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Forza Italia sulle barricate. Lo stop al Superbonus fa insorgere i suoi elettori

Le acque agitate in Forza Italia non riguardano solo Silvio Berlusconi, pronto in ogni occasione in cui ha un microfono sotto al naso per bombardare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il suo governo. La deputata azzurra Erica Mazzetti, membro della Commissione Ambiente, territorio e lavori pubblici decide di sganciare la bomba parlando con Adnkronos. “Serve un confronto in Aula, il governo non metta la fiducia”, intima Mazzetti, esperta di tematiche legate all’edilizia. “Serve una nuova norma che introduca incentivi ragionati e studiati, non possiamo lasciar morire un settore fondamentale dell’economia”, è l’appello lanciato dalla parlamentare.

Superbonus, Erica Mazzetti (Forza Italia): “Serve un confronto in Aula, il governo non metta la fiducia. Occorre una nuova norma”

Per Mazzetti il Superbonus 110%, introdotto dal governo Conte II, è stato “un provvedimento eccellente, perché arrivato dopo 10 anni di crisi del settore edilizio, ma allo stesso tempo scellerato nei tempi e nei modi. E oggi ne paghiamo tutti le conseguenze”. “La decisione dell’esecutivo di approvare la norma che blocca la cessione dei finanziamenti alle banche “è stata un fulmine a ciel sereno per molti, il settore dei costruttori è andato nel panico”, racconta Mazzetti. Esattamente con l’opposizione ripete da giorni.

”Come Forza Italia ci siamo immediatamente riuniti assieme ai capigruppo. Abbiamo capito dal Mef che non c’era possibilità di modificare il provvedimento e abbiamo cercato nell’immediato di risolvere il problema della cessione del credito, togliendo la responsabilità solidale: questo lo abbiamo ottenuto, grazie al nostro vicepremier Tajani che ha portato in Cdm le nostre richieste”. “Passato lo shock di ieri bisogna essere razionali e ragionare su come affrontare i prossimi passaggi”, dice Mazzetti la quale invoca “un confronto parlamentare concreto e strutturale sul superbonus”. E avverte: “Questo lo possiamo fare solo se non viene messa la fiducia”.

In Parlamento arriva una mozione che impegna il governo a trovare soluzioni sullo sblocco dei crediti

Intanto in Parlamento arriva una mozione, a firma proprio di Mazzetti che impegna il governo a trovare soluzioni sullo sblocco dei crediti e ad adottare nuovi provvedimenti per il rilancio delle politiche di efficientamento energetico e sismico degli edifici. La mozione è stata calendarizzata per il prossimo 27 febbraio.

“Il centrodestra ha promesso che avrebbe messo in sicurezza gli imprenditori e i cittadini che avevano fatto investimenti importanti. Noi siamo stati coerenti”, rimarca Mazzetti, sottolineando come questo impegno faccia parte del programma elettorale di tutto il centrodestra, “non solo di Forza Italia. E gli alleati di Fdi devono ricordarlo. Sono certa – conclude che nessuno nel centrodestra voglia ammazzare il settore trainante dell’economia. Non si può dire alle imprese, dalla sera alla mattina, ‘datevi fuoco’…”.

Nel frattempo anche il capogruppo alla Camera Alessandro Cattaneo si mostra sorpreso: “Non ne sapevo nulla, proprio nulla. Speriamo di poter approfondire, di capire meglio il decreto”. Siamo insomma a una nuova crepa nella maggioranza dopo lo scontro sullo sconto delle accise sui carburanti rientrato faticosamente. In quel caso il contestatore berlusconiano, Luca Squeri, è stato messo a tacere ponendo la fiducia.

Ma a colpi di fiducia, Giorgia Meloni lo sa, si finisce per smantellare la maggioranza di governo. E dalle parti di Forza Italia sono molti a credere che Silvio Berlusconi stia solo aspettando l’occasione giusta per riprendersi il suo spazio politico e per tirare la corda per ottenere qualcosa. E forse la corda è lì, appesa, al Superbonus.

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Siamo al monocameralismo di fatto

Senza bisogno di nessuna faticosa riforma costituzionale il monocameralismo in Italia di fatto c’è già. Lo spiega in uno studio Openpolis che sottolinea come nell’attuale legislatura il “monocameralismo di fatto” sia evidente senza che nessuno lo faccia notare. “Sono ormai passati 4 mesi – scrive Openpolis – dall’inizio della XIX legislatura. Un periodo in cui le nuove Camere hanno approvato in via definitiva soltanto 10 leggi.

Dall’insediamento del Governo Meloni approvate 10 leggi. Tutte discusse in una sola Camera e blindate nell’altra

Ma c’è un altro aspetto particolarmente interessante che emerge dall’analisi di questi primi mesi. E cioè il fatto che per nessuna delle proposte di legge che hanno già concluso l’iter siano stati approvati emendamenti in entrambi i rami del parlamento. La scelta di deputati e senatori, in accordo con il governo, è stata infatti quella di discutere eventuali proposte di modifica ai testi dei disegni di legge (Ddl) in una sola Camera. Quella in cui il Ddl ha iniziato il proprio percorso”.

