su dove mettere il partito”.

È innegabile che la figura di Schlein funzioni soprattutto tra i giovani, ragazzi che dichiarano che non andrebbero a votare. Significa che i temi dei diritti che qualcuno ritiene residuali sono invece sostanziali per riportare la gente alle urne?
“Io non credo che sia solo il tema dei diritti. Io credo che ci sia la speranza di una inversione di marcia su diritti sociali, sui diritti economici, sull’eguaglianza. Credo che sia questa l’aspettativa. Schlein senz’altro non è, come dire, renziana, non è di questa sinistra di destra. Certamente arrivano segnali contraddittori. La sua capostaff, che poi è diventata un pezzo importante del quadro Pd, ha detto che bisogna disincentivare il precariato in un momento in cui il Papa dice che il precariato uccide. C’è, secondo me, l’attesa di radicalità, ma di radicalità sul fronte sociale ed economico, dell’eguaglianza, della redistribuzione della ricchezza”.

Ma Schlein riuscirà a mantenere le promesse oppure si sgonfierà prima delle urne, boicottata dal suo stesso partito?
“Io spero che ce la faccia. Certo, diciamo, il rischio che venga affondata è enorme. Bisogna vedere quanto saprà, come dire, ricreare una comunità democratica dentro il Pd. Lo strumento delle primarie è uno strumento perverso che fa parte del problema, perché c’è una investitura dal basso invece che una vera dinamica politica interna, una vera dinamica democratica. Vediamo se Elly Schlein userà un cattivo strumento per fare una cosa buona, sapendo animare un partito. La speranza non è che la Schlein porti un corpo morto dove vuole lei, ma che sappia rianimare delle dinamiche democratiche dentro, che facciano decidere al partito”.

Perché altri partiti nel campo progressista (M5S su tutti) non riescono a “sfondare” su quegli argomenti? È un problema di poca preparazione o di comunicazione?
“Dipende su quali argomenti. Io continuo a pensare che i 5S del Reddito di cittadinanza e i 5S della pace, cosa sulla quale invece la Schlein è molto deludente, almeno per me, abbiano una vera chance, se rimarrà davvero a sinistra, di occupare un pezzo dell’elettorato. Non sono così convinto che Conte non ci riesca. Secondo me, può riuscirci, se la direzione è questa e si continua a perseguirla con determinazione”.

Potrebbe cambiare il campo del centrosinistra
“Io penso che il Pd della Schlein, se funziona, e il Movimento 5 Stelle di Conte abbiano delle praterie prima di doversi pestare i piedi, cioè il recupero dell’astensione: si parla di milioni di voti. Non è, secondo me, un campo in cui giocare con la pretesa dell’esclusiva. Sono due forze che possono allearsi e possono essere in virtuosa competizione, ma anche in alleanza su molti fronti”.

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Mai più bambini in carcere? Scherzavano

La proposta di legge riguardante le detenute madri passa in commissione Giustizia della Camera con un emendamento della Lega che allontana la possibilità di benefici nel caso di recidiva e che restringe le alternative al carcere per donne incinte e con bambini piccolissimi. I parlamentari del Pd, che avevano presentato la proposta, ritirano di conseguenza le loro firme, facendo decadere il provvedimento.

Ora ci si è messo anche Matteo Salvini, sfruttando la polemica che si è accesa su Milano per le borseggiatrici rom. «La sinistra vuole lasciare libere le rom di tornare a rubare!», strepita sui giornali. Il boccone è perfetto per la propaganda: le prede sono straniere, si può scambiare i diritti per buonismo e tutto il resto.

