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“La prossima alluvione se lo ricorderanno”

“La prossima alluvione se lo ricorderanno”. L’epigrafe per analizzare il voto in Emilia Romagna, dove il centrosinistra ha vinto le elezioni regionali, è firmata da Rita Dalla Chiesa che risponde così su X a un post del suo collega di maggioranza, il leghista Claudio Borghi, che lamentava i preparativi “per la fanfara”. 

Forse la deputata di Forza Italia non lo sa ma in poche parole è riuscita a esprimere il vulnus della destra di cui fa parte: la vendetta, sempre, ad ogni costo. Le elezioni politiche di qualsiasi rango per i partiti di governo sono l’occasione di accendere una sarabanda di umiliazione degli avversari (in caso di vittoria) oppure come in questo caso di malaugurio e disprezzo in caso di sconfitta. 

La politica per molti di loro è semplicemente uno strumento di prevaricazione, fine ultimo del raggiungimento del potere. Per questo quando il risultato non conviene ai loro desiderata non resta che tingere foschi futuri evocando ed evocare tragiche conseguenze. 

In fondo non è nient’altro che complottismo radicale, quello che lucra su ciò che potrebbe accadere per non prendersi la responsabilità di analizzare il presente con tutte le sue responsabilità. 

Rita Dalla Chiesa non è, come erroneamente molti pensano, una parvenu televisiva in gita per un quinquennio in Parlamento. Dalla Chiesa  è vicecapogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati. È quindi classe dirigente del partito che Tajani vorrebbe presentare come diverso e illuminato nella fronda di maggioranza. 

«Parlo con il cuore. Speravo che gli emiliani capissero che era il momento di cambiare», si giustifica Dalla Chiesa. E anche il cuore come metafora altro non è che sensazionalismo applicato alla politica: populismo, tecnicamente. 

Buon martedì. 

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Tra giustizia e vendetta, Delmastro supera il confine

C’è qualcosa di poeticamente nostalgico nella “gioia” di Andrea Delmastro. Non quella gioia banale dei comuni mortali – un tramonto, un abbraccio, una vittoria della nazionale. No, la gioia del nostro sottosegretario alla Giustizia è più selettiva: si accende quando può vantarsi di “non far respirare” i detenuti nelle auto della penitenziaria. Del resto, cosa c’è di più eccitante per un uomo di governo che poter togliere il fiato a qualcuno? È la versione ministeriale del bullo di quartiere, solo che invece della giacchetta firmata ha la delega alla Giustizia. E mentre nelle carceri si muore (ottanta suicidi quest’anno, ma chi li conta più?), lui si crogiola nel sua esibizione muscolare.

La verità è che Delmastro non ha confuso solo il ministero della Giustizia con quello della Vendetta di Stato. Ha proprio sbagliato secolo. Si è svegliato una mattina convinto di essere nel 1924, quando certi metodi erano non solo tollerati ma applauditi. Peccato che nel frattempo sia passata una Costituzione, qualche convenzione sui diritti umani, e persino l’abolizione della pena di morte. E mentre l’Anpi parla di “deliri da macellaio sadico” e molti chiedono le dimissioni, il nostro continua imperterrito e ben protetto. Ma forse dovremmo ringraziarlo. In un governo che cerca disperatamente di darsi una verniciata di rispettabilità, Delmastro ci ricorda chi sono davvero. Quella “gioia” nel far soffrire vale più di mille analisi politiche. È la fotografia perfetta di chi confonde la forza con la violenza, la giustizia con la vendetta, il dovere istituzionale con il sadismo da quattro soldi.

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Effetto Trump sull’Ucraina: l’Unione europea resta senza alibi

La diplomazia, si sa, è una parola che può riempire la bocca o svuotare il senso. Ora, con Donald Trump che si prepara a fare il suo ingresso trionfale alla Casa Bianca, l’Unione europea si ritrova di fronte alla più grande delle sue ipocrisie: quella di aver raccontato per anni che la guerra in Ucraina si poteva vincere. Una vittoria netta, dicono i documenti ufficiali. Una vittoria totale, suggeriva la retorica. E invece ora, senza più il paracadute statunitense, l’Europa deve scegliere tra due parole che fanno tremare Bruxelles: trattare o mollare.

