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Le minacce a Crosetto e la Wagner dietro ai migranti erano bufale

Com’era prevedibile ora non se ne parla più. E pensare che un quotidiano ha avuto il coraggio di tenere la notizia per due giorni in prima pagina e qualcuno dei politici “competenti” si è stracciato le viti per esprimere “vicinanza” e per spargere “solidarietà” ai piedi del ministro all Difesa Guido Crosetto. Nel frattempo il ministro – questo gli va riconosciuto – continuava a minimizzare la bufala della Wagner che avrebbe incaricato il suo gruppo albanese ed estone (meno di 10 persone) per assassinare Crosetto.

Usare una tragedia umanitaria per aggiustare le piccole questioni personali è uno dei gesti più esecrabili che si possano immaginare

È passato qualche giorno e sappiamo che non esiste nessun informativa all’Agenzia informazioni e sicurezza esterna e all’Agenzia informazioni e sicurezza interna. Crosetto aveva detto di non sentirsi “minacciato, e sono certo che non ci siano taglie o altro su di me. Se ci fossero stati rischi o minacce di tale gravità, ne sarei stato certamente informato, e non è mai accaduto”. Quelli intanto continuavano furiosi a scrivere editoriali e comunicati stampa sua una bugia. Complimenti competenti!

La Wagner responsabile dell’incremento degli sbarchi in Italia La traiettoria dell’ipocrisia e della propaganda (in questo caso assolutoria per nascondere la strage di Steccato di Cutro) è molto simile. Decine di esperti hanno confermato che fosse una panzana. Del resto molte delle onde migratorie partono da territorio in cui la Wagner non ha nessun tipo di influenza. Anche in questo caso né Aise né Aisi hanno rapporti che evidenzino alcunché. Il povero ministro Tajani ha lottato per giorni sui canali televisivi senza uno straccio di carta, nulla. Tant’è che fonti vicine al governo confermano che il ministro agli Esteri si sia lamentato direttamente con Giorgia Meloni.

Un risultato comunque l’hanno raggiunto, anche se con metodi infimi. Per giorni l’attenzione è stata spostata su argomenti inesistenti mentre un bel pezzo di Paese aspettava risposte per la sequela di errori e di ingiustificabili dichiarazioni da parte del governo. La distrazione, tra l’altro, è stata prodotta sulla pelle degli ucraini, miscelando la bile prodotta dalla guerra per proteggere il governo. Usare una tragedia umanitaria (com’è anche la guerra in Ucraina) per aggiustare le piccole questioni personali è uno dei gesti più esecrabili che si possano immaginare.

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Matteo Messina Denaro aveva l’amante: non c’è più la mafia di una volta pure nelle corna

Matteo Messina Denaro e l’amante: lo definiscono “galante” per timore reverenziale verso quello che comunque è l’ultimo padrino di Cosa Nostra ma dalle carte delle indagini della Procura di Palermo sorge il dubbio che Matteo Messina Denaro non abbia rispettato in tutto e per tutto il decalogo del buon mafioso che nel secondo comandamento recita “non si guardano mogli di amici nostri”.

Matteo Messina Denaro e l’amante: tradimenti e gelosia

Tra i documenti e le conversazioni ritrovate dopo il suo arresto spunta la coppia Emanuele Bonafede e Lorena Lanceri vicinissima al boss, tanto da ospitarlo abitualmente a pranzo e a cena nella loro abitazione di Campobello di Mazara. Bonafede (della stessa famiglia che ha prestato l’identità falsa al boss) si era presentato con la moglie ai carabinieri poco dopo l’arresto dicendo di conoscerlo con un falso nome (“Francesco Salsi“) e di avere fatto amicizia ignorando la sua vera identità. Tutto falso. La moglie Lorena (chiamata “Diletta” nei
pizzino) si occupava di smistare la posta del boss. E non solo: è sua la lettera innamorata ritrovata a casa della sorella di Messina Denaro in cui Lanceri diceva a Messina Denaro che “qualsiasi donna nell’averti accanto si senta speciale” definendolo “un regalo in grande stile”. Solo riverenza Non si direbbe vista la gelosia di un’altra Bonafede, Laura, anche lei sposata, che confessa la propria gelosia per l’auto parcheggiata vicino a casa di Lorena Lanceri (“non sapere se eravate soli, se ti saresti fermato ancora a lungo, se … se … se … potrei
dire mille se”). Insomma, anche in fatto di corna la mafia non è più come una volta.

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Ponte sullo Stretto, la propaganda da Istituto Luce di Salvini

L’aspetto più incredibile è che venga preso sul serio. È vero che la stampa ha l’obbligo (e la missione) di seguire la politica e quindi un decreto uscito dal Consiglio dei ministri bisogna pur fingere di prenderlo sul serio, ma che il Ponte sullo Stretto di Messina «salvo intese» possa diventare un «annuncio storico» sulle pagine dei giornali è roba da Istituto Luce.

Il decreto per un’urgenza che è urgente dal 1971

Matteo Salvini, il ministro alle Infrastrutture, festeggia con un video. C’era da aspettarselo: Salvini da sempre crede che la politica si declini annunciando una decisione convinto che tutto il resto (effetti, funzionamento, conseguenza) siano solo fastidiosi effetti collaterali che guastano la sua propaganda. Qualcuno (troppo pochi) fa notare che l’utilizzo del decreto sia ingiustificato per un’urgenza che è urgente dal 1971 e sottolinea quel «salvo intese» che qualcuno (le malelingue dicono sia Giorgia Meloni in persona) ha voluto aggiungere come bromuro.

