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Abbiamo scherzato

Lui aveva giurato di essere sicuro della sua innocenza. L’avevano giurato, mettendo la mano sul fuoco, anche molti dei politici della maggioranza e molte autorevoli firme di giornali di destra (e del cosiddetto Terzo polo). Il ritornello era sempre lo stesso: “giustizia a orologeria”, “accuse infondate” e tutta la letteratura dei garantisti de noantri, sempre pronti a difendere la categoria.

Invece Giovanni Toti, ex presidente della Regione Liguria, si è accordato, attraverso il suo avvocato Stefano Savi, con la Procura di Genova per patteggiare (che tecnicamente non è un’ammissione di colpa) una pena di due anni e un mese, da scontare tramite 1.500 ore di lavori di pubblica utilità che andranno definiti prossimamente, e la confisca di 84.100 euro.

Ora toccherà al gup valutare la congruità della pena patteggiata ma è evidente che il professato innocente ci abbia ripensato spiazzando persino i suoi supporter. L’ex presidente della Liguria si dice “amareggiato” per “non avere perseguito fino in fondo” le sue “ragioni di innocenza” ma un innocente che cerca il patteggiamento è una favola troppo grossa anche per questo fantascientifico centrodestra.

Oggi sui giornali non leggerete nessun mea culpa. La responsabilità ricade sempre sulla magistratura sporca e cattiva che ha costretto il povero politico “a scendere a patti”. Emerge comunque una considerazione: in questo Paese di questi tempi vanno in carcere i ragazzotti di Caivano, vanno in carcere i sospettati ingiustamente di terrorismo e i poveri cristi. Gli altri non ci finiscono quasi mai.

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Pensioni nel mirino, giovani abbandonati

Il governo dei “patrioti” colpisce ancora. E come sempre, a pagare il conto sono i soliti noti: i pensionati. Mentre gli evasori fiscali continuano indisturbati a svuotare le casse dello Stato, l’esecutivo potrebbe decidere di mettere nuovamente le mani nelle tasche di chi ha lavorato una vita intera.

La manovra che si profila all’orizzonte avrebbe del grottesco, se non fosse tragicamente reale. Dopo aver già alleggerito le pensioni di 10 miliardi quest’anno, il governo starebbe pensando di replicare il meccanismo anche per il 2025, sottraendo un altro miliardo ai nostri anziani. 

Ma facciamo due conti, tanto per capirci. Una pensione netta di 1.732 euro al mese potrebbe subire un taglio complessivo di 968 euro. Per chi ne prende 2.029, la perdita salirebbe a 3.571 euro. E per i “fortunati” che arrivano a 2.646 euro netti? Ebbene, potrebbero dire addio a ben 4.534 euro. 

Insomma, mentre i grandi evasori brindano e i capitali continuano a fuggire all’estero, il governo pensa bene di raschiare il fondo del barile colpendo chi ha già dato. E non una, ma due, tre volte. Perché questi tagli, proiettati sull’aspettativa di vita media, potrebbero tradursi in perdite da capogiro: dai quasi 9.000 euro per i pensionati meno abbienti, fino a oltre 44.000 euro per quelli più “ricchi”.

Ma tranquilli, ci rassicurano dal governo: è tutta una questione di “solidarietà tra generazioni”. Peccato che di investimenti per i giovani non si veda nemmeno l’ombra. L’unica cosa certa è che si continuerà a penalizzare chi ha già dato, mentre chi evade e si arricchisce alle spalle della collettività può dormire sonni tranquilli.

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La forma, la sostanza e Mussolini

In un’intervista a Lorenzo De Cicco di Repubblica la nipote di Benito Mussolini, Rachele, annuncia di lasciare Fratelli d’Italia perché si ritiene più «moderata» del partito di Giorgia Meloni: «non sono così a destra», spiega.

Tra i motivi della distanza ci sarebbe lo ius scholae che Mussolini ritiene «naturale» per chi ha completato «un ciclo di studi di 10 anni», per «un ragazzo che magari è nato in Italia e parla il dialetto romano meglio di me!»  Spiega Mussolini che sarebbe «un modo per sedare i problemi di integrazione, che altrimenti si acuiscono. Ed è anche un arricchimento se le culture s’incontrano, nel rispetto delle tradizioni». 