Joe Biden, con il tempismo incerto che lo ha contraddistinto, lascia la scena con un “regalo d’addio” che somiglia più a un contentino: via libera ai missili a lungo raggio, giusto in tempo per Zelensky e i suoi a tentare di fermare la nuova alleanza tra Mosca e Pyongyang. Ma la mossa non cambia i termini della questione: Trump lo ha detto e lo farà. Basta armi. Basta soldi. Basta Ucraina. L’America torna a casa, e il resto del mondo si arrangi.

L’addio di Biden e l’incognita Trump: chi sosterrà l’Ucraina

Il resto del mondo, però, è l’Unione europea, che nel frattempo gioca con se stessa una partita tragicomica. C’è Olaf Scholz che telefona a Putin – primo contatto diretto in due anni – come a dire “proviamo a vedere se lo convinciamo”. Lo fa da solo, senza nemmeno avvisare Macron, gli inglesi o i polacchi, e il risultato è una linea di propaganda che si scrive da sé: la Germania, accusata di essere lenta, pavida e indecisa, decide di agire, ma senza coordinarsi. Zelensky, dal canto suo, liquida Scholz con poche parole: “Un vaso di Pandora”. Donald Tusk, premier polacco, ci mette il carico: “Putin non lo fermi con una telefonata”.

Nel frattempo, a Varsavia si riuniscono i ministri europei in un “Weimar Plus” che dovrebbe stabilire una linea comune sul futuro dell’Ucraina. Ma la verità è che nessuno vuole dirlo ad alta voce: se Trump taglierà i fondi americani, la macchina bellica ucraina resterà senza benzina. Josep Borrell, l’alto rappresentante per la politica estera Ue, è forse l’unico a osare qualche verità: senza gli Stati Uniti, l’Europa dovrà mettere mano al portafogli in modo mai visto prima. Non solo per armi, ma per la ricostruzione di un paese devastato, un progetto che secondo alcune stime costerà fino a mille miliardi di euro.

E allora, dove sono le decisioni forti? La Germania aumenta le sue spese militari, certo, ma dal ridicolo 1,15% al timido 1,3% del Pil. Si promettono missili, ma non quelli decisivi. Si parla di sanzioni, ma il gas naturale liquefatto russo continua a riempire i depositi europei. Intanto, a Kyiv, l’inverno arriva accompagnato da 120 missili e 90 droni che Putin usa per bucare il sistema energetico ucraino. Una delle peggiori offensive aeree dall’inizio della guerra. Ma Olaf Scholz vuole parlare.

Un’Europa divisa tra diplomazia e debolezza strategica

La verità, velenosa ma evidente, è che l’Europa non è pronta. Lo dice Borrell, lo dicono i numeri, lo sussurrano persino i diplomatici a microfoni spenti. Per anni, l’UE ha nascosto sotto la coperta della Nato la propria incapacità di agire in autonomia. Ora quella coperta si ritira, e l’Europa si scopre nuda, divisa e spaventata.

Ci sarà tempo per i bilanci, ma una cosa è chiara: l’Unione Europea ha una sola opzione rimasta. Non sarà più sufficiente sostenere l’Ucraina con il briciolo di coraggio necessario per non irritare Putin. Se davvero si crede a quel mantra europeo, “niente Ucraina senza Ucraina”, è ora di metterlo in pratica. E questo significa accettare il costo, la responsabilità e il rischio. Trump o non Trump.

L’invasione russa del febbraio 2022 due anni e mezzo dopo torna al punto di partenza. Le strategie di chi urlava “à la guerre comme à la guerre” si sono rivelate sbagliate. Ora si comincia da capo, C’è in più qualche milioni di sfollati, ci sono in più un milione di vittime tra morti e feriti. 

