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Ecco lo staff del ministro delle gaffe Sangiuliano

Con la cultura non si mangia ma con il ministero della Cultura evidentemente sì. Il ministro Gennaro Sangiuliano ha assestato la sua squadra al dicastero di Via del Collegio Romano, tra i dovuti incarichi istituzionali e una folta schiera di consiglieri. Ne avrà bisogno, questo è certo, se in così pochi mesi è già riuscito a collezionare un’invidiabile sequela di sfondoni.

Il ministro della Cultura Sangiuliano ha assestato la sua squadra, tra i dovuti incarichi istituzionali anche una folta schiera di consiglieri

Gennaro Sangiuliano, giornalista che ha lavorato anche al Tg2, ha esordito con una gaffe piuttosto clamorosa come ministro della Cultura nel governo Meloni. Nello specifico Sangiuliano ha accusato la Rai di non aver mai dedicato un film o una serie tv ad Oriana Fallaci occupando piuttosto “del sindaco Mimmo Lucano”. Un’accusa” smentita dai fatti. Nel 2015 andò in onda sulla Rai la serie tv “L’Oriana” incentrata proprio sulla figura della giornalista e scrittrice interpretata da Vittoria Puccini: due episodi per un totale di 180 minuti per raccontare la vita proprio di Oriana Fallaci.

Poi si è buttato (male) su Dante, indicandolo come “fondatore del pensiero di destra”. Sul fronte delle cose fatte finora si registra poco, quasi niente, al di là dell’appropriazione di misure già in corso come il decantato Decreto cinema (già preparato dal suo predecessore, Dario Franceschini) o le “aperture straordinarie” che da noi sono ordinarie da tempo. In attesa di sapere chi sostituirà la sua ex portavoce Tg2 Marina Nalesso che ha rassegnato le dimissioni per “motivi personali”, la lista dei consiglieri del ministro Sangiuliano già “parla”.

Nello staff di Sangiuliano anche il giornalista Francesco Giubilei

C’è, per la modica cifra di 40mila euro all’anno, Francesco Giubilei, penna del Giornale e astro nascente della cultura destrorsa. Giubilei, tanto per avere contezza dello spessore, presiede la Fondazione Tatarella e l’associazione Nazione Futura e mentre salta da uno studio televisivo all’altro prova a scardinare “l’egemonia del marxismo culturale” (ha detto proprio così) proponendo i capisaldi della retorica destrorsa. Qualche giorno fa ha partecipato al convegno Se questo è l’uomo organizzato da Pro Vita e Famiglia e Cinabro Edizioni con Simone Pillon, e i giornalisti Marcello Foa e Francesco Borgonovo.

Il ministro della Cultura ha assoldato anche un economista, è l’ex Cdp Giorgio Carlo Brugnoni

Giubilei è consigliere del ministro per la promozione della cultura tra i giovani. Quale cultura, verrebbe da chiedersi? Trentamila mila euro all’anno li prende anche Beatrice Venezi, direttrice d’orchestra nonché figlia di Gabriele Venezi, immobiliarista, che è stato dirigente nazionale dell’organizzazione neofascista Forza Nuova negli anni 2010. Beatrice Venezi è diventata un’icona della destra più che per le capacità musicali (sia chiaro, riconosciute) per l’ostinazione con cui si vuole far chiamare “direttore” e non “direttrice” (d’orchestra appunto). Ma dei 360 mila euro all’anno spesi in consulenze dal ministero guidato da Sangiuliano ne spicca una su tutte: 130 mila euro, più di un terzo dell’intero budget, servono a pagare lo stipendio di un unico consigliere, Giorgio Carlo Brugnoni, che non ha competenze culturali ma è un economista.

Brugnoni proviene da Cassa Depositi e Prestiti dove si è occupato di gestione dei crediti fin dal 2012, all’inizio di una brillante carriera. Tra le sue pubblicazione spicca l’anno scorso “Le banche italiane tra pandemia e nuove tensioni geopolitiche: impatti, scenari e strategie” o, nel 2019, “Il nuovo bilancio delle banche. Introduzione alla lettura. Percorsi e strumenti di analisi”. Si occupa di finanza islamica (a cui ha dedicato diverse pubblicazioni) e tiene lezioni sull’analisi delle performance della banche. Tutto meritorio e importante, per carità, ma che c’entra con il ministero della Cultura

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L’8 marzo in numeri

Aumentano i casi di omicidio nel 2022 con 319 persone uccise ma il numero delle vittime donne cresce ancora di più (125) con un +12% rispetto al 2019. Anche in ambito familiare-affettivo, a una diminuzione dell’8% degli omicidi commessi, corrisponde un aumento del 10% di quelli con vittime di genere femminile. È quanto emerge dai dati sulle donne vittime di violenza elaborati dal Dipartimento della pubblica sicurezza-Direzione centrale della polizia criminale del Viminale. Nello stesso ambito, invece, risultano in diminuzione sia gli omicidi commessi dal partner o ex partner (-17%) sia il numero delle relative vittime donne che, da 68 del 2019 passano nell’anno appena trascorso a 61, con un decremento che si attesta al 10%. Per quanto riguarda il tasso degli omicidi commessi nel 2022 rapportati alla popolazione residente emerge un tasso medio pari a 0,54 vittime (di entrambi i sessi), ma con un valore più elevato per il genere maschile (0,67) rispetto a quello femminile, che si attesta a 0,41. Il trend del numero degli omicidi commessi è decrescente fino al 2020, ma con un successivo costante incremento fino al 2022, anno che, comunque, fa registrare valori uguali a quelli del 2019.