Complessivamente le proposte emendative approvate dall’inizio della legislatura sono 360. Alla Camera le modifiche accolte sono state 257, di cui 246 in commissione e 11 in aula. Al Senato invece gli emendamenti approvati sono stati 103, di cui 91 in commissione e 12 in aula. Non sono mai stati approvati emendamenti nelle due Camere sullo stesso argomento e il 93,6% degli emendamenti sono stati approvati in Commissione.

Secondo Openpolis “occorre ricordare a questo punto che in alcune occasioni il governo ha posto la questione di fiducia sui provvedimenti in discussione. È successo per la legge di bilancio e per il decreto aiuti quater in entrambe le camere. E per il decreto rave a Montecitorio. Questo ha di fatto precluso la discussione e relativa votazione degli emendamenti presentati in aula”.

In questi casi le proposte approvate sono quelle scaturite dal confronto in commissione. Fanno eccezione 2 emendamenti alla legge di bilancio che risultano approvati in aula. Questi però sono di origine governativa e contengono solamente alcune correzioni agli stati di previsione dei ministeri dell’economia, della cultura e dell’agricoltura. Il monocameralismo di fatto, insomma, serve per velocizzare l’iter delle leggi, nonostante i richiami della Corte Costituzionale. Così il Parlamento si ritrova svuotato delle sue prerogative, alla faccia dell’articolo 70 della Costituzione che prevede che Camera e Senato esercitino il potere legislativo “collettivamente”.

Come scrive Ilenia Massa Pinto nel suo saggio (Il “monocameralismo di fatto” e la questione della perdurante validità della Costituzione, 2022) “la marginalizzazione del Parlamento con lo spostamento del baricentro a favore del Governo nell’esercizio della funzione legislativa è comunque un dato unanimemente riconosciuto che, sebbene sia un ritornello che da sempre accompagna la storia repubblicana, negli ultimi tempi ha registrato scostamenti – quantitativi e qualitativi – dal modello costituzionale tali che il loro accumularsi sembra aver infine invertito del tutto il rapporto tra regola ed eccezione”.

In campagna elettorale i partiti di governo avevano promesso di mettere mano alla Costituzione. Subito dopo le elezioni la maggioranza però si è spaccata sulle modalità e sulle finalità di un’eventuale riforma costituzionale. Anche in quel caso giorni di polemiche e fiumi di articoli ma poi non se n’è saputo più nulla. Nessuna proposta di riforma è stata presentata, al di là di qualche vaga dichiarazione d’intenti. Devono aver pensato che nell’attesa di cambiare la Costituzione intanto si può forzare quella che c’è.

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Berlusconi martire e pure Santo

Berlusconi è stato assolto, la stampa italiana no. Il giorno dopo l’assoluzione di Silvio Berlusconi (avvenuta per un semplice cavillo tecnico) la stampa italiana passa la giornata a tessere lodi all’ex Cavaliere come nuovo santo del garantismo internazionale. L’occasione è ghiotta, all’orizzonte si intravede la possibilità di ripetere l’operazione già fatta con Giulio Andreotti: mettere in campo tutte le forze per usare un’assoluzione in tribunale all’assoluzione della storia. Ma la storia, come già accaduto per l’ex senatore a vita, non assolverà Berlusconi.

Lodi sperticate a Berlusconi dalla stampa senza vergogna. Dal Giornale a Libero al Riformista difesa spudorata del leader di FI e attacchi ai pm

Così si parte con Il Messaggero che titola a tutta pagina “Berlusconi, nuova assoluzione”, lasciando al lettore il retrogusto che la carriera di Silvio sia costellata da certificazioni della sua innocenza e non da leggi fatte su misura dai suoi governi pieni di lacchè. “Sotto il fango niente”, titola un galvanizzassimo Augusto Minzolini su Il Giornale. Nei commenti si scatenano: “La Waterloo delle toghe dopo 30 anni”, scrive Stefano Zurlo. Che poi in questi 30 anni ci siano cosucce come una condanna per mafia al braccio destro di Berlusconi, Marcello Dell’Utri, che tesseva i rapporti con Cosa Nostra per l’ex premier deve essere sfuggito alla redazione.

Marcello Pera verga un editoriale dal titolo “un danno per l’immagine per l’Italia” ed è difficile non essere d’accordo con lui, anche se per ragioni opposte. Minzolini ne approfitta per dare addosso a Ilda Boccassini parlando di “inquisizione più che di diritto” e ripete la solita litania del “Cavaliere fatto fuori dalla vita pubblica”. Minzolini sta parlando di uno dei tre leader di governo, di un ex candidato alla Presidenza della Repubblica. Non male come “sparizione”.

Ma il punto più alto dell’editoriale sono “le pressioni, per non dire le minacce” che secondo Minzolini i magistrati hanno messo in atto durante il processo. Siamo sicuri che Minzolini, posata la penna sarà corso in Procura a denunciare, vero? Sì, come no. Stavate aspettando Libero? Eccolo qua. Il quotidiano fondato da Vittorio Feltri detta la linea politica: “Berlusconi assolto” e quindi “i pm alla sbarra”. Niente, non ce la fanno a immaginare una giustizia che funzioni anche con le assoluzioni (perfino per dei tecnicismi, come in questo caso).