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Un grammo di propaganda di Salvini, ogni giorno

I colleghi di Pagella Politica, il sito che smonta le falsità nelle dichiarazioni dei politici, li immagino seduti di fronte al rullo delle agenzie di stampa, sorseggiando un tè caldo con già pronta la bozza del prossimo articolo su Matteo Salvini.

«Un giudice questa settimana non è stato in grado di tenere in carcere un cittadino straniero trovato con 11 chili di cocaina in macchina, a Brescia, per un errore formale di traduzione. Questo tizio è fuori [dal carcere, ndr]». Così tuona il vicepresidente del Consiglio mentre è ospite della trasmissione Agorà su Rai3.

È una storia che sta particolarmente a cuore al leader leghista. Due giorni prima, intervenendo a Otto e mezzo su La7, aveva sbandierato un articolo de Il Giornale dal titolo: “Brescia: “Non capisce l’italiano”. E il giudice libera il pusher albanese trovato con 11 chili di cocaina in macchina”. Per Salvini, la vicenda dimostrerebbe la volontà dei giudici italiani di piegare le leggi e quindi «fare politica». Secondo lui, i giudici sarebbero interessati a «andare contro il governo», liberando presunti spacciatori albanesi.

Peccato che l’articolo dica tutt’altro. Al suo interno si legge che un cittadino albanese è stato sottoposto all’interrogatorio di garanzia avvalendosi di un interprete pescato tra i detenuti, e non di un professionista come sancisce la legge. Inoltre, l’ordinanza non era stata tradotta correttamente.

Il ricorso è stato accolto, ma il presunto spacciatore non è stato scarcerato. È stata semplicemente disposta una nuova ordinanza, questa volta tradotta come previsto dalla normativa.

«Se un giudice – insiste Salvini – non riesce a tenere in carcere un tizio con 11 chili di cocaina in macchina, è colpa di Salvini o di quel giudice che non riesce a fare il suo mestiere?».

La risposta è chiara: è colpa di Salvini.

Buon lunedì.

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Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie – Lettera43

Il rapporto Freedom on the Net 2024 traccia un quadro preoccupante. E non solo nei regimi autocratici, visto che la civilissima Europa sta adottando misure restrittive con la scusa di combattere la disinformazione o garantire la sicurezza nazionale. In Italia preoccupa anche il divario digitale che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche. Senza un accesso a internet equo e sicuro, rischiamo di trasformare il web in un’altra arena di repressioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie

C’è un’immagine che il rapporto Freedom on the Net 2024 disegna con chirurgica precisione: una Rete sempre meno libera, dove la promessa dell’accesso universale e della democrazia digitale si sgretola sotto il peso della censura, della manipolazione politica e della sorveglianza di Stato. Internet è diventato il riflesso delle fratture del mondo: chiuso, oppresso e stratificato. Il dato più inquietante? Per il 14esimo anno consecutivo, la libertà online registra un declino globale. Questo significa che, per milioni di persone, il web non è più uno spazio neutrale, ma un campo di battaglia dove si gioca il controllo delle informazioni, della narrazione e, in ultima istanza, della verità.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Un internet caffè a San Francisco (Getty Images).

La censura e il controllo non riguardano solo i regimi autocratici ma anche le democrazie avanzate

La Cina, con il suo modello iper-repressivo, e il Myanmar, schiacciato sotto il regime militare, sono i due peggiori esempi di come il digitale possa diventare un’arma contro la popolazione. In Myanmar, nuove tecnologie di censura hanno tagliato l’accesso alla Vpn e a strumenti che garantivano un minimo di libertà; in Cina, le multe per chi aggira i blocchi online raggiungono cifre che trasformano la ribellione in un lusso per pochi. Ma non è solo una questione di regimi autocratici: il rapporto evidenzia come anche molte democrazie avanzate stiano adottando misure che riducono spazi di libertà con la scusa di combattere la disinformazione o garantire la sicurezza nazionale. Ci sono numeri che spaventano. Il 79 per cento degli utenti globali vive in Paesi dove esprimere un’opinione politica online può portare all’arresto. In 43 Stati, documenta Freedom House, si è arrivati al picco dell’orrore: violenze fisiche, omicidi e repressioni mirate contro chi osa parlare, anche in contesti non conflittuali. Il web non è più una piazza, ma un’arena in cui i più deboli vengono schiacciati dal peso di legislazioni repressive e dalla manipolazione sistematica delle informazioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Un server (Getty Images).