Rachele Mussolini sottolinea anche l’ipocrisia a destra sulla cosiddetta famiglia tradizionale: «se due persone si vogliono bene, devono avere diritti». La consigliera comunale a Roma ha raccontato anche di avere ricevuto il “benvenuta” dalla più nota sorella Alessandra, anche lei traslocata in Forza Italia per divergenze con Giorgia Meloni per le sue posizioni considerate troppo estreme. 

Rachele Mussolini fino a poco tempo fa scaldava i cuori degli elettori meloniani esponendo cartelli contro l’anniversario della Liberazione nazifascista (celebre il suo “il 25 aprile festeggio solo San Marco”) e puntando sulla nostalgia nera. 

È significativo però che Meloni non abbia candidato alle elezioni europee Rachele Mussolini – così dicono – per il suo cognome che avrebbe appannato la sua percezione di “moderata” a Bruxelles. Sempre a proposito della forma e della sostanza. 

Buon venerdì. 

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In gol con la trasparenza, l’esempio del Porto

Una delle più prestigiose squadre del Portogallo e del calcio europeo ha deciso di intraprendere una strada destabilizzante per tutti gli altri: mettere online tutti i suoi dati economici a partire dai compensi dei suoi dirigenti, le commissioni agli agenti dei calciatori, i dettagli dell’accordo che il club ha preso con i gruppi ultras e le transazioni di ogni singolo pagamento. È il culto della trasparenza – diventato un feticcio in politica e nell’imprenditoria – che viene praticato senza remore in una società calcistica che sull’opacità finanziaria aveva costruito per anni il suo successo.

Autore della rivoluzione è il nuovo presidente André Villas Boas, ex allenatore vincente della squadra. Il suo predecessore Jorge Nuno Lima Pinto Da Costa è stato uno dei presidenti più vincenti nella storia del calcio ed è stato un antesignano della finanziarizzazione delle società calcistiche legandosi a discutibili fondi d’investimento e ad aziende che pur non avendo nulla a che vedere con il calcio hanno acquisito in tutto o in parte i diritti economici di sportivi professionisti al fine di ricavare profitto da eventuali trasferimenti futuri.

Con la promessa della trasparenza Villas Boas ha vinto le elezioni presidenziali del club con l’80% dei voti, seppellendo il suo predecessore che si era presentato alla sfida. Immaginate cosa potrebbe accadere se il buon esempio dei portoghesi arrivasse qui in Italia dove il calcio è diventato uno dei simboli del degrado economico e etico del Paese. Immaginate cosa accadrebbe se alle società calcistiche, di rilevante peso nella discussione pubblica, venisse chiesto di sottomettersi alla verifica come accade in altri campi. Sarebbe uno splendido autogol.

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Brutto segnale dalla Germania: Scholz resuscita il Muro e seppellisce l’Europa

C’era una volta un’Unione Europea che sognava di abbattere frontiere. Poi è arrivata la paura, quella cieca e irrazionale, e quel sogno si è trasformato in un incubo fatto di filo spinato e muri. L’incubo continua. Il cancelliere tedesco Olaf Scholz, in preda al panico elettorale, ha deciso di gettare alle ortiche decenni di conquiste europee per inseguire i fantasmi dell’estrema destra. Dal 16 settembre, la Germania reintrodurrà i controlli alle frontiere con tutti i nove paesi confinanti. Un gesto tanto simbolico quanto inutile, che fa felice solo Viktor Orbàn e i suoi sodali nazionalisti.

La Germania e il domino delle frontiere: l’effetto Scholz sull’Europa

Come ci ricordano David Carretta e Christian Spillmann nel loro Mattinale Europeo, è bastato il successo di Alternativa per la Germania in un paio di elezioni regionali per far crollare il castello di carte dell’integrazione europea. Scholz, terrorizzato dallo spettro di AfD, ha deciso di giocare la carta più facile e demagogica: fingere di poter sigillare ermeticamente i confini nazionali. La verità è che “nell’Ue è impossibile sigillare le frontiere, a meno di non sacrificare il mercato unico”. Scholz lo sa benissimo, ma preferisce rassicurare l’elettorato con l’illusione di una Germania-fortezza inespugnabile.