Alessandro Sallusti scrive in prima pagina un editoriale che aveva in canna da anni e racconta di una sera a cena con Berlusconi (probabilmente senza “ragazze eleganti” che si travestivano da avversari politici lasciando in bella mostra le grazie e. Mimando atti sessuali) in cui un presunto “esperto di diritto” chiese a Berlusconi come avrebbe potuto un povero diavolo difendersi da processi di quel tipo senza i suoi soldi in tasca.

Lasciamo perdere la salomonica risposta di Berlusconi (che ogni volta che viene descritto dai suoi scherani appare come un illuminato statista e poi basta mettergli un microfono sotto il naso per sentirlo sparare bestialità) e registriamo che anche per Sallusti domani potrebbe capitare a una qualsiasi signor Rossi, anonimo impiegato, di avere contatti con la mafia, di conoscere e incontrare un’infinità di corrotti e di corruttori, di avere a disposizioni uno stuolo di avvocati che entrano in Parlamento per difenderlo dai processi e non nei processi. Deve essere un mondo meraviglioso quello che ha in testa Sallusti. E poi attacca.

C’è tutto l’armamentario della propaganda berlusconiana: un piano inventato a tavolino da un “Sistema” (ci ha messo pure la lettere maiuscola) definito “soviet” (quindi piacerà a Berlusconi,. Immaginiamo), poi le “veline” passate ai giornali e tutto quello che ci si può aspettare. Alla fine Sallusti quasi si commuove pensando a quelle “ragazze che negli anni avevano frequentato le cene di Berlusconi” finite “nel tritacarne mediatico”. Fenomenale. Non poteva mancare Il Foglio nella schiera di giornali che dimostrano di averci capito moltissimo.

Per l’occasione si scomoda Giuliano Ferrara: “Che meraviglia l’assoluzione del Cav” – scrive Ferrara – “e viva la nostra battaglia contro una pessima inchiesta e il politicamente corretto dei mutandoni alle ballerine”. Gli anni di galera, secondo Ferrara, Berlusconi piuttosto se li meriterebbe “per dichiarazioni false e tendenziose pro Putin”. E nel suo genio editoriale Ferrara riesce a dirci che perfino Ruby nipote di Mubarak (affermazione votata dalla maggioranza in Parlamento dell’epoca, comprese le “competenti” che ora professano serietà nel cosiddetto Terzo polo) fosse solo “un’invenzione di fertile spessore solidale per evitare guai e pasticci giudiziari a una giovane persona del giro”.

In questa frase c’è tutto: se le bugie vengono raccontaste per quelli “del giro” allora sono buone azioni e valgono come una medaglia. Povero Putin, che è uscito “dal giro” de Il Foglio e di Ferrara. Pesta duro anche Il Riformista: “Assolto, assolto, assolto, assolto, assolto”, inizia così l’articolo di Tiziana Maiolo che apre la prima pagina. “Fine della persecuzione più lunga del secolo”, è il titolo che campeggia. E nell’editoriale del direttore Ruby che di fatto non sussiste, che è solo una povera ragazza incappata in un anziano presidente del Consiglio con il cuore troppo grande, diventa comunque utile per “una riforma della magistratura”.

Anche qui giù attacchi a Boccassini e Travaglio. A proposito di garantismo. Poteva mancare La Verità? No, ovviamente. Titolo a piena pagina sul “bunga bunga dei pm” e un corsivo del direttore Maurizio Belpietro che ci dice che il governo Berlusconi è caduto per le vicende avvenute sotto le lenzuola. Non ricorda Belpietro lo sfacelo economico di quel governo e lo stato pietoso dell’Italia agli occhi del mondo per questioni ben più pesanti. Ma la riabilitazione di Silvio è un lavoro sporco ma qualcuno lo deve pur fare.

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La banda dei tre: Nordio, Donzelli e Delmastro

«Le parole riferite in Aula da Donzelli non sono relative a documenti sottoposti a segretezza. La dicitura “limitata divulgazione” presente sulla scheda di sintesi esula dal segreto di Stato, si tratta di una mera prassi amministrativa ed è di per sè inidonea a connotare il documento trasmesso come atto classificato». Aveva detto così il ministro alla Giustizia Carlo Nordio riferendosi al documento del Nic (il Nucleo investigativo centrale della Polizia penitenziaria) sui colloqui tra esponenti politici e detenuti che il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro (Fratelli d’Italia) aveva passato al suo inquilino Giovanni Donzelli che ha pensato bene di usarlo come clava contro i suoi avversari politici in Parlamento.

Una vicenda che già così rende perfettamente l’idea del dilettantismo dei tre. A questo si aggiunge che quel documento che non era segreto, secondo Nordio, non può essere visionato dai parlamentari. Proprio così. Quando tre deputati dell’opposizione l’hanno chiesto hanno ottenuto solo tre pagine. «Il ministero, valutando le istanze quali espressione del potere di sindacato ispettivo, ha fornito copie degli atti nel rispetto della loro ostensibilità», aveva detto Nordio. Ma come? Sono segreti o non sono segreti?

