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Fedez in croce per un Rap. Ma a stonare sono politici e media

Per capire quanto deboli e irrilevanti siano la politica e la stampa dei giorni nostri bastava, ieri, godersi il tilt sull’esibizione di Fedez al Festival di Sanremo. Partiamo dall’inizio. Fedez decide, molto furbescamente, di presentarsi sul palco dell’Ariston e sfruttare l’occasione di un pubblico vasto nazionalpopolare per togliersi qualche sassolino dalla scarpa.

Per capire quanto deboli e irrilevanti siano la politica e la stampa dei giorni nostri basta l’esibizione di Fedez a Sanremo

C’era da aspettarselo: la coppia Fedez e Ferragni da tempo utilizza la propria popolarità per veicolare messaggi politici su temi dei diritti e su punti considerati “politici”. Qualcuno suggerisce che sia troppo comodo per Fedez mettere le mani nella politica dall’alto del suo successo. Beati quelli che credono che esporsi politicamente in questo Paese paghi.

Un cantante che decide di rinunciare a vendere dischi a una parte politica è tutt’altro che comodo. Ma vabbè, andiamo avanti. Fedez si presenta sul palco e decide di usare il suo tempo a disposizione per chiarire quanto sia vergognoso che un tizio che si traveste da Hitler (Galeazzo Bignami) diventi viceministro alle infrastrutture e quanto faccia schifo che una ministra alla Famiglia vada in televisione a dire che “purtroppo” l’aborto è un diritto.

“Purtroppo l’aborto è un diritto, sì ma non l’ho detto io, l’ha detto un ministro. A volte anch’io sparo cazzate ai quattro venti ma non lo faccio a spese dei contribuenti”, dice Fedez, provando a ricordare a questo smemorato Paese come ci sia differenza tra chi si espone nella professione e chi invece con un posto garantito da parlamentare (o politico) spari “cazzate” (cito Fedez) per rimestare un po’ di propaganda. Apriti cielo. In questo Paese la statura dei politici sulla misura con le altezze delle loro polemiche.

La canzone di Fedez diventa un caso politico solo perché questi politici possono ambire al massimo alle canzonette. Comincia così la sinfonia. Il Codacons insorge. Del resto il Codacons se non insorge non esiste. “La responsabilità di eventuali violazioni delle norme in tema di propaganda elettorale è in capo alla Rai, e l’azienda dovrà valutare i provvedimenti da adottare nel caso in cui partecipanti o ospiti del Festival abbiano violato i regolamenti cercando di influenzare i risultati delle prossime elezioni”, scrive il presunto sindacato dei consumatori.

Poi arriva la lamentela dell’autodichiarato sindacato dei cattolici (“Ditelo Sui Tetti”) che per bocca del portavoce Domenico Menorello si spreme in un elogio antiabortista seguendo i triti canoni degli antiabortisti con una carezza alla ministra Roccella. Non poteva mancare il direttore di Rai 1 Stefano Coletta, uno di quelli che ha la carriera legata alle mestruazioni della politica: “Confermo che non eravamo a conoscenza della performance di Fedez. A nome della Rai ritengo che la libertà sia un diritto sacrosanto che deve esprimersi attraverso tutte le forme d’arte e tutti i pensieri che un individuo vuole esprimere. A nome della Rai, e in maniera netta, sento di dire che mi dissocio fortemente dagli attacchi personali che la performance di Fedez ha rappresentato nella gestualità”, dice Coletta alla stampa.

Poi c’è l’inevitabile Maurizio Lupi, poi c’è Salvini che si finge disinteressato (come nei film di Nanni Moretti: “Mi si nota di più…?”) E poi arriva l’onomatopeico Mollicone che ci spiega come Fedez sia solo “un comunista con il Rolex” che cerca il martirologio. In italiano sarebbe semplicemente “martirio” ma vabbè. Non si può pretendere troppo. Da segnalare anche Carlo Cottarelli, l’alieno del centrosinistra, che ci spiega come sia “scorretto usare la Rai per un gesto ideologico”: evidentemente travestirsi da nazista per l’economista dem è semplice ideologia. Viste le reazioni verrebbe da dire: bravo Fedez.

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Meloni in disparte

È accaduto questo: Zelensky, Macron e Scholz si sono incontrati in un vertice di cui Giorgia Meloni non era stata nemmeno avvista. Non solo non è stata invitata alla cena – uno può dire vabbè, mangio a casa – ma non è stata nemmeno presa in considerazione per l’incontro.

«Francamente mi è sembrato inopportuno, perché credo che la nostra forza in questa vicenda sia l’unità e la compattezza», ha detto Giorgia Meloni arrivando a Bruxelles. Ammettiamolo, fa molto ridere che l’ex regina del sovranismo ora catechizzi i Paesi che fino a ieri odiava (Germania e Francia in primis) sull’unità europea. Quell’Europa che lei prometteva di disarticolare. Macron l’ha stesa: «Non ho commenti da fare», si è limitato a dire. «Ho voluto ricevere il presidente Zelensky con il cancelliere Scholz, nel contesto del nostro ruolo. La Germania e la Francia hanno un ruolo particolare da otto anni su questa questione perché abbiamo anche condotto insieme questo processo». E, ha aggiunto: «Penso che stia anche a Zelensky scegliere il formato che vuole» per i colloqui diplomatici.