Il risultato è un effetto domino che rischia di far crollare uno dei pilastri dell’Unione: l’area Schengen. L’Olanda, sotto la spinta dell’ultradestra di Geert Wilders, si prepara a seguire l’esempio tedesco. La Polonia minaccia ritorsioni. L’Austria alza le barricate. E così, mattone dopo mattone, si ricostruisce quel muro che credevamo di aver abbattuto per sempre nel 1989.

La sinistra europea, ancora una volta, cade nella trappola di rincorrere la destra sul suo terreno. Pensano di poter battere i populisti giocando la loro stessa partita ma finiscono solo per legittimarli e rafforzarli. È la solita, triste storia: più la sinistra si sposta a destra, più la destra si radicalizza. E alla fine l’unico vincitore è l’estremismo.

Nel frattempo la Commissione europea balbetta timidi richiami alla “proporzionalità” delle misure, ma non ha il coraggio di alzare davvero la voce contro la deriva securitaria tedesca. Bruxelles, terrorizzata dall’idea di scontentare Berlino, si limita a raccomandare che i controlli siano adottati come “ultima risorsa”. Ma ormai è tardi: il vaso di Pandora è stato scoperchiato.

Schengen sotto assedio: il prezzo della paura

E mentre i grandi della politica giocano la loro partita a scacchi, sono i cittadini comuni a pagarne il prezzo. Come ci racconta Vincenzo Genovese per Euronews gli abitanti delle zone di confine guardano con apprensione al ritorno delle frontiere. “Non ho niente da nascondere, ma non lo trovo molto giusto. Dovrebbero evolversi, non tornare al passato”, dice Marijke Van Caekenberghe, una cittadina belga intervistata al confine con la Germania.

La decisione tedesca si inserisce in un contesto già teso. Solo nel 2024, dieci Paesi dell’area Schengen hanno reintrodotto controlli ad alcune delle proprie frontiere, per motivi di lotta al terrorismo e controllo dell’immigrazione irregolare. La Germania, in particolare, ha esteso i controlli a tutti i suoi confini terrestri per i prossimi sei mesi, dal 16 settembre 2024 al 15 marzo 2025.

Quella tedesca non è una mossa isolata. L’Austria ha controlli in vigore ai confini con Slovenia, Ungheria e Slovacchia dal 2015, introdotti per cercare di fermare i flussi in arrivo via la rotta dei Balcani. La Francia ha reintrodotto controlli a luglio, mentre quelli con Svizzera, Polonia e Repubblica Ceca sono in vigore da giugno.

Il Codice Schengen prevede la possibilità di reintrodurre temporaneamente i controlli alle frontiere in caso di minaccia alla sicurezza nazionale o per ragioni di ordine pubblico. Tuttavia, come sottolineano Carretta e Spillmann, ciò che dovrebbe essere una misura temporanea ed eccezionale rischia di diventare la norma.

Dal settembre 2015, quando la Germania per prima reintrodusse i controlli alle frontiere per fermare i flussi di rifugiati sulla rotta dei Balcani, la lista delle notifiche si è gonfiata sempre più. Da 37 casi di reintroduzione temporanea dei controlli alle frontiere registrati tra il 2006 e il 2015, nei nove anni successivi si è passati a 442 notifiche.

La svolta in Germania e i reali rischi per l’Europa

Il rischio concreto è che questa tendenza porti a un progressivo smantellamento dell’area Schengen. L’Ungheria e i Paesi Bassi chiedono già un “opt-out” dalle politiche migratorie comuni dell’UE. Il premier ungherese Viktor Orban, in particolare, sta spingendo per una gestione esclusivamente nazionale delle frontiere.