Ieri alla farsa si è aggiunta una nuova puntata con la Procura di Roma che indaga il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro per rivelazione di segreto d’ufficio. L’indagine era stata aperta su esposto del deputato dei Verdi, Angelo Bonelli. Ma quindi cos’è questa benedetta “divulgazione limitata” a cui fa riferimento Nordio? Non sarà forse solo un parare un’enorme cretinata compiuta dai due uomini di punta di Giorgia Meloni?

Nelle scorse settimane i pm hanno già sentito alcuni soggetti come persone informate sui fatti: dall’attuale capo del Dap Giovanni Russo all’ex capo del Gruppo operativo mobile (Gom) della polizia penitenziaria, Mauro D’Amico e all’attuale direttore, Augusto Zaccariello. La questione è molto meno “liscia” di come ce la vorrebbero presentare. Rassicurante, vero?

Buon venerdì.

In apertura il ministro della Giustizia Carlo Nordio (foto ministero Giustizia), Giovanni Donzelli e Andrea Delmastro (foto Camera dei deputati)

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Destre al servizio dei signori del fossile

“Eurofollia!”, strillano da Fratelli d’Italia con il senatore Paolo Marcheschi che riesce a vergare un comunicato in cui parla di una “sinistra che impone all’Europa” auto elettriche e per non farsi mancare niente ci butta dentro anche “il vino e le cosiddette case Green”.

Il No contro lo stop ai motori inquinanti è roba da Mesozoico. Ma fa comodo a chi si arricchisce a spese dell’Ambiente

L’eurodeputato Paolo Borchi se la prende con il Pd perché la casa automobilistica Ford negli Usa annuncia il licenziamento di 3.800 dipendenti. Ma il circo è variegato. C’è il presidente della Liguria Claudio Toti che parla di “decisione Ue folle e autolesionista”, le Confindustrie varie che parlano di “scelta ideologica” e addirittura Federcarrozzieri che ci avvisa che le riparazioni costeranno fino al 30% in più perché “l’elettronica particolare che caratterizza tali vetture determina attività più lunghe e costose”.

Non poteva mancare ovviamente, il ministro alle Infrastrutture Matteo Salvini che mica per niente è concentrato sullo spandere cemento in ogni dove, sorridente al taglio del nastro, con un’idea di Paese che arriva direttamente dal Mesozoico.

Il ministro delle Imprese, Adolfo Urso, parla di “una visione ideologica e faziosa che sembra emergere dalle istituzioni europee” e chiede una tempistica più graduale. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, annuncia che “l’Italia avanzerà una sua controproposta: limitare la riduzione al 90%. Bene la lotta al cambiamento climatico ma bisogna aiutare anche l’economia reale”.

Solo che l’economia reale di cui parla questa destra italiana che si finge sorpresa per una decisione che si sapeva da tempo e che molti di loro hanno anche votato sono semplicemente i biechi interessi che questo governo ha promesso di preservare. Così accade che l’Italia spicchi tra i Paesi cosiddetti occidentali per miopia, per arretratezza e per ignorante conservatorismo.

C’era da aspettarselo, ovviamente, visto che sono gli stessi partiti che dipingono Greta Thunberg come portatrice di interessi occulti per sovvertire l’ordine mondiale. Gli interessi che si possono toccare con mano allo stato attuale sono sicuramente quelli dell’industria fossile a cui questo governo si è legato mani e piedi, pronto perfino a fare l’indecente figura del negazionista pur di non turbare il sonno di chi insegue il fatturato subito fottendosene del pianeta.

Perché in fondo la loro non è nemmeno una guerra alle auto elettriche – di cui sanno ben poco e che gli interessano ben poco – ma è semplicemente un’irrefrenabile difesa dello status quo. La mobilità elettrica, è vero, porta con sé molte incognite come il costo ambientale per produrle e distribuirle o i combustibili fossili che vengono utilizzati per alimentarle ma è uno dei punti imprescindibili per azzerare le emissioni entro il 2050, come è scritto sui documenti che tutti hanno firmato.

Le auto elettriche sono lo spauracchio di questi giorni ma prossimamente arriverà tutto il resto, che sia il consumo di suolo o che siano l’agricoltura e l’allevamento intensivo o che sia l’efficientamento energetico. E sarà ogni volta la stessa storia, questa stessa storia. Vedere il futuro come un’ideologia dà il senso della limitatezza di queste forze politiche ancorate al passato e al mantenimento cristallino del presente.

Anzi, verrebbe da dire, magari fosse un’ideologia: significherebbe che c’è finalmente una parte politica che la porta avanti, se ne appropria, la difende. E si scoprirebbe che accade ogni volta così: chi è incapace di immaginare il futuro non può fare altro che descrivere il presente come il migliore dei mondi possibili.

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Forti con i deboli e deboli con i forti: il caso Gucci

A settembre dell’anno scorso grazie al giornalista investigativo Stefano Vergine abbiamo saputo che Gucci, il famoso marchio della moda, aveva ottenuto uno sconto fiscale di 748 milioni di euro. Diceva così l’accordo, nero su bianco, tra il fisco italiano e Kering, multinazionale controllata da François-Henri Pinault e proprietaria di marchi della moda come Gucci, Yves Saint Laurent e Bottega Veneta. «Sette pagine top secret», scrive Stefano Vergine, «che hanno messo la parola fine al contenzioso fiscale iniziato nel 2017, con il colosso del fashion accusato dalle autorità italiane di aver evaso le imposte attraverso un trucco: la Lgi Sa, una società di diritto svizzero ma in realtà operante in Italia, utilizzata per incassare i profitti realizzati nel mondo grazie alle vendite di borse e cinture marchiate Gucci».