In Europa il Digital Services Act è già finito sotto accusa

Guardare all’Europa potrebbe far pensare che almeno qui la situazione sia sotto controllo, che il continente delle libertà possa rappresentare un’eccezione. Ma il rapporto racconta un’Europa meno virtuosa di quanto ci piaccia credere. È vero, non ci sono repressioni brutali come in Myanmar, ma il confine tra regolamentazione e controllo si fa ogni giorno più sottile. Il Digital Services Act (Dsa), celebrato come un passo avanti per disciplinare le piattaforme digitali, è già finito sotto accusa. La sua applicazione, pensata per garantire trasparenza e limitare la disinformazione, ha aperto spazi di ambiguità che potrebbero trasformarlo in uno strumento di censura. L’Unione europea ha avviato procedimenti contro Meta e X (ex Twitter) per non aver rispettato le regole sulla trasparenza delle campagne elettorali. Apparentemente una misura giusta, ma che solleva dubbi sull’equilibrio tra la necessità di regolare e il diritto alla libertà di espressione. Meta, ad esempio, ha denunciato l’impossibilità di rispettare le richieste senza compromettere il funzionamento delle sue piattaforme, un argomento che mette in evidenza le complessità di questa regolamentazione. In Francia, nel territorio della Nuova Caledonia, il governo ha bloccato TikTok per reprimere le proteste della comunità indigena Kanak. Una decisione che mostra il lato più inquietante delle democrazie europee: quando il dissenso si fa difficile da gestire, anche la libertà digitale diventa un bersaglio. Il rapporto documenta come misure simili siano sempre più frequenti, e trasformino l’Europa in un continente che, pur vantando un quadro normativo avanzato, non è immune da contraddizioni.

Sulla libertà della Rete si gioca la credibilità delle democrazie
Il logo di Google (Getty Images).

In Italia preoccupa il divario digitale che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche

L’Italia è uno dei Paesi europei dove la libertà online assume connotazioni ambigue. Se da un lato le normative europee garantiscono una certa protezione, dall’altro il contesto politico solleva preoccupazioni crescenti. Il governo Meloni ha mostrato una particolare attenzione al controllo dell’informazione digitale, tra tentativi di limitare il dissenso online e un uso selettivo delle leggi contro la disinformazione. Il rapporto evidenzia come il nostro rientri tra i Paesi dove il rischio di censura tecnica – come il blocco di siti web o la rimozione di contenuti critici – sia in aumento. Ma c’è un’altra faccia della medaglia, forse più drammatica: il divario digitale. In un’epoca in cui l’accesso alla Rete dovrebbe essere un diritto universale, l’Italia è spaccata in due. Nel Sud, intere aree soffrono di connessioni lente, costose e inadeguate. Qui, l’esclusione digitale non è solo una questione tecnica, ma un fattore che amplifica le disuguaglianze sociali ed economiche. Mentre si parla di innovazione, di intelligenza artificiale e di smart city, ci sono comunità che non possono nemmeno accedere a una connessione stabile per studiare, lavorare o partecipare al dibattito pubblico.

In gioco c’è la credibilità stessa delle democrazie che si dicono pronte a difendere la libertà digitale

Il rapporto Freedom on the Net 2024 chiama l’Occidente a un confronto scomodo con le proprie contraddizioni. La libertà digitale, da promessa di emancipazione, rischia di diventare un privilegio per pochi. Le democrazie, che avrebbero dovuto proteggere internet come uno spazio libero e pluralista, si trovano invischiate in dinamiche di controllo e restrizione che le avvicinano più di quanto vorrebbero ai modelli autoritari. Il futuro di internet è in bilico. La scelta non riguarda solo la tecnologia, ma la capacità di difendere i valori fondamentali su cui si basa la democrazia. L’Europa, e con essa l’Italia, possono ancora invertire la rotta, ma servono coraggio e visione. Senza un impegno concreto per garantire un accesso equo, libero e sicuro, rischiamo di trasformare la Rete in un’altra arena di disuguaglianze e repressioni. E il prezzo da pagare sarà non solo la perdita di libertà digitale, ma la credibilità stessa delle democrazie che si dicono pronte a difenderla.