LEGGI ANCHE: Salvini se la prende con una fiction per il crollo del Ponte sullo Stretto

Nel 2013 la società è stata messa in liquidazione

Il tema del Ponte sullo Stretto (qui lo mettiamo maiuscolo solo per onorarne la memoria) poggia sulle friabili fondamenta di un’idea che ha circa un secolo e un progetto che supera i 50 anni. La legge 1158 del 1971 (Salvini nascerà due anni dopo) prevedeva la costituzione di una società che avrebbe dovuto progettare e costruire e gestire il ponte. Nel 2013 l’hanno messa in liquidazione. Ma poiché in questa stiracchiata rincorsa all’annuncio anche le liquidazioni risultano lunghissime, la Stretto di Messina Spa sta ancora là, pronta a riaprire di corsa gli scatoloni.

L’ultima stima dei costi è salita a 7 miliardi di euro

Si riparte dal progetto del Cipe del 2003 (stima dei costi nel 2006: quasi 4 miliardi di euro) aggiornato dal governo Berlusconi nel 2008. Nel 2009 i costi sono di 6,3 miliardi e nel 2011 il progetto definitivo viene approvato da un altro governo Berlusconi. Arriva Mario Monti e decide che non se ne fa nulla. Intanto 300 milioni di euro si sono spesi per gli annunci e per i contenziosi. Una campagna elettorale semi-permanente costosissima. L’ultima stima dei costi è salita a 7 miliardi di euro (appare sul sito di Webuild di Pietro Salini) ma sono in molti a pensare che il preventivo finale sarà più sostanzioso.

Ponte sullo Stretto di Messina, storia e problemi. di un progetto destinato per sempre a rimanere una chimera.
Rendering ponte sullo Stretto di Messina.

Secondo il ministro non esiste alcun rischio sismico…

Il ministro Salvini, sempre prodigo di promesse e rassicurazione, dice alla stampa che non esiste nessun rischio sismico e che coinvolgerà «le migliori università». A proposito di università e di rischio sismico, nell’ambito del progetto “Analisi multidisciplinare della deformazione intorno a strutture tettoniche attive” dell’Università di Catania, uno studio italo-tedesco scrive che «le esplorazioni geofisiche sottomarine con una risoluzione senza precedenti forniscono nuovi vincoli sull’architettura strutturale e la sismotettonica dello Stretto di Messina, la regione sismicamente più pericolosa d’Italia». Niente di nuovo rispetto ai pareri di rinomati studiosi in tutti questi anni. Ma approfondire, si sa, è spesso nemico del poter annunciare. L’economista Marco Ponti sul quotidiano Domani ad agosto del 2022 scriveva di come l’opera avrebbe più costi che benefici.

La mancanza di vergogna di chi ancora esulta o ci crede

Ma quindi che festeggia Salvini? Il decreto assegna al ministero dell’Economia e delle Finanze il ruolo di azionista di maggioranza della società Stretto di Messina SPA, con il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti a cui sono attribuite funzioni di controllo, di vigilanza tecnica e operativa. Il testo del decreto inutile cercarlo, da Palazzo Chigi fanno sapere che «sono necessari approfondimenti tecnici». Approfondimenti necessari, badate bene, solo per scrivere il decreto. Sempre a proposito di fattibilità reale e di esultanza sconsiderata. Qualcuno ha notato anche come non ci sia stata nessuna conferenza stampa. Nonostante questo governo (come tutti i governi) ami parlarsi addosso a cospetto dei giornalisti, la «giornata storica» è rimasta striminzita in un comunicato stampa ed è esondata solo nei festaioli profili social del ministro Salvini. Accanto a lui, dai suoi colleghi di governo, nemmeno un refolo di vento. Ma quest’ultimo balletto intorno al fantasma del Ponte sullo Stretto (che per l’ennesima volta riapre solo gli uffici del vecchio carrozzone statale che gli sta intorno) non ha nulla di nuovo. La vera novità è la mancanza di vergogna di chi, un secolo dopo, lo usa ancora come propaganda e di chi, un secolo dopo, ha lo stomaco per aprirci il proprio giornale.

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Putin criminale di guerra. Ecco su cosa si basa il mandato d’arresto della Cpi

Mandato d’arresto per crimini di guerra. Il presidente russo Vladimir Putin è il destinatario della richiesta della Corte penale internazionale dell’Aja insieme a Maria Lvova-Belova, commissaria di Mosca per i diritti dei bambini. Putin sarebbe responsabile “di deportazione illegale di popolazione (bambini) e di trasferimento illegale di popolazione (bambini) dalle zone occupate dell’Ucraina alla Russia”.

La Corte penale internazionale accusa Vladimir Putin di aver deportato deportato illegalmente bambini dall’Ucraina

Il procuratore della Cpi Karim Khan aveva aperto un’indagine su possibili crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio in Ucraina, circa un anno fa. Negli ultimi 12 mesi ha effettuato tre viaggi in Ucraina e ha visitato siti di presunti crimini di guerra. “I giudici hanno esaminato i documenti e le prove raccolte dal procuratore e hanno stabilito che c’erano accuse credibili contro queste due persone.

Secondo il governo di Kiev sarebbero 16mila i bambini “deportati” dall’est del Paese

La Cpi sta facendo la sua parte di lavoro, i giudici hanno emesso i mandati d’arresto. La loro esecuzione dipende dalla collaborazione internazionale” ha dichiarato in un video il presidente della Cpi, giudice polacco Piotr Hofmanski annunciando la decisione odierna della II Camera preliminare. Secondo il governo di Kiev sarebbero 16mila i bambini “deportati” dall’est del Paese, prelevati in particolare dagli orfanotrofi ucraini.

