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Calcio, dilaga tra i giocatori la cultura dello stupro

Ma non sarebbe ora che il mondo del calcio ammetta di avere un serio problema con la cultura dello stupro? È di ieri la notizia della condanna a 6 anni di reclusione per 5 calciatori al tempo tesserati per la Virtus Verona, serie C, che dopo una trasferta a Cesena hanno invitato a una serata “alcolica” una studentessa. Era la notte tra il 18 e il 19 gennaio del 2020. La ragazza racconta che dopo aver bevuto “non mi sentivo bene”, ma “dopo un po’”, quando ha “iniziato a realizzare quello che stava accadendo”, la vittima ha sostenuto di aver reagito: “Ho chiesto loro di fermarsi, anche perché mi trovavo in uno stato di totale abbandono”.

Ma non sarebbe ora che il mondo del calcio ammetta di avere un serio problema con la cultura dello stupro?

I calciatori hanno negato ogni addebito sostenendo che la giovane “fosse lucida e consenziente”. Non la pensa così il giudice Paola Vacca, che lunedì scorso in rito abbreviato, li ha ritenuti responsabili di violenza sessuale aggravata. Da qui la condanna per Edoardo Merci, Gianni Manfrin, Stefano Casarotto, Guido Santiago Visentin e Daniel Onescu, unico a non aver abusato della studentessa perché dedito alle riprese. La scorsa settimana un altro caso.

“Ho sentito il mio corpo come se non fosse più il mio”, ha raccontato ai magistrati la studentessa americana di 22 anni vittima del presunto stupro di cui sono accusati assieme ad altri tre Mattia Lucarelli, figlio dell’ex giocatore Cristiano, e il compagno di squadra Federico Apolloni, dal 20 gennaio agli arresti domiciliari. La ragazza ha spiegato di aver trovato il coraggio di denunciare solo dopo averne parlato con i suoi genitori.

Con loro ha riflettuto, ma su quella sera il ricordo resta terribile: “Quando ho compreso quello che stava succedendo, sono rimasta congelata”. Sono diverse le pagine dell’ordinanza del giudice per le indagini preliminari che riportano le frasi volgari pronunciate dai due ragazzi durante le presunte violenze contro la ragazza, che a un certo punto “si scagliò” contro uno di loro cercando di dimostrare “il proprio dissenso”, spiega il gip.

Ieri i tifosi del Bari hanno manifestato il proprio dissenso all’acquisto del calciatore Manolo Portanova, centrocampista del Genoa condannato a sei anni di reclusione per violenza sessuale di gruppo. Dal giorno della sentenza – era il 6 dicembre – non ha più giocato, anche se in teoria avrebbe potuto farlo, essendo in stato di libertà. La Procura Figc ha aperto un fascicolo su di lui per valutare se ci fossero stati gli estremi per squalificarlo in base all’art. 4 del Codice di Giustizia Sportiva (rispetto dei principi di correttezza e lealtà dei tesserati), ma non c’è stato seguito.

Non è il caso di fare qualcosa Dal 1986 l’Nba, la Lega del basket Usa, ha ideato un programma noto come Rookie Transition Program, una sorta di corso obbligatorio per ogni giocatore matricola del campionato di basket americano finalizzato a mettere gli atleti in condizione di gestire la nuova esperienza sportiva dentro e fuori dal campo. Lo scopo è quello di educare a una gestione consapevole del denaro e della fama.

Come scrive in un articolo per Valigia Blu Valerio Moggia “dovrebbe essere necessario iniziare a chiedersi se non sia il caso di insegnare ai giovani giocatori, oltre a palleggiare e a fare i movimenti giusti per evitare un fuorigioco, anche cosa significhi consenso e quali siano i confini oltre i quali si verificano molestie o stupri. Se la nostra cultura spinge i ragazzi che giocano a pallone a sentirsi legittimati a comportamenti sbagliati, allora il calcio deve assumersene la responsabilità e lavorare per invertire la rotta”. Se non ora, quando?

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Il Consiglio d’Europa lo scrive chiaro e tondo: il decreto Piantedosi è carta straccia

Sono solo 9 pagine ma pesano come un intero tomo sulla faccia del ministro Piantedosi e sui suoi fantasiosi modi di ostacolare il salvataggio delle vite umane. Il Consiglio d’Europa pubblica un parere del suo comitato di esperti sul diritto delle Ong e non usa mezzi termini: «Il decreto legge n. 1/2023 solleva difficoltà sia procedurali che sostanziali rispetto alla libertà di associazione e alla tutela dello spazio della società civile».

All’interno del decreto che il ministro dell’Inferno Piantedosi e tutto il suo governo sventolano con tanta fierezza vengono riscontrati «requisiti onerosi, arbitrari e talvolta illeciti (nel senso che possono violare i requisiti del diritto del mare, esporre le persone vulnerabili a un rischio maggiore e comportare violazioni della privacy degli individui) per le Ong che svolgono attività di ricerca e soccorso» e che «danno origine a problemi di rispetto dei diritti di cui agli articoli 8 e 11 della Cedu a causa della mancanza di legalità, legittimità e proporzionalità».