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Patto Italia-Albania, la grande balla delle toghe politicizzate

L’idea che i giudici italiani stiano “bloccando” i rimpatri dei migranti in Albania è un esempio di fake news che distorce il dibattito pubblico, accusando la magistratura di ostruzionismo. Vitalba Azzollini, in un’analisi per Pagella Politica, ha smontato questo equivoco spiegando come non vi sia alcun blocco intenzionale. I giudici, semplicemente, applicano la legge, verificando che i rimpatri rispettino i principi giuridici nazionali e internazionali, a tutela dei diritti fondamentali.

Il ruolo dei giudici e il principio di non-refoulement

Il principio di “non-refoulement”, stabilito dalla Convenzione di Ginevra e ripreso nell’articolo 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Ue, vieta agli Stati di espellere chiunque verso paesi dove rischi tortura o trattamenti degradanti. Questo vincolo è fondamentale nel diritto europeo e impedisce espulsioni sommarie, come ribadito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) nel caso *Hirsi Jamaa contro Italia*. In quell’occasione, la Corte aveva sancito che l’Italia non poteva rimpatriare migranti senza valutare le loro situazioni individuali.

Azzollini chiarisce che i giudici non agiscono “contro” il governo, ma nel pieno rispetto del proprio ruolo di garanti della legalità. In base agli articoli 2 e 13 della Costituzione, che tutelano i diritti inviolabili e la libertà personale, è loro obbligo accertare che il trasferimento di persone verso l’Albania non violi tali principi. Ogni rimpatrio, infatti, deve rispettare i diritti fondamentali: non è una scelta, ma una condizione giuridica imprescindibile.

Il diritto dell’Unione europea, attraverso la Direttiva 2008/115/CE, prevede garanzie specifiche per i rimpatri, come il diritto a un ricorso effettivo e il rispetto del principio di non-respingimento. La Corte di giustizia dell’Unione Europea (Cgue), nella sentenza *Jawo* del 2020, ha stabilito che uno Stato non può espellere una persona verso un paese terzo senza verificare le condizioni di sicurezza del luogo di destinazione. Questo vuol dire che, se il governo intende rimpatriare migranti in Albania, deve assicurarsi che quel paese garantisca trattamenti conformi agli standard internazionali.

La direttiva Ue sui rimpatri e la tutela dei diritti fondamentali

L’articolo 10 della Costituzione italiana chiarisce che il diritto d’asilo e la protezione dei diritti umani devono rispettare i trattati internazionali. Questo implica che ogni rimpatrio verso paesi terzi deve essere effettuato nel rispetto delle norme europee e italiane. Se i giudici riscontrano il rischio di violazione dei diritti umani, è loro dovere bloccare i rimpatri. Non è un’opposizione ideologica, ma una garanzia essenziale.

Azzollini sottolinea che la magistratura non si oppone ai rimpatri per convinzione politica, ma svolge il ruolo di “guardiano” della legalità, verificando che ogni azione sia conforme ai trattati internazionali e alle normative UE. L’articolo 111 della Costituzione, che tutela il diritto a un processo giusto, impone che tutte le decisioni siano sottoposte a verifica giuridica.

Sostenere che i giudici “bloccano” i rimpatri è, in realtà, un modo per distrarre l’opinione pubblica dalle vere difficoltà di una politica migratoria che dovrebbe essere rispettosa della dignità umana. Invece di cercare scorciatoie, il governo dovrebbe impegnarsi a rispettare i vincoli giuridici a cui ha aderito. I giudici non “bloccano” i rimpatri per scelta, ma rispettano la legge. Non c’è nulla di ostruzionistico in questo, ma solo la difesa del rispetto delle normative. Forse conviene staccare per un po’ dalla propaganda e rimettersi a studiare. Soprattutto da parte di chi scrive leggi che si rivelano illegali ancora prima di entrare in vigore. 