Un rapporto di Yale School of Public Health parlava di almeno 6mila bambini confinati nei campi di rieducazione in Russia. Nonostante ufficialmente fossero le famiglie ucraine a dare il proprio consenso nel report si leggeva che la decisione spesso veniva presa per effetto delle minacce russe. Molti dei bambini non sono mai tornati nelle famiglie di origine. “I minori sono esposti a rieducazione culturale, patriottica e militare”, si leggeva nel report.

Lvova-Belova aveva affermato che 350 bambini erano stati adottati da famiglie russe e che più di 1.000 erano in attesa di adozione

Lvova-Belova aveva affermato che 350 bambini erano stati adottati da famiglie russe e che più di 1.000 erano in attesa di adozione. Nel maggio dell’anno scorso Putin aveva firmato un contestato decreto per snellire le procedure di adozione e per fare ottenere velocemente la cittadinanza russa ai minori, attirandosi le contestazioni di molte associazioni internazionali.

Un report di Human Rights Watch ha denunciato che la guerra in Ucraina ha avuto conseguenze devastanti per i bambini

Pochi giorni fa Human Rights Watch aveva pubblicato un rapporto di 55 pagine denunciando che “la guerra in Ucraina ha avuto conseguenze traumatiche e devastanti per i bambini ospitati negli istituti di accoglienza, inclusi quelli trasferiti in modo coatto in Russia e separati dalle loro famiglie“. Erano più di 100mila i minori negli orfanotrofi ucraini. Quasi la metà di loro con disabilità.

“I bambini ucraini che sono ospitati in istituti dell’era sovietica ora affrontano rischi estremi a causa della guerra” aveva affermato Bill Van Esveld, direttore per i diritti dei bambini di Human Rights Watch. “È necessario uno sforzo internazionale concertato per identificare e restituire i bambini che sono stati deportati in Russia, e l’Ucraina e i suoi alleati dovrebbero garantire che tutti i bambini che sono stati o rimangono negli istituti siano identificati e venga fornito loro sostegno per vivere con le loro famiglie e nelle comunità”.

L’altro ieri il Rapporto della Commissione Internazionale Indipendente d’inchiesta sull’Ucraina pubblicato da UN Human Rights Council ha documentato uccisioni volontarie, reclusioni illegali, tortura, stupri e trasferimenti illegali di detenuti nelle aree passate sotto il controllo delle autorità russe.

Medvedev: “Inutile spiegare come useremo questo documento”

“Non c’è bisogno di spiegare dove dovrebbe essere usato il documento dell’Aja” ha scritto su Twitter il vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, Dmitry Medvedev. Di sicuro il mandato d’arresto limita i movimenti di Putin e apre nuovi scenari.

Leggi anche: Mandato d’arresto Putin, Kiev dall’inizio dell’invasione russa ha registrato e denunciato più di 16mila casi di deportazione forzata di bambini

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La Meloni mena duro sui poveri. Al comizio offerto dalla Cgil

Il “centralismo democratico” della Cgil funziona. Il segretario del sindacato, Maurizio Landini, aveva raccomandato una contestazione “composta” alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni per rispettare la scelta di invitarla al congresso nazionale e i 24 delegati in disaccordo con la scelta del loro segretario hanno abbandonato la sala intonando “Bella ciao”. Lei, Giorgia Meloni, questa volta si è presentata preparata (sarà forse la mano del suo nuovo consigliere Mario Sechi) e risponde ai fischi elargendo il solito vittimismo travestito da simpatia: “Mi sento fischiata da quando ho 16 anni”, ha detto. “Potrei dire che sono Cavaliere al merito su questo”.

Contestazioni soft per l’intervento della Meloni al Congresso della Cgil di Rimini. Il premier si è preso la scena senza alcun contraddittorio

In sala si notano i peluche colorati che silenziosamente rimandano alla strage di Cutro. Sui cartelli dei contestatori all’esterno dice alla platea: “Ringrazio anche chi mi contesta, in alcuni casi con slogan efficaci: ‘pensati sgradita’. Anche se non sapevo che Chiara Ferragni fosse una metalmeccanica”. La sfida al sindacato è tutta su salario minimo e reddito di cittadinanza, gli stessi punti su cui si erano confrontati i leader dell’opposizione il giorno precedente.

“Vogliamo retribuzioni adeguate – ha spiegato Meloni – ma voglio ribadire che per raggiungere questo obiettivo il salario minimo legale non è la strada più efficace perché la fissazione per legge di questo non sarà una tutela aggiuntiva, rispetto a quella della contrattazione collettiva, ma potrebbe diventare sostitutiva, facendo un favore alle grandi concentrazioni economiche. La soluzione, a mio avviso, invece è stendere contratti collettivi a vari settori e intervenire per ridurre il carico fiscale sul lavoro”.

Dal no al Salario minimo all’abolizione del Reddito di cittadinanza, la Meloni ha intortato il sindacato con i soliti slogan da talk show

Per la premier il reddito di cittadinanza “ha fallito gli obiettivi per cui era nato perché a monte c’è un errore: mettere nello stesso calderone chi poteva lavorare e chi non poteva lavorare, mettendo insieme politiche sociali e politiche attive del lavoro”. Noi, ha detto Meloni, “vogliamo tutelare chi non è in grado di lavorare, chi ha perso il lavoro, gli invalidi ecc. ma per chi può lavorare la soluzione è creare posti di lavoro, inserire queste persone in corsi di formazione anche retribuiti”.