Ne parlarono in pochi. Feci un calcolo veloce, al tempo, scrivendone: «La cifra è tre volte la somma delle truffe dei “furbetti” del Reddito di cittadinanza, quei singoli casi di truffa allo Stato (l’1 per cento del totale) che negli ultimi mesi sono state quotidianamente sventolate nell’agone politico. Restando sempre nel gioco delle proporzioni si potrebbe dire che lo sconto quasi miliardario al marchio del lusso costa come 124.666 redditi di cittadinanza per un anno».

Ora c’è una novità, sempre scovata da Stefano Vergine per Il Fatto Quotidiano con Yann Philippin di Mediapart: François-Henri Pinault (amministratore delegato e azionista di maggioranza di Kering che controlla marchi come Gucci, Yves-Saint Laurent, Balenciaga, Bottega Veneta e tanti altri) era consapevole dei “trucchi” usati dal gruppo. Anzi, era perfino stupito dell’accondiscendenza sello Stato italiano: «Quando guardiamo alle statistiche italiane abbiamo la sensazione, per essere molto chiari, che Gucci sia protetta da anni. Non sappiamo come, ma abbiamo meno problemi degli altri, molti meno problemi, e non ne vediamo il motivo. Ci chiediamo: siamo protetti perché compriamo la protezione?», disse il 4 febbraio 2016 in una riunione con il vice amministratore delegato Jean-François Palus, con il direttore finanziario, Jean-Marc Duplaix e il responsabile del settore immobiliare e fiscale, Carmine Rotondaro.

Questi audio, ottenuti dal Fatto e dalla testata francese Mediapart, dimostrerebbero che il numero uno di Kering, mai indagato dalla Procura di Milano per il regime fiscale utilizzato dal gruppo, fosse consapevole almeno dal febbraio 2016 che la svizzera Lgi venisse utilizzata per pagare meno imposte. Secondo i calcoli di Mediapart, a partire dal 1999 il gigante del lusso ha infatti registrato artificialmente i suoi profitti nella società svizzera Lgi. Così facendo ha evitato di pagare 2,5 miliardi di euro di imposte, a scapito di Francia (per i marchi Yves Saint Laurent e Balenciaga) e soprattutto Italia (per Gucci e Bottega Veneta).

La notizia è di ieri. Ne avete sentito parlare? No. Funziona di più l’articolo sdegnato contro un poveraccio che incassa 500 euro al mese che quello su un marchio del made in Italy che risparmia 748 milioni di euro con il fisco. Anche pagare meno tasse da noi è diventato un lusso.

Buon giovedì.

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Le speranze del Pd lombardo parlano… Romano

La vera sorpresa nel Pd è lui: Paolo Romano è (era) assessore al Municipio 8 a Milano, ha 26 anni, una laurea in Economia e commercio e nel collegio elettorale di Milano e provincia ha sbaragliato tutti con più di 9mila preferenze.

Tutti si chiedono: ma da dove arriva ‘sto Romano?
“(Ride). Sono fiero di dire che arrivo dai Giovani Democratici, che è la giovanile del Pd in cui da 10 anni faccio politica. Ed è una comunità pazzesca che va da Trucazzano a Melegnano, conta 60 tra amministratori e amministratrici e conta più di 400 ragazzi iscritti. Questo non è il mio risultato, è il nostro risultato. Un comitato che nasce da quella rete a cui si sono aggiunte associazioni e circoli di partito. E che ora è una comunità intergenerazionale che va dai 14 anni di Beatrice ai 90 del signor Bruno di Gorgonzola”.

Dall’alto del risultato ora può giudicare queste elezioni senza remore…
“Il risultato è viziato da diversi fattori. Ci sono i 28 anni di potere ininterrotto della destra, c’è la difficoltà di far circolare le notizie. Al mercato ho incontrato persone che non sanno che la sanità è in capo alla regione e che pensano che i treni in ritardo siano colpa del sindaco. E poi il ritardo: dovevamo essere da 2 anni in giro nei territori. Per questo mi aspetto che ora si costruisca per i prossimi 5 anni con un’alleanza chiara. Se poi qualcuno deciderà di sfilarsi si prenderà le sue responsabilità. Con tutte le persone con cui ho parlato e a cui ho avuto l’occasione di raccontare le nostre proposte ho avuto riscontri positivi”.

Quindi qualcuno non l’ha fatto in tutto questo tempo…
“È evidente che per il centrosinistra il livello regionale non sia mai stato una priorità. E poi non abbiamo strutturato una presenza costante e capillare”.

Lo schema di queste elezioni regionali è uno schema ripetibile a livello nazionale, nonostante la batosta
“Questo è un dibattito che proprio non tollero. L’unica strategia politica del Pd consiste nel fare il Pd con proposte chiare e progressiste. Il resto viene dopo. Passiamo ore a parlare di 5 Stelle e Italia Viva, ma se non abbiamo un’identità chiara noi… tutto il resto viene dopo. Crediamo nel diritto al lavoro? Crediamo nella la formazione per restare in un mercato? Se sei forte sono gli altri poi ad aggiungersi e a decidere di seguirti o meno”.