Così appare evidente che il disegno di legge che nella scorsa legislatura aveva preparato Siani, e che è stato ripreso da Serracchiani, rimarrà ancora una volta nel cassetto. Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone lo dice senza usare mezzi termini: «Purtroppo non se ne farà nulla. E le modalità in cui ciò accade sono preoccupanti. Chi fa appello alla recidiva come criterio di esclusione da benefici penitenziari o è in malafede oppure non conosce la realtà delle nostre carceri. La composizione socio-giuridica in particolare delle donne detenute ci mostra come la recidiva non caratterizzi affatto crimini di peso o di allarme sociale, bensì uno stile di vita legato alla piccola o piccolissima criminalità da strada, legata all’esclusione sociale, alla povertà economica, alla tossicodipendenza».

Marietti ricorda che la scorsa estate una donna ha partorito da sola, con il solo aiuto della compagna di cella anch’essa in gravidanza al quinto mese, nel carcere romano di Rebibbia. L’anno precedente una donna incinta si è sentita male nel carcere milanese di San Vittore e ha perso il proprio bambino. «Matteo Salvini – scrive la portavoce di Antigone – si è rallegrato dell’emendamento votato in Commissione e ha parlato del “vergognoso sfruttamento della gravidanza da parte di borseggiatrici e delinquenti». Come se noi donne ci facessimo mettere incinte per poter liberamente rubare un portafogli. Peggio per lui che ha questa visione della realtà. Peggio per quei bambini che resteranno dietro le sbarre».

Dal 2001 in ogni legislatura c’è sempre qualche affamato di propaganda che risulta fondamentale per affossare la legge. I diritti, si sa, possono aspettare. Prima i voti e poi diritti. Aspettando che un giorno i diritti portino i voti che bastano per poterli difendere.

Buon venerdì.

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Processo a Messina Denaro fermo da settimane

Quando forze dell’ordine e magistratura arrestano un boss la politica esulta e sforna a raffica comunicati stampa. Quando il boss è nelle mani dello Stato e ci sarebbe da pronunciare una parola – una che sia una – per proteggere la Giustizia, invece, la politica perde la parola. Sta accadendo anche con Matteo Messina Denaro, il “capo dei capi” di Cosa nostra che dopo la latitanza per sfuggire alla cattura ora si dedica alla latitanza in Aula (è un suo diritto) lasciando vuota la sedia nel processo per le stragi di Falcone e Borsellino e intanto intorno a lui accadono cose che meritano di essere raccontate.

Matteo Messina Denaro ora si dedica alla latitanza in Aula lasciando vuota la sedia nel processo per le stragi di Falcone e Borsellino

Partiamo dall’inizio. Dopo essere stato arrestato il 16 gennaio dopo quasi trent’anni di latitanza il boss scelse come avvocata la nipote Lorenza Guttadauro, figlia di Filippo Guttadauro, boss di Brancaccio al momento è detenuto a Tolmezzo e di Rosaria, la sorella di Messina Denaro. Alla prima udienza utile del processo di secondo grado sulle stragi del ’92 (in primo grado Messina Denaro è stato condannato all’ergastolo) il 18 gennaio l’avvocata chiese di avere il tempo di studiare le carte del processo. Permesso accordato. L’avvocata decide di saltare l’udienza successiva, nonostante avesse chiesto di poter partecipare in videoconferenza. Si va all’8 marzo, quando Lorenza Guttadauro avrebbe dovuto pronunciare l’arringa difensiva. Niente da fare. Oltre alla sedia del boss rimane vuota anche la sedia della nipote.

Arriva anzi la rinuncia all’incarico di fronte alla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta. Qualche giorno prima sua madre (sorella del boss) era stata arrestata con l’accusa di avere amministrato la cassa di famiglia e avere gestito la rete di pizzini. Il boss non sceglie un avvocato di fiducia e l’incarico ricade su Calogero Montante, nominato d’ufficio. Il penalista, però, aveva comunicato di voler rinunciare al mandato per incompatibilità visto che in passato è stato difensore d’ufficio del falso pentito Vincenzo Scarantino, nel processo Borsellino Quater, e perché ricopre la carica di vice procuratore onorario alla Procura di Palermo.