Perché, ha sottolineato, “la povertà non si abolisce per decreto”. Poi un passaggio sui salari che “sono bloccati da 30 anni dato scioccante perché l’Italia ha salari più bassi di prima del ‘90 quando non c’erano ancora i telefonini. In Germania e Francia sono saliti anche del 30%. Significa che le soluzioni individuate sinora non sono andate bene e che bisogna immaginare una strada nuova che è quella di puntare tutto sulla crescita economica”. E ancora: “Nella sua relazione Landini ci chiede ‘cosa vi hanno fatto i poveri?’. Non ci hanno fatto niente…

È per questo che non vogliamo mantenerli in una condizione di povertà come ha fatto il reddito di cittadinanza. L’unico modo per uscire da quella condizione è il lavoro”. Cosa debbano fare i poveri mentre il lavoro non c’è Meloni si è scordata di raccontarlo. Meloni accenna poi alla crisi di natalità in Italia (tema storicamente caro alla destra) parlando di “glaciazione demografica” e furbescamente condanna l’assalto “degli esponenti di estrema destra alla Cgil” pareggiandolo con le azioni “dei movimenti anarchici che si rifanno alle Br”.

Parte un timido applauso che si spegne immediatamente con lo strumentale paragone successivo. L’unico ad applaudirla sui social, manco a dirlo, è Carlo Calenda. E qualcuno della Cgil mugugna che “a Meloni è stato offerto un palco, un comizio di mezz’ora contro le misure di sostegno ai poveri leccando le “aziende che creano ricchezza”.

Leggi anche: No al salario minimo, la Meloni sul palco della Cgil tira dritto: per il premier chi lavora e non ce la fa a campare può pure rimanere così

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Al Congresso della Cgil si rivede l’intesa giallorossa

Al congresso della Cgil si ritrovano i partiti di opposizione. Prove tecniche di avvicinamento tra il Partito democratico di Elly Schlein e il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte e Sinistra Italiana con Nicola Fratoianni. Calenda invece è il solito Calenda.

Prove tecniche di avvicinamento tra il Pd, M5S e Sinistra Italiana. I partiti di opposizione si ritrovano al congresso della Cgil

Al tavolo coordinato dalla giornalista Lucia Annunziata si prova a trovare una sintesi sui temi. Il primo punto è il salario minimo, che già la segretaria del Pd Schlein aveva scelto come tema per affrontare in Aula la presidente Giorgia Meloni e che ieri è stato caldeggiato anche dal segretario della Cgil Maurizio Landini.

“Dal nostro punto di vista – ha detto il leader del sindacato – in un momento in cui sta cambiando tutto, con una crisi di rappresentanza tra i cittadini e la politica, la domanda di fondo è: vogliamo tornare a dare voce e rappresentanza al mondo del lavoro e quali riforme strutturali si vogliono fare per andare in questa direzione?”.

“I salari sono poveri, c’è un livello di precarietà senza precedenti, un sistema fiscale che non regge. Sull’insieme di queste cose l’opposizione cosa vuol fare, è in grado di misurarsi in questa direzione e quale rapporto vuole avere con le organizzazioni sindacali?”, chiede provocatoriamente Landini. Risponde affermativamente Conte ribadendo che “occorre una soglia di salario minimo legale, 21 paesi in Europa hanno dimostrato che una soglia non toglie nulla alla forza della contrattazione collettiva” e chiedendo un “welfare aziendale più ricco” e iniziative per “contrastare la precarietà e per ridurre il tempo di lavoro”.

Il discorso sembra piacere a Schlein che propone come esempio Yolanda Diaz in Spagna “facendo una lunga discussione per limitare i contratti a termine, perché il 62% dei lavoratori più giovani conosce solo questi contratti. La Spagna dimostra che è una discussione che si può fare con le organizzazioni datoriali e sindacali e trovare una via che possa spezzare la precarietà” e dicendosi aperta a modificare la propria proposta pur di trovare un accordo con i 5 Stelle.

Conte, che ha incontrato la Diaz vicepresidente e Ministro del Lavoro del Governo spagnolo, la madre della riforma del lavoro contro il precariato, si dice “molto interessato”. A vederli e sentirli il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle sembrano essere tornati a parlarsi e ascoltarsi. Tant’è che Fratoianni, di Alleanza Verdi Sinistra, prova a suggellare il momento: “Dobbiamo fare un grande patto qui davanti – ha detto Fratoianni – di fronte al Paese e non solo davanti ai sindacati. Oggi finalmente guadagniamo una grande convergenza: salario minimo, sanità, scuola, e io aggiungo lotta alla delega fiscale, riduzione dell’orario del lavoro, redistribuzione. Una patrimoniale sulle enormi ricchezze non è una cosa da estremisti. È estremista il lavoro povero. Dobbiamo essere in grado di dire che quello che costruiremo insieme da domani in Parlamento e nel Paese, lo diciamo oggi, ma ce ne ricorderemo anche quando torneremo al governo”.

Lucia Annunziata prova a dare un nome. “Coordinamento anti-Papeete“, dice, senza provocare grandi entusiasmi. Perché è vero che Fratoianni, Conte e Schlein ieri hanno assunto l’impegno di organizzare finalmente contro questa destra ma nessuno ha voglia per ora di fissare alleanze in una foto.Anche perché tra gli invitati spicca il solito Calenda che apre il suo intervento chiarendo: “Potrei governare con le persone che sono qui? No, perché non condivido con loro la politica estera: per me l’Ucraina va sostenuta e la Russia sconfitta militarmente”.

La distanza non è solo sull’Ucraina. Calenda elogia il Jobs Act, che a quella tavola rotonda non piace a nessuno, e ci tiene a ribadire il suo no a una patrimoniale. Il suo intervento raccoglie qualche timido applauso – pochi – e Conte lo stuzzica: “A me non preoccupa che Carlo prenda voti alla destra, mi preoccupa quando insieme al suo amico Renzi vota con la destra”.