L’azione di contrasto mostra, a partire dal 2020, una flessione della percentuale dei casi scoperti, con il minimo nel 2022: il decremento nell’ultimo anno fa comunque registrare una percentuale di casi scoperti pari all’86%. Gli omicidi con vittime di genere femminile evidenziano nel 2022 un incremento. Si tratta di un trend in aumento dal 2019, anno in cui erano state riscontrate 112 vittime donne, dato che poi cresce progressivamente e nel 2022 sale a 125, nonostante il numero di eventi complessivi (319) sia uguale per i due anni in esame: da un’incidenza che nel 2019 era del 35% si giunge nel 2022 al 39%. Approfondendo l’esame per il solo 2022, emerge che le donne vittime di omicidio costituiscono il 39% del totale; di queste, il 95% erano maggiorenni e il 78% italiane. Focalizzando l’attenzione, in particolare, sull’ambito familiare-affettivo si evidenzia, invece, come, dal 2020, gli omicidi con vittime donne mostrino un costante incremento, a fronte di un trend discendente del dato complessivo. Nell’ambito familiare-affettivo si evidenzia, infatti, come nel 2022 la percentuale delle vittime donne si attesti al 74% dei casi (103 su 140). Inoltre si rileva come, tra le persone uccise dal partner o ex partner, la percentuale di donne raggiunga il 91% (61 su 67), mentre solo nel 9% dei casi le vittime sono uomini. Considerando le sole donne uccise in ambito familiare-affettivo, le stesse sono vittime di partner o ex partner nel 59% dei casi (61 su 103). Numerosi anche i casi in cui risultano uccise per mano di genitori o figli (33%, 34 su 103), mentre è residuale il caso di omicidi commessi da altro parente (8%, 8 su 103). Per quanto attiene al modus operandi, negli omicidi volontari di donne avvenuti in ambito familiare-affettivo si rivela preminente l’uso di armi improprie o armi bianche, che ricorre in 49 casi; in 23 eventi sono state utilizzate armi da fuoco. Seguono le modalità di asfissia-soffocamento-strangolamento (16 omicidi), lesioni o percosse (14 eventi) e avvelenamento in un unico caso.

Buon 8 marzo.

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Un tugurio per i superstiti: vergogna finale su Cutro

Spegnete le voci del cordoglio funebre svolto come se fosse burocrazia, provate a dimenticare le mostruose parole di Matteo Piantedosi che anche mentre prova a difendersi non riesce a nascondere la sua spaventosa natura e elogiare gli accordi con gli sgherri di Stato di Libia e Tunisia.

L’alloggio nel Cara di Crotone dove sono stati illegalmente rinchiusi i sopravvissuti di Cutro è un tugurio

Guardate solo queste foto, le immagini di materassi per terra come giaciglio in mezzo alle screpolature di muffa, un solo bagno fatiscente per tutti, uno stanzone senza riscaldamento e senza lenzuola. Questo è l’alloggio nel Cara di Crotone dove sono stati illegalmente rinchiusi i sopravvissuti della strage di Steccato di Cutro, 72 vittime di cui 28 minori.

Non sono foto rubate, le ha scattate un deputato di Alleanza Verdi Sinistra, Franco Mari, in visita ufficiale. Dopo avere perso mogli, mariti, figli, genitori e fratelli i sopravvissuti non abbastanza morenti per meritarsi un ospedale sono stati rinchiusi come bestie in un luogo che è l’esatta fotografia della banalità del male (fino all’annuncio del Viminale a figuraccia ormai fatta: saranno trasferiti in un hotel sulla costa di Crotone). Nemmeno i lutti riescono a umanizzare le persone che devono pagare la colpa di essere nati dalla parte sbagliata del mondo e di avere bussato alle porte sbagliate per cercare salvezza.

Qui non si tratta di politica, non è solo questione di colpe (che sono diverse, trasversali e che partono da lontano). Qui siamo difronte alla spaventosa banalità del male che è scivolata in mezzo all’indifferenza fino ad ammassare esseri umani che sono diventati “cose” da accumulare in attesa di una soluzione. Piangere qualcuno rinchiuso in un luogo del genere è il risultato di una logistica disumana che ha trasformato i diritti universali dell’uomo in privilegi che vengono centellinate in base alle convenienze della propaganda politica.

