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Lo dice perfino Lagarde

«Finora i salari reali sono diminuiti notevolmente, mentre i margini di profitto delle imprese sono aumentati in molti settori. Ma il mercato del lavoro è piuttosto teso, le carenze di manodopera sono in aumento e questo sta portando i lavoratori a usare il loro potere contrattuale per recuperare i guadagni persi». Le parole che avete appena letto non sono di qualche irrequieto sindacalista o di qualche pericoloso comunista. Le ha pronunciate la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde durante la conferenza The Ecb and Its Watchers XXIII.

Ha detto Lagarde: «Se sia i lavoratori che le imprese accettano un’equa condivisione degli oneri e una crescita salariale più forte rappresenta semplicemente un riequilibrio tra lavoro e capitale, allora sia la pressione sui salari che quella sui prezzi dovrebbero diminuire man mano che si sviluppa questo processo». È la stessa Bce che qualche giorno fa ci aveva spiegato che l’aumento dell’inflazione è provocato dalle aziende. Secondo dati utilizzati nello studio e raccolti da Refinitiv, nel 2022 la aziende di beni di consumo della zona euro hanno aumentato i margini operativi (la differenza tra ricavi e costi di produzione) in media del 10,7% . Le grandi imprese monitorate sono state 106 inclusi gruppi come Stellantis, al gruppo di beni di lusso Hermes, e al rivenditore nordico Stockmann. E sono loro, secondo quanto risulta dagli studi Bce (che però non commenta ufficialmente queste conclusioni), ad aver spinto al rialzo prezzi e infiammato l’inflazione.

Stando ai dati della Bce nel corso del 2022 l’incremento dei profitti aziendali ha largamente sopravanzato quello degli stipendi in tutti i settori, nella manifattura in particolare e con l’unica eccezione della pubblica amministrazione. Mentre Lagarde spiegava quello che in molti provano a ripetere (mentre presunti illuminati competenti e economisti negano la ostinatamente la realtà) il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ha risposto andando fuori tema spiegandoci che «l’aumento del costo dell’energia è stata una tassa e questa tassa non la possiamo rinviare dove è venuta, possiamo accomodarla molto rapidamente a livello di area, in alcuni casi è più difficile in altri è più costoso quindi ci possono essere distribuzioni del reddito e interventi di finanza pubblica a favore di coloro che sono più colpiti, ma bisogna evitare che ci sia una rincorsa tra prezzi e prezzi e prezzi e salari e le aspettative di inflazione si scostino dal 2% nel medio periodo, perché se si scostano verso l’alto quello è il punto di riferimento a cui tutti i prezzi e le retribuzioni tenderanno ad adeguarsi». Tradotto: per Visco il costo dell’inflazione lo devono pagare solo i lavoratori perché – assicura – sarà un impoverimento passeggero.

Ancora qualche settimana e vedrete che qualcuno avrà l’ardire di accusare direttamente i lavoratori come causa dell’inflazione. Avanti così, all’infinito.

Buon giovedì.

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La Meloni ci porta in guerra. Conte fa a pezzi Giorgia e i leghisti la mollano in Aula

Giorgia Meloni deve avere finito i suoi bei discorsi scritti con ritmo. Incagliata nel ripetere “sono una madre” e nell’accusare di vilipendio allo Stato chiunque avanzi dubbi sull’operato del suo governo (ritenersi Stato e popolo è un vizio antico, da quelle parti) ieri alla Camera la presidente del Consiglio durante il dibattito sulle comunicazioni in vista del Consiglio Ue di oggi, inciampa in una maggioranza che si presenta compatta quando c’è da incassare ma sfibrata quando le tocca fare politica.

Alla Camera la Meloni inciampa in una maggioranza che si presenta compatta quando c’è da incassare ma sfibrata quando le tocca fare politica

La fotografia dell’inizio della seduta non ha bisogno di analisi. Ai banchi del governo mancano tutti i ministri leghisti (dopo l’imbarazzo dei salviniani già al Senato) e a parlare per la Lega si iscrive solo il deputato Stefano Candiani. Le parole del capogruppo al Senato Massimiliano Romeo risuonano ancora: “l’obiettivo della cessazione delle ostilità sembra più una dichiarazione di principio”, aveva detto l’altro ieri Romeo nel suo intervento, lamentando la mancanza di impegno per la “cessazione delle ostilità” e puntando il dito contro “il rischio di incidente”.

“La Lega assente dai banchi del Governo. L’intervento di ieri in Senato del capogruppo contro la linea della Meloni sull’Ucraina. Questo esecutivo è già in crisi. Per le ragioni sbagliate”, scrive lesto il leader del cosiddetto Terzo polo Carlo Calenda. Dell’ammutinamento della Lega sull’Ucraina Meloni non ne vuole sentire. “Non state ad ascoltare le chiacchiere della sinistra”, dice ai giornalisti presenti a Montecitorio (per lei è tutto “sinistra ciò che non è con lei), indicando l’arrivo del ministro Valditara come segnale di buoni rapporti con gli alleati di governo.