Calenda rimedia fischi

La sala esplode in un applauso e il leader del cosiddetto Terzo polo si esibisce nell’arte che gli riesce meglio: offendere i suoi potenziali elettori. “No, no, scusate a me va bene tutto, – sbotta Calenda – voi potete applaudire. Però uno di voi mi dice quando ho votato con la destra Sulla guerra Eh ma allora ho votato anche col Pd. E allora, invece di fare i pecoroni, ragionate prima di applaudire. Noi con la destra non abbiamo mai votato”. Si prende, ovviamente, altri fischi.

Uno schema di opposizione chiaro si delinea, ne fanno parte quelli seduti a quel tavolo e Calenda se n’è chiamato fuori. Sulle eventuali alleanze di governo Conte è cauto: “Sono discorsi astratti governerebbe con questo o quello, partiamo da questi 4 grandi patti” su lavoro sanità scuola e disuguaglianze e “cerchiamo di costruire contenuti che ci possano dare un orizzonte di marcia comune e poi di lì si vedrà se c’è un perimetro”. “Ho amato questo confronto, diamoci un appuntamento, chiudiamoci in una stanza per trovare qualcosa da fare insieme e per essere più efficaci come opposizione”, dice Schlein. “Siamo già in ritardo”, aggiunge Fratoianni. Forse all’orizzonte si muove qualcosa.

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Migranti, la “denuncia” di Giulio Cavalli. “Prima del mare, i migranti li abbiamo inghiottiti noi”

(fonte)

In un certo senso, il suo è un debutto. Giulio Cavalli arriva a Palermo e con “A casa loro”, monologo sulle migrazioni scritto a quattro mani con il giornalista Nello Scavo, e per la prima volta si esibisce di fronte ad una platea composta in larga parte dai protagonisti dell’opera. In arido gergo burocratico li chiamano “minori non accompagnati”, ma sono i circa duecento ragazzi migranti che negli ultimi due anni hanno seguito il percorso di Harraga2, il progetto del Ciai, in collaborazione con Cledu, Send, Cesie e Comune di Palermo, che con loro ha costruito un percorso di formazione e inserimento nel mondo del lavoro. “È una bella responsabilità – dice Cavalli poche ore prima dello spettacolo in programma stasera al Biondo –  ed anche una sorta di verifica di quello che diciamo e come lo diciamo”. Attore impegnato, drammaturgo, scrittore, giornalista, più volte minacciato dai clan e per questo in passato obbligato ad accettare la scorta, torna al teatro. “In un momento in cui tutti siamo invasi da informazioni sempre più mediate, anche solo dagli strumenti che usiamo, è il ritorno a una presenza fisica che permette a chi ascolta che può verificare anche l’onestà intellettuale di chi è sul palco”. E quello delle migrazioni è tema caro, “profondamente umano oltre che tecnico, ancor prima che politico”.

Questo spettacolo ha uno scopo, un obiettivo?

“Riportare la discussione nell’alveo dell’emergenza umanitaria e non della gestione di flussi, parlare di persone. E in questo senso il teatro può essere il mezzo più adeguato”.

“A casa loro” non è stato scritto di recente, ma rimane di straordinaria attualità

“La prima versione è stata scritta quando c’era ancora Gino Strada. Di recente, Nello Scavo e io lo abbiamo rimaneggiato e aggiornato, ma la storia rimane la stessa. È cambiata la narrazione che viene costruita sopra, ma si continua a morire e anche gli appelli, che arrivino da Papa o dall’Onu, rimangono in un circuito endogamico, per cui li legge e li ascolta chi è interessato al tema. I morti li cominciamo a notare solo quando sporcano il tappeto dei salotti, allora andiamo nei salotti”

La strage di Cutro pensi abbia modificato la percezione in Italia?

“In parte sì. Dal mio angolo di osservazione vedo persone xenofobe che sono in difficoltà. Per la prima volta mi capita di vedere persone che sentono la necessità di scrollarsi di dosso una tragedia, quindi vuol dire che la tragedia è particolarmente appuntita. Certo, dover fare dei progressi sociali sulla pelle della gente è di un cinismo devastante”

Un italiano che va all’estero è “un cervello in fuga”, chi viene qui spesso un invasore. Perché?

“Primo, perché gli italiani hanno la fortuna di arrivare in Paesi più civili. In generale, c’è chi non capisce che queste persone non possono salire su un aereo perché non hanno un passaporto che glielo permetta”.

Come si è arrivati a questo?

“Prima di essere inghiottiti dal mare, i migranti li abbiamo inghiottiti noi. Oggettivizzandoli, anzi numerizzandoli, nel senso che per noi le migrazioni sono sempre state numeri. Flussi, numeri, grafici, abbiamo tolto le facce, i nomi. Ed è successo anche  con l’aiuto di utili idioti nel mondo del giornalismo che hanno trattato questo tema come se fosse una questione di statistiche e non di persone”.

Proviamo a fare un esempio

“Basta pensare alla differenza nell’accoglienza tra gli ucraini e quelli che vengono identificati come “i negri”. Per sentirci assolti nel respingerli, dobbiamo convincerci che siano altro da noi. E quelli hanno un particolare che li renda altro da noi”.

La politica che ruolo ha avuto in questo?

“Ieri, dopo il naufragio davanti alla Libia di persone che per giorni avevano chiesto aiuto, la destra e anche pezzi del centrosinistra si sono interrogati per tutto il giorno sui metri in cui sono morte delle persone, per decidere se sia responsabilità nostra. Se ci pensi questo è espressione pura del federalismo, che poi è diventato sovranismo. E questo è il grande danno del nostro Paese, culturale e sociale: averci convinto di avere il diritto di occuparci delle cose più vicine a noi. La  frase “io penso prima ai miei figli, ai miei amici, ai miei parenti” è totalmente sdoganata. Ed è incostituzionale”.

