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E alla fine la legge 194 è sotto attacco

Ieri la ministra alla Famiglia, le Pari opportunità e al Ritorno al Medioevo Eugenia Roccella è ripartita all’attacco spiegandoci che «per quanto riguarda la proposta di legge sullo statuto del concepito, sono stata la prima a fare una dichiarazione sul tema, ma comunque autorevolmente l’ha fatta subito il capogruppo di FdI, il senatore Malan, e in tutto il percorso della campagna elettorale la presidente del Consiglio ha più e più volte in modo reiterato dichiarato la posizione del partito e del Governo sulla questione della legge 194», ha detto la ministra.

Varrebbe la pena sottolineare che qualche tonto ci aveva ammonito perché “i diritti non saranno toccati” e aveva additato come allarmisti chi sommessamente aveva segnalato il rischio. Invece siamo qui. Come sottolineano le senatrici del Pd Cecilia D’Elia, portavoce della Conferenza delle donne democratiche e Valeria Valente «la ministra Eugenia Roccella in Senato ha confermato una visione propria della destra, distante anni luce dalla nostra, che continua a vedere le donne esclusivamente come madri e che pensa di combattere la denatalità aiutando le donne sostanzialmente a stare a casa per fare figli».

E ora Tra le voci giustamente sdegnate di ieri vale la pena sottolineare quella di Anna Pompili, ginecologa e socia fondatrice di Amica-Associazione medici italiani contraccezione e aborto: «C’è un peccato originale in tutta questa storia: quando si parla di aborto si ragiona sempre come se ci fossero due individualità, due soggetti di diritto uguali e contrapposti. Questo – aggiunge – è un falso biologico e una distorsione della realtà. Siamo abituati a pensare al feto come se fosse un individuo contrapposto a una donna e dimentichiamo una cosa fondamentale, la realtà materiale biologica: ossia il fatto che c’è un organismo, un embrione, dentro l’