Potrebbe avere ragione se non fosse che Valditara sia il ministro meno “leghista” tra i leghisti e se non fosse che i leghisti non si sforzano nemmeno a nascondere i loro malumori. La questione dirimente non è nulla di umanitario, sia chiaro. Si litiga sulle nomine principalmente. Anche in questo caso gli ucraini sono solo le leve utili in quel momento. Vittoria Baldino del M5S ricorda alla presidente del Consiglio che sulla strage di Cutro non sono ancora arrivate le risposte che erano stato promesse.

I leader politici non hanno trovato un minuto per commentare lo spaventoso scenario disegnato nel rapporto Onu sulla siccità

“Meloni non ha voluto andare a Crotone per non trovarsi a tu per tu con delle piccole bare bianche con la sua coscienza di madre”, ha detto la deputata del M5S. Angelo Bonelli, di Alleanza Verdi Sinistra, prova a mettere sul tavolo anche il tema della siccità, in una giornata in cui i leader politici non hanno trovato un minuto per commentare lo spaventoso scenario disegnato nel rapporto Onu. Meloni ride. “Lei ride – attacca Bonelli – ma la questione della siccità è una questione attuale. è un problema drammatico e le vostre politiche energetiche, come quella di volere rendere l’Italia un Hub di fonti fossili, lo aggrava”. Risate ancora di Giorgia Meloni. “Questione di stile”, commenta amareggiato Bonelli.

La replica della presidente del Consiglio è un potpourri di inesattezze e di tecniche ormai ritrite. C’è la solita accusa di calunnia sulla strage di Cutro (“è una calunnia non solo del governo ma nei confronti dello Stato italiano, degli uomini e delle donne delle forze dell’ordine, del nostro intero sistema”, dice Meloni) senza dirci una parola sui verbali della Guardia di finanza che smentiscono in toto la ricostruzione del governo. C’è il vittimismo d’accatto (“siamo stati lasciati da soli a fare questo lavoro a volte fuori dai confini nazionali”) e la riesumazione del “blocco navale” che ora Meloni vorrebbe rivendere come operazione umanitaria europea.

Conte: “Ci state trascinando di gran carriera in guerra ignorando che in un conflitto scatenato da una potenza nucleare non ci sono vincitori”

Nessuna risposta nemmeno sulla siccità, al di là di una pietosa battuta che non fa ridere (“presumo che lei non voglia dire che in 5 mesi ho prosciugato l’Adige, nemmeno Mosè. Io non sono Mosè, caro Bonelli, la ringrazio che mi riconosca questi poteri ma non ce li ho”) e l’accusa al M5S di voler aiutare Putin. Giuseppe Conte non ci sta. “Ci state trascinando di gran carriera in guerra ignorando che in un conflitto scatenato da una potenza nucleare non ci sono vincitori. Per questo non possiamo sostenere ulteriori forniture militari e inviamo tutti in Parlamento a uscire dall’equivoco che questo sia il modo di aggiungere la pace”, spiega il presidente del M5S.

“Lei, presidente Meloni, – incalza Conte – ieri in Senato ha dichiarato che non è questo il momento della pace, e qual è? Chi lo decide e su quali basi?”. Il leader dei 5 Stelle contesta anche il “patriottismo d’accatto” del partito della presidente: “In Italia siete Fratelli d’Italia, a Bruxelles fratelli di Visegrad”, dice nel suo intervento. Nel corridoio di Montecitorio Conte ha anche sottolineato come ci sia “ancora da lavorare” per una convergenza con il centrosinistra.

Ma il dato politico che spiega la giornata è il voto sulla risoluzione dei partiti di maggioranza che in alcune parti ha incassa l’appoggio del cosiddetto Terzo polo, in un percorso di avvicinamento lento ma inesorabile. Bocciate invece le risoluzioni di M5S, Pd (che ha votato con le destre il testo del Terzo polo per “il sostegno militare a Kiev) e Alleanza Verdi Sinistra. C’è un’ultima curiosità: Giorgia Meloni è uscita dall’Aula poco prima dell’intervento della Lega. Chissà se anche questa sarà stata una coincidenza.

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Dalla Francia una lezione per i sindacati italiani

Una “svolta politica”. Il politologo Jean-Yves Camus (direttore de l’Observatoire des radicalités politiques alla Fondation Jean Jaurès) è sicuro che il voto di lunedì sulla riforma delle pensioni voluta da Macron cambierà la scenario francese a partire dalla “divisione sempre più forte dei Républicains, i cui vertici non sono riusciti a far votare tutto il gruppo parlamentare a favore della riforma.

In Francia le organizzazioni sindacali intensificano la lotta per i diritti. Da noi offrono il palco alla Meloni

Abbiamo una socialdemocrazia debole a fronte di una Lfi (La France Insoumise) e una destra debole a fronte del Rn (Rassemblement National)”. E la piazza Per Camus, “le manifestazioni andranno avanti. Le grandi manifestazioni sindacali, come quella prevista per giovedì (domani, ndr), non pongono problemi: i sindacati le inquadrano correttamente e – come ha detto Laurent Berger, segretario generale della Cfdt – non vogliono una violenza che allontanerebbe dal movimento sociale una parte dei lavoratori.