Come qualcuno si ostina a scrivere da tempo nel documento si legge che il «decreto legge n. 1/2023 ha l’effetto di vietare alle navi di effettuare più di una missione di salvataggio prima del rientro in porto. Questo, unito alla recente pratica del governo italiano di assegnare porti lontani dalla posizione delle navi, che è di per sé una violazione dell’Unclos (la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare), significa che il tempo in mare delle navi che svolgono attività di ricerca e soccorso vitali è ridotto al minimo». Lo sapeva chiunque se ne intenda di diritto. Tranne, evidentemente, Piantedosi.

E ancora: «Se le autorità ordinassero alle Ong di ricerca e soccorso di recarsi immediatamente in un porto, indipendentemente dal fatto che vi siano altre persone in pericolo in mare nelle immediate vicinanze, ciò sarebbe in contrasto con l’obbligo del capitano di prestare assistenza immediata alle persone in pericolo, come sancito dall’art. 98 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare e il Protocollo di Palermo contro il traffico di migranti».

L’obiettivo di quel decreto è ben chiaro, anche agli esperti: «Questi nuovi requisiti – si legge –  non solo ostacolano il lavoro delle Ong di ricerca e soccorso, ma aumentano anche i rischi associati allo svolgimento di tale lavoro sia per quanto riguarda le multe, la detenzione e la confisca delle navi, che possono esacerbare uno spazio già difficile della società civile per Ong che lavorano con rifugiati e altri migranti. Le misure sono in conflitto con le Linee guida del Consiglio di esperti sul lavoro delle Ong, in particolare con la specificazione che le leggi, le politiche e le pratiche dovrebbero non proibire o impedire alle Ong di aiutare rifugiati e altri migranti in difficoltà sia in mare che a terra».

È tutto qui, nero su bianco. Non è l’editoriale di qualche ostinato buonista e non è nemmeno il parere interessato di qualche “comunista”. Piantedosi e i suoi sgherri non sono solo esponenti di una politica feroce, sono anche incapaci di scrivere le leggi.

Buon giovedì.

Nella foto: La nave della Ong Practiva Open Arms al porto di Pozzallo, 26 marzo 2018 (Gregor Rom)

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Piantedosi si accanisce sui migranti

La vergogna di Matteo Piantedosi e di tutta la ciurma del governo Meloni – qui sulla terra ferma – è lunga almeno i settecentosettanta chilometri in pullman che si devono sorbire i minori non accompagnati (senza nessuno, senza parenti né genitori) dopo quattro inutili giorni di viaggio inflitto per arrivare al porto di La Spezia. Se serviva un ulteriore esempio per dimostrare l’infame vigliaccheria del ministro dell’Inferno Piantedosi e di questo governo ora si può aggiungere anche l’odissea della nave Geo Barents di Medici senza Frontiere.

Dirottati a La Spezia per finire a Foggia. L’inutile calvario inferto ai minori della Geo Barents. Quasi 800 chilometri in pullman

Nei giorni scorsi la nave è stata autorizzata a sbarcare in Liguria, a un porto a oltre cento ore di navigazione da dove si trovava. Già qui ci sono tutti gli elementi per tastare il polso alla feroce disumanità di chi usa la burocrazia come randello contro i bisognosi. La nave nel tragitto per raggiungere il porto ha effettuato alcune deviazioni perché, nonostante il decreto Piantedosi, nel mare si rispetta la millenaria consuetudine di salvare chi ne ha bisogno.

Alla fine erano 237 i superstiti di tre differenti salvataggi che sono sbarcati sabato pomeriggio poco dopo le 16. Nonostante il tanto sventolato nuovo “Decreto sicurezza” i controlli non hanno evidenziato nessuna regolarità, tant’è che la nave di Medici senza frontiere ha subito preso la rotta vero il cuore del Mediterraneo nella zona Sar libica. Ora il Viminale ha a disposizione 90 giorni per decidere di multare per “eccesso di soccorso” la Ong.

Le multe previste sono dai 10 ai 50 mila euro. Inutile dire che migliaia di euro è costato anche il viaggio verso il porto assegnato. Quanto possa essere violento rendere meno conveniente salvare le vite umane ognuno può deciderlo secondo la propria coscienza. I minori non accompagnati scesi dalla Geo Barents sono stati redistribuiti in tre centri d’accoglienza: degli 87 minorenni, infatti, 74 sono soli, senza genitori o accompagnatori. Di questi 74, solo 23 sono rimasti a La Spezia, mentre gli altri 51 sono stati trasferiti in giro per l’Italia: tra Alessandria, Livorno e Foggia.

Come la chiama giustamente la giornalista Eleonora Camilli si tratta della “logistica della crudeltà”. Oppure, come dice bene Luca Casarini capomissione di Mediterranea Saving Humans siamo sempre al “bullismo istituzionale”: “questo ministro vorrebbe fare il ‘democristiano’, ma alla fine prevale l’imprinting da ‘bullo’ che caratterizzava il suo predecessore – ha detto ieri Casarini -. D’altronde mi sembra la caratteristica peculiare di tutto il governo: bulli istituzionali e a volte squadristi istituzionali”.

Del resto, come ha detto proprio ieri Filippo Grandi, l’Alto commissario dell’Onu per i Rifugiati, al termine della visita di due giorni in Italia dopo avere incontrato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni “fino a quando non ci sarà un sistema di salvataggio dei migranti in mare finanziato dagli Stati, il ruolo delle Ong va difeso e facilitato”. E invece accade l’esatto contrario. Così dopo Minniti che ha legittimato i lager libici, dopo Di Maio che ha parlato di “taxi del mare”, dopo Salvini che ha mostrato il petto per fare il corte con i deboli come suo solito, ora abbiamo Piantedosi che spedisce pacchi a forma di bambini (rimasti soli) su e giù per l’Italia per rendere il più sofferente possibile l’iter dell’accoglienza.