Ma c’è anche un altro aspetto interessante: Giorgia Meloni ora chiede in Europa meno “egoismo” poiché le sue posizioni (soprattutto sull’immigrazione) sono in netta minoranza. Avete capito bene: colei che si è fatta eleggere raccontando l’egoismo come un diritto in nome del patriottismo ora va a frignare per mancanza di collettività. Sembrerebbe una barzelletta se non fosse la giravolta dell’ennesima presidente del Consiglio che ama per il potere per il potere, fregandosene delle promesse fatte ai propri elettori.

Qui veniamo al punto. Questa destra – una delle peggiori destre di sempre – dimostra di essere interessata al mantenimento delle sue posizioni di rendita. Non è una novità, l’hanno fatto finora più o meno tutti. Solo che Giorgia Meloni non ha nemmeno aspettato di essere sull’orlo di una crisi di governo (o di partito). Ha deciso di indossare subito gli abiti della conservatrice di sé stessa pretendendo che tutti dimenticassero le parole pronunciate un minuto prima di diventare presidente.

Il suo peso politico si misura dal contesto. In Italia ha una schiera di compagni di governo che furiosamente commentano il Festival di Sanremo e in Europa si ritrova a fare l’imbucata.

Buon venerdì.

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Stiamo combattendo i clan della mafia con le pile scariche

La lotta alla mafia Mentre ancora non si posano i festeggiamenti per l’arresto del boss di Matteo Messina Denaro (che in troppi rivendicano come vittoria personale) a Bivona, in provincia di Agrigento, un testimone di giustizia non dorme di notte da quattro anni a causa di un pila scarica. Sì, una pila, una di quelle semplici che si inserisce nei telecomandi e nei giocattoli per bambini. Ignazio Cutrò è un ex proprietario di un’impresa edile che nel 1999 ha subito il primo attentato incendiario ai suoi mezzi perché si rifiutava di pagare il pizzo alle cosche locali. Alle intimidazioni ha deciso di rispondere denunciando i suoi estorsori, il clan locale dei Panepinto, che ancora oggi sono in carcere.

L’incredibile storia di Ignazio Cutrò. Il testimone di giustizia nel mirino della mafia. Da quattro anni non dorme di notte a causa di un pila scarica

Da quel momento è entrato nel programma di protezione testimoni, decidendo di non abbandonare la sua città di origine per dare un “messaggio ancora più forte: io non me ne vado via da qui, siete voi che ve ne dovete andare”. Cinque anni fa la sua scorta ha subito un pesante ridimensionamento (fioccarono invano le interrogazioni parlamentari) ma Cutrò e la sua famiglia vennero rassicurate con l’installazione di un sistema di videosorveglianza che avrebbe garantito l’incolumità di tutta la famiglia. Da 4 anni però la batteria del sistema di sorveglianza è scarica.

“Si parla tanto di lotta alla mafia e protezione testimoni – spiega Cutrò -. E si dice denunciate. Poi si porta alla disperazione una famiglia per una spesa di 11 euro e 50 centesimi. È da quattro anni che comunico a prefettura e carabinieri, per fargli capire la disperazione e la necessità di cambiare la batteria dell’impianto di allarme collocato nel mio appartamento. Ogni volta che si verifica un calo di tensione o viene a mancare la luce, scatta l’allarme e la nostra serenità viene distrutta”. Quindi continua: “Non so più cosa fare. La batteria ho chiesto di cambiarla personalmente ma, essendo l’impianto proprietà dello Stato, senza le dovute autorizzazioni rischierei una denuncia per aver danneggiato una proprietà dello Stato”.

E poi ancora: “A che gioco giochiamo? Dobbiamo arrivare al punto che uno, preso dalla disperazione, prende tutto e lo butta fuori dalla finestra. Cosa si deve fare per avere tutelati i propri diritti? Martedì prossimo scenderò e andrò ad incatenarmi davanti alla Prefettura finché non smontano tutto quello che c’è da smontare. Noi ci siamo affidati alle mani dello Stato. Abbiamo dato la nostra vita per questo Paese e per 11 euro e 50 centesimi siamo costretti ad elemosinare qualcosa che dovrebbe essere normale”. Ignazio Cutrò è un cittadino che ha permesso di portare a giudizio e condannare, nell’operazione Face Off, i fratelli Luigi, Marcello e Maurizio Panepinto per un totale di 66 anni di reclusione.