Il problema sono le manifestazioni spontanee, quotidiane, relativamente piccole ma molto mobili, nelle quali l’estrema sinistra del tipo “black bloc” si palesa e dove compaiono anche giovani poco politicizzati ma estremamente e spesso violentemente ostili al governo. Quelle manifestazioni logorano le forze dell’ordine e possono sfociare in dramma”. Quanto infine ad una via di uscita dalla crisi, “la conosceremo forse… dopo l’intervento del presidente”. “Ma io non ne vedo”, confessa Camus. Da parte sua Macron ha confermato di non prevedere lo scioglimento dell’Assemblea nazionale e di non pensare a un rimpasto di governo.

Ma per strada la protesta continua: “Più di 1.200” manifestazioni non autorizzate e “a volte violente” si sono svolte in tutta la Francia da giovedì, quando il governo ha innescato all’articolo 49.3 per adottare la controversa riforma delle pensioni. Il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin, esprime il suo “pieno appoggio” alla polizia. Il ministro ha detto che da giovedì “94 agenti” sono rimasti feriti e ha annunciato che si recherà al “capezzale dei poliziotti feriti a Parigi”.

Darmanin ha sostenuto che la polizia ha affrontato “una molteplicità di azioni non autorizzate, spesso violente, come tentativi di appiccare il fuoco a sottoprefetture e prefetture, attacchi a municipi o uffici parlamentari, blocchi delle vie di comunicazione”. La polizia francese ha eseguito quasi 300 arresti durante le manifestazioni di piazza stando a quanto riferito ieri dalle autorità, sono state 425 le persone fermate, di cui 234 a Parigi per “danni da incendio”. In particolare, riportano oggi i media francesi, sono stati dati alle fiamme bidoni della spazzatura. La Polizia nega arresti ingiustificati e atti di “violenza eccessiva”.

Al di là delle violenze dei manifestanti la Francia propone una serie di scioperi e di manifestazioni e assemblee compatte. Sembra così lontana dall’Italia che subisce la delega fiscale offrendo il palco alla presidente del Consiglio nelle assemblee dei sindacati. Il “blocco sociale” da noi lo si accarezza con qualche comunicato stampa e lo si invoca alle elezioni. La lezione francese è quella di un’opposizione sempre attiva che passa dalle piazze e che vede i sindacati usare tutti gli strumenti possibili per mettere pressione al governo. Fanno i sindacati, appunto.

 

Leggi anche: Dalla Francia una lezione per il Pd. Se insegue Macron finisce male. L’ala renziana del partito lo considera un modello. Ma ispirarsi a lui in Italia ha solo ingrassato la destra

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Le mafie preparano lo shopping in Ucraina

Repetita iuvant. Specie quando a fare orecchie da mercante è un Governo che non vuol saperne di ascoltare. Ma il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri non è tipo da perdersi d’animo. E malgrado da mesi si sgoli a ripeterlo, non si tira certo indietro quando capita l’occasione di rilanciare l’allarme: a guadagnarci dalla guerra sono anche le mafie che sono pronte a rimpinguare il proprio arsenale con le armi inviate in Ucraina.

Il procuratore Gratteri ripete da mesi che le mafie che sono pronte a rimpinguare i propri arsenali con le armi inviate in Ucraina

I precedenti, del resto, sono tutt’altro che confortanti. Gratteri ricorda, ad esempio, come già in passato la guerra si sia trasformata in una vera e propria cuccagna per la criminalità organizzata. “La ‘ndrangheta ha comprato esplosivo, kalashnikov e bazooka che erano stati utilizzati nella guerra nell’ex Jugoslavia”, dice il magistrato rinfrescando la memoria ai più riottosi a ricordare la storia recente.

Per questo è logico chiedersi, secondo il procuratore capo di Catanzaro, “se lo stesso avverrà in Ucraina con le armi che si stanno inviando”. Una valanga di armi, sempre più letali e sofisticate. Gratteri è intervenuto a Milano in un evento organizzato da WikiMafia per presentare il suo libro Fuori dai confini – La ‘ndrangheta nel mondo (edito Mondadori).

Non a caso il libro, scritto insieme ad Antonio Nicaso, si apre proprio con un capitolo dedicato al rapporto tra guerra e mafie. Il procuratore di Catanzaro ha anche ricordato come la guerra per le mafie rappresenti un’occasione ghiotta non solo per riempire i propri arsenali, ma anche armi e anche per infiltrarsi nel business della ricostruzione.