Del resto sono gli stessi che pochi giorni fa versavano lacrime finte per la giornata della memoria vestiti a festa. Sono quelli che ricordano con orrore le deportazioni via ferro e intanto studiano le deportazioni via mare e ora anche via gomma.

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Donzelli show sulla pelle di Cospito

Forse non sarà “mica da questi particolari che si giudica un giocatore”, come cantava De Gregori, ma le parole di Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d’Italia vicinissimo alla presidente Giorgia Meloni, sul caso di Alfredo Cospito sono un estratto di tutto quello che era possibile sbagliare.

Il meloniano Donzelli contro il Pd per le visite in cella al detenuto. L’accusa: la sinistra sta con i terroristi. La replica: vergogna

Mentre l’Aula era impegnata a discutere per l’istituzione della commissione Antimafia (a proposito: con un voto praticamente unanime è arrivato il via libera di Montecitorio alla sua istituzione) il deputato meloniano è intervenuto citando il caso dell’anarchico in sciopero della fame al 41 bis.

“Cospito – sono le parole di Donzelli – è un terrorista e lo rivendicava con orgoglio dal carcere. Dai documenti che si trovano al ministero della Giustizia, Francesco Di Maio del clan dei casalesi diceva, incontrando Cospito: “Pezzetto dopo pezzetto si arriverà al risultato”, che sarebbe l’abolizione del 41 bis. Cospito rispondeva: Dev’essere una lotta contro il 41 bis, per me siamo tutti uguali. Ma lo stesso giorno, il 12 gennaio 2023, mentre parlava con i mafiosi, Cospito incontrava anche i parlamentari Serracchiani, Verini, Lai e Orlando, che andavano a incoraggiarlo nella battaglia. Allora io voglio sapere se la sinistra sta dalla parte dello Stato o dei terroristi”.

Il curioso teorema di Donzelli è questo: se qualcuno si batte per la difesa della dignità e della salute dei detenuti significa che sta dalla loro parte e se questi parlano con i mafiosi significa che tutelare la salute dei detenuti significa essere amici dei mafiosi. Ma Donzelli, sfidando il senso del ridicolo ha deciso di andare oltre. Cospito? Per Donzelli è “un influencer che usa il 41 bis per far cedere lo Stato”.

E ancora: “La sinistra sta con i terroristi o con lo Stato?”. Bagarre prevedibile in Parlamento. Il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, ha accusato Donzelli di “sporcare un momento di grande unità che il Parlamento ha il dovere di costruire sui temi di lotta alla mafia”. “Ci sono molte ragioni per le quali potremmo invitare Donzelli a vergognarsi e non le ripeterò tutte in quest’aula, ne dirò solo due. La prima è che il suo intervento non c’entra nulla con l’articolo uno della proposta di legge che stiamo esaminando. La seconda è che sta sporcando la profonda unità che stiamo cercando di costruire sui temi della lotta alla mafia”, dice Provenzano.

Perfino il compagno di governo Giorgio Mulè (FI) vicepresidente di turno a dirigere i lavori d’aula si spinge a dire “Forse qualche parole sconveniente c’era anche nell’intervento dell’onorevole Donzelli e io non l’ho interrotto. Ha fatto una critica assai aspra nei confronti dell’opposizione nominando quattro deputati e avendo detto che andavano a incoraggiare Cospito nella battaglia”.

Per non parlare del collega di partito e vice presidente della Camera, Fabio Rampelli. “Analfabeta istituzionale? La presidenza non ha ritenuto l’affermazione ingiuriosa quindi non è intervenuta”, ha scandito rispondendo a Fabrizio Comba, pure lui di FdI, che gli chiedeva di stigmatizzare gli attacchi dell’opposizione contro Donzelli. Lo stesso Donzelli nominato dalla Meloni commissario FdI a Roma, al posto del rampelliano Massimo Milani (solo un caso o una vendetta di Rampelli?).

“Ammettere un errore e chiedere scusa a volte è una prova di forza”, dice Vittoria Baldino (M5S). Un risultato Donzelli l’ha ottenuto: ritardare ulteriormente i lavori d’Aula sull’istituzione della commissione antimafia e coprire di ridicolo una situazione che richiederebbe senso di responsabilità e accortezza. Avrebbe tutta l’aria di essere un sabotaggio, appunto.

“I documenti sul carcere non erano segreti”

“Quelle che ho riferito non erano intercettazioni, ma una conversazione captata in carcere e inserita in una relazione del ministero della Giustizia del cui contenuto, in quanto parlamentare, potevo essere messo a conoscenza. Paradossale che i parlamentari del Pd, invece di spiegare perchè sono andati a trovare Cospito e cosa pensano del 41 bis, attacchino me” afferma Donzelli in un’intervista al Corriere.

“Non mi hanno dato nessun documento riservato. Volendo approfondire la vicenda Cospito, ho chiesto notizie dettagliate al sottosegretario Andrea Delmastro. Avessi divulgato documenti riservati di cui fossi venuto a conoscenza tramite il Copasir – aggiunge l’esponente di FdI – dovrei dimettermi, certo. Ma il Copasir non c’entra niente. E verificarlo è semplice”.