Le vittime pettinate e ripulite per la visita del capo di Stato vengono ributtate nel sacco dell’umido quando si spengono le telecamere e si chiudono i taccuini. Ma la notizia peggiore è un’altra: questa desolazione è la consuetudine in Italia e in Europa. Esistono carceri sgarruppate dove vengono parcheggiate persone innocenti per scontare la colpa di sperare di cavarsela. Mentre la politica lucra sui loro corpi strizzando lacrime da coccodrillo i sopravvissuti vivono un lutto in un posto in cui quelli non andrebbero nemmeno a pisciare.

Leggi anche: Piantedosi nega l’evidenza. E non dice tutto in Parlamento. Il ministro esprime cordoglio per le vittime. Ma l’avvistamento di Frontex fu sottovalutato

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Crosetto arruola il soldato Riotta

Dopo avere rimediato una magra figura con la sua lista dei “putiniani d’Italia” e dopo essere stato inserito – questo sì – nella lista dei “crosettiani d’Italia” Gianni Riotta sfida ogni proporzione del senso del ridicolo e con il bollino sulla fronte del ministro di Fratelli d’Italia verga su Repubblica – altro paradosso – un editoriale in cui spiega alla nuova segretaria del Partito democratico Elly Schlein come dovrebbe gestire il suo partito. Lo fa ovviamente alla Riotta, con il suo metodo che gli ha fatto guadagnare l’epiteto di the opposite of journalism da Glenn Greenwald, allora giornalista del The Guardian e poi fondatore del giornale The Intercept.

C’è pure il giornalista Gianni Riotta nel think thank del ministro di FdI. La missione: portare la leader Pd sul fronte bellicista

Che dice Riotta Si augura che Elly Schlein “non si rinchiuda in un cabaret di yes-men, si apra alla sinistra raziocinante, deluda chi sull’Ucraina svende il pacifismo a Putin, non lasci la difesa delle democrazie in Europa agli ex missini, tenga la posizione”. La domanda, ogni volta che Riotta dispensa consigli a qualcuno, è sempre la stessa: da cosa deriva la sua credibilità politica Qualche indizio lo abbiamo.

Di certo Riotta è molto più bravo a ottenere l’ingresso nelle liste amichevoli dei politici piuttosto che stilarle. Il “think tank” voluto dal ministro Crosetto è almeno un elemento di chiarezza nello scenario dei sostenitori della guerra. Lì dentro c’è chi, come Riotta, non voglia che si muova foglia che la Nato non voglia, ma ci sono anche analisti geopolitici che qualche progressista ha ultimamente frainteso. Il ministro Crosetto deve avere pensato che andasse premiato un giornalista che su Repubblica è riuscito nella mirabile impresa di presentare una lista di presunti “putiniani d’Italia”.

La firma del quotidiano romano annunciò con clamore che quei nomi fossero figli di uno “studio” (parolina magica per travestirsi di autorevolezza) della “Columbia university curato dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman”. Poi si scoprì che non era uno “studio” e non era nemmeno “della Columbia university”. Un errore da poco. Lì dentro Riotta ci ha infilato nomi a titolo personale: Mattei, Fassina, Boldrini, Spinelli che nel testo “americano” non esistono. Un’altra svista da poco, per un fine analista geopolitico come lui.

O forse Riotta dispensa consigli al ministro di destra e alla segretaria del partito di centrosinistra forte del fiuto con cui – da grande esperto di cose americane come si professa – alla vigilia della vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, vaticinava su Facebook: “La campagna elettorale di Trump è ufficialmente finita stanotte, al terzo dibattito con la rivale democratica Hillary Clinton. Trump era partito alla grande, senza sniffare. D’improvviso, ha distrutto le residue, esili chance di vittoria repubblicana. Vincerà Hillary, The Donald è stata una grande distrazione, colorata, petulante e vana”.

Non male, eh? O forse l’autorevolezza gli deriva dalla direzione di quel Tg1 rimasto nella memoria dei telespettatori italiani per il “bollettino della vittoria” nella gara degli ascolti sulla pelle dei morti per il terremoto de L’Aquila. O forse l’autorevolezza gli deriva dalla direzione de Il Sole 24 Ore lasciata dopo 16 mesi perdendo 100 copie al giorno in edicola (54mila in tutto) e il 30% degli abbonati.

O forse, a pensarci bene, Riotta dispensa consigli politici dall’alto della sua approfondita conoscenza della Costituzione italiana dimostrata quando in tv negava – con la sua solita adorabile modestia – che nell’articolo 1 si affermi che la sovranità appartiene al popolo. Aggiungiamo anche noi un piede alla lista di consigli sulle persone da non ascoltare per Schlein: Gianni Riotta.

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Allevare manodopera a basso costo

Allevare manodopera a basso costo è un lavoro difficile. Come tutti gli altri allevamenti bisogna essere capaci di restare sul crinale del sostentamento (solo quel che basta) e dell’affamare per rendere le bestie vigili e attive. È importate anche che escano dalla stalla il primo possibile, che fremano per uscire il prima possibile: per alimentare la voglia di uscire dal recinto basta rendere il recinto il più moderatamente ma insopportabilmente possibile invivibile.