“Non sto qui a sindacare sulle scelte dei Paesi occidentali di inviare o no le armi, queste sono scelte politiche”, ha tenuto a precisare nel corso dell’incontro coordinato e moderato dal presindente di WiliMafia Pierpaolo Farina. Ma senza risparmiarsi un ultima osservazione: “Io sono però preoccupato – conclude – perché non essendo queste armi tracciabili, noi non sappiamo ogni giorno quante di queste vengono usate e quante invece nascoste”.

Un dubbio legittimo visto quanto accaduto ormai quasi un quarto di secolo fa nei Balcani dopo la guerra nell’ex Jugoslavia. Da mesi Gratteri lancia l’allarme. Da mesi la politica non risponde.

Leggi anche: Armi a Kiev come se piovesse. Passa la risoluzione di FdI. Via libera del Senato al testo delle destre. M5S e Avs contrari col Pd non pervenuto. Mentre la Lega inizia a smarcarsi

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Meloni la puericultrice

«Considero puerile la propaganda di chi racconta che l’Italia spenderebbe soldi per mandare armi in Ucraina sottraendo risorse alle tante necessità degli italiani, questo è falso e in questa Aula lo sappiamo tutti. L’Italia sta inviando all’Ucraina armi di cui è già in suo possesso e che per fortuna non dobbiamo utilizzare, e le inviamo anche per tenere lontana la guerra da casa nostra. Raccontare agli italiani il contrario è una menzogna che intendo chiamare col suo nome». Ha detto così Giorgia Meloni, in Aula al Senato, nel corso delle comunicazioni in vista del Consiglio europeo del 23 e 24 marzo.

È diventata grande Giorgia e adesso ha imparato che il “prima gli italiani” è “propaganda” – parole sue – che viene usata per mischiare argomenti molto diversi. Le “risorse” sottratte agli italiani sono il mantra della parabola politica di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. Senza lo spettro della sottrazione di risorse entrambi non avrebbero conquistato nemmeno una seggiola nel consiglio comunale delle loro città di residenza. Sì, è propaganda, esattamente. La politica sta nelle scelte con cui spendere il denaro pubblico e Giorgia Meloni ha scelto come tutti i suoi predecessori (l’ex ministro Guerini in questo è stato un fuoriclasse) di spendere in armi. Non si tratta solo dell’Ucraina, è una cavalcata senza valchirie a ingrossare i signorotti delle armi sotto tutti i punti di vista.

Però siccome Meloni non riesce a smettere di essere Meloni nella sua dichiarazione chiama “menzogna” il parere di chiunque le faccia notare che difendersi dalla guerra con la guerra è una scelta, non è l’unica scelta. Perché la politica, quella maiuscola, si prende la responsabilità di risolvere i conflitti, non di tifare. Ed è la stessa Giorgia Meloni a dire che «i tempi della pace non sono maturi»: il suolo dell’Europa e della politica internazionale è mettere in campo tutto ciò che serve per fare maturare i tempi. Altrimenti ci si prende la responsabilità di dire che ciò che si insegue è una sconfitta del nemico sul campo. Anche questa è una scelta, bisogna avere il coraggio di ammetterla (Calenda qualche giorno fa l’ha detto chiaro e tondo senza tentennamenti).

Giorgia Meloni ieri ci ha detto che giudica puerile tutta la sua carriera politica precedente alla nomina alla Presidenza del Consiglio. È già qualcosa. Forse è per questo che per l’ennesima volta ci ha tenuto a dirci che lei governa “da madre”: intorno a lei è pieno di puerili compagni di governo.

Buon mercoledì.

Nella foto: frame del video delle comunicazioni della presidente del Consiglio al Senato, 21 marzo 2023

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La Terra è agli sgoccioli. Dal 2030 l’acqua non sarà abbastanza per tutti

Sicuramente a una cosa la Giornata mondiale dell’acqua è servita: renderci conto delle proporzioni della catastrofe in un Paese che si azzanna su un muro sporco. Resta da vedere se ora che si sono spente le luci sul tema, in attesa della prossima giornata mondiale il prossimo anno, qualcuno avrà voglia di studiare le possibili soluzioni, magari smettendo con la divertita idiozia con cui un pezzo di classe dirigente assiste allo sfacelo negando l’innegabile.

Entro il 2030 non ci sarà più acqua dolce per tutti, con la domanda che supererà del 40% le disponibilità

Mentre ieri il senatore leghista Claudio Borghi irrideva la sintesi finale del sesto rapporto Ipcc sulla crisi climatica (“Fate presto. Solo per questo mese in omaggio il set di piatti o la pratica rostiera”, ha scritto il senatore di Salvini, con grande giubilo dei suoi elettori) la Commissione globale sull’economia dell’acqua, istituita dal Forum economico globale di Davos del 2022 ci avvisava che entro il 2030 non ci sarà più acqua dolce per tutti, con la domanda che supererà del 40% le disponibilità.