Come ha fatto il centrodestra a guadagnare voti nonostante i disastri combinati nella pandemia, solo per citare un esempio?
“C’è il tema della storicità. C’è un pezzo degli elettori che si rivede nel centrodestra al di là di quello che vive. Poi c’è il sistema mediatico lombardo ad appannaggio del centrodestra. Se un giorno avessimo un giovane ricercatore sul giornalismo lo sfiderei a mappare i temi trattati nelle tivù locali durante questa campagna: scoprirebbe che si è parlato di sicurezza, zone 30 a Milano. Abbiamo parlato di temi regionali solo il 30% delle volte”.

Chi appoggia al congresso?
“È vergognoso fare un congresso nel pieno di elezioni così importanti, distraendo forze fondamentali. Personalmente sostengo Elly Schlein perché la ritengo portatrice di un reale cambiamento di cui ha bisogno questo Paese. Ma rispetto a altre occasioni mi pare che la sfida sia più matura anche all’interno del partito, senza scontri fratricidi. In campagna elettorale ho ricevuto aiuto da tutti, indistintamente”.

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In Lombardia il Centrodestra ha stravinto

Non sono bastati 28 anni. Non è bastato il disastro di Roberto Formigoni, che ancora deve restituire qualche milione di euro come ordina la sua condanna, non è bastata la condanna che fu di Domenico Zambetti, assessore alla casa che comprò i voti dalla ‘Ndrangheta, non è bastato desertificare gli ambulatori dei medici di base, non sono bastati i disservizi di Trenord che ogni giorno strazia i pendolari lombardi, non sono bastati gli anziani nelle Rsa falcidiati dal Covid e dall’illogica decisione di mischiarli con il Covid, non bastano le infinite liste d’attesa, non basta la distrazione di soldi pubblici su ospedali e su scuole privata, non bastano le agenzie regionali (da Aria a Arpa) in cui la classe dirigente viene scelta per vicinanza più che per merito. Niente di tutto questo. Attilio Fontana si conferma e addirittura rilancia.

Di fronte al vuoto dell’offerta politica della sinistra, in Lombardia gli elettori hanno preferito i responsabili di 30 anni di disastri


Cosa ci è sfuggito in Lombardia Lambiccarsi sulle alleanze è superficiale e fin troppo facile. Di fronte a un risultato del genere non sono le formule politiche a dover cambiare ma la natura stessa dell’offerta: gli elettori lombardi ritengono il centrodestra, con tutti i suoi limiti, più affidabile del centrosinistra. Perché? Trovare gli errori non è troppo difficile. Siamo di fronte a errori antichi, semplicemente evoluti per stare al passo con i tempi.

Il primo che ciclicamente il centrosinistra riesce a compiere ogni volta – ne sta parlando anche Pierfrancesco Majorino – è che il centrosinistra riesce regolarmente ad arrivare in ritardo a ogni elezione. Ogni volta. Ogni volta si ha la sensazione che si apparecchi una squadra per battere le destre all’ultimo secondo, ottenendo il devastante effetto apparire privi di qualsiasi programmazione. E cosa c’è più di più inaffidabile di un disorganizzato?

In questo giro Majorino è stato designato con soli due mesi di anticipo, dopo una discussione sulla scelta del candidato che non è mai sembrata aperta (“non c’è tempo”, dissero quando cancellarono la possibilità delle primarie di coalizione, come se il tempo sia qualcosa che capiti per caso) e che ha fatto notizia già per i veti che per le adesioni. La scelta poi ogni volta di un candidato “esterno” (pur essendo ottimi candidati, da Umberto Ambrosoli poi Giorgio Gori e ora Majorino) che all’ultimo minuto emergeva da altre esperienze e altre realtà porta con sé un altro messaggio: negli ultimi 5 anni la nostra opposizione non ha formato un leader. L’opposizione, appunto.

Il Partito democratico e il Movimento 5 Stelle (ma anche i civici e +Europa) hanno fatto un’opposizione che troppo spesso si è ridotta alla lettura ad alta voce in Consiglio regionale degli articoli di giornale sugli sprechi e sugli errori di Fontana e della sua squadra. Il primato della politica da queste parti è sostituito dal primato del giornalismo: i cronisti scoprono un inghippo, l’opposizione lo sventola e qualche volta la magistratura interviene.

Così dall’esterno appare un attacco continuo, dettato da linee editoriali più che dalle linee politiche, a cui quelli resistono. E se resistono, come è accaduto con Fontana, quelli ne escono addirittura più forti. I cittadini lombardi sanno bene che i treni regionali arrivano in ritardo, sono stracolmi e vengono cancellati senza preavviso lasciando i passeggeri a infreddolirsi su binari tristi. Non hanno bisogno di ricevere solidarietà: hanno bisogno di un treno.

I risultati di queste ultime elezioni (e i numeri degli astenuti) ci dicono che i cittadini non hanno capito come il centrosinistra pensi di risolvere il problema. “Mettendoci più soldi”, si sente dire in campagna elettorale. Ma da dove li prendono i soldi? Questo i cittadini non l’hanno capito o non hanno voluto investire tempo per capirlo. Il fatto è che – non si offenda nessuno – da vent’anni l’opposizione in Regione Lombardia appare più come la volontà di sostituire le persone che di proporre nuovi sistemi.