Tutto questo avviene nonostante gli sforzi fatti negli ultimi anni per rafforzare la gestione comune delle frontiere esterne dell’UE. La Commissione von der Leyen aveva presentato un nuovo Patto su migrazione e asilo come soluzione ai problemi di gestione dei flussi migratori. Tuttavia il dispositivo – che prevede centri chiusi ed espulsioni più sbrigative sul modello delle isole in Grecia – non sarà pienamente operativo prima di due anni.

Sullo sfondo Orbàn e i suoi amici sorridono soddisfatti. 

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Stretta contro gli attivisti per il clima, così l’Italia sceglie la parte sbagliata della storia

In un’escalation preoccupante della stretta repressiva contro i movimenti ambientalisti, la Questura di Roma ha richiesto l’applicazione della sorveglianza speciale per Giacomo Baggio, attivista di Ultima Generazione. Una misura draconiana, solitamente riservata a pericolosi criminali, che si abbatte su un giovane la cui unica “colpa” è aver partecipato a manifestazioni pacifiche per la giustizia climatica.

La richiesta prevede due anni di impossibilità di allontanarsi dal proprio Comune di residenza, coprifuoco notturno dalle 20:00 alle 7:00, obbligo di firma quotidiano e divieto di partecipare a qualsiasi manifestazione a sfondo politico. Un provvedimento che, se confermato, limiterebbe drasticamente la libertà personale di Baggio.

“Si tratta di una richiesta molto dura, il tipo di sorveglianza più limitativo della libertà personale”, spiega l’avvocato Paola Bevere, difensore di Baggio. “Questa richiesta si basa sul sospetto che questo attivista, tra l’altro incensurato, sia pericoloso per la sicurezza pubblica. Come legali sosteniamo che queste persone non possono essere equiparate ai mafiosi”.

Dalla sorveglianza speciale al Ddl anti-Gandhi

Il caso di Baggio non è isolato, ma si inserisce in un contesto più ampio di criminalizzazione del dissenso. Proprio in questi giorni, la Camera sta discutendo il cosiddetto “Ddl anti-Gandhi”, un provvedimento che inasprisce le pene per il blocco stradale e introduce nuove fattispecie di reato specificamente modellate sulle proteste ambientaliste. 

Una strategia repressiva che mira a colpire l’intero movimento per la giustizia climatica. L’obiettivo sembra essere quello di creare un effetto deterrente, il chilling effect, per scoraggiare la partecipazione alle mobilitazioni. Un approccio miope che, anziché affrontare le cause del disagio sociale, cerca di soffocare le voci di chi chiede un cambiamento urgente di fronte alla catastrofe climatica.

Disobbedienza civile sotto attacco: il caso emblematico di Giacomo Baggio

La vicenda di Baggio è emblematica della deriva autoritaria. Il 33enne consulente legale veneto si è distinto per il suo impegno nella difesa dell’ambiente attraverso azioni di disobbedienza civile nonviolenta. Il 13 maggio scorso, dopo una protesta pacifica, è stato fermato dalla polizia e, secondo la sua denuncia, maltrattato in commissariato.

“Quello che ho visto non è l’applicazione della legge che ho studiato all’università”, racconta Baggio. “La siccità sta facendo danni ovunque e il primo atto discusso alla Camera dopo la pausa estiva è il Ddl Anti-Gandhi. Non serve essere ambientalisti per provare indignazione di fronte alla devastazione del nostro territorio. Mi rifiuto di tacere davanti a un governo che pensa solo a silenziare l’opposizione”, afferma Baggio. “Il problema non è la disobbedienza civile ma l’obbedienza davanti a questa assurdità”.

La richiesta di sorveglianza speciale per Baggio sarà discussa il 14 ottobre presso il Tribunale di Roma. Ultima Generazione ha già annunciato un presidio di solidarietà. Sarà un banco di prova importante per verificare lo stato di salute della nostra democrazia. La posta in gioco va ben oltre il destino di un singolo attivista. Quello che è in discussione è il diritto stesso al dissenso, la possibilità di esprimere pacificamente il proprio disaccordo con le politiche governative. Un diritto fondamentale in ogni società democratica.