“Chi non ha senso delle istituzioni – conclude Donzelli – è chi è andato a trovare Cospito. Il 41 bis mette in sicurezza lo Stato e viene riconosciuto non da un governo, ma dai giudici, nella loro autonomia. Nel caso di Cospito, poi, la firma sotto il provvedimento l’ha messa un ministro di un governo del quale il Pd faceva parte, mentre noi eravamo all’opposizione. Ma noi difendiamo le istituzioni dell’Italia, non una parte”.

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I morti di lavoro? Sempre peggio

Sempre peggio. Nel 2022 si registra, rispetto al 2021, un deciso aumento delle denunce all’Inail di infortuni sul lavoro (dovuto in parte al più elevato numero di denunce di infortunio da Covid-19 e in parte alla crescita degli infortuni “tradizionali”, sia in occasione di lavoro che in itinere), un calo di quelle mortali (per il notevole minor peso delle morti da contagio, a cui si contrappone però il contestuale incremento dei decessi in itinere), e una crescita delle malattie professionali. 

In particolare le denunce presentate all’Istituto entro lo scorso mese di dicembre sono state 697.773, in aumento del 25,7% rispetto alle 555.236 del 2021 (+25,9% rispetto alle 554.340 del periodo gennaio-dicembre 2020 e +8,7% rispetto alle 641.638 del periodo gennaio-dicembre 2019). I dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno evidenziano a livello nazionale un incremento nel 2022 rispetto al 2021 sia dei casi avvenuti in occasione di lavoro, passati dai 474.847 del 2021 ai 607.806 del 2022 (+28,0%), sia di quelli in itinere, occorsi cioè nel tragitto di andata e ritorno tra l’abitazione e il posto di lavoro, che hanno fatto registrare un aumento dell’11,9%, da 80.389 a 89.967. Nello scorso mese di dicembre il numero degli infortuni sul lavoro denunciati ha segnato un +24,5% nella gestione Industria e servizi (dai 464.401 casi del 2021 ai 578.340 del 2022), un -3,6% in Agricoltura (da 26.962 a 25.999) e un +46,3% nel Conto Stato (da 63.873 a 93.434). Si osservano incrementi generalizzati degli infortuni in occasione di lavoro in quasi tutti i settori, in particolare nella Sanità e assistenza sociale (+113,1%), nel Trasporto e magazzinaggio (+79,3%), nelle Attività dei servizi di alloggio e di ristorazione (+55,2%) e nell’Amministrazione pubblica, che comprende le attività degli organismi preposti alla sanità – Asl – e gli amministratori regionali, provinciali e comunali (+54,8%).

L’analisi territoriale evidenzia un incremento delle denunce di infortunio in tutte le aree del Paese: più consistente nel Sud (+37,3%), seguito da Isole (+33,2%), Nord-Ovest (+30,4%), Centro (+29,4%) e Nord-Est (+13,3%). Tra le regioni con i maggiori aumenti percentuali si segnalano principalmente la Campania (+68,9%), la Liguria (+49,0%) e il Lazio (+45,4%). L’aumento che emerge dal confronto di periodo tra il 2021 e il 2022 è legato sia alla componente femminile, che registra un +42,9% (da 200.557 a 286.522 denunce), sia a quella maschile, che presenta un +16,0% (da 354.679 a 411.251). L’incremento ha interessato sia i lavoratori italiani (+27,0%), sia quelli extracomunitari (+20,8%) e comunitari (+15,8%). Dall’analisi per classi di età emergono incrementi generalizzati in tutte le fasce. Quasi la metà dei casi confluisce nella classe 40-59 anni. Le denunce di infortunio sul lavoro con esito mortale presentate all’Istituto entro lo scorso mese di dicembre sono state 1.090, 131 in meno rispetto alle 1.221 registrate nel 2021 (-10,7%). Questo calo è la sintesi di un decremento delle denunce osservato nel quadrimestre gennaio-aprile (-33,8%) e di un incremento nel periodo maggio-dicembre (+7,1%), nel confronto tra i due anni. Si registrano 180 casi in meno rispetto al periodo gennaio-dicembre 2020 (1.270 decessi) e uno in più rispetto al periodo gennaio-dicembre 2019 (1.089 decessi). A livello nazionale i dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno evidenziano, pur nella provvisorietà dei numeri, un decremento nel 2022 rispetto al 2021 solo dei casi avvenuti in occasione di lavoro, scesi da 973 a 790 per il notevole minor peso delle morti da Covid-19, mentre quelli in itinere sono passati da 248 a 300. Il calo ha riguardato soprattutto l’Industria e servizi (da 1.040 a 936 denunce), seguita da Conto Stato (da 53 a 36) e Agricoltura (da 128 a 118).