Lo stesso riassetto della sanità con un riequilibrio in favore del pubblico ogni volta è annacquato da candidature come quella di Pregliasco, dirigente della sanità privata punito con un imbarazzante risultato elettorale, e da continui inviti a “non demonizzare” il sistema formigoniano. Non è un caso che le campagne elettorali si giochino sempre in termini di “affidabilità” più che di reale alternativa. Ma sul piano dell’affidabilità – piaccia o no – il centrodestra è una macchina oliata al di là dei personaggi che passano.

Così a quelli basta immolare il Gallera di turno per ripulirsi e continuare allegri. Le elezioni regionali si vincono offrendo alternative meglio ancora se già testate sui territori (e infatti anche in questa tornata sono gli amministratori a ottenere risultati importanti in termini di preferenze) e non agitando santini. Ieri qualcuno sospirava dicendo “ah, se avessimo candidato Cottarelli” dimostrando di essere già pronto per il prossimo errore. Come se ne esce?

Bisogna decidere che la campagna elettorale per le prossime elezioni tra cinque anni inizi ora. A Majorino è chiesto l’improbo compito di far apparire le prossime elezioni come il naturale punto di arrivo di un percorso quinquennale in cui oltre a preoccuparsi dei parenti di Fontana ci si spende per dimostrare che gli ospedali pubblici con i soldi della sanità privata funzionerebbero allo stesso modo garantendo più controllo e maggior rispetto della Costituzione.

Il Movimento 5 Stelle potrebbe scegliere di staccare il proprio cordone ombelicale dal capo partito di turno e di costruirsi una credibilità locale che non dipenda dai testimonial nazionali. Gli altri partiti potrebbero praticare le proprie priorità, così non avrebbero bisogno di spiegarcele solo nelle settimane antecedenti alle elezioni. Fra 5 anni potrebbero dare l’affidabile sensazione di essere pronti, tanto per citare lo slogan di Giorgia Meloni.

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Lo Stato di un direttore di museo

Per avere un’idea di come vengano trattati i professionisti dei beni culturali in questo Paese (e quindi, di rimando, la cultura in questo Paese) si può fare un salto a Soriano Calabro, comune (commissariato) nel vibonese che si fregia di un Polo museale che – dicono loro – «reso ancora più importante e completo, con visibilità su scala internazionale, grazie alla realizzazione, oramai giunta alle fasi finali, del Museo del terremoto, unico nel suo genere in Italia».

«Ospitati nelle strutture cinquecentesche del convento domenicano, – si legge – i percorsi espositivi del Polo museale sono volti non solo a favorire la conoscenza e la valorizzazione dell’importante patrimonio artistico di Soriano e della sua monumentale fabbrica conventuale, ma anche a sottolineare la centralità, nel contesto culturale calabrese, dell’intera provincia di Vibo Valentia; ciò grazie alla messa in mostra di manufatti artistici e testimonianze diverse che attestano il livello qualitativo raggiunto dalle maestranze d’area vibonese ed il pieno inserimento di questo territorio, già a partire dal primo medioevo, nelle principali direttrici commerciali e culturali del passato, non solo regionali».

Insomma, è una delle tante bellezze artistiche dei nostri territori che a parole dovrebbe attrarre turismo, interesse e ricadute benefiche per i cittadini. A Soriano Calabro cercano un direttore per il Polo museale. I compiti ovviamente sono molto complessi e variano dal campo artistico a quello amministrativo, come spiega il bando pubblicato sul sito del comune: « a) concorre alla definizione del progetto culturale e istituzionale dal Museo; b) elabora i documenti programmatici e le relazioni consuntive da sottoporre all’approvazione degli organi di governo; c) provvede alla realizzazione delle iniziative programmate per la valorizzazione delle raccolte; d) coordina le attività di monitoraggio e valutazione delle attività e dei servizi, con particolare riferimento ai dati sulle presenze dei visitatori; e) organizza, regola e controlla i servizi al pubblico, nel rispetto delle direttive regionali e degli standard di qualità fissati sulla Carta dei servizi; f) dirige il personale scientifico, tecnico ed amministrativo assegnato alla struttura; g) provvede alla Selezione e alla formazione delle risorse umane al fine di una adeguata copertura di tutti i ruoli fondamentali in conformità agli standard museali; h) provvede alla gestione delle risorse finanziarie assegnate al Centro di costo; i) individua le strategie di reperimento delle risorse economiche necessarie; J) coordina le attività di informazione, di promozione e di comunicazione al pubblico; k) coordina gli interventi necessari per garantire l’adeguatezza degli ambienti, delle strutture e degli impianti; l) sovrintende alla conservazione. all’ordinamento. all’esposizione, allo studio delle collezioni, alle attività didattiche ed educative, coordinando l’operato degli addetti a tali funzioni; m) assicura la tenuta e l’aggiornamento degli inventari e della catalogazione; n) sovrintende alla gestione scientifica del Museo e alla formazione di piani di ricerca e studio; o) dà il parere per il prestito e il deposito delle opere e sovrintende alle relative procedure; p) cura i rapporti con Soprintendenze, Regione Calabria, Musei; q) regola la consultazione dei materiali artistici e autorizza l’accesso ai depositi; r) rilascia permessi per studi e riproduzioni».