Lì dentro si legge – come sostiene la stragrande maggioranza della comunità scientifica – che i disastri a cui abbiamo assistito recentemente, come le inondazioni in Pakistan, vanno considerati come un’anticipazione di ciò che in futuro accadrà sempre più spesso. Uragani, alluvioni e ondate di caldo e siccità possono spazzare via, nell’arco di poche settimane, i progressi in termini di sviluppo che sono stati faticosamente costruiti nell’arco dei decenni. E gli eventi estremi sono solo un piccola parte del problema.

Più di 2 miliardi di persone non hanno accesso ad acqua gestita in modo sicuro

Ad oggi, su una popolazione globale di 8 miliardi di persone, più di 2 miliardi non hanno accesso ad acqua gestita in modo sicuro. Ogni 80 secondi, un bambino al di sotto dei cinque anni muore per malattie legate all’acqua contaminata. La scarsità di acqua, unita all’impennata dei prezzi alimentari, ha fatto precipitare intere comunità del sud del mondo in una condizione di grave insicurezza alimentare. Anche sulle responsabilità il report è molto chiaro: “Stiamo osservando – si legge – le conseguenze non di eventi inusuali, né della crescita della popolazione e dello sviluppo economico, ma della nostra cattiva gestione dell’acqua a livello globale, durata per decenni. Abbiamo modificato i cicli delle precipitazioni e non siamo riusciti a proteggere gli ecosistemi di acqua dolce, a gestire la domanda per evitare il sovraconsumo, a evitare la contaminazione, a favorire il riciclaggio e a sviluppare e diffondere tecnologie per il risparmio idrico”.

Dal 2010 al 2018 si sono registrati 263 conflitti nel mondo per il controllo dell’oro blu

Cosa produce la mancanza d’acqua La guerra, come già accade. Nel rapporto dell’Unesco The United Nations world water development report 2019: leaving no one behind (“Nessuno sia lasciato indietro”) si spiega che “in un contesto segnato da un aumento della domanda (più 1% all’anno dagli anni’80) si è verificato un aumento significativo dei conflitti legati all’acqua. Tra il 2000 e il 2009, ne sono stati censiti 94. Tra il 2010 e il 2018, si è arrivati a 263”, rimarca il rapporto. “Se non si inverte questa tendenza, con l’aumentare della popolazione nelle zone povere del mondo (la popolazione africana, stimata oggi in circa un miliardo e 200 milioni di persone, è destinata a raddoppiare entro il 2050) e l’inasprirsi delle conseguenze dei cambiamenti climatici, in futuro sempre più conflitti saranno causati per guadagnare l’accesso all’acqua”.

Ismail Serageldin, ex vicepresidente della Banca Mondiale, nel 1995 ci avvertì: “Se le guerre del XX secolo sono state combattute per il petrolio, quelle del XXI secolo avranno come oggetto l’acqua”, disse. Poiché la disperazione e l’inarrestabile voglia di sopravvivere delle persone concorrono al naturale fenomeno delle migrazioni potremmo interrogarci su un mondo in cui il 43% delle scuole non dispone di acqua, come ci ha raccontato ieri la ong WeWorld. Intanto in Italia più della metà dei comuni italiani (57,3%) ha perdite idriche totali in distribuzione uguali o superiori al 35% dei volumi immessi in rete.

Perdite ingenti, pari ad almeno il 55%, interessano il 25,5% dei comuni. In meno di un comune su quattro (23,8%) le perdite sono inferiori al 25%. Nel 2020, il volume delle perdite idriche totali nella fase di distribuzione dell’acqua, calcolato come differenza tra i volumi immessi in rete e i volumi erogati, è pari a 3,4 miliardi di metri cubi, il 42,2% dell’acqua immessa in rete. E quest’anno per la prima volta il razionamento dell’acqua arriva al Nord (a Verona) come non accadeva dal 2010. Il 38% delle risaie e delle coltivazioni è a rischio per la siccità. Di acqua, volenti e nolenti, toccherà parlarne tutti i giorni dell’anno. Con buona pace dei negazionisti che siedono sui banchi della maggioranza.

Leggi anche: L’Italia sempre più a secco. Avanti di questo passo diremo addio ai grandi fiumi. Domani è la giornata mondiale dell’acqua. In un anno il 38% delle zone irrigue è stato interessato dalla siccità

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Dalla Francia una lezione per il Pd. Se insegue Macron finisce male

Il Governo francese ha superato indenne il primo voto di sfiducia alla Camera bassa del Parlamento: la mozione, presentata da un piccolo gruppo centrista e sostenuta dalla coalizione di sinistra, ha ottenuto 278 voti, contro i 287 necessari. Secondo le previsioni dovrebbe superare anche il secondo voto. Così fosse, la riforma delle pensioni varata dal Governo, che tra le altre cose alza l’età pensionabile da 62 a 64 anni, sarà considerata adottata. Il voto di oggi è un momento cruciale per il Governo e per il presidente Emmanuel Macron che ha fatto ricorso a poteri costituzionali speciali per fare passare una riforma impopolare e che ha scatenato un vespaio di polemiche e proteste.