Dall’analisi territoriale emerge un decremento di 83 casi mortali al Sud (da 318 a 235), di 31 nel Nord-Est (da 276 a 245), di 12 nel Nord-Ovest (da 313 a 301), di tre nelle isole (da 87 a 84) e di due al centro (da 227 a 225). Le regioni con i maggiori decrementi sono la Campania (-37 casi mortali), la Puglia, il Friuli Venezia Giulia e l’Emilia Romagna (-22 ciascuna), l’Abruzzo (-20) e il Piemonte (-18). Tra le regioni che registrano aumenti si segnalano, invece, la Calabria (+14 casi), la Lombardia (+13) e la Toscana (+9). Il calo rilevato tra il 2021 e il 2022 è legato soprattutto alla componente maschile, i cui casi mortali denunciati sono passati da 1.095 a 970, mentre quella femminile passa da 126 a 120 casi. In diminuzione le denunce dei lavoratori italiani (da 1.036 a 881 decessi), in aumento quelle degli extracomunitari (da 138 a 156) e dei comunitari (da 47 a 53). Dall’analisi per classi di età, da segnalare l’incremento di casi mortali tra i 25-39enni (da 153 a 196 casi) e tra gli under 20 (da 10 a 22) e il calo tra gli over 39 anni (da 1.019 a 839). Al 31 dicembre di quest’anno risultano 19 denunce di incidenti plurimi avvenuti nel 2022, per un totale di 46 decessi, 44 dei quali stradali. Nel 2021 gli incidenti plurimi erano stati 17 per un totale di 40 decessi, 23 dei quali stradali. 

 Le denunce di malattia professionale protocollate dall’Inail nel 2022 sono state 60.774, in aumento di 5.486 casi (+9,9) rispetto al 2021 (15.751 casi in più, per un incremento percentuale del 35,0% rispetto al 2020, e 536 casi in meno, con una riduzione dello 0,9%, rispetto al 2019). I dati rilevati al 31 dicembre di ciascun anno mostrano un aumento nel 2022 rispetto al 2021 nelle gestioni Industria e servizi (+10,0%, da 45.632 a 50.185 casi), Agricoltura (+9,5%, da 9.167 a 10.041) e Conto Stato (+12,1%, da 489 a 548). L’analisi territoriale evidenzia un incremento delle denunce nelle Isole (+18,4%), nel Centro (+10,3%), nel Nord-Ovest (+10,0%), nel Sud (+9,5%) e nel Nord-Est (+5,6%). In ottica di genere si rilevano 4.472 denunce di malattia professionale in più per i lavoratori, da 40.387 a 44.859 (+11,1%), e 1.014 in più per le lavoratrici, da 14.901 a 15.915 (+6,8%). Nel complesso, l’aumento ha interessato sia le denunce dei lavoratori italiani, passate da 51.142 a 56.128 (+9,7%), sia quelle degli extracomunitari, da 2.861 a 3.145 (+9,9%), e dei comunitari, da 1.285 a 1.501 (+16,8%). Le patologie del sistema osteo-muscolare e del tessuto connettivo, quelle del sistema nervoso e dell’orecchio continuano a rappresentare, anche nel 2022, le prime tre malattie professionali denunciate, seguite dai tumori e dalle malattie del sistema respiratorio.

Fino alla prossima commemorazione per i caduti sul lavoro. Cerimonie contrite e promesse. Poi si riparte.

Buon mercoledì.

Foto di Alex Umbelino – Pexels

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Altro che la iena Giarrusso. Il Pd inventa falsi nemici ma non fiata su quelli veri

C’erano due modi, uno equilibrato e uno sbagliato, per reagire all’ingresso nel Partito democratico di Dino Giarrusso, ex iena transitato dal Movimento 5 Stelle al sostegno di Stefano Bonaccini passando da una fugace amicizia con Cateno De Luca. A prima vista in molti hanno deciso di imboccare il sentiero sbagliato.

C’erano due modi per reagire all’ingresso nel Pd di Giarrusso. E a prima vista in molti hanno deciso di imboccare il sentiero sbagliato

Lo “psicodramma del Pd”, titolava ieri un quotidiano presunto progressista che dalle parti del Nazareno si ostinano a considerare un fedele servitore della causa. Il Pd è probabilmente nel suo momento storico di maggior debolezza dalla sua nascita: assente all’opposizione perché coinvolto in un congresso che diventa ogni giorno più endogamico, in calo nei sondaggi usurato a sinistra dai 5S e a destra dal cosiddetto Terzo polo, sfilacciato nelle prossime elezioni regionali in cui corre con alleanze opposte nel Lazio e in Lombardia.

Ai giornali vien fin troppo facile bombardare il partito usando anche Giarrusso come leva. “Ricordiamo che fu lo stesso partito che negò la tessera a Pannella”, sussurrava ieri velenoso qualcuno. Il gioco è presto fatto: Giarrusso diventa il nuovo Matteo Messina Denaro, il suo ingresso diventa addirittura un evento “politico” e ancora una volta, l’ennesima, il congresso che doveva essere una “rifondazione” si sgretola nel chiacchiericcio eterno. Eppure c’era un modo per non sbriciolarsi nella polemica: non caderci. Accade invece il contrario.

Così da giorni intorno al Partito democratico, mentre Giorgia Meloni e compagnia cantante macinano propaganda, ci tocca assistere alla ridda di interventi che hanno trasformato Giarrusso nella pietra angolare di questa fase congressuale. Così abbiamo dovuto sorbirci le voci di chi, in perfetta sovrapposizione con i demolitori Renzi e Calenda, si è preoccupato di raccontare in pubblico che anche nell’accettare i nuovi iscritti “ci dovrebbe essere un limite” (il sindaco Gori in testa).