Ha pagato il suo coraggio con una vita sotto scorta (lui e la sua famiglia) e con un’attività imprenditoriale praticamente devastata dalle sue denunce. Solo grazie a una legge del governo Letta nel 2013 ha potuto essere assunto presso l’Amministrazione Regionale Siciliana il 1º ottobre 2015, prendendo servizio presso il Centro per l’impiego di Bivona, suo paese di origine, come avviene per i familiari delle vittime di mafia. Nel pieno delle sue difficoltà ha fondato nel 2013 l’Associazione Nazionale dei Testimoni di Giustizia, di cui è stato eletto presidente, per portare all’attenzione pubblica le condizioni dei testimoni di giustizia in Italia.

Ora è insicuro per una pila. Le mafie aumentano il proprio potere e la propria forza grazie alla perseveranza e grazie all’altruismo tra i suoi affiliati. Lo Stato troppo spesso pratica un’antimafia poco organizzata dove chi si espone si ritrova solo. E allora un giorno forse si capirà che la lotta alle mafie non ha bisogno solo di arresti spettacolari ma necessita di cura quotidiana soprattutto nei confronti di chi da cittadino accetta di esporsi per spirito di legalità e giustizia. Cambiare una lampadina non procura grandi titoli sui giornali, ma è antimafia quotidiana.

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Nel Regno Unito si sono “persi” 200 bambini rifugiati

Bande di criminali che rubano bambini negli hotel dove il Regno Unito accoglie i rifugiati minorenni. Sembra una storia dell’orrore e invece è l’orrenda verità che è venuta a galla dopo un’inchiesta di The Observer. Un informatore, che lavora per l’appaltatore del Ministero degli Interni britannico racconta di bambini rapiti dalle strade ai piedi degli alberghi che vengono caricati in auto e fatti scomparire. «I bambini vengono letteralmente prelevati dall’esterno dell’edificio. Sono presi dalla strada dai trafficanti», ha spiegato la fonte.

Alla fine il governo ha dovuto confessare. Un ministro britannico ha ammesso che 200 bambini richiedenti asilo sono scomparsi dopo essere stati collocati in hotel gestiti dal Ministero degli Interni. Lunedì, il ministro dell’Interno Simon Murray ha detto alla Camera dei Lord che i bambini scomparsi includono una ragazza e almeno 13 bambini sotto i 16 anni. Ha aggiunto che la stragrande maggioranza dei bambini scomparsi – 176 su 200 – erano di origine albanese.

Le associazioni umanitarie hanno condannato il governo, mentre l’Adolescent and Children’s Trust (Tact), un ente di beneficenza, ha affermato che il Ministero degli Interni aveva ignorato le sue richieste di collocare i bambini in case protette per garantirne l’incolumità.

È l’ennesima puntata di questa era in cui l’accoglienza è solo una parola da scrivere sulle carte bollate. Così accade che una notizia del genere finisca sotto traccia come se fosse semplice routine della ferocia. Ricorderemo quest’era come quella in cui i disperati provavano a raggiungere la salvezza via mare dopo essere stati frustati e violentati dagli uomini finanziati dall’Occidente, poi hanno dovuto scappare dagli sgherri via mare della cosiddetta Guardia costiera libica finanziata dall’Italia. Ricorderemo quest’epoca come quella in cui i disperati via terra si infrangono contro i muri e le armi (oggi in Europa si parlerà anche di questo) e vengono stremati dal freddo.

La ricorderemo anche perché chi riesce a raggiungere un’ombra di salvezza viene lasciato solo: invisibile, senza niente e pronto per finire nelle mani della criminalità. Bambini inclusi.

Buon giovedì.

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Majorino: “Tra la gente il vento sta cambiando”

Promette che nelle ultime 48 ore sarà ancora più determinato. Pierfrancesco Majorino, candidato per il centrosinistra contro il presidente uscente Attilio Fontana, è convinto che sia possibile l’impossibile: sconfiggere a sorpresa la destra dopo 28 anni di governo. L’eurodeputato dei dem ammette anche di non essere preoccupato dalla presenza di Letizia Moratti sostenuta dal Terzo polo e, soprattutto, si dice convinto che lo schema politico che si presenta alle prossime elezioni regionali in Lombardia (una coalizione che vede insieme Pd, M5S, Civici e l’Alleanza Verdi-Sinistra) sia un laboratorio da ripetere anche sul piano nazionale.

Majorino, la sensazione dopo questa campagna elettorale, a pochi giorni dalle elezioni?
“Io sono convinto del fatto che siamo riusciti a compiere un mezzo miracolo fino a ora. Quando due mesi fa siamo partiti, a pochissime settimane dal voto, il dibattito verteva su chi sarebbe arrivato secondo tra me e Letizia Moratti, oggi è evidente che la partita è diversa. Sono fiducioso del fatto che possiamo essere noi la sorpresa di queste elezioni regionali. Mi sento in partita e lotterò fino all’ultimo per riuscire a vincerle. Credo che ci sia una buona energia diffusa, tanta gente che si sta dando da fare, che vuole cambiare. Quindi insisterò con passione e determinazione”.