La vicenda di Baggio ci pone di fronte a un interrogativo cruciale: chi dovrebbe essere veramente sorvegliato? Gli attivisti che, con mezzi pacifici, cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica su una minaccia esistenziale come la crisi climatica O piuttosto un governo che sembra più interessato a reprimere il dissenso che ad affrontare le sfide epocali del nostro tempo?

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Buio Fitto

La politica è un esercizio semplice nei suoi fondamentali. Nell’atto di composizione di un governo i voti marcano una linea tra chi accetta le regole di ingaggio e decide di appoggiarne la guida, evidentemente condividendo linee e contenuti. Dall’altra parte ci sono coloro che legittimamente ritengono che la proposta sia irricevibile e decidono quindi di stare all’opposizione in attesa di risultare più convincenti con la loro proposta.

Il governo italiano, rappresentato dalla sua presidente del Consiglio, ha deciso che il programma proposto dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen non meritasse l’appoggio. Il partito di riferimento di Fratelli d’Itala in Europa (Ecr) si è seduto dalla parte dell’opposizione. I Sovranisti europei a cui fa riferimento la Lega di Matteo Salvini (altro partito di governo italiano) ha iniziato la sua opera di mostrificazione dell’Unione europea e di von der Leyen un secondo dopo la chiusura delle urne. Il terzo partito della maggioranza italiana, Forza Italia, con il Ppe invece ha scelto di stare in maggioranza. 

L’esercizio semplice della politica ci dice che è piuttosto curioso che la premier che votò contro von der Leyen pretenda per l’Italia un posto di peso nella Commissione a cui si oppone, tanto più per un membro del suo stesso partito, il ministro Fitto. Rifugiarsi dietro la “rilevanza dell’Italia” è un patetico tentativo di deresponsabilizzare le proprie scelte politiche. Un paese è credibile per quanto è credibile il suo governo e per come votano i suoi leader.

Questo stanno facendo notare a Meloni. Solo questo. 

Buon giovedì.

Nella foto: Raffaele Fitto, Parlamento europeo, 3 luglio 2019

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Bucci candidato in Liguria, sarà Renzi contro Renzi?

Matteo Renzi, 25 maggio 2022: “Orgoglioso di sostenere Marco Bucci che è un ottimo Sindaco di Genova e che continuerà ad esserlo anche con il sostegno di Italia Viva. Grazie a Lella Paita per il suo lavoro”. Quello stesso giorno, intervistato da il Secolo XIX, su Bucci dice Renzi: “Ci ha convinti lui, la sua serietà, il suo stile di governo. È un sindaco civico formidabile soprattutto nella sua credibilità sulle infrastrutture come abbiamo visto per il Ponte Morandi”. 

Mercoledì 25 maggio 2022: “Bucci si è rimboccato le maniche, – prosegue Renzi – ha rimesso a posto la speranza di una città, ha delle idee che noi apprezziamo, rispetto allo sguardo cinico del M5s, preferiamo quello civico di Marco Bucci”. Poi, il 26 novembre 2022: “Bucci? E’ bravo, non vogliamo minimamente farlo cadere. W Bucci, che possa governare bene”. 

Il giornalista Mario Lavia (sempre oltremodo amichevole con Renzi) su Linkiesta (sempre oltremodo amichevole con Renzi) il 21 aprile  del 2022 scriveva un sentitissimo articolo per spiegarci che l’appoggio del leader di Italia Viva a Bucci “è uno strappo politico e simbolico, ma viene consumato in nome della coerenza (prima i programmi, poi le bandiere) e del fatto che, in realtà, il sindaco non ha niente a che vedere con le istanze di Lega e Fratelli d’Italia”. “È da chiedersi infatti – scriveva Lavia – cosa c’entri un amministratore serio come Marco Bucci con i sovranisti che si sono sempre mostrati più che inadeguati a governare le città, o anche solo a candidarsi per diventare sindaci”. 

Ora Marco Bucci è il candidato del centrodestra per le regionali in cui Renzi vorrebbe invece abbracciare il Pd e il M5S. Non è tutto bellissimo?