Il governo che avrebbe dovuto abolire il Reddito di cittadinanza non lo farà. Era ovvio. Qualsiasi politico o cittadino senziente sa che non si può buttare in mezzo alla strada milioni di poveri (che in Italia aumentano ogni anno, da un po’) solo per vendicativa soddisfazione dei ricchi. Tra l’altro – mannaggia – i poveri votano come i ricchi e finché non riusciranno a risolvere questo fastidioso inghippo burocratico andrà così.

Non potendo abolire il Reddito di cittadinanza hanno deciso di intraprendere la strada più semplice: cambiargli nome. Gli elettori sono ancora abbastanza mansueti, siamo ancora nella coda lunga della luna di miele di Giorgia Meloni. Ascoltare un nome diverso nelle urlanti trasmissioni delle reti Mediaset rilascerà le endorfine della presunta verità. L’hanno chiamato Mia “Misura di inclusione attiva” e sostanzialmente è un idea banale: meno soldi a meno persone. Una soluzione banale di una classe dirigente banale.

L’obiettivo? Perfezionare l’allevamento della manodopera a basso costo. Stabilire un livello di assistenza che renda preferibile qualsiasi lavoro ai sussidi è il sogno del capitalismo da sempre. Una delle ipotesi sulla nuova misura del governo è una soglia Isee che dagli attuali 9.360 euro scende a 7.200: per fare domanda bisognerà essere più poveri. Questo dovrebbe bastare a escludere fino a un terzo della platea dei beneficiari del Rdc. Inoltre, i nuclei senza minori, over 60 o disabili e quindi occupabili, prenderanno 375 euro al mese invece di 500 e per un massimo di 12 mesi anziché 18, mentre il rinnovo non supererà i 6 e passerà fino a un anno e mezzo tra il secondo rinnovo e il terzo.

Il messaggio è chiaro: cari italiani, abbassate le vostre pretese. Non si tratta della pretesa di galleggiare al di sopra della linea della povertà (siamo un Paese in cui si è poveri anche se lavoratori), qui siamo all’accondiscendenza verso quegli imprenditori che negli ultimi anni hanno infarcito i giornali (con il sostegno di certi liberali di casa nostra, utili alla destra com’è nel loro dna) lamentando una mancanza di manodopera che veniva smascherata al primo approfondimento.

Allevare manodopera a basso costo è un lavoro difficile. Com’era ipotizzabile qualcuno è disposto a farlo.

Buon martedì.

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Il Governo mira agli scafisti. Ma non sono loro i veri padroni delle tratte

Colpa degli scafisti. Dalle parti del governo Meloni hanno trovato qualche parola messa in fila dal Papa utile per provare a salvare la faccia e ora tutti in coro ripetono: “Colpa degli scafisti!”. Non vengono nemmeno sfiorati dal dubbio che gli scafisti siano ingranaggi illegali di qualcosa che legalmente viene impedito di fare.

Lo scafista molto spesso è un clandestino che paga il biglietto. Ma far scontare tutto a loro è facile

Nella destra ancora non hanno capito che un afghano (tanto per citare una nazionalità verso cui le colpe dell’Occidente sono smisurate) può fare domanda di asilo in Italia (e in Europa) solo affidandosi a uno scafista. Molti dei loro elettori che si chiedono “ma perché non prendono un aereo con tutti quei soldi?” non hanno ancora capito che il passaporto che tengono in tasca è un privilegio riservato a questa parte del mondo.

Gli scafisti dunque sono il nemico numero uni di Giorgia Meloni

Gli scafisti dunque sono il nemico numero uni di Giorgia Meloni e compagnia cantante. Del resto sono il nemico perfetto: banalizzano un tema scaricando colpe complesse su una sola persona (come l’assassino dei giochi da tavola in famiglia), sono stranieri e quindi ottimi per il cannibalismo politico e valgono come condono per spostare la responsabilità da noi a “loro” e sentirsi assolti nonostante siamo coinvolti.

Per la tragedia di Cutro uno dei presunti scafisti è il 25enne pakistano Khalid Arlslan. Khalid, come gli altri, a pochi metri dalla riva, prima di schiantarsi con la barca che a Steccato di Cutro ha restituito 70 morti, ha telefonato a casa per chiedere alla sua famiglia di “sbloccare i soldi” sul conto dei trafficanti per il viaggio che ormai si riteneva concluso.

Uno scafista per essere uno scafista dovrebbe essere pagato, sicuramente non s’è mai visto uno scafista che paga per la traversata. Khalid l’ha ripetuto in tutti gli interrogatori ma – per ora – non gli crede nessuno. Non credono nemmeno al fratello nonostante le due versioni coincidano. Chissà se crederanno alla ricevuta dei primi 4.500 euro inviati ai trafficanti. Hanno quel messaggio Whatsapp.

Khalid Arlslan è in carcere con altri due. Perché sorge qualche dubbio? Nel 2022 sono state arrestate almeno 264 persone in seguito agli sbarchi sulle coste italiane con l’accusa di essere scafisti. Ma secondo Arci Porco Rosso e Borderline Europe, due Ong attive nella tutela delle persone migranti, gli arrestati “hanno poco o nulla a che fare con organizzazioni e gruppi violenti che le persone migranti si trovano ad affrontare durante il viaggio”.