Bontà loro non hanno trovato il tempo di spiegarci quale fosse il limite vigente mentre hanno incoronato Luigi Di Maio come nuovo profeta progressista dopo averlo trasformato in statista, dopo avergli apparecchiato un abbraccio elettorale per il suo inesistente partito personale e dopo averlo candidato con tutti gli onori. Questo invece non ci è dato saperlo. In compenso ognuno si può fare un’idea ben precisa sulle intenzioni di chi contribuisce alla demolizione del proprio partito (già affaticato) pur di giocare di sponda contro i grillini.

La colpa di Giarrusso? Avere parlato male del Pd. “Chieda scusa!”, strepita Bonaccini sullo stesso palco in cui qualche minuto prima l’ex iena ne aveva parlato come se avessero appena terminato una colazione in campagna insieme. La colpa di “parlare male” del Pd, diciamolo subito, è piuttosto indicativa.

Se dalle parti del Partito democratico dovessero punire gli ostili al Pd metà dei dirigenti e dei fenomeni televisivi usciti da quelle parti sarebbe espulsa da anni. Pensate alla differenza che c’è tra lo “sparare addosso al Pd” di un europarlamentare spurio come Giarrusso rispetto al dileggio organizzato e diventato alleanza elettorale di Renzi, Calenda e tutta la loro allegra brigata. Allora sorge un sospetto più che lecito.

Non sarà che “sparare” addosso a Giarrusso sia infinitamente più facile che prendersela con i demolitori veri del Pd (interni e esterni) che sulla loro ostilità costruiscono ogni giorno la propria carriera politica Non lo sentite questo odore di bersaglio facile in cui il Giarrusso di turno è semplicemente l’utile idiota per dire qualcosa che altri devono intendere? Il candidato alla Regione Lombardia Majorino l’aveva detto, intervistato qualche giorno fa, proprio su Giarrusso: “Spero che il Pd non si tormenti sul caso”. Non l’hanno ascoltato.

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Letizia Moratti come James Bond

Stancamente in Lombardia trascina la sua campagna elettorale Letizia Moratti, ex sindaca di Milano per conto di Berlusconi poi ex ministra per conto di Berlusconi e infine vicepresidente regionale e assessora alla sanità per conto del leghista Attilio Fontana.

La campagna elettorale di Letizia Moratti sarebbe una storia perfetta per un romanzo dell’assurdo, un paradosso paradigmatico di questi tempi liquidi in cui si può essere tutto e il contrario di tutto, basta essere supportati da una buona comunicazione. Così dopo avere provato a candidarsi per il centrodestra (sulla base di una promessa che le sarebbe stata fatta, non si è mai capito bene da chi), Letizia Moratti si è offesa perché il centrosinistra non ha scelto lei. Già qui siamo oltre il paradosso eppure una fetta della politica italiana (Calenda e Renzi, e chi se no?) crede davvero che Letizia Moratti sia uno splendente fiore del riformismo e del progressismo.

A questo punto ovviamente la campagna elettorale diventa difficile. Che credibilità può avere una berlusconiana di ferro che vorrebbe agghindarsi come nuova iscritta a Lotta continua Così passano le settimane e Moratti viene attaccata dal candidato leghista Fontana («non la riconosco più», disse una volta con un velo di malinconia sul volto) e dal candidato del centrosinistra Pierfrancesco Majorino (a cui basta srotolare il curriculum dell’ex sindaca).

Siamo a ieri. Letizia Moratti deve avere avuto una lunga riunione con i suoi comunicatori perché ha estratto un coniglio dal cilindro. «Da dentro alla Regione ho potuto vedere tante inefficienze»: dice Letizia Moratti a Tgcom24 assicurando di sapere come risolverle. «Quando mi domandano perché non me ne sono occupata, semplicemente – è la sua risposta – perché le criticità che ho trovato in sanità erano talmente tante che tutte le mie giornate erano spese per quello. Non potevo dedicarmi ad altro. Le criticità che ho visto ora però so come sanarle». Avete capito bene. Dice Letizia Moratti di essere stata un’agente sotto copertura in missione per il riformismo che si è intrufolata nella destra per carpirne gli errori e quindi candidarsi come risolutrice.

E tutto questo riesce a pronunciarlo senza un minimo di vergogna. Il suo nome è Bond, Letizia Bond.

Buon martedì.

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In Gran Bretagna vietate le immagini “positive” dei migranti

Per Melting Pot Fabrizio Urettini racconta ciò che sta avvenendo in Gran Bretagna e di cui qui in Italia nessuno si degna di dare notizia. Con un emendamento al disegno di legge in approvazione nel Regno Unito (l’Online Safety Act, nato per la tutela dei minori online) si vuole allargare il divieto di diffusione di contenuti pedo-pornografici, di terrorismo e anche alle immagini che in qualche modo mettono sotto una “luce positiva” le persone migranti.

Scrive Urettini: «Il nuovo Safety Bill inglese segna, a nostro avviso, un salto di qualità in quell’intreccio fra logica criminalizzante ed efficientismo amministrativo nel perseguire quello che sembra essere diventato l’obiettivo principale delle politiche migratorie di molti paesi occidentali, ossia l’esclusione delle persone in movimento qualificate come indesiderabili. Un processo di criminalizzazione che non solo investe le misure politiche e normative in tema di immigrazione, ma che ora rischia di diventare anche processo mediatico verso l’affermazione di un nuovo diritto penale della sicurezza che, deviato da una connotazione di stampo proibizionistico e preventivo, divora tutti i principi dello Stato di diritto».