Giovedì 9 marzo, al termine di una breve camera di consiglio, la Corte d’assise d’appello aveva confermato Montante come difensore d’ufficio di Messina Denaro. E poi aveva rinviato l’udienza al 23 marzo per le conclusioni della difesa. Passa qualche giorno e l’avvocato Montante viene minacciato al telefono: “Sono un amico di Matteo, perché non lo vuoi difendere? Vuoi morire?”, dice un anonimo al telefono. Parole dalla politica Praticamente nessuna. I membri del governo che inneggiavano allo “Stato forte” scippando i meriti agli investigatori? Niente. Eppure sarebbe stato utile e importante che lo Stato dicesse con parole forti che nessuno dovrebbe sentirsi solo, ancora di più con il mafioso in cella.

Arriviamo a ieri. L’avvocato Montante presenta un certificato medico: trenta giorni di assenza. Nessuno che ha il coraggio di dire il non detto, di chiamare le cose con il loro nome: la forza dell’intimidazione. Stavolta la corte, presieduta da Maria Carmela Giannazzo, ha dovuto prendere atto dell’impedimento e, dopo una breve riunione in camera di consiglio, ha esonerato il legale e nominato il nuovo difensore d’ufficio. La nuova avvocata Adriana Vella assicura di non avere paura. Il processo dovrebbe ripartire il 25 maggio. La politica evidentemente non ha ancora finito di brindare e si è persa gli sviluppi.

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Quotidiano Di Sicilia sullo spettacolo “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”

(fonte)

Lo spettacolo, organizzato dalla Fondazione Fava, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Città, è dedicato ai due magistrati

“La parola contro le mafie funziona. Questo significa che possediamo tutti le armi per combatterle”. La tagliente e profonda lingua di Giulio Cavalli ci ricorda che di mafia bisogna parlare, che sulla mafia bisogna riflettere, capire, domandare. E che la memoria va esercitata, sempre. Lo fa dal palco del Piccolo teatro di Catania dove ha portato in scena lo spettacolo “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”.

Lo spettacolo al Piccolo Teatro 

Lo spettacolo, organizzato dalla Fondazione Fava, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Città, è dedicato ai due magistrati: un monologo pungente che deride le mafie e che porta avanti, al contempo, quella mai sopita esigenza civile di scoprire la verità ancora nascosta sulle stragi del 1992 e su quello che ne è conseguito.

Voce e chitarra per esercitare la memoria 

Accompagnato dalla chitarra suonata da Enzo Pafumi, Cavalli inchioda lo spettatore alla sedia, lo coinvolge e lo bombarda di parole, aneddoti, riflessioni su Cosa nostra, sull’assuefazione di un popolo, quello italiano, capace di indignarsi ma anche di fare dei boss mafiosi modello. Quanto meno televisivo. Cavalli porta in scena, dunque, il teatro civile di Pippo Fava, che ha lasciato un segno indelebile, un messaggio potente e attuale e che sopravvive al giornalista e ne accompagna la memoria.

Rissa sui capigruppo. Nel Pd riparte la faida tra bande

Il nuovo Pd di Elly Schlein è già in salita sui capigruppo in Parlamento. Al di là degli abbracci e dei sorrisi ostentati dallo sconfitto Stefano Bonaccini durante l’assemblea nazionale che ha incoronato Schlein ora la minoranza interna (capeggiata da Base riformista) vorrebbe rivedere gli accordi. Si era detto che la presidenza del partito a Bonaccini avrebbe accontentato gli appetiti dei riformisti ma non è così. “Siamo rimasti all’ipotesi di due capigruppo di maggioranza e su questo non ci siamo. Aspettiamo segnali”, fa sapere un sostenitore di Bonaccini.