Raccontano gli estensori del progetto “dal mare al carcere”: “abbiamo assistito a vari processi in tribunale nell’ultimo periodo, a Palermo, Agrigento e Messina. Similmente, ci scontriamo con i Centri di Permanenza e Rimpatri (Cpr), i non-luoghi di detenzione amministrativa dove, purtroppo, molti capitani si trovano a vivere un periodo di trattenimento successivo alla detenzione in carcere per il solo fatto di non avere documenti oppure perché considerati, automaticamente, in quanto ex detenuti, socialmente pericolosi.

Nel 2022 abbiamo seguito un capitano del Biafra, richiedente asilo, rimpatriato in Nigeria prima di poter essere ascoltato dal giudice e abbiamo notizia di molti capitani tunisini a cui è toccata la stessa sorte. Purtroppo a volte neanche una sentenza di assoluzione evita il Cpr: è quello che è successo ad un cittadino libico, scagionato da ogni accusa, che dopo anni di integrazione in Italia si è visto arbitrariamente trattenuto in Cpr perché ritenuto socialmente pericoloso per lo stesso reato per cui era stato assolto. Uno stigma che si traduce in una vera e propria persecuzione”.

Nell’ultimo decennio, le guardie di frontiera greche, spagnole e italiane hanno sempre più preso di mira i conducenti di barche di migranti che arrivano sulle coste dei loro paesi, alla ricerca di qualcuno da incolpare per la migrazione “illegale”. Migliaia di persone, di solito migranti stessi, sono state arrestate. Molti sono costretti sotto la minaccia delle armi.

Tra loro ci sono minori non accompagnati. Ragazzini, poco più che bambini, incarcerati e processati come gli adulti, che al loro arrivo in Italia vengono denunciati come ‘contrabbandieri’. Mentre i veri trafficanti di esseri umani restano in Libia. Colpa degli scafisti, dicono, ma sono quelli giusti?

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Meloni vada a Crotone via mare

Giorgia Meloni ricompare sulla strage di Cutro. La strategia della sommissione in questo caso non funziona. C’è da capirla, quelli si sono sommersi e sono riaffiorati cadaveri, era difficile imitarli per vigliaccheria.

Dice Giorgia Meloni di essere stata attraversata dall’idea di convocare il prossimo Consiglio dei ministri a Crotone in omaggio alle vittime

Giorgia Meloni riemerge e con gli occhi fissi guardando la telecamera ci dice: “veramente pensate che li abbiamo lasciati morire?”. La risposta è semplice: sì. Che sia un annegamento per ferocia o per ignoranza lo deciderà l’eventuale processo ma basta ascoltare la frase successiva per trarre alcune conclusioni.

Dice Meloni: “non è arrivata alle nostre autorità nessuna comunicazione di emergenza da Frontex, non siamo stati avvertiti del fatto che questa imbarcazione rischiava il naufragio”. Ripetiamolo. Alle 23.03 del 25 febbraio Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, segnala a GdF e Guardia Costiera che c’è un barcone a 38 miglia dalla costa di Crotone, che naviga in autonomia, con un uomo visibile e possibili passeggeri in stiva, privo di giubbotti di salvataggio. Il meteo prevedeva onde fino a quattro metri e mare forza 7.

Tutte le informazioni erano in possesso sia della Guardia di finanza sia della Guardia costiera. Facciamo ordine. Frontex ha comunicato che la barca avrebbe potuto essere affollata in base ai segnali termici. Come ha sottolineato Frontex “per quanto riguarda la classificazione dell’evento come ricerca e salvataggio, secondo il diritto internazionale questa è una responsabilità delle autorità nazionali”.

Dopo la comunicazione, l’Italia ha mobilitato due motovedette della Guardia di Finanza (GDF), avviando un’operazione di polizia,, non di salvataggio. La Guardia di finanza non è attrezzata per operazioni SAR (di ricerca e soccorso). Guardia di finanza e Guardia costiera non hanno mai fatto riferimento ai segnali termici che indicavano un’imbarcazione stracarica di persone senza dispositivi di salvataggio. Ecco tutto.

Ora veniamo alla questione più larga ovvero alla melma politica che Giorgia Meloni e i suoi stanno buttando sui morti. Partiamo dalle bugie. Scrive Maurizio Belpietro, fedele scherano di questo governo: “Tra il 2014 e il 2016, mentre Letta e Renzi erano a Palazzo Chigi, sono scomparse in mare 12.405 persone. Eppure nessuno ha mai parlato di «stragi di Stato», come in questi giorni”.

Al direttore de La Verità ricordiamo una dichiarazione di Giorgia Meloni il 19 aprile 2015: “Naufragio nel Canale di Sicilia: il Governo Renzi dovrebbe essere indagato per reato di strage colposa. ST”. C’è una differenza: in quel caso non ci furono segnalazioni. Andiamo avanti. Dice Cirielli, Fratelli d’Italia, che Meloni non è andata a Crotone perché “non fa passerelle e da madre dimostrerà la propria sensibilità”. Quindi Mattarella “fa passerelle”?