Emmanuel Macron non è una musa del progressismo. Malgrado i presunti riformisti fingano di non saperlo

Per essere approvata, la mozione di sfiducia avrebbe dovuto ottenere il voto di metà dell’assemblea, appunto 287 parlamentari. Dal 1962 a oggi nessuna mozione di questo tipo ha avuto successo. Nei giorni scorsi il leader repubblicano, Olivier Marleix, aveva fatto sapere che il suo gruppo avrebbe votato contro la mozione di sfiducia: “Riconosciamo la necessità di una riforma per salvare il nostro sistema pensionistico e difendere il potere d’acquisto dei pensionati”, aveva detto.

Politicamente Macron esce comunque sconfitto da una riforma passata per una manciata di voti ma fortemente contestata nelle piazze. La media dei sondaggi nazionali dice che più del 60% degli elettori francesi sono contrari a questa riforma e le vibranti proteste di piazza, oltre che in Parlamento, confermano il malcontento generale. Del resto Macron appare sempre di più un leader tagliato fuori dal suo tempo, con un’idea fortemente liberista che è ormai decaduta una decina di anni fa. Convinto di essere legittimato dal riformismo il presidente francese non si accorge che la richiesta di radicalità è un comune denominatore della sinistra in tutta Europa.

La legislazione è stata ritardata di mesi, per cercare di forgiare un compromesso cross-party. Macron non avrebbe mai convinto i nupes, l’alleanza di sinistra o la destra nazionalista-populista di Marine Le Pen a sostenere. Ma alla fine i voti non sono arrivati nemmeno dai repubblicani di centro-destra, anche se loro stessi quando erano in carica avevano innalzato l’età pensionabile francese. Cercare accordi sia a destra che a sinistra è già un atto politico.

L’ala renziana del Pd considera Macron un modello. Ma ispirarsi a lui in Italia ha solo ingrassato la destra

La vicenda Macron ci riporta quindi alla politica nostrana, qui dove il centrosinistra – soprattutto il Pd – negli ultimi anni ha creduto di poter impunemente pescare da entrambi i bacini senza preoccuparsi troppo delle conseguenze politiche dell’apertura dei suoi dialoghi. Se dovessimo leggere la politica francese dalla lente della politica nostrana verrebbe naturale chiedersi cosa voglia fare il Pd (che in buona parte di Macron è stato uno strenuo sostenitore) alla luce degli ultimi avvenimenti francesi, molto più parlamentari che popolari.

La politica degli ultimi anni in Europa suggerisce di prendere una posizione netta, senza infingimenti o posizioni di mezzo (non per niente il cosiddetto Terzo polo sta appoggiando la riforma macroniana). Il Pd di Bonaccini, uscito sconfitto dalle primarie (ma comunque rilevante all’interno del partito) ha ancora molta influenza nel cosiddetto nuovo partito di Elly Schlein. Il punto politico sta tutto qui: si vuole inseguire le politiche macroniane (quelle che vorrebbero una parte del Pd, Base riformista su tutti) oppure se si vuole scegliere politiche radicali.

Macron è il paradigma del deperimento del centrosinistra europeo che ha provato a inseguire la destra nelle politiche economiche e sicuritarie e regolarmente concorre a ingrassare il bacino elettorale della destra, accarezzando idee che quegli altri riescono a ribadire con più forza. La sconfitta di Macron (politica, nonostante la vittoria parlamentare) peserà sul quadro del centrosinistra italianio Non basterà l’improvvisa indifferenza all’interno del Pd, come se Macron improvvisamente sia diventato un estraneo e non l’ispiratore. Essere di centrosinistra significa appoggiare politiche chiare e riconoscibili. Macron non è una musa del progressismo, nonostante i presunti riformisti italiani fingano di non saperlo.

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Lo dice anche la Corte d’Appello: Regione Lombardia discrimina gli stranieri

La Corte d’Appello di Milano (presidente  Pizzi, estensore  Giobellina) con una sentenza depositata il 9 marzo scorso ha respinto il ricorso con il quale la Regione aveva cercato di capovolgere la precedente decisione del Tribunale in materia di accesso degli stranieri alle case popolari. Il Tribunale aveva anche sollevato la questione di costituzionalità del requisito di cinque anni di residenza o lavoro nella Regione, rispetto al quale la Corte Costituzionale, con sentenza n. 44/2020 aveva dichiarato la incostituzionalità della norma che dunque oggi non è più in vigore.

Nella causa le associazioni che avevano promosso l’azione giudiziaria (assistite dagli avvocati Alberto Guariso e Livio Neri) avevano contestato in primo luogo il requisito di 5 anni di residenza nella Regione previsto peraltro anche dalla stessa legge regionale che regola la materia: il giudice aveva pertanto dovuto investire della questione la Corte Costituzionale che con sentenza n. 44 del marzo scorso aveva dichiarato incostituzionale il requisito.