Negli ultimi giorni è tornato di moda il “voto utile” anche se non è mai un argomento che appassioni gli elettori. Crede davvero che possa servire a spostare in questi ultimi giorni il voto da Letizia Moratti a lei, nonostante i programmi così profondamente diversi?
“Non credo che siamo noi a fare campagna sul voto utile. Abbiamo effettivamente programmi molto diversi su sanità, lavoro, ambiente e soprattutto c’è un abisso in termini di credibilità avendo lei votato tremilaecinquantasette volte a favore dei provvedimenti di Fontana. Sono però convinto che tanti elettori del Terzo polo siano d’accordo con noi sulla necessità di cambiare le cose in Regione Lombardia. Quindi gli incerti alla fine sceglieranno di cambiare le cose e per questo motivo alla fine sceglieranno di sostenermi”.

Le malelingue dicono “Majorino farà la campagna elettorale e nel caso non vinca come è già successo il Partito democratico dovrà fare a meno di lui e il Pd si siederà in un’opposizione sempre troppo morbida”. Crede che questa elezione, anche nel caso in cui non arrivi una vittoria, possa essere il primo passo della costruzione di uno schema da riproporre a livello nazionale? Magari senza doversi inventare un candidato all’ultimo momento, fra 5 anni…
“Questo è un dibattito che nel caso voglio affrontare la settimana prossima. Ora ci diamo dentro fino all’ultimo con grande determinazione. Io ho sentito la comunità del Pd assolutamente a mio sostegno e sono orgoglioso, in Lombardia abbiamo lavorato molto bene insieme nonostante la presenza concomitante del congresso. Sono assolutamente felice della nostra unità”.

Pensa che il congresso in corso l’abbia fiaccata
“No, non ha inciso. Ho sempre ritenuto surreale la scelta di non eleggere subito un nuovo segretario però non c’è stato nessuna divisione. In Lombardia si è lavorato e si sta lavorando tutti assieme per ottenere il migliore risultato possibile”.

Lei insiste molto sul fatto che lo schema di alleanze che propone in Lombardia sia un laboratorio per il piano nazionale e non solo la riproposizione della cosiddetta “alleanza giallorossa”. Secondo lei in cosa sono più maturi i rapporti e le relazioni, anche con il M5S? Qual è l’esperienza lombarda che si può riproporre a livello nazionale?
“Credo che la cosa positiva e importante è che ci siamo incontrati con le altre forze politiche senza forzature ma confrontandoci sulle idee e sui programmi. A quel punto abbiamo deciso di costruire un’alleanza, senza demonizzazioni reciproche e senza forzature. Questo è il messaggio costruttivo, importante e positivo”.

Si diceva che il Pd in occasione delle elezioni regionali in Lombardia fosse sempre troppo milanocentrico. Lei ha girato molto anche nelle zone di confine della regione. Che sensazioni ha colto?
“Ho insistito molto sul tema del rapporto con comunità e luoghi e terre diverse dalle grandi città perché li ritengo elementi essenziali non solo per il consenso ma per il senso di una regione che non può abbandonare a sé stesse le realtà locali. Lo rifarei cento volte. Sono contento di essere impegnato in questi luoghi e incontri e continuerà in particolare nelle ultime 48 ore. Sarò tantissimo ancora in giro e credo si debba andare avanti così. Siamo in una fase che io interpreto come una grande opera di ricostruzione e spero che ciò ci porterà addirittura a compiere il miracolo di vincere”.

Fontana continua a ripetere che rifarebbe tutto, anche le scelte prese durante la pandemia. Come può un lombardo accettare una dichiarazione del genere?
“Vedremo quale sarà il risultato. Sono convinto che ci sia un sacco di gente che non voglia la continuità e anzi voglia una gestione radicalmente nuova e diversa. Sono anche molto determinato a proseguire su questo terreno. Noi possiamo rafforzare la sanità pubblica e non abbandonarla a sé stessa. E questo non vuol dire colpevolizzare il mondo della sanità privata ma significa pensare che è mancato il necessario sostegno alla sanità pubblica e alla medicina territoriale. Queste sono le principali responsabilità di chi ha governato in questi anni. E credo si debba insistere”.

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Venduta la residenza di Dante a Fiesole

Che sia di destra o di sinistra non si sa ma di certo la sua casa è già pronta per diventare una residenza di lusso. È stata venduta la storica casa colonica di Dante Alighieri sulle colline di Fiesole. A curare la trattativa è stata la società fiorentina Lionard Luxury Real Estate Spa, che ha dato notizia della vendita dell’immobile del XIII secolo, dove il Sommo Poeta potrebbe aver visto per la prima volta Beatrice. Il nome dell’acquirente non è stato reso noto così come il prezzo di acquisto.

Sconosciuti acquirente e prezzo della casa di Dante Alighieri a Fiesole

“Si tratta di un immobile unico perché legato al padre della lingua italiana; appartenuto alla sua famiglia e utilizzato come piacevole luogo di villeggiatura, gli fu confiscato in occasione del suo esilio, per poi essere successivamente restituito al figlio Iacopo”, si legge nel comunicato diffuso dalla società immobiliare. Oltre ad essere ricordato nella lapide murata sulla facciata, è riportato da diversi testi storici, tra questi, ad esempio, uno di Otello Tordi in cui si legge: “Questo podere denominato Radola appartenne al Divino Poeta; fu a lui confiscato con gli altri beni di famiglia quando le fazioni dilanianti la Repubblica fiorentina lo ridussero ramingo per l’Italia. Ma al figlio suo Iacopo Alighieri venne restituito nel 1342”.