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Ius Scholae, abbiamo scherzato! Alla prova del voto Forza Italia batte in ritirata

L’estate italiana del 2024 aveva il sapore della speranza. Forza Italia, con il piglio di chi vuole lasciare il segno, si era fatta portavoce dello Ius scholae. Un’estate di promesse, di diritti civili cantati come tormentoni da spiaggia. Ma si sa, le stagioni cambiano e con loro anche il clima politico.

Oggi l’aula della Camera è stata palcoscenico di una farsa in tre atti. Primo atto: la proposta dello Ius scholae. Secondo atto: il voto. Terzo atto: 169 voti contrari, 126 favorevoli, 3 astenuti. Sipario. E Forza Italia In platea ad applaudire il “no”.

Ius scholae, la grande illusione: dall’estate dei diritti all’autunno del ripensamento

Paolo Emilio Russo, nelle vesti di portavoce azzurro, ha tentato di spiegare questa metamorfosi politica. “Stiamo lavorando a un testo”, ha detto, come se stesse annunciando l’arrivo di un’opera magna. “Vogliamo semplificare le procedure”, ha aggiunto, mentre la semplificazione più evidente sembrava essere quella delle promesse estive, ormai ridotte a un lontano ricordo.

Secondo Russo “si tratta di un tema di democrazia e diritti e non di un tema di sicurezza nazionale”. E Antonio Tajani, il leader che parlava di diritti “sacrosanti”? Il suo nome è riecheggiato nell’Aula come un’eco distante, evocato da Russo in un tentativo di ricucire il filo di una coerenza sempre più sottile. “È stata Forza Italia,” ha ricordato Russo, “a promuovere, questa estate, un confronto sul tema”. Un confronto che, evidentemente, si è concluso con un nulla di fatto.

Parole e promesse da Forza Italia che si scontrano contro quelle degli alleati. “La Lega fermerà, come ha già fatto in passato, ogni tentativo in questa direzione. Non a caso stiamo preparando una proposta di legge che va verso una maggiore severità nel rilascio delle cittadinanze”, tuona il leghista Igor Iezzi. 

Alfonso Colucci del M5S ha commentato quei “proclami estivi” definendoli “diversivi da ombrellone”. I politici che giocano con i diritti come bambini con i castelli di sabbia, destinati a svanire con la prima marea, in effetti ci sono tutti. Colucci ha poi articolato una critica più ampia: “Dunque i proclami estivi di Forza Italia sullo Ius Scholae erano solo diversivi per ingannare il tempo sotto l’ombrellone. Alla prova dei fatti il partito di Tajani si è ritirato in buon ordine sotto gli ordini di Meloni e Salvini e ha votato contro gli emendamenti che avrebbero introdotto questo strumento di civiltà.”

Le reazioni: tra critiche e delusione, l’eco di una promessa infranta

Il deputato pentastellato ha continuato, delineando l’importanza dello Ius scholae: “Chi meglio della scuola può certificare l’avvenuta integrazione dei bambini figli di immigrati? L’introduzione dello Ius scholae sarebbe un volano per realizzare in Italia un’integrazione sana, reale e sicura. Non è vero, come dicono alcuni, che non vi è differenza tra chi ha la cittadinanza e chi non ce l’ha. C’è un gap di diritti e di difficoltà burocratiche che crea una condizione di ingiustizia permanente.”

Per Mauro Berruto del Pd conta l’immagine della nazionale di pallavolo femminile. Un’Italia vincente, diversa, unita. Un’Italia che esiste già, ma che la politica sembra faticare a riconoscere. “Un’immagine conta più di mille parole”, ha detto, dipingendo un quadro di “un’Italia migliore, aperta dove non ci sono differenze”. ”Questa Italia  – ha spiegato il dem – è anche in ogni settore giovanile sportivo e nelle scuole dove ragazzi e ragazze hanno colore della pelle, religione, provenienza geografica differenti. Perché questi ragazzi che vivono e studiano in Italia non sono italiani?”

Ouidad Bakkali, sempre del Pd, ha chiuso il cerchio con una metafora matematica: “Sosteniamo qualsiasi emendamento che migliori anche solo di un centimetro la legge del ’92”. Un centimetro che, nella geometria politica di Forza Italia, sembra essere diventato una distanza incolmabile.