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Il danno è fatto

La presidente del Consiglio è troppo presa dal compiacersi delle sue riforme, che si sbriciolano non appena lasciano il recinto della propaganda e incontrano la realtà dei numeri e delle leggi. La sua ossessione per una politica piegata alla retorica richiede uno sforzo logorante: bisogna inventare nemici quotidiani, fabbricare continuamente nuovi “poteri forti”, e arruolare giornalisti compiacenti che tengano in piedi la narrazione.  

Meloni non lo sa ancora, ma l’abbraccio a Elon Musk e al suo dante causa Donald Trump è un passo falso irreparabile sul piano internazionale. Finora la leader di Fratelli d’Italia aveva mantenuto un precario equilibrio, fingendo (male) di essere un’illuminata sovranista. Per mesi ha danzato intorno a Ursula von der Leyen, tentando di accreditarsi come un ponte tra i moderati e i sovranisti.  

E qualcuno, incredibilmente, ci ha creduto. La presidente della Commissione Europea si era illusa che Meloni potesse diventare un alleato strategico contro i venti dell’estrema destra. Alcuni editorialisti nostrani, con l’ingenuità di chi vuole a tutti i costi vedere un cambio di rotta, hanno celebrato una presunta metamorfosi: “Meloni è cambiata,” dicevano, “non è più quella dei comizi infuocati.”  

E invece eccola qui, Meloni. Quella che doveva “chiudere i confini italiani” ha spalancato il tappeto rosso al presidente e al miliardario che dagli Stati Uniti lavorano per disgregare l’Europa, fiaccare la democrazia e costruire una corte di estremisti irrazionali. Con questa mossa, Meloni ha perso l’aura costruita faticosamente. Ha scelto di stare con chi vuole indebolire l’Europa, e la maschera è caduta.

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Salvini sale in cattedra ma si ferma solo ai titoli

Matteo Salvini ha girato i talk show brandendo come prova delle sue ragioni un articolo che lo smentisce. Il leader della Lega si è lanciato in un’appassionata difesa dei dazi promessi da Trump, e per dimostrare che non farebbero male all’export italiano ha pensato bene di citare un pezzo di Pagella Politica. Peccato che quell’articolo non confermi affatto la sua versione. È come se Salvini avesse letto solo il titolo “L’export italiano negli Usa è aumentato sotto la presidenza Trump” e si fosse fermato lì, convinto di aver trovato il Santo Graal delle sue argomentazioni. Ma l’articolo in questione non solo non sostiene che i dazi di Trump abbiano fatto bene all’economia italiana ma mette in guardia dal trarre conclusioni affrettate.

I dati mostrano che se l’export italiano è cresciuto sotto Trump, lo ha fatto a un ritmo più lento rispetto al periodo precedente. E soprattutto, come sottolinea Pagella Politica, una correlazione non significa causazione. È un po’ come citare un articolo medico che dice “fumare fa male” per dimostrare che il tabacco fa bene, limitandosi a leggere solo la parte in cui si dice che alcuni fumatori vivono a lungo. Una lettura che fa acqua da tutte le parti quando si va oltre il titolo.

E mentre Salvini continua la sua tournée televisiva, Pagella Politica si trova nella surreale situazione di dover spiegare al leader della Lega cosa c’è scritto nel loro stesso articolo. Nel frattempo, attendiamo la prossima puntata della saga “Salvini spiega l’economia”. Magari la prossima volta ci spiegherà come il cambiamento climatico non esiste citando un rapporto dell’Ipcc. D’altronde, quando si leggono solo i titoli, le possibilità sono infinite.