La causa era quindi ripresa davanti al Tribunale che aveva esaminato anche l’altra questione dei documenti aggiuntivi richiesti agli stranieri (cioè la medesima questione che già aveva visto la condanna del Comune  di Sesto San Giovanni). Anche questa previsione è stata ritenuta illegittima e discriminatoria dal Tribunale, perché la documentazione da presentare per dimostrare l’assenza di proprietà all’estero (basata sull’Isee) deve essere la medesima sia per italiani che per gli stranieri, restando poi l’obbligo di verifica in capo alla autorità fiscali.

Siamo di fronte (come già avvenuto nel caso di Lodi) ad una clamorosa ingiustizia che aveva visto escludere dalle graduatorie di tutta la Lombardia numerosi cittadini stranieri in condizioni di bisogno ai quali veniva richiesto di produrre documenti spesso impossibili da reperire. Tutti i Comuni lombardi devono modificare i bandi tenendo conto della decisione del Tribunale di Milano e della modifica del Regolamento Regionale.

Il Tribunale aveva poi anche ordinato di modificare il Regolamento regionale, ammettendo alle graduatorie i cittadini extra Ue sulla base della medesima documentazione richiesta ai cittadini italiani (cioè l’Isee)  senza richiedere ulteriori documenti, spesso impossibili da reperire, che dimostrassero l’assenza di proprietà nel Paese di origine. Infine, per quanto riguarda i titolari di protezione (non solo i rifugiati, ma anche i titolari di protezione speciale) il Tribunale aveva ordinato di cancellare la disposizione che imponeva come requisito l’assenza di una casa nel paese di origine; ciò sulla base della considerazione che il rifugiato, se anche fosse titolare di una casa, non potrebbe certo utilizzarla rientrando in Patria.

La Regione aveva adottato su questi punti  delibere provvisorie in attesa della decisione dell’appello preannunciando di voler ricercare “altre soluzioni non discriminatorie” diverse da quelle indicate dal giudice.

Ora è arrivata la sentenza di appello che respinge tutte le tesi della Regione e conferma la decisione di primo grado.

A questo punto la Regione dovrà abbandonare ogni soluzione provvisoria e mettere mano al Regolamento, modificando definitivamente le norme secondo le indicazioni del Giudice.

Buon martedì.

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È il giorno della memoria per le vittime delle mafie. Ma ricordare non basta

Ogni anno, il 21 marzo, primo giorno di primavera, in Italia viene celebrata la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Oggi è il 21 marzo. Una giornata nata dalle lacrime di Carmela Montinaro, madre di Antonio Montinaro, uomo di scorta di Giovanni Falcone che perse la vita nell’attentato di Capaci. Durante una commemorazione tenuta dal fondatore di Libera la madre di Antonino Montinaro sentì ricordare il figlio da don Ciotti e si strinse la suo braccio per lenire il dolore del figlio dimenticato. La giornata nasce lì, per ricordare le vittime di mafia in Italia, spesso all’ombra delle vittime più “famose”.

Ogni anno, il 21 marzo, in Italia viene celebrata la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie

Oggi alle 8.30, con ritrovo a Milano dei partecipanti nella zona Bastioni/Porta Venezia la manifestazione si concluderà in piazza Duomo a Milano, con la lettura dei nomi delle vittime delle mafie dal palco. Lo slogan di questa Giornata, scrive Libera, “vuole portarci a riflettere su ciò che ciascuno di noi può fare per l’affermazione dei diritti e della giustizia sociale. La parola “possibile” deriva da “potere” e indica ciò che si può realizzare, ciò che può accadere. In un momento storico in cui le difficoltà sono numerose, con la crisi ambientale, sociale ed economica aggravata dalla pandemia e la vulnerabilità politica internazionale provocata dalla guerra, abbiamo il dovere di indicarci insieme la strada, di dirci dove può e deve portarci il nostro impegno comune.

Oggi ci troviamo su un sentiero oscuro, dove talvolta non ci sono neanche le stelle a farci da guida. Ma se diventiamo tutti consapevoli di questo sentiero e del perché sia divenuto oscuro, possiamo attraversarlo e superarlo, per raggiungere l’alba del cambiamento necessario”. Secondo Libera questo è un tempo di “attraversamento” difficile, in cui ci pare che le vecchie “mappe” non servano più a ritrovare la strada. È un tempo complesso che ci chiede di metterci in gioco anche componendo nuovi orizzonti, ponendo in dialogo competenze diverse e saperi transdisciplinari, per generare un pensiero meticcio.

Sappiamo – dice Libera – che “è possibile” superare questa fase se a metterci in gioco siamo tutti, insieme: solo con il noi si può arrivare ad affermare la pace, la giustizia, la verità, i diritti, l’accoglienza e la libertà. Però dovremmo avere il coraggio di riconoscere – senza che si offenda qualcuno – che l’argomento mafia si è annacquato e che la memoria no, non basta.