In nome della sicurezza, sono stati approvati decreti in materia di migrazioni, mentre i magistrati lanciano l’allarme sullo smantellamento della normativa antimafia. È un paradosso?

“Quando un sistema criminale diventa sistema di potere scompare dal radar delle emergenze. E in questo Cosa Nostra, ndrangheta, camorra ci sono riuscite benissimo. Nel momento in cui loro non sono più riconosciuti come emergenza, è inevitabile che ritorni l’impunità sotto le mentite spoglie del garantismo”.

E ai migranti identificati come minaccia come si arriva?

“È la percezioni criminale avvantaggiata dall’aspetto tattile. Siccome di mafiosi non hai più la sensazione di incontrarne uno per strada, anche se magari lo hai votato, e invece i migranti li incroci per strada, è rassicurante soprattutto per quelle persone che non hanno voglia di studiare, di informarsi avere la sensazione di poter riconoscere il pericolo. La riconoscibilità del pericolo fa sentire in grado di proteggersi, tant’è che molti votano non persone in grado di affrontare gli eventuali pericoli, ma coloro che ne danno un’identificazione semplice”.

“E voi del governo, conoscete i rischi legati alle traversate?”

«Conoscete i rischi delle traversate?». È questa la domanda che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha posto ai familiari e ai superstiti della strage di Cutro. L’innegabile capacità del suo governo di trattare sempre come estranei le persone che provengono da altri Paesi e la capacità di rivittimizzare le vittime è una ferocia inaudita a cui non possiamo essere indifferenti.

Avrebbe potuto chiedere della loro disperazione che li spinge a rischiare la vita in mare, avrebbe potuto informarsi sull’indicibile violenza che accompagna le loro traversate, avrebbe potuto partecipare silenziosamente al loro dolore e invece li ha caricati su un aereo, li ha impacchettati nel suo ufficio a Roma, ha sbrigato questa fastidiosa pratica di fingersi compassionevole e infine ha delegittimato il loro diritto di cercare salvezza.

Prima il Cdm a Cutro. Ma non per onorare le bare delle vittime o per abbracciare chi ha perso tutto o chi ha visto morire i propri figli in mare, affogati, tra le onde. No, a Cutro per blindare un paesino, chiudersi in municipio e fare una conferenza stampa imbarazzante tra un messaggino e l’altro sullo smartphone. E poi, via, con gli aerei di Stato a festeggiare con Salvini al karaoke. Poi a Roma, come in un racconto surreale in cui è tutto al contrario, i familiari delle vittime. Persone che hanno visto morire figli, amici, mogli, mariti davanti ai loro occhi. Persone che sono fuggite dalla violenza talebana. Che hanno visto parenti e familiari uccisi e/o perseguitati. E che avevano un’unica strada: scappare per non morire. E che fa Giorgia Meloni? Che fa di fronte a quel dolore indicibile? Al ricordo di quelle piccole bare bianche dove neonati e bambini hanno perso la vita Chiede alle loro madri, ai loro padri sopravvissuti – sottolinea il comunicato ufficiale di Palazzo Chigi – “quanto fossero consapevoli dei rischi legati alle traversate del Mediterraneo”. Una barbarie, umana e politica. “E che ci fa vergognare non dell’Italia, ma di questo governo disumano”, ha scritto Marco Furfaro, deputato del Pd, in un post su Facebook.

“Ma davvero Meloni ha chiesto ai superstiti e ai familiari delle vittime della strage di Cutro se erano consapevoli dei rischi legati alle traversate? Davvero è arrivata a fare una domanda del genere a chi scappa da fame, guerre, persecuzioni, siccità e dai lager libici che il governo italiano finanzia Non ci sono parole per commentare, solo tanto imbarazzo e sdegno”. Ha detto il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, parlamentare dell’Alleanza Verdi Sinistra.

“Cara Giorgia Meloni, li conoscono bene i rischi i migranti. Ma se decidono di partire lo stesso è perché sono così disperati da essere pronti a tutto pur di fuggire da guerre, povertà, regimi. Bisogna salvare chi rischia la vita in mare e fermare chi lucra sulla disperazione”. Ha scritto su Twitter Mara Carfagna, presidente di Azione.

La vera domanda sarebbe da fare a Giorgia Meloni: “presidente, conosce i rischi legati alle traversate? Risponda in fretta. Così capiamo se siamo di fronte a un’abissale ignoranza o chi abbiamo davanti.

Buon venerdì.

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Cinque mesi di disastri a catena. Ma Piantedosi non molla la poltrona

Ma che altro deve accadere perché il ministro Matteo Piantedosi si faccia da parte? Che altro deve sbagliare a dire, organizzare male, interpretare peggio per meritarsi il buon retiro che in Italia spetta a qualsiasi politico che proviene dalla pubblica amministrazione e si dimostra del tutto incapace di operare su un piano politico?

Dalla Caporetto sui migranti all’assedio di Napoli. Non si capisce che altro deve succedere per spingere Piantedosi a dimettersi

L’ultimo in ordine di tempo è il saccheggio di Napoli a opera di alcuni criminali travestiti da tifosi che tutti si aspettavano e di cui tutti sapevano. Come giustamente domanda la capogruppo al Senato del M5S Barbara Floridia “durante la giornata di ieri che tipo di strategia è stata adottata da parte di chi è preposto alla sicurezza e perché è miseramente fallita regalando all’Italia e al mondo scene da far west che con tutto hanno a che fare fuorché con lo sport?”. Eppure Piantedosi almeno in questo dovrebbe essere nel suo, essendo stato Prefetto. Niente da fare.