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Trump e Milei, l’abbraccio che scuote l’Europa e rafforza il populismo globale

C’è una scena, nella politica globale, che riassume il ritorno di Donald Trump: Mar-a-Lago, un gala sontuoso, e Javier Milei, presidente argentino, accolto come il primo leader straniero dal presidente eletto americano. “In Argentina hai fatto un lavoro incredibile”, ha detto Trump a Milei, riecheggiando quel mantra del “make great” applicato a ogni cosa. Non è solo un endorsement: è una visione del mondo che Trump e Milei condividono, un’idea di leadership che glorifica l’autoritarismo mediatico e la riduzione dei ponti internazionali a passerelle personali. Milei, con il suo cocktail di privatizzazioni radicali e tagli al welfare, sembra la proiezione latinoamericana di quello che Trump immagina per la politica globale. E l’abbraccio simbolico tra i due leader è un messaggio chiaro: l’America Latina si allinea al trumpismo, mentre l’Europa guarda con sospetto.

Trump-Milei, un asse populista che sfida le regole globali

Il presidente eletto degli Stati Uniti non ha perso tempo nel tracciare le linee del suo secondo mandato. Sul fronte commerciale, ha evocato l’introduzione di dazi fino al 25% contro chiunque ostacoli la sua visione di “America First”. Il summit APEC in corso a Lima ne è già stato un banco di prova. Mentre Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale di Joe Biden, cercava di rassicurare gli alleati sulla continuità del dialogo transatlantico, l’ombra di Trump ha offuscato i negoziati. In Europa, il protezionismo americano viene percepito come una minaccia diretta alle economie chiave, con il rischio di colpire settori come l’automotive e la tecnologia verde. Non sorprende che il silenzio di Bruxelles stia diventando sempre più assordante, mentre si accumulano i segnali di tensione.

In Italia, invece, Matteo Salvini ha già trovato il modo di cavalcare l’onda trumpiana. “L’amministrazione Trump porterà buoni frutti anche da noi”, ha dichiarato trionfalmente, dipingendo il ritorno del tycoon come un’opportunità per rafforzare i legami con gli Stati Uniti. È una strategia politica chiara, che punta a capitalizzare su un’eventuale frattura tra Bruxelles e Washington. Ma il pragmatismo salviniano è lontano dall’essere condiviso su scala europea.

L’Europa tra silenzio e divisioni

Il ritorno di Trump non è solo una questione di dazi e negoziati commerciali. È anche una sfida ai valori democratici e alle istituzioni internazionali. L’inserimento di Elon Musk come capo di un nuovo Dipartimento per l’Efficienza Governativa ne è un esempio emblematico. Musk, noto per la sua visione visionaria quanto controversa, è stato incaricato di “snellire la burocrazia” e tagliare le spese inutili. “Lavorerà gratis”, ha ironizzato Trump, ma il vero prezzo potrebbe essere pagato dalla democrazia stessa. Con un governo che sembra sempre più un esperimento mediatico, il rischio è che gli interessi privati prendano il sopravvento sulle politiche pubbliche.

E poi c’è Milei, il volto nuovo del populismo sudamericano, che Trump ha abbracciato come un alleato perfetto. Privatizzazioni aggressive, welfare ridotto all’osso e una retorica che esalta il leader al di sopra delle istituzioni: è un programma che non solo trova eco nel trumpismo, ma lo amplifica. La collaborazione tra i due potrebbe ridisegnare le dinamiche geopolitiche dell’emisfero occidentale, lasciando l’Europa a guardare da spettatrice impotente. I segnali sono già chiari. Durante il gala a Mar-a-Lago, Milei ha definito i membri della squadra di Trump “veri giganti”, sottolineando una comunanza di visione che non promette nulla di buono per il resto del mondo.

Il monito arriva forte e chiaro. Il ritorno di Trump non è solo una questione americana. È un terremoto che scuote le fondamenta della politica globale, con un’Europa che rischia di essere schiacciata tra il protezionismo americano e l’ascesa di nuovi attori sulla scena internazionale.