Anche altre pubblicazioni storiche ripercorrono il passato della dimora venduta da Lionard e la descrivono anche come il luogo di villeggiatura prediletto della famiglia fiorentina Alighieri. Ne parla, ad esempio, Alessandro Barbero, storico, accademico e scrittore italiano specializzato in storia del Medioevo, nell’opera “Dante”. Qui l’autore ripercorre la vita del Poeta e descrive anche il periodo dell’esilio, con documenti relativi ai beni confiscati. Più precisamente si legge: “Dante aveva posseduto un podere alla Radere, nel popolo di San Miniato a Pagnolle, sulle colline di Fiesole (oggi in località le Radole o la Radola), con case da ‘signore’, cortile, pozzo, capanna-forno, casa da lavoratore, arativo, vigna, ulivi e alberi”.

Il fascino della proprietà è, però, legato anche alla figura di Beatrice. Vicino alla proprietà appartenuta a Dante Alighieri, infatti, si trova anche l’imponente villa Montecchi dei Portinari. “Non è improbabile, dicono alcuni – dichiara sempre Tordi nello stesso testo che Dante e Beatrice si siano incontrati per la prima volta e conosciuti qui ove le loro famiglie venivano a villeggiare. Si è indotti a pensare che si vedessero affacciandosi alle finestre delle loro stanze”.

L’immobile è anche un capolavoro di bellezza. All’esterno è incorniciato da ampio e florido terreno di proprietà recintato che si estende per 1,2 ettari con un delizioso parco tenuto a prato di 5.000 mq, in cui sorge un giardino d’inverno e un ampio roseto, 4.900 mq di oliveto e ulteriori 2.100 mq di area boschiva. La superficie interna, pari a 650 mq, comprende la bella villa padronale di 420 mq e, in posizione adiacente, un annesso di 220 mq su due livelli, originariamente adibito a granaio ed ora finemente ristrutturato, con due salotti, una cucina, tre camere e due bagni, oltre due terrazze.

La dimora del XIII secolo ospitò il primo incontro con Beatrice

Lionard Luxury Real Estate Spa è specializzata in dimore storiche di lusso. Tra le sue offerte si trovano un’antica residenza di un doge sui canali veneziani, un castello del Brunelleschi e la villa a Capri di Christian De Sica. Con la cultura evidentemente si mangia, eccome.

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Ad Afrin oltre al terremoto l’assedio

«Il nostro campo profughi è assediato: truppe turche e milizie pro-Ankara a nord e a est, gruppi armati vicini all’Iran a ovest, forze armate siriane a sud. Gli aiuti per sostenerci dopo il terremoto dovrebbero passare per decine di check-point e chi li volesse inviare dovrebbe pagare tasse molto care. Chiediamo alla comunità internazionale di fare lo sforzo di venire qui di persona e di aiutarci direttamente perché siamo isolati».

L’appello affidato all’agenzia Dire dal giornalista e attivista Jan Hasan arriva dal campo profughi per sfollati di Shahba, situato nel governatorato di Aleppo, nel nord della Siria, a meno di una cinquantina di chilometri dall’omologo capoluogo. La regione è fra quelle colpite dal terremoto che ha provocato vittime e distruzioni nella Turchia meridionale e appunto nel nord della Siria. Diverse scosse a partire dall’alba di lunedì, fino a 7.9 gradi di magnitudo sulla scala Richter e con epicentro nella provincia turca di Kahramanmaras, le più forti, e poi anche di Gaziantep e altre. Oltre 5mila le vittime nei due Paesi, stando a fonti ufficiali. Hasan vive a Shahba insieme con circa 1.500 persone sfollate, dove coordina una piccola ong, ed è in contatto diretto con la sua città natale, Jeindireis.

La località è un sobborgo di Afrin, città a maggioranza curda fra le più colpite dal sisma situata una quindicina di chilometri a nord-ovest, sempre nel governatorato di Aleppo. «Sono fuggito da Jeindireis dopo l’operazione militare turca del 2018 e mi sono stabilito con la mia famiglia qui», riferisce parlando di Shahba. «Il campo profughi è costituito da tende e da case basse e questo ha fatto sì che i danni delle scosse siano stati pochi, solo alcune persone sono rimaste ferite. Abbiamo paura però e dormiamo in auto, mentre il clima è freddo e piovoso». L’attivista continua: «La mia città natale è stata invece fra le più colpite dal terremoto: da quello che sappiamo 84 edifici sono rimasti completamente distrutti. Parliamo di una città di poco più di 25mila abitanti che rischia verosimilmente di avere circa 1000 vittime». Gli effetti delle scosse hanno colpito Hasan anche personalmente. «Sono almeno 15 i miei parenti che hanno perso la vita, da quello che so al momento», sospira il giornalista. Il terremoto ha colpito un Paese già debilitato da una guerra civile che dura dal 2011 e che nel corso degli anni ha determinato una divisione del territorio per zone di influenza di milizie, eserciti e potenze regionali.