Richiesta una laurea magistrale e possibilmente un dottorato. Compenso? 500 euro (lordi) al mese, come sottolinea l’associazione Mi Riconosci? che da tempo si batte contro ogni forma di sfruttamento e privatizzazione nel patrimonio culturale italiano e chiede l’attuazione dell’articolo 9 della Costituzione.

Serve aggiungere altro?

Buon mercoledì.

Nella foto il Polo museale di Soriano Calabro (dal sito)

Per approfondire il tema della cultura scippata in Italia, leggi Left 2/2023

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Majorino affossato dal suo stesso partito

A elezioni finite il candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino dice quello che prima non poteva pronunciare: “Non aver avuto un leader di partito a livello nazionale non ci ha aiutato – commenta Majorino -. Non avere avuto un leadership nazionale ci ha costretto a fare di più, anche se ho sentito il Pd lombardo sempre al mio fianco. Siamo un caso di studio a livello internazionale per aver fatto la consultazione sulla leadership interna durante elezioni così importanti come quelle della Lombardia e del Lazio. Rimane il rammarico – aggiunge – di aver presentato il candidato due mesi prima del voto”. Non basta nel Pd lombardo la soddisfazione di “essersi consolidati come secondi”.

Il candidato giallorosso in Lombardia, Pierfrancesco Majorino, contro il Pd: “Non avere un leader ha pesato”

La batosta di queste elezioni regionali è evidente sulle facce di tutti e la vittoria nella città di Milano conferma ancora una volta il milanocentrismo di una campagna elettorale che si gioca anche nelle valli e nelle province. Anche il “laboratorio politico” di cui Majorino parlava, sperando di riproporlo con forza sul piano nazionale, sembra già sfilacciato. Il segretario in bilico Enrico Letta, Andrea Orlando e altri festeggiano il fallimento “dell’Opa contro il Pd di M5S e Terzo polo” che “ha fatto male a chi l’ha tentata”.

Appunto: il centrosinistra non vince anche (e soprattutto) perché non c’è. Il Partito democratico è scisso tra le ali che tendono verso il M5S (l’una) e verso il Terzo polo (l’altra) fallendo in entrambi i casi. E mentre Majorino si dice “convinto del fatto che abbiamo aperto una fase di dialogo, che mi auguro vada avanti” il refrain che va per la maggiore è quello di “viaggiare uniti”. “Credo che gli elettori di centrosinistra meritino sempre una coalizione unita”, spiega Majorino.

Ma nel frattempo Letizia Moratti, proprio negli stessi minuti, ripete ad alta voce che “unire le forze con Majorino che si è schiacciato sul M5S sarebbe stato tradire il nostro elettorato” e annuncia di avere aperto “uno spazio politico nuovo”. Eccola l’idiosincrasia: il Pd vorrebbe tenere insieme partiti profondamente diversi per natura e per programmi. A questo si aggiunge che M5S e Terzo polo continuino legittimamente a dichiarasi inconciliabili. Anche perché il “fronte largo” che qualcuno vede come soluzione prevede la somma degli elettori come se fossero numeri da poter aggiungere in scioltezza.

La situazione è nerissima per tutti. Moratti dimostra di essere inconsistente in una Regione che millantava di avere in mano. Credere che l’ex vicepresidente che per più di mille volte era stata d’accordo con Fontana potesse essere una sua alternativa è una calunnia politica che poteva funzionare solo negli editoriali sballati di qualche giornalista senza contezza (a proposito, dove sono finiti tutti?) e nei palati dei salotti che ora sorseggiano inorriditi il tè del martedì.

Stesso discorso per il Movimento 5 Stelle che fa i conti con una sconfitta certificata anche dalle parole di Giuseppe Conte che parla di “risultato assolutamente non soddisfacente” e finalmente riconosce che la mancanza di “strutture territoriali” (in nome della politica “liquida”) non paga. Unione Popolare, che si proponeva come unico partito di “rottura” rimedia un pessimo risultato.

Bisognerebbe avere il coraggio di dirselo: la vittoria schiacciante di Attilio Fontana arriva dopo una legislatura in cui i lombardi hanno provato sulla loro pelle, nel modo più doloroso possibile, l’inefficienza regionale durante la pandemia. La domanda principale a cui rispondere è una: cosa deve accadere più di una pandemia gestita in modo dissennato per spingere i lombardi a uscire di casa a votare una rivoluzione della propria regione?

A rigor di logica basterebbe essere meno peggio di quegli altri. O forse, semplicemente, si viene visti come “uguali”. E questo dovrebbe essere il primo punto do ogni analisi di ogni sconfitta. Visti i risultati, ora i dirigenti, tutti, dovrebbero andare a casa. Non lo farà quasi nessuno. Solo il segretario regionale di Azione Niccolò Carretta l’ha fatto: “Una delle cause di disaffezione verso la politica è che nessuno si assume mai le responsabilità”, ha scritto. Difficile dargli torto.

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