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Scuola in piazza, il grido degli studenti: “Diritto allo studio, non al sacrificio”

Oggi, 15 novembre, migliaia di ragazzi hanno sfilato nelle strade per protestare contro il governo Meloni e le politiche che, a loro dire, stanno svuotando la scuola pubblica di ogni sostanza. Diritto allo studio, fine della subordinazione al lavoro, investimenti reali nell’istruzione pubblica: questi i punti chiave di una mobilitazione che ha coinvolto liceali, universitari e associazioni studentesche. Il tutto sotto lo slogan “Vogliamo potere”, che sintetizza un’istanza di protagonismo giovanile contro un sistema che sembra ignorare le loro richieste.

Un grido contro la scuola-merce: il corteo degli studenti di Roma

Il corteo a Roma, partito da Piramide, ha sfilato fino al Ministero dell’Istruzione, tra striscioni provocatori e simboli emblematici. Su un carrello della spesa, gli studenti hanno sistemato un asino di cartone con un cartello indirizzato alla ministra Bernini, un gesto che non lascia spazio a interpretazioni: una scuola trattata come una merce al ribasso. “Non vogliamo più essere studenti di serie A e di serie B”, hanno gridato al megafono, mentre altri esponevano cartelli contro l’alternanza scuola-lavoro, definita “una trappola per giovani vite”.

Il clima si è acceso anche a Torino e Bologna, dove le proteste hanno assunto toni forti. A Torino, un fantoccio con il volto del ministro Valditara è stato bruciato, suscitando polemiche e accuse di violenza ideologica. A Bologna, manifestanti hanno imbrattato di vernice rossa manifesti con i volti della premier Meloni e dei ministri Bernini e Valditara, accusandoli di avere “le mani sporche di sangue” per le politiche che penalizzano l’istruzione e favoriscono, secondo loro, l’industria bellica.

Le ragioni della protesta non sono solo economiche. Gli studenti denunciano un sistema educativo che, invece di formare menti critiche, “prepara al sacrificio per un mercato del lavoro che sfrutta e reprime”. Richiedono una scuola pubblica gratuita e accessibile, una didattica slegata dagli interessi privati e un investimento concreto nel benessere psicologico. “Non vogliamo più essere ignorati nelle decisioni che riguardano le nostre vite e il nostro futuro”, ha dichiarato Tommaso Martelli, coordinatore dell’Unione degli Studenti.

La politica divisa tra accuse e solidarietà

Dalla Lega, Andrea Crippa ha bollato la manifestazione come “un ennesimo flop”, accusando i partecipanti di “violenza e intimidazione”. Secondo Crippa, la maggioranza dei giovani italiani “crede nel confronto rispettoso” e non si riconosce in queste proteste. Un’analisi che fa eco al vittimismo ormai strutturale della destra italiana: ogni critica diventa un attacco personale, ogni contestazione una strumentalizzazione. Di tutt’altro avviso Pd e Movimento 5 Stelle, che hanno espresso solidarietà agli studenti e criticato il governo per il disinvestimento nell’istruzione pubblica, accusandolo di alimentare diseguaglianze e divisioni sociali.

Momenti di tensione durante le manifestazioni degli studenti

Non sono mancati momenti di tensione, come il lancio di vernice rossa a Roma o gli slogan contro Israele a Bologna, che hanno attirato l’attenzione dei media. Ma ridurre una giornata di protesta a questi episodi sarebbe miope. Ciò che emerge è una generazione che rifiuta di essere relegata ai margini, che lotta per un’istruzione degna di questo nome e che rivendica il diritto di esprimersi, anche contro un governo che non li ascolta.

Dietro gli striscioni, le voci e le accuse, c’è un grido d’allarme: la scuola pubblica è sotto attacco. E se la politica non si assume la responsabilità di rispondere, le piazze continueranno a farsi sentire. Perché, come ha scritto qualcuno su un muro durante il corteo, “Il futuro non si taglia”. Ma il dibattito, c’è da scommetterci, ora si concentrerà sulle presunte “violenze” degli studenti. Anche loro ormai sono nel mazzo dei nemici.

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