Shahba, dalla ricostruzione di Hasan, sembra essere emblematica della parcellizzazione che caratterizza il Paese: «Il campo è sostenuto dal Consiglio di Afrin e dalle autorità autonome della Siria del nord e del nord-est, anche con matrice curda. Questi organismi forniscono gratis elettricità, tre ore al giorno, e acqua potabile» spiega l’attivista. «L’area del governatorato di Aleppo dove ci troviamo noi è ufficialmente sotto il controllo delle milizie delle opposizioni siriane, sostenute direttamente dalla Turchia». Il cronista prosegue: «Il villaggio che ospita il campo si trova in una posizione particolare, de facto assediata su tutti i fronti: i turchi, le milizie pro-Iran, e poi le forze armate al servizio del governo del presidente Bashar al-Assad, che hanno messo su numerosi check-point e che impongono il pagamento di pesanti tasse a chiunque provi a portare qualcosa gli abitanti del campo». Da questa situazione deriva un sostanziale isolamento, che l’organizzazione gestita da Hasan, sostenuta dall’ong tedesca Sos Afrin della pastora Oliver Keske, è riuscita ad alleviare. «Siamo riusciti a consegnare dei cestini con del cibo agli abitanti, ma il blocco che ci è stato imposto è scioccante».

Da qui l’appello alla comunità internazionale: «Venite qui e sosteneteci direttamente: non passate per il governo siriano, come fanno agenzie delle Nazioni Unite: quegli aiuti finiscono in larga parte nel nulla». Le parole di Hasan giungono in un contesto di conflitto che neanche il terremoto, fra i più devastanti dell’ultimo secolo a detta di esperti concordanti, è riuscito a fermare. «Ieri – riferisce l’attivista – le truppe turche hanno sparato colpi di artiglieria verso i campi coltivati nei pressi del villaggio, solo per incutere terrore. Ormai ci siamo abituati a questo: Ankara colpisce ogni giorno».

Buon mercoledì.

Nella foto: frame di un video di China Daily sul terremoto ad Aleppo

 

 

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Fazzolari, le armi a scuola e la vergogna per le sue passioni

Penna, calamaio, libri e moschetto. Non riuscendo a trattenere l’irrefrenabile amore per le armi e per la guerra secondo il quotidiano La Stampa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Giovanbattista Fazzolari si sarebbe fiondato a parlare con il generale Franco Federici per spiegargli la sua brillante idea di mettere a contatto “una rete di associazioni con il mondo delle scuole” per un bel corso di tiro a segno degli studenti.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giovanbattista Fazzolari, propone corsi di tiro a scuola, poi smentisce La Stampa

Il sottosegretario Fazzolari, braccio destro della presidente Giorgia Meloni, smentisce un secondo dopo ritenendo l’articolo “ridicolo e infondato”. Potrebbe essere, certo, ma non è infondato il video su YouTube in cui spiega le ragioni della sua battaglia in difesa del tiro a segno sostenendo che la liberalizzazioni delle armi non porterebbe a “nessun Far West” perché, dice, “chi fa tiro sportivo sa che non può sgarrare, altrimenti perde il porto d’anni”. Che si perda il porto d’armi dopo avere ammazzato qualcuno è un particolare che al sottosegretario sfugge.

La buriana però infuria. “Ci mancavano solo le armi a scuola. Le parole del numero due di Giorgia Meloni Fazzolari paladino dei portatori di armi, che secondo quanto riportato dalla stampa vorrebbe mettere le pistole in mano ai nostri studenti, sono gravissime e vanno chiarite al più presto”, dice la capogruppo del M5S in Senato Barbara Floridia.

Provenzano: “A quando le adunate del sabato?”

“A quando le adunate del sabato? Avete scambiato il Governo del Paese per un’assemblea del Fuan? Volete trasformare l’Italia nell’incubo trumpiano di disuguaglianze e notizie false contro gli oppositori. Ora anche armi”, twitta il vicepresidente del PD Peppe Provenzano mentre Piero De Luca, vicepresidente dei deputati Pd, ricorda che “la scuola non è un poligono”.

Il tesoriere di +Europa, Alfonso Maria Gallo sottolinea come “quello ‘bravo di Fratelli d’Italia” Fazzolari si occupi di “poligoni di tiro in tutte le scuole, per insegnare ai nostri giovani ad essere dei pistoleri provetti. Non ingegneri, non medici, non latinisti, storici o scienziati: pistoleri. Probabilmente il modello educativo di Fazzolari e di Meloni – spiega Gallo – è quello della strage di Columbine, o delle altre scuole americane dalle quali, troppo frequentemente, arrivano notizie delle drammatiche sparatorie che vedono coinvolti gli studenti”.