Non basta perché in questo Paese mentre si ricordano Falcone e Borsellino si fa finta di non sapere che in Italia si stanno celebrando processi fondamentali per rileggere la storia del Paese in questi ultimi 30 anni. Si finge di non sapere che alcuni processi si ostinino a raccontare l’attività di servizi deviati dello Stato in combutta con Cosa nostra nell’epoca stragista (uno dei testimoni fondamentali come Armando Palmeri è morto qualche giorno fa per quello che sembrerebbe un tempestivo infarto), si finge di non accorgersi del processo Rinascita Scott in cui sono coinvolti colletti bianchissimi della Calabria già borghese, con Nicola Gratteri isolato e delegittimato come furono Falcone e Borsellino. Facciamo finta di non sapere che la memoria andrebbe praticata come un muscolo – tenuto lungo, allenato – per onorare i morti custodendo i vivi.

Perché l’antimafia in questo Paese è diventata una cerimonia celebrata spesso da sacerdoti poco credibili (nonostante i cognomi) che interessa a sempre meno gente. Anche su questo bisognerebbe avere il coraggio di riflettere. C’è un mondo sommerso che non ha smesso di lottare, senza avere il tempo di commemorare. Che forse è stato lasciato solo.

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Il magico tempismo della morte del pentito Palmeri

Armando Palmeri era un collaboratore di giustizia (volgarmente lo direbbero “pentito”) che da qualche tempo era uscito dal programma di protezione ma viveva nascosto in una casa in contrada Bosco alla Falconeria, tra Alcamo e Partinico, in provincia di Palermo. Ad Alcamo Palmeri, che aveva 62 anni, era stato il braccio destro dello storico boss Vincenzo Milazzo.

Tra la miriade di dichiarazioni che ha lasciato agli atti ci sono informazioni sull’influenza dei servizi segreti sulle stragi a partire dal 1992. Raccontò che il boss Milazzo dopo le sue partecipazioni alle riunioni per organizzare la strategia stagista che ha messo in ginocchio l’Italia commentava dicendo “sostanzialmente che questi erano matti, che erano loro la vera mafia. Mi disse che volevano che ci adoperassimo per la destabilizzazione dello Stato. Io credo che quella era una cosa molto riservata. Ricordo che Milazzo tremava. C’era un periodo di tensione molto forte. Lui mise in atto la ‘strategia del Ni’. Da un lato si mostrava restio e contrario, dall’altro aveva comunque paura di poter essere eliminato se avesse detto no. Quindi preferì un’azione mista”.

Il “ni” di Milazzo gli costò la vita (nel commando che lo uccise c’era anche Matteo Messina Denaro) il 14 luglio 1992, 5 giorni prima dell’omicidio di Paolo Borsellino. Il 15 luglio Cosa nostra uccise anche la compagna di Milazzo, la ventenne Antonella Bonomo, incinta, per la sua sgradita abitudine di “parlare troppo” e per una sua parentela – riscontrata dalla Procura di Caltanissetta – con un uomo del Sisde.

Palmeri raccontò particolari anche su Antonino Gioè, un uomo di mafia molto vicino a ambienti politici di destra che fu probabilmente suicidato nel 1993 nella sua cella del carcere di Rebibbia, impiccato con i lacci delle sue scarpe. Palmeri raccontò di Gioè ospite della trasmissione Report: “A volte lo accompagnai ad incontri particolari con uomini delle istituzioni – ha detto Palmeri intervistato da Paolo Mondani – Se parlammo di Capaci? Mi disse ufficiosamente che a ‘Giovannieddu (Brusca, ndr) ci paria che era iddu a farlo esplodere’. Mi diceva che il dispositivo per lanciare l’impulso era un giocattolo e che era in sinergia con altra gente. Cosa mi sta dicendo? Era un’operazione militare perfetta”.

Oggi avrebbe dovuto testimoniare in un confronto con Baldassare Lauria, un ex medico che Palmeri indicava – accuse tutte da dimostrare – come cerniera tra i servizi segreti e Cosa nostra all’epoca delle bombe del 1992. L’ex pentito aveva paura, si sentiva in pericolo e per questo aveva chiesto al pm Pasquale Pacifico di poter intervenire in videoconferenza. Permesso non accordato. Baldassare Lauria, l’uomo accusato da Palmeri, è un 87enne che fu medico molto stimato nel trapanese nonché senatore di Forza Italia nel 1996 poi passato all’Udeur di Clemente Mastella: risulta indagato a Caltanissetta per frode in processo penale aggravato dall’aver favorito Cosa nostra e dall’aver commesso il fatto in un procedimento per strage.

Armando Palmeri però è morto. L’hanno trovato nella sua abitazione. Forse un infarto, dicono. Ora si indaga. Tra le altre cose, aveva raccontato che nella primavera del ’92, ad Alcamo, si tennero tre incontri tra uomini dei Servizi segreti e il suo capomafia. Oggetto dell’incontro: le stragi da consumare in Italia nel 1993. “Volevano mettere in atto una strategia di destabilizzazione dello Stato con bombe e attentati”, ha detto davanti alla corte d’Assise di Reggio Calabria il 14 giugno del 2018. Una morte accidentale con un tempismo perfetto.

Buon lunedì.

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