Si tratta, di fondo, della stessa stupida teoria che circola dalle nostre parti secondo cui il mondo sarebbe abitato da gente immobile che non si deve vedere mentre tenta di raggiungere salvezza. Ha lo stesso retrogusto amaro della battaglia per liberare il Mar Mediterraneo dalla presenza delle Ong che non solo si permettono di “salvare” ma anche quotidianamente di testimoniare l’attività criminale dell’Unione europea e della cosiddetta Guardia costiera libica. Sono le stesse immagini che in molti vorrebbero sotterrare insieme alle vittime della rotta balcanica.

Urettini, che di professione è art director, lancia un appello: «Coscienti che la deriva securitaria del nuovo Safety Bill, e parola non poteva essere così inappropriata, comporta un pericoloso precedente giuridico da parte di una democrazia matura come quella inglese il cui sistema giuridico viene citato a modello da diversi paesi europei ed extraeuropei, abbiamo deciso di lanciare una “call for artist” chiedendo ad amici e colleghi designer, artisti e fotografi di sede nel Regno Unito e che, come noi, si riconoscono in questa nuova dimensione culturale e spaziale di inviarci un’opera per stimolare un dibattito e chiedere coralmente che l’emendamento venga ritirato».

Ne aggiungiamo un altro: coscienti della deriva securitaria della politica italiana avvisiamo i partiti sedicenti solidali che presto questa insidia legislativa si presenterà anche da noi.

Buon lunedì.

Nella foto: frame dal trailer del docufilm di Vanessa Redgrave Sea Sorrow (2017) sui rifugiati che arrivano in Europa e sugli attivisti britannici per i diritti umani

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Messina Denaro, la narrazione surreale dell’arresto e della vita del boss

Avete visto? L’onda (e l’orda) antimafiosa sta già scemando. C’era da immaginarselo. L’arresto di Matteo Messina Denaro ormai è solo la terza serie, dopo quelli di Riina e Provenzano, girata su un copione già scritto. Rispetto a Netflix cambiano i tempi che qui sono molto più dilatati e quindi alla fin fine gli sceneggiatori possono permettersi di ripetere scene già viste, di usare trucchi narrativi già abusati.

Il processo di umanizzazione della belva

Come le altre volte, abbiamo visto il boss sfilare davanti alle telecamere con appiccicata in faccia tutta la delusione per la fine del suo videogioco criminale. Riina, Provenzano e Messina Denaro hanno tutti e tre con quella stessa faccia dell’alunno che esce da scuola con un brutto voto in tasca e gli toccherà fare i conti con il mondo lì fuori. Messina Denaro può sciorinare anche una malattia, una malattia brutta che taglia la gola alla speranza, per trasformare la sua prigionia in un sequel in cui non mancheranno gli aggiornamenti: ha mangiato, sta bene, sta male, gli hanno cambiato cura, soffre, non soffre, è un leone. Medici, famigliari ed esperti di malattie mafiose potranno sbizzarrirsi. Guardate che non è poco, si tratta di un ulteriore gancio per umanizzare la belva, per romanticizzare la mafia e per assicurarsi capitoli successivi. La saga di Matteo Messina Denaro però ha già stufato. Gli sgoccioli si giocano con le riprese – fatte male e troppo velocemente – del suo “bunker” che è un anonimo appartamento arredato con cattivo gusto. Anche su questo i titoli però non hanno freni. “Il boss aveva in casa una palestra”, scrivono mentre scorrono le immagini di una panca a basso costo e nient’altro. Iperboli a piene mani da dare in pasto a un pubblico con la pancia già piena di mafia, di antimafia e dell’ultimo boss. “Ritrovata perfino una pistola pronta a sparare”. Perfino? Ormai una pistola nel comodino ce l’hanno anche i leghisti che sognano di incappare in una difesa sempre legittima e stecchire qualche straniero sul cancello. Un’altra notizia che non c’è.

Matteo Messina Denaro, trovata l’auto del boss: una Alfa Romeo Giulietta, parcheggiata a pochi passi dalla casa di Luppino.
Matteo Messina Denaro (Getty Images)

La mafia viene raccontata come qualcosa di alieno, totalmente estraneo da noi

I servizi giornalistici sono una via Crucis. Si passa dall’inviato che si sente Peppino Impastato con il microfono inquisitore sotto il naso del fruttivendolo di Campobello di Mazara: «Perché ha venduto le zucchine al boss facendo finta di niente?», gli chiede con gli occhi infuocati di tutto lo sdegno che riesce a simulare. L’Italia è in rovina perché quello non si è ribellato negando le banane, capito? Non sono solo scemi i boss mafiosi che abbiamo catturato, c’è una scemenza generale che fa a gara per scemizzare le mafie e così renderle aliene, roba che non ha niente a che vedere con noi, roba lontana che possiamo ammirare nei tiggì o nei libri fiabeschi degli antimafiosi da autogrill. Tutto così. Imperdibile la sottosegretaria di governo che durante una trasmissione televisiva, mentre qualcuno faceva notare che «l’imprendibile boss» se ne andava bello e tranquillo in giro per il paese, ha avuto il coraggio di dire che «il fatto che Messina Denaro non vivesse rinchiuso come ci si sarebbe aspettato ma tranquillamente, come se niente fosse ha reso molto più complicata la sua cattura». Incredibile. Fanno a pezzi perfino la logica pur di rispettare il copione.