Nonostante “l’amore per le armi di Fratelli d’Italia sia evidente”, come sottolinea Conte, alla fine deve intervenire perfino il capo della Lega Matteo Salvini per smussare la polemica parlando di “idea non illuminata” del suo compagno di governo.

Da canto suo Fratelli d’Italia prova a fare quadrato. Giorgia Meloni manda in avanscoperta i suoi per difendere il compagno di partito e Fazzolari nel primo pomeriggio annuncia una querela per La Stampa. Il direttore del quotidiano piemontese però non sembra particolarmente intimorito: “Con temerario sprezzo del ridicolo, il sottosegretario Fazzolari ‘spara’ letteralmente la palla in tribuna, – dice il direttore Massimo Giannini – per smentire ciò che non è smentibile, cioè la sua idea di portare nelle scuole corsi di tiro a segno con le armi. L’articolo del nostro Ilario Lombardo, che confermiamo parola per parola, è inattaccabile e di fonte sicura al cento per cento”.

È una metafora di questi tempi: questi sono arrivati al governo solleticando intestini di cui pubblicamente si vergognano. Così il paradosso si conclude con una querela per un amore esibito da sempre.

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Pallone spia cinese. Gonfiato dai nostri Tg

La notizia era ghiotta e perfetta per essere impacchettata: un pallone spia – così lo hanno subito ribattezzato i media – visibile a occhio nudo, pronto per essere fotografato e sparato su tutti i telegiornali, che proveniva dalla Cina sporca e cattiva e avrebbe sorvolato gli Usa pronto a scatenare la Terza guerra mondiale.

La vicenda della pallone spia cinese abbattuto dagli Stati Uniti resta a dir poco equivoca. Ma le nostre tv non hanno dubbi

E poiché di guerra mondiale se ne sente il profumo da un po’ anche i sedicenti esperti hanno avuto materiale guerresco da raccontare e rivoltare. A questo aggiungeteci che Biden, mantenendo fede all’immagine degli Usa sempre pronti a estrarre un missile dal cilindro per risolvere la situazione, ha deciso di sganciare un missile aria-aria lanciato da un F-22 sulle onde dell’oceano Atlantico. Il piatto era troppo ricco per lasciarselo sfuggire.

Ma era un pallone spia La Cina, com’era facile prevedere, nega fermamente

Ma era un pallone spia La Cina, com’era facile prevedere, nega fermamente parlando di un “dirigibile senza pilota” per le rilevazioni meteorologiche che, secondo il viceministro degli Esteri cinese Xie Feng, “è finito nello spazio aereo statunitense a causa di incidenti e inconvenienti causati da forza maggiore. I fatti – ha dichiarato – sono chiari e non possono essere distorti o diffamati”.

Ma a turbare il governo cinese è stato soprattutto l’abbattimento del dispositivo ritenuto una reazione esagerata che ha “gravemente influito e danneggiato gli sforzi e i progressi di entrambe le parti nella stabilizzazione delle relazioni cino-americane dall’incontro di Bali”, recita una nota del governo.

Sembrano lontani i giorni dello scorso novembre quando il presidente americano Joe Biden incontrò il suo omologo cinese Xi Jinping: “Si esortano – fanno sapere da Pechino – gli Stati Uniti a non intraprendere ulteriori azioni che danneggino gli interessi della Cina e a non intensificare o espandere la tensione”.

Dopo che gli Usa hanno informato la Cina, ha spiegato la portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning, “abbiamo immediatamente verificato e fornito feedback agli Stati Uniti il prima possibile, chiedendo chiaramente di agire con calma, responsabilità e in maniera sobria”. Gli Stati Uniti, ha aggiunto, “hanno insistito sull’uso della forza, ignorando la posizione e le richieste della Cina”.

Non sarebbe una novità, nonostante giornali e telegiornali abbiano insistito sull’allarme

I dubbi però cominciano a emergere. Perché la Cina – si chiedono molti analisti – avrebbe interesse nell’irrigidire le sue relazioni internazionali proprio ora I funzionari Usa raccontano che sarebbero almeno una trentina i palloni spia spediti dalla Cina in giro per il mondo negli ultimi 10 anni. Non sarebbe quindi una novità, nonostante giornali e telegiornali abbiano insistito sull’allarme.

Per questo Biden ha deciso di preparare un’informativa per gli ex funzionari dell’era Trump per informarli. Secondo la Casa bianca i palloni spia cinesi “sono stati scoperti quando la precedente amministrazione aveva lasciato. Per questo l’intelligence è pronta a informare gli ex dell’amministrazione Trump sul programma di sorveglianza cinese”.

E mentre da Berlino il portavoce di Olaf Scholz si augura che “non si arrivi a ulteriori tensioni fra Usa e Cina, che porterebbero a un’escalation” sul Venezuela coglie il… pallone al balzo per avvisare gli Usa: nell’ultimo mese, l’aviazione militare degli Stati Uniti ha inviato “almeno” quattro mezzi spia sui cieli del Venezuela. Lo denuncia il capo del Comando strategico operativo delle Forze armate del Venezuela (Fanb), Domingo Hernandez Larez.