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Autonomia differenziata, ecco il manifesto di Flick per il referendum

Il 10 aprile 2024, come un orologio di precisione in una stanza di orologi fuori sincrono, Giovanni Maria Flick ha fatto il suo ingresso nella commissione Affari Costituzionali della Camera dei deputati. Il presidente emerito della Corte costituzionale, recentemente eletto presidente del Comitato promotore del referendum sull’Autonomia differenziata, portava con sé non solo il peso della sua esperienza ma anche un fardello di interrogativi sul disegno di legge per l’autonomia differenziata delle Regioni.

Flick, con la meticolosità di un archivista e l’acume di un filosofo del diritto, ha iniziato a dipanare la matassa del progetto di riforma, mettendo in luce le sue potenziali criticità. Il disegno di legge, che mira ad attuare l’articolo 116, comma 3, della Costituzione, è stato oggetto di un intenso dibattito parlamentare. Secondo Flick, questa attuazione rischia di riaprire le fratture mai del tutto sanate della riforma del Titolo V del 2001.

Autonomia, le criticità costituzionali e i Lep

“La riflessione sulle ulteriori autonomie da riconoscere alle Regioni dovrebbe essere portata a livello costituzionale”, ha sottolineato Flick, “e non essere devoluta alla legge ordinaria”. Un’osservazione che risuona come un monito: si sta forse cercando di ridisegnare l’architettura costituzionale con strumenti inadeguati?

Sui Livelli Essenziali delle Prestazioni (Lep), Flick è stato particolarmente incisivo: “Non basta elencarli, occorre garantirne l’effettività e le risorse su tutto il territorio nazionale”. Ha poi aggiunto: “La mancata determinazione organica dei Lep rischia di consolidare e persino esasperare le disuguaglianze già esistenti tra le regioni”.

Riguardo al ruolo del Parlamento, Flick ha lanciato un allarme: “Il ruolo del Parlamento appare sminuito. Il disegno di legge sembra conferire un potere preminente al Governo, e in particolare al presidente del Consiglio”. Ha poi specificato: “Questo sbilanciamento dei poteri potrebbe minare il principio di rappresentanza democratica alla base del nostro sistema costituzionale”.

Rischi finanziari e pericolo separatista

Sulla questione finanziaria, il presidente emerito è stato categorico: “La disciplina dell’Autonomia differenziata rischia di risolversi in un’illusione che non tiene conto dei vincoli di finanza pubblica”. Ha poi elaborato: “Non è chiaro quali risorse dovranno contribuire al sostentamento delle iniziative di trasferimento e al loro mantenimento nel tempo. Questa incertezza potrebbe tradursi in un aggravamento delle disparità economiche tra le Regioni”.

Flick ha anche messo in guardia contro il rischio di derive separatiste: “C’è il pericolo concreto di una ‘prospettiva separatista’ verso la Padania, con il passaggio da un regionalismo differenziato e solidale a uno competitivo”. Ha poi aggiunto: “Questo scenario metterebbe a repentaglio i principi costituzionali di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, nonché quello perequativo di solidarietà”.

Un altro punto critico sollevato da Flick riguarda la distinzione tra funzioni legate ai Lep e altre funzioni: “Il criterio di distinzione non è esplicitato chiaramente nel disegno di legge. Questa ambiguità potrebbe portare a interpretazioni discrezionali e potenzialmente dannose per l’equità tra le Regioni”.

Infine, Flick ha sottolineato l’importanza di una visione d’insieme: “Il trasferimento di funzioni, sia per quelle relative ai Lep che per le altre, richiede comunque l’individuazione di una copertura finanziaria globale. Senza questa visione complessiva, rischiamo di creare un sistema a macchia di leopardo, dove alcune regioni prosperano a discapito di altre”.

Le sue domande, precise come bisturi, rimangono sospese, in attesa di risposte che non arriveranno. L’intervento di Flick anche oggi, dopo mesi, è prezioso perché contiene l’architettura del comitato referendario che spaventa così tanto il ministro Calderoli e il governo. La posta in gioco? Niente meno che il futuro dell’assetto istituzionale del paese. Un dettaglio da poco.

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