Messina Denaro, la narrazione surreale dell'arresto e della vita del boss
La casa dei Messina Denaro a Castelvetrano (Getty Images).

Manca il pezzo più importante di tutta la storia: chi sono le vere menti?

Il fatto è che quando irrompe la mafia, nella politica o nel giornalismo, possiamo toccare con mano l’indicibile ignoranza sul tema. Così ci tocca assistere a giornalisti e intellettuali impegnati a smentire la smentita delle loro decennali narrazioni operata dalla realtà che irrompe. Messina Denaro che frequentava “belle donne” e faceva “la bella vita” ha riempito quintali di libri, di giornali, di editoriali. Si è scoperto che chattava su Whatsapp con la sua vicina di letto in ospedale. Fra qualche settimana scopriremo che inviava le foto del suo pene via Facebook. Ma loro faranno finta di niente, insisteranno nel dipingerlo come un genio del male. Gli serve che sia così: qualsiasi persona, assistendo alle fasi dell’arresto di Messina Denaro, ascoltando la sua rete di protezione locale, conoscendo le sue abitudini per niente accorte, ha la lancinante sensazione che manchi il pezzo più importante di tutta la storia. Altro che mente. Matteo Messina Denaro è il braccio di un sistema di potere solo in minima parte criminale. E quindi chi sono le menti? Questa è la domanda da non fare. Tocca accontentarsi delle calamite di Masha e Orso ritrovate sul suo frigorifero.

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Salvini parla di risalita nei sondaggi

Povero Matteo Salvini che spruzza come un bambino al mare per farsi notare, finge di essere interessato a un ministero che non gli va giù con quel sapore di ripiego e che è costretto perfino a inventarsi bugie per fingersi politicamente in salute. L’altro ieri, ospite a Otto e mezzo su La7, il segretario della Lega e ministro alle Infrastrutture ha smentito (min. 26:20) che stare al governo con Giorgia Meloni avvantaggi Fratelli d’Italia in termini di consensi perché tutti i sondaggi “stanno dando la Lega in crescita da settimane”.

L’ultima Fake news di Salvini sulla crescita della Lega nei sondaggi. Smontata dalla Supermedia settimanale di YouTrend

Ma è così? No, per niente. Il sito Pagella Politica fa chiarezza. Il 26 gennaio l’agenzia di stampa Agi ha pubblicato la cosiddetta “Supermedia” di YouTrend, un sito che si occupa di sondaggi e dell’analisi dei risultati elettorali. Si tratta è una media ponderata dei sondaggi realizzati tra il 12 e il 25 gennaio: tiene conto della diversa grandezza dei campioni intervistati, della data in cui è stato realizzato il sondaggio e del modo in cui sono stati raccolti i dati.

In questo caso sono stati considerati i sondaggi realizzati da Demopolis, Emg, Ipsos, Swg e Tecnè, consultabili sul sito curato dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria della Presidenza del Consiglio dei ministri. In base alla media dei sondaggi delle ultime due settimane e si fa un confronto con le rilevazioni di un mese fa, la Lega è scesa dello 0,5 per cento nei consensi, passando dal 9 per cento all’8,5 per cento.

È il secondo calo più consistente, dietro a quello di Fratelli d’Italia, che è passato dal 30,3 per cento al 29,7 per cento. Ma non è solo questo. Salvini appare compresso tra il suo ruolo di ministro e quello di arruffapopoli. In più ci sarebbe da tenere insieme un partito che non si è ancora sfilacciato solo per le prossime elezioni regionali ma che ben presto gli presenterà il conto.

Così, solo nella giornata di ieri, capita di ascoltare Salvini che se la prende con i giornalisti (“Ero in tv dalla Gruber, una mezz’oretta rilassata, quel ‘giornalismo obiettivo’… Ho ricordato che si vota. Ve ne siete accorti che non ne parla nessuno? Milioni di cittadini che non esistono. La sinistra è indietro a Roma e Milano e fanno finta che quei cittadini non esistono”), poi twitta “una preghiera” per il gravissimo incidente di Roma, poi si infila una pettorina arancione per un sopralluogo “al cantiere del casello autostradale di Bergamo”, poi annuncia un nuovo codice degli appalti entro due mesi, poi promette che “in questo 2023 Anas metterà a terra 3 miliardi di cantieri, che sono 50mila posti di lavoro”, annuncia che il 2023 sarà “l’anno della reintroduzione delle province”, poi dice la sua sulla pista di pattinaggio in Piemonte per le prossime Olimpiadi, poi attacca Sala e Gori, poi si sbizzarrisce sulla guerra e su Zelensky, poi invoca un nuovo Codice della strada, poi dice la sua sul pezzo delle case a Milano e in serata di occupa della separazione delle carriere dei magistrati. Una parola su tutto, sperando di comparire in un trafiletto, annaspando.

Intanto il partito bolle, i congressi slittano (come accade a Treviso) e nel partito si invoca dappertutto “il ritorno alle origini” con Umberto Bossi pronto a dare manforte alla rivolta. Per qualcuno il piano del movimento nazionale “per Salvini premier” è stato un fallimento. Ora la Lega deve smettere di rappresentare la brutta copia di Fratelli d’Italia, tornando a essere sindacato delle regioni del nord. “Tornare al passato”, dicono, che significa “superare Salvini” senza dirlo.

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