Il nuovo Pd della Schlein è già in salita sui capigruppo in Parlamento. La segretaria punta su Boccia e Braga. Gli ex renziani si mettono di traverso

I capigruppo che ha in testa Schlein sono sempre gli stessi: Chiara Braga alla Camera e Francesco Boccia al Senato. Chi ha sostenuto la corsa di Bonaccini ostenta ottimismo, facendo notare che tra segretaria e presidente del Pd regna una collaborazione che ha già superato la prova del tempo, affondando le radici nella giunta regionale che li vedeva presidente e vice in Emilia-Romagna.

Ottimismo basato anche sulle caratteristiche umane dei due protagonisti: “si tratta persone abituate a cercare punti di mediazione fra due proposte”, dicono. I tempi, tuttavia, rimangono lunghi e dall’area Bonaccini emergono anche segnali di nervosismo. Dalle parti della neo segretaria le opinioni sono molto diverse: “c’era un accordo ed è quello. Qualcuno chiama “capacità di sintesi” la scorrettezza di voler riaprire la discussione”.

La corrente di Guerini ora vuole tenersi la guida dei gruppi. Così Serracchiani e Malpezzi si incollano alla poltrona

A Bonaccini i suoi imputano aver voluto tenere separate le trattative della presidenza da quelle per la segreteria e i capigruppo, rimanendo così tagliato fuori da un discorso complessivo. La fumata bianca potrebbe arrivare a breve con l’indicazione dei capigruppo ma la chiusura del cerchio, con il passaggio nelle assemblee dei senatori e dei deputati, non arriverà prima della prossima settimana. E martedì, o mercoledì al massimo, potrebbero essere convocate le assemblee dei gruppi per il voto. In ogni caso, le capigruppo di Camera e Senato, Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, non sono decadute, hanno rimesso il mandato nelle mani della segretaria, ma sono nel pieno delle loro funzioni.

Elly Schlein ieri non ha partecipato ai lavori della Camera, delegando l’intervento a nome del Partito democratico alla deputata Madia (e ascoltandola non si direbbe nemmeno che da quelle parti ci sia una nuova segretaria) e in serata è partita per Bruxelles dove parteciperà al pre-vertice dei socialisti europei sulla situazione economica, sulla guerra in Ucraina e sugli ultimi sviluppi in tema di migrazioni con i deputati europei del Pd. L’assenza di ieri alla Camera della segretaria ha soffiato su qualche veleno interno: qualcuno bisbiglia che avrebbe dovuto sciogliere le questioni dei gruppi alla parlamentari prima di incontrare gli eurodeputati e qualcun altro – più cattivo – sottolinea come la segreteria abbia preferito evitare le domande dei suoi parlamentari perché non ha le risposte.

Base riformista: “Se non si trova l’accordo si va alla conta”

La minaccia di Base riformista è sempre la stessa: “Se non si trova l’accordo si va alla conta”, fanno sapere dalla minoranza. In parole povere i bonacciniani potrebbero farsi forza dei numeri parlamentari che sono molto diversi dagli equilibri usciti dalle primarie. Sembra di rivivere l’incubo di sempre di un partito che si rinnova negli organi interni (e nelle posizioni politiche) senza riuscire a scrollarsi di dosso i vecchi cacicchi. L’asincronia dell’elezione di una nuova segreteria rispetto alla compilazione delle liste (e le elezioni politiche) è stato lo scoglio politico con cui si sono ritrovati ad avere a che fare tutti i segretari.

Dal 17 marzo del 2019, data dell’elezione di Nicola Zingaretti alla guida del partito, e poi con Enrico Letta la componente cosiddetta “renziana” del Pd ha promesso di volta in volta “unità e collaborazione” per poi battere puntualmente i pugni. A rendere tutto ancora più complicato c’è la composizione della nuova segreteria. Anche in quel caso l’accordo è di dare rappresentanza a entrambe le mozioni (Schlein e Bonaccini) ma nella minoranza già si discute del peso delle deleghe che verranno assegnate. Siamo alle solite.

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