Come dice il capogruppo dell’Alleanza Verdi e Sinistra, Peppe De Cristofaro a Napoli abbiamo assistito a “una vera e propria débâcle che sta tutta sulle spalle del titolare del Viminale”. E pensare che era proprio il suo compagno di governo Salvini a twittare furiosamente chiedendo le dimissioni dell’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano quando fu Roma a essere messa sotto scacco dai tifosi (quelli erano turchi) nel 2015: “In un Paese normale i responsabili si dimetterebbero!”.

Ma, grazie anche a Salvini, non siamo un Paese normale. Gli errori di Piantedosi sono così tanti e così in poco tempo che fanno spavento. Si parte a novembre con la genialità del decreto contro i rave party con il governo che si è appena insediato. Una priorità, quella dei rave, che il ministro Piantedosi ha sentita urgentissima per il bene della nazione. In un’intervista al Corriere Piantedosi spiegò che l’obiettivo era di “allineare” l’Italia “alla legislazione degli altri Paesi europei”.

Falso: nessuno degli altri quattro grandi Paesi europei (Francia, Regno Unito, Germania e Spagna) prevede pene così dure come quelle introdotte dal governo Meloni. Sempre a novembre il ministro Piantedosi spiegava in un’intervista che “le navi Ong devono portare i migranti nel loro Stato di bandiera”, una panzana giuridica che ha molto credito in certa destra. Altra figura barbina. Falso: in realtà, altre norme sul soccorso marittimo, come la Convenzione di Amburgo del 1979, prevedono che gli sbarchi debbano avvenire nel primo “porto sicuro” disponibile, sia dal punto di vista del rispetto dei diritti umani sia per prossimità geografica alla località di salvataggio.

Si arriva al febbraio nero per il Prefetto al Viminale. Prima c’è la strage di Cutro con Piantedosi che afferma che “nessuno aveva ravvisato un pericolo”. Però, chissà perché, sono uscite due motovedette della Guardia di Finanza poi rientrato per le impossibili condizioni del mare. Mare impossibile da navigare, altro che “nessun pericolo”. Poi ha accusato i genitori dei migranti di mettere i propri figli su una barca pur di salvargli la vita. “Io non l’avrei fatto con i miei figli” dice Piantedosi.

Gli va bene che i suoi figli sono maggiorenni perché non rischiare la vita pur di sperare in una salvezza sarebbe materia da assistenti sociali. Per mettere una pezza ha detto ai migranti di non partire che sarebbe andato a prenderli. A Salvini tremano ancora le vene e i polsi a ripensarci. Poi ha spedito i camion per spostare le bare delle vittime meritandosi le maledizioni dei familiari. Poi le bugie e le omissioni in Parlamento e quella conferenza stampa imbarazzante. Ieri la débâcle dell’ordine pubblico a Napoli che conferma il sospetto: forte con i deboli, debolissimo con i forti. Che altro deve combinare per dimettersi, Piantedosi?

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La migrazione sanitaria in Italia tra le regioni favorisce il Nord (e il privato)

Il valore della mobilità sanitaria interregionale nel 2020 è pari a 3.330,47 milioni di euro, una percentuale apparentemente contenuta (2,75%) della spesa sanitaria totale (121.191 milioni di euro), ma che assume particolare rilevanza per tre ragioni fondamentali. Innanzitutto, per l’impatto sull’equilibrio finanziario di alcune Regioni, sia in saldo positivo (es. Emilia- Romagna: +€ 300,1 milioni; Lombardia: +€ 250,9 milioni), sia in saldo negativo (es. Lazio: -€ 202,2 milioni; Campania; -€ 222,9 milioni; oltre alla Calabria); in secondo luogo, perché oltre il 50% dei ricoveri e prestazioni ambulatoriali in mobilità vengono erogate da strutture private accreditate, un ulteriore segnale di impoverimento del Ssn; infine, per l’impatto sanitario, sociale ed economico sui residenti nelle Regioni in cui la carente offerta di servizi induce a cercare risposte altrove.

Sono le conclusioni del report dell’Osservatorio Gimbe 2/2023 “La mobilità sanitaria interregionale nel 2020”. I dati sulla mobilità sanitaria riguardano 7 tipologie di prestazioni: ricoveri ordinari e day hospital (differenziati per pubblico e privato), medicina generale, specialistica ambulatoriale (differenziata per pubblico e privato), farmaceutica, cure termali, somministrazione diretta di farmaci, trasporti con ambulanza ed elisoccorso. «La Fondazione Gimbe ha elaborato un report sulla mobilità sanitaria – precisa il presidente Nino Cartabellotta – utilizzando sia i dati economici aggregati per analizzare mobilità attiva, passiva e saldi, sia i flussi trasmessi dalle Regioni al ministero della Salute con il cosiddetto Modello M, che permettono di analizzare la differente capacità di attrazione del pubblico e del privato di ogni Regione, oltre alla tipologia di prestazioni erogate in mobilità».

«Grazie alla Commissione Salute della Conferenza delle Regioni e Province autonome – spiega Cartabellotta – che, in risposta a una richiesta di accesso civico, ha fornito alla Fondazione Gimbe i dati completi relativi alla mobilità sanitaria inviati dalle Regioni al ministero della Salute, il report si è arricchito di ulteriori analisi rispetto ai precedenti». In particolare, emerge che più della metà del valore della mobilità sanitaria per ricoveri e prestazioni specialistiche è erogata da strutture private, per un valore di € 1.422,2 milioni (52,6%), rispetto ai 1.278,9 milioni (47,4%) delle strutture pubbliche. In particolare, per i ricoveri ordinari e in day hospital le strutture private hanno incassato € 1.173,1 milioni, mentre quelle pubbliche € 1.019,8 milioni. Per quanto riguarda le prestazioni di specialistica ambulatoriale in mobilità, il valore erogato dal privato è di € 249,1 milioni, mentre quello pubblico è di € 259,1 milioni.