Il premier vuole riunire le persone che stanno alimentando il disprezzo per i migranti per rendere omaggio ai migranti

Infine. Dice Giorgia Meloni di essere stata attraversata dall’idea di convocare il prossimo Consiglio dei ministri a Crotone in omaggio alle vittime. Vuole riunire le persone che stanno alimentando il disprezzo per i migranti per rendere omaggio ai migranti. Le diamo un consiglio: vadano a Crotone via mare, con una di quelle che definiscono “gite” senza permettersi di disturbare i soccorsi e senza sperare nelle Ong bloccate da Piantedosi.

 

Leggi anche: “A Cutro è mancato il Governo”. L’appello del sindaco di Crotone a Meloni: “Venga a condividere, da mamma, il dolore di altre mamme”

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Perché quest’amnistia a Giorgia Meloni?

C’è nelle ultime settimane una pratica politica, soprattutto giornalistica, che invade il dibattito pubblico e investe Giorgia Meloni. Niente di grave rispetto a quello che stiamo vedendo e quello che stanno scontando migranti, presidi, studenti e “avversari” politici, ma si tratta comunque di qualcosa molto interessante da osservare.

La voce diffusa, quindi il pensiero sottostante, è che Giorgia Meloni sia un’abilissima politica che è incappata in una squadra di governo sfortunata, in ministri che non sono all’altezza, in dichiarazioni dei suoi compagni di avventura che rischierebbero di “rovinare” il suo impegno. Insomma, Giorgia Meloni è una grande statista che non ci meritiamo noi che ci permettiamo di criticarla e che non si meritano nemmeno i suoi alleati politici.

Il banalissimo trucco di comunicazione non arriva inatteso. Là fuori c’è un’orda di “competenti” che non vedono l’ora di potersi attaccare alla sottana del potente di turno e che sono in conflitto con sé stessi. Questo Paese pieno di gente di destra che deve fingersi progressista per non arrecare un dispiacere ai propri parenti e quindi si colloca in un’area di centro (preferibilmente chiamata – con poco senso – “liberale”) per poter essere discoli senza sembrarlo.

Nessuno che si prenda un minuto per riflettere sul fatto che Giorgia Meloni è stata partorita dalla cultura delle persone di cui è circondata. Non solo: Giorgia Meloni è circondata da ministri e sottosegretari che sono i suoi abituali compagni di viaggio che l’hanno portata fin lì. Ancora: Giorgia Meloni è la portatrice di quella cultura politica che (giustamente) fa così schifo. L’ha interpretata così bene che ne è diventata la leader. Indossa i panni moderati perché spera – sbagliandosi – di poter allungare così la sua luna di miele. Ma l’allure istituzionale si sgonfia presto, soprattutto di fronte a crisi sociali, economiche e umanitarie che inevitabilmente accadono nella storia del mondo.

Qui subentra un ulteriore dubbio. Non è che “salvare” Giorgia Meloni in realtà serva più ai presunti salvatori che ai salvati? Non è che una schiera di politici, opinionisti e cittadini ha bisogno che Meloni non fallisca per non vedersi frantumare la retorica della competenza che ha leccato fin qui? Se ci pensate il finto salvatore che si sta occupando solo di salvare sé stesso – anche quello – è perfettamente in linea con la cultura meloniana.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del video di Cinque minuti, 27 febbraio 2023

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Mafia, la vera faccia dei boss e la mente criminale che ancora sfugge

Prima che arrestassero Totò Riina la narrazione egemone lo descriveva come un genio del male che solo grazie alla sua straordinaria intelligenza riusciva a mettere sotto scacco lo Stato italiano. È la narrazione più comoda: se un criminale, qualsiasi criminale, viene dipinto come un genio immediatamente diminuiscono le responsabilità di chi dovrebbe sconfiggerlo. Ancora meglio: spuntano meno domande su chi eventualmente lo appoggi per essere così imprendibile. La narrazione di Totò Riina come “capo dei capi” venne concimata da libri, da film, da fiction (una andata in onda anche sul canale di quell’editore che strozzerebbe chi parla di mafia perché rovina l’immagine dell’Italia nel mondo). Poi hanno catturato Riina e, peggio, Riina ha cominciato a parlare.

La vera faccia di Riina: uno zotico feroce e ignorante

Totò Riina dal vivo, svestito dal suo alone di mistero, si presentò come uno zotico con tre soli comandamenti (mangiare carne, comandare carne e cavalcare carne) e con un livello intellettuale (oltre che culturale) che difficilmente avrebbe potuto inserirlo anche in una normale socialità da uomo libero. Fu feroce, certo, di quella ferocia che solo l’ignoranza (oltre alla propensione per il crimine) può fare esplodere ma in nessuna delle sue deposizioni apparì credibile la tesi che da solo avesse potuto tenere sotto il tacco la vita politica, imprenditoriale e sociale di questo Paese. Tant’è che a un certo punto circolò un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che Totò Riina è semplicemente un coglione?

Mafia, la bufala dei boss geni del male e la mente criminale che sfugge
Totò Riina all’Ucciardone nel 1993 (Getty Images).

Provenzano, la musicassetta dei Puffi e la collezione di coppole e santini

Hanno detto sì, sì, è vero. Ma la mente criminale che regge Cosa nostra non è lui, è Bernardo Provenzano. In sostanza dicevano che Riina fosse il braccio e Provenzano fosse la mente. Quando hanno arrestato Bernardo Provenzano (anche su lui si è sprecata la letteratura, ci fu perfino un film in uscita al cinema che venne rovinato dall’arresto pochi giorni prima) tutti si aspettavano di trovarlo in un bunker ipermoderno super accessoriato collegato alle Borse finanziarie del mondo. L’hanno trovato in una casupola tutta sgarrupata e smerdata di escrementi di capra insieme a un menù che sembrava quello di una casa di riposo e una collezione di coppole e santini. Nei pizzini l’eloquio di Provenzano era addirittura inferiore a quello di Riina. Tra le sue musicassette dagli atti spuntano una colonna sonora de Il Padrino e la sigla del cartone animato dei Puffi. Fu una delusione per chi aveva come aspettativa quella di trovarsi di fronte a una delle menti più sopraffine della storia d’Italia. Del resto se davvero Cosa nostra fosse semplicemente un sistema criminale e non un sistema di potere il suo amministratore delegato dovrebbe essere un mix del miglior amministratore delegato e del miglior presidente del Consiglio. No, Provenzano non era così. Tant’è che a un certo punto circolò un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che Bernardo Provenzano è semplicemente un coglione?

Mafia, la bufala dei boss geni del male e la mente criminale che sfugge
L’arresto di Bernardo Provenzano, l’11 aprile 2006 (Getty Images).

Matteo Messina Denaro, un piacione di provincia, razzista e complottista

Hanno detto sì, sì, è vero. Ma la mente criminale che regge Cosa nostra non è lui, è Matteo Messina Denaro. Solo che ogni tanto la realtà irrompe e alla fine hanno acchiappato anche lui. Nei libri e nella mitizzazione Messina Denaro era un uomo dedito alla bella vita e alle belle donne, senza macchia e senza paura. Un anziano signore che faceva selfie con gli infermieri della clinica che frequentava e ci provava (piuttosto goffo) con le donne che incontrava. Niente di instagrammabile, un anziano piacione fallito della provincia siciliana con un’inclinazione complottista sulla geopolitica. Anche lui appassionato de Il Padrino, Matteo Messina Denaro non ascoltava le canzoni dei Puffi ma teneva sul frigorifero le calamite di Masha e Orso. Politicamente è un secessionista del Sud, un leghista al contrario che invoca a sproposito il razzismo: «Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie. Trattati come se non fossimo della razza umana. Siamo diventati un’etnia da cancellare», scrive in un pizzino in cui rivendica la sua mafiosità. «Hanno costruito una grande bugia per il popolo», scriveva Matteo Messina Denaro. «Noi il male, loro il bene. Hanno affossato la nostra terra con questa bugia. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra. Si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo e un giorno sono convinto che tutto ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quel che ci ha tolto la vita». Si dice che sia il manifesto politico di Cosa nostra. Siamo al populismo al cubo: il populismo applicato alla mafia. Passerà ancora qualche settimana e poi scopriremo che spediva le foto del suo pene a donne sconosciute sui social. Tant’è che a un certo punto circolerà un dubbio tra chi si occupa di mafia e chi no, tra chi segue le vicende dell’antimafia e chi no, tra i cittadini tutti: ma non è che anche Matteo Messina Denaro è semplicemente un coglione? Anche perché se così fosse continuiamo a arrestare braccia ma continua a mancarci la mente.

Matteo Messina Denaro, le frasi contro Zelensky: «mascalzone», «megalomane» e «buffone». Gli audio del boss dichiaratamente filorusso.
L’arresto di Matteo Messina Denaro (Getty Images).

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Il peggio dei giornaloni sull’inchiesta Covid di Bergamo

Non è difficile distinguere il garantismo quello vero, quello sancito dalla nostra Costituzione come elemento fondante di una società democratica e il garantismo peloso che dalle nostre parti, fin dai tempi del primo berlusconismo, viene utilizzato come clava. La riforma Cartabia, così amata dai garantisti pelosi, ci ha messo il resto, portandoci a vivere queste ultime 24 ore in cui l’ipocrisia è impossibile da non vedere ed è impossibile trattenersi dal commentarla.

A Bergamo accade che vengano indagate persone che ricoprono o hanno ricoperto posizioni apicali: c’è un ex ministro della Salute, un ex presidente del Consiglio (e comunque leader di uno dei più importanti partiti italiani), il presidente di Regione Lombardia, un ex assessore regionale alla Sanità e persone che hanno deciso come affrontare una pandemia. Diceva la ministra Cartabia che in nome del garantismo (peloso) noi dovessimo essere informati “difendendoci” dai giornali.

Il comunicato della Procura di Bergamo rimarrà alle generazioni future come alto esempio del cortocircuito che può essere provocato da un pessimo legislatore

L’indagine della Procura di Bergamo sta in un comunicato ufficiale che rimarrà alle generazioni future come alto esempio del cortocircuito che può essere provocato da un pessimo legislatore. Una nota lunga 21 righe (per un’indagine che riguarda – comunque vada – migliaia di morti e altissimi dirigenti di governo): “Questo ufficio di Procura – scrive il magistrato – in data 20 febbraio ha concluso le indagini nei confronti di 17 persone che, a vario titolo, hanno gestito la risposta alla pandemia da Covid 19. Le indagini, condotte dalla Guardia di Finanza di Bergamo, sono state articolate, complesse e consistite nell’analisi di una rilevante mole di documenti acquisiti e/o sequestrati, sia in forma cartacea che informatica, presso il Ministero della Salute, l’Istituto Superiore di Sanità, il Dipartimento della Protezione civile, Regione Lombardia, Ats, Asst, l’ospedale Pesenti-Fenaroli di Alzano Lombardo, nonché di migliaia di mail e di chat telefoniche in uso ai soggetti interessati dall’attività investigativa, oltre che nell’audizione di centinaia di persone informate sui fatti, attività questa alla quale hanno partecipato anche in prima persona i Pm delegati”.

Andrebbe stampato questo comunicato, tenuto in tasca: non ci sono indagati, non c’è nemmeno il reato. Potrebbe essere un furto di garze compiuto da qualche squinternato. Le informazioni sull’indagine della Procura di Bergamo, su cui giustamente si sta dibattendo, sono tutte merito solo dei giornalisti, quegli “odiati” giornalisti che agli occhi dei garantisti pelosi sarebbero i millantatori che rimestano le vicende giudiziarie. Ma c’è di più.

Stanno usando quelle notizie anche (se non soprattutto) i politici che hanno salutato la riforma Cartabia come “salvezza del garantismo”. Il cosiddetto Terzo polo, solo per citare un esempio, da 36 ore sta utilizzando l’indagine per bastonare Conte, nel centrosinistra utilizzano l’indagine per bastonare Fontana, a destra utilizzano l’indagine per bastonare Speranza. Sono quelli che fino a qualche giorno fa facevano la morale sul garantismo, sono gli stessi.

Garantisti solo se fa comodo. I quotidiani di destra sull’inchiesta di Bergamo crocifiggono i 5S assolvendo il Pirellone

E i giornali? Qui la sagra dell’ipocrisia fa faville. Pensateci: se come linea editoriale un giornale ha appoggiato chi ha dipinto la stampa come la peggiore avvelenatrice di pozzi di fronte all’indagine della Procura di Bergamo avrebbe dovuto astenersi dal dare qualsiasi notizia non ufficiale e da qualsiasi giudizio.

“Gli errori, i ritardi. L’accusa dei pm: così il virus dilagò” titola il Corriere della Sera. Tutte informazioni che secondo l’ex ministra Cartabia avrebbero dovuto essere conosciute e dibattute solo in un’eventuale processo. Tre pagine dedicate agli atti di indagine da Repubblica. Atti che, ricordiamolo, per la ministra Cartabia dovrebbero essere in possesso solo delle parti. Su La Stampa ci sono gli atti del pm e c’è già la difesa dell’ex ministro Roberto Speranza.

Su Il Messaggero, recita l’occhiello in prima pagina, “le condotte dei 19 indagati”: “si sarebbero potute salvare 4 mila persone”. Stiamo sulle prime pagine. Monumentale (per ipocrisia) Il Giornale che titola: “Il pm fa a pezzi Conte”. Badate bene, sono gli stessi che piagnucolavano ogni volta che venivano riportati atti di indagine su Berlusconi. Ora titolano con le carte dell’accusa e addirittura con una sentenza già pronunciata.

Qualcuno potrebbe chiedersi dove sia finito nel loro articolo il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Eccolo appena sotto: “Fontana chiamato a testimoniare e poi indagato senza un avviso”: Fontana, ovviamente, è innocente. “Nessuna gogna ma faremo chiarezza”, dice in un’intervista il senatore di centrodestra Malan. La sua intervista compare esattamente sotto il titolo che è una gogna. Andiamo avanti.

Il Foglio, il quotidiano che arriccia il naso ogni volta che qualcuno si permette di avanzare un’osservazione di inopportunità politica che sta nelle carte giudiziarie decide di dedicare all’indagine di Bergamo (di cui, dicono loro, non si dovrebbe nemmeno parlare) un pensoso editoriale che accusa (manco a dirlo) i pm.

A proposito, ieri abbiamo assistito alla strumentalizzazione delle parole del capo della Procura che in un’intervista (su un quotidiano che era d’accordo con Cartabia quando diceva che i procuratori non dovrebbero parlare) dice di non sapere come finirà un eventuale processo. “Avete visto?”, scrive qualcuno, “quel procuratore dice delle fregnacce, non si devono intervistare i magistrati”. Se dovessimo ascoltare certi giornalisti non dovrebbero nemmeno uscire i giornali.

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