Un secondo pallone cinese è stato avvistato sull’America Latina

Si scopre anche che c’è un secondo pallone cinese in circolazione. È stato avvistato sull’America Latina e ieri mattina il ministero degli Esteri di Pechino ha ammesso che “ha deviato seriamente dalla sua rotta programmata e si è accidentalmente spostato sopra l’America Latina e i Caraibi”. La situazione appare molto più complessa di come la raccontano certi nostri testosteronici giornalisti. Di sicuro più del pallone spia (di cui gli Usa stanno raccogliendo i cocci) i danni veri sono quelli di chi non vede l’ora che la situazione, oltre al pallone, possa precipitare.

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I sindacati dell’esercito denunciano 72 suicidi solo l’anno scorso

Come sta l’esercito italiano? Ieri i sindacati militari hanno offerto un’immagine della situazione nell’esercito italiano: 5 suicidi dall’inizio dell’anno e 72 nel 2022. Poi ci sono le moltissime richieste d’aiuto. Ma i veri problemi stanno a monte.

Suicidi, stress, mobbing. Mentre spendiamo centinaia di milioni per spedire armi a Kiev, non si spende un soldo per il nostro esercito

Secondo l’associazione L’altra metà della divisa “i militari fanno una valutazione psicologica nella fase dell’incorporamento che è un quadro del momento. Tutti noi come esseri umani evolviamo e attraversiamo momenti di stress psicologico. I soldati di solito non sono richiamati a controlli psicologici se non su loro specifica richiesta o quando si è già evidenziato un disturbo. In tal caso viene messa in valutazione la loro idoneità al servizio e così i militari preferiscono curarsi le ferite da soli” spiega la presidente Rachele Magro.

“Nessuno si pone il problema delle cause”

Antonello Arabia, ex comandante e oggi presidente del Sum (Sindacato unico dei militari) lo dice con chiarezza: “La Difesa per legge deve annualmente presentare in Parlamento una relazione sullo stato delle Forze Armate. In una pagina specifica il fenomeno dei suicidi viene presentato all’interno dei decessi. L’ultimo presentato è del 2019 e noi abbiamo 23 suicidi per le Forze Armate e Carabinieri ma – aggiunge Arabia -. Nessuno si pone il problema delle cause. Io chiederei al ministro uno sforzo in più”.

“Il suicidio non è solo un disturbo psichiatrico”

Carlotta Lorefice, militare dell’Esercito psicologa e vice presidente del Sum spiega che “il suicidio non è solo un disturbo psichiatrico, ma ci si arriva dopo tutto un incastro emotivo che porta a quel gesto”: concorrono le aspettative (un militare valoroso e sempre forte pronto a a difendere la Patria), la paura di venire demansionati se si chiede aiuto e la difficoltà di dimostrare le situazioni di stress. Poi c’è quel “machismo” di questi tempi che confonde il coraggio di chiedere aiuto con la debolezza.

Anche per questo Paolo Melis, segretario generale del sindacato aeronautico Siam chiede l’istituzione di un soggetto terzo, esterno alla struttura militare, a cui potersi rivolgere in caso di bisogno. Melis sottolinea come al di là dei suicidi esista “un allarme sul benessere psicologico dei militari aeronautici” dovuto anche alle difficoltà e strettoie nei ricongiungimenti familiari: “I trasferimenti verso sud sono estremamente ridotti anche per categorie protette, non solo quindi per ricongiungimenti, ma anche per chi deve assistere malati con la 104”, spiega.

L’emergenza Covid ha portato a problemi di natura psicologica

Il Covid, come negli altri settori ha peggiorato la situazione: “Abbiamo contezza di personale iscritto al nostro sindacato – spiega il sindacato Sum – che da questa situazione determinata dall’emergenza sanitaria ha iniziato ad avere problemi di natura psicologica: li stiamo supportando”. I sindacati si sono quindi organizzati e hanno creato convenzioni con professionisti e associazioni esterne a supporto dei militari che chiedono aiuto.

Finire in infermeria e vedersi ritirare l’arma d’ordinanza restano gli spettri peggiori anche in termini di carriera se non di ricadute immediate. Su quest’ultimo aspetto Monica Giorgi, presidente del Nuovo Sindacato Carabinieri e militare dell’Arma in servizio a Livorno, ha parlato di quanto “la disciplina abbia ancora una forte connotazione virile nel mondo militare”.

“Stigmatizzare le differenze ed esaltare le caratteristiche della ‘mascolinità tossica’ – aggiunge Giorgi – impedirebbe a molti militari di avere un’adeguata consapevolezza circa la differenza che passa tra la disciplina militare, la vessazione o il mobbing. La pistola ritirata non viene vissuta solo come il venir meno di uno strumento operativo, ma di una componente dell’identità di quel militare a cui viene tolta. Senza pistola, per l’Amministrazione, non sei più funzionale”.

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