«Il volume dell’erogazione di ricoveri e prestazioni specialistiche da parte di strutture private – spiega Cartabellotta – varia notevolmente tra le Regioni ed è un indicatore della presenza e della capacità attrattiva delle strutture private accreditate». Infatti, accanto a Regioni dove la sanità privata eroga oltre il 60% del valore totale della mobilità attiva – Molise (87,2%), Puglia (71,5%), Lombardia (69,2%) e Lazio (62,6%) – ci sono Regioni dove le strutture private erogano meno del 20% del valore totale della mobilità: Umbria (15,2%), Sardegna (14,5%), Valle d’Aosta (11,5%), Liguria (9,9%), Basilicata (8,1%) e nella Provincia autonoma di Bolzano (3,4%).

«Le nostre analisi – afferma Cartabellotta – dimostrano che i flussi economici della mobilità sanitaria scorrono prevalentemente da Sud a Nord, in particolare verso le Regioni che hanno già sottoscritto i pre-accordi con il governo per la richiesta di maggiori autonomie. E che oltre la metà delle prestazioni di ricovero e specialistica ambulatoriale finisce nelle casse delle strutture private, ulteriore segnale d’indebolimento della sanità pubblica. In ogni caso, è impossibile stimare l’impatto economico complessivo della mobilità sanitaria che include sia i costi sostenuti da pazienti e familiari per gli spostamenti, sia i costi indiretti (assenze dal lavoro di familiari, permessi retribuiti), sia quelli intangibili che conseguono alla non esigibilità di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione».

Sei Regioni con maggiori capacità di attrazione vantano crediti superiori a 150 milioni di euro: Lombardia (20,2%), Emilia-Romagna (16,5%) e Veneto (12,7%) raccolgono complessivamente quasi la metà della mobilità attiva. Un ulteriore 20,7% viene attratto da Lazio (8,4%), Piemonte (6,9%) e Toscana (5,4%). Il rimanente 29,9% della mobilità attiva si distribuisce nelle altre Regioni e Province autonome. I dati documentano la forte capacità attrattiva delle grandi Regioni del Nord a cui corrisponde quella estremamente limitata delle Regioni del Centro-Sud, con la sola eccezione del Lazio.

Tre Regioni con maggiore indice di fuga generano debiti per oltre 300 milioni di euro: in testa Lazio (13,8%), Lombardia (10,9%) e Campania (10,2%), che insieme compongono oltre un terzo della mobilità passiva. Il restante 65,1% si distribuisce nelle rimanenti 17 Regioni e Province autonome. «I dati della mobilità passiva – commenta Cartabellotta – documentano differenze più sfumate tra Nord e Sud. In particolare, se quasi tutte le Regioni del Sud hanno elevati indici di fuga, questi sono rilevanti anche in tutte le grandi Regioni del Nord con elevata mobilità attiva, per la cosiddetta mobilità di prossimità, ovvero lo spostamento tra Regioni vicine con elevata qualità dei servizi sanitari, secondo specifiche preferenze dei cittadini». In dettaglio: Lombardia (- 362,9 milioni di euro), Veneto (- 220,1 milioni), Piemonte (- 210,8 milioni) ed Emilia-Romagna (- 201,7 milioni)

Le Regioni con saldo positivo superiore a 100 milioni di euro sono tutte del Nord, mentre quelle con saldo negativo maggiore di 100 milioni di euro tutte del Centro-Sud. In particolare:

  • Saldo positivo rilevante: Emilia-Romagna (€ 300,1 milioni), Lombardia (€ 250,9 milioni) e Veneto (€ 165,9 milioni) 
  • Saldo positivo moderato: Molise (€ 34,3 milioni)
  • Saldo positivo minimo: Toscana (€ 8,8 milioni), Friuli-Venezia Giulia (€ 1,6 milioni) 
  • Saldo negativo minimo: Prov. Aut. di Bolzano (-€ 2 milioni), Piemonte (-€ 2,3 milioni), Provincia autonoma di Trento (-€ 3,8 milioni), Valle d’Aosta (-€ 10,7 milioni), Umbria (-€ 20,1 milioni)
  • Saldo negativo moderato: Marche (-€ 25,4 milioni), Liguria (-€ 51,5 milioni), Sardegna (-€ 57,6 milioni), Basilicata (-€ 62,5 milioni), Abruzzo (-€ 84,7 milioni)
  • Saldo negativo rilevante: Puglia (-€ 124,9 milioni), Sicilia (-€ 173,3 milioni), Lazio (-€ 202,2 milioni), Campania (-€ 222,9 milioni)

Infine, la valutazione dell’impatto economico complessivo della mobilità sanitaria non permette di quantificare tre elementi. Innanzitutto, i costi sostenuti da pazienti e familiari per gli spostamenti: secondo una survey condotta su circa 4.000 cittadini italiani, nel 43% dei casi chi si sposta dalla propria Regione sostiene spese comprese tra 200 e 1.000 euro e nel 21% dei casi fra 1.000 e 5.000 euro. In secondo luogo, i costi indiretti, quali assenze dal lavoro di familiari e permessi retribuiti. Infine, i costi intangibili che conseguono alla non esigibilità di un diritto fondamentale sancito dalla Costituzione.

Buon giovedì.

il report dell’Osservatorio Gimbe “La mobilità sanitaria interregionale nel 2020” è disponibile a: www.gimbe.org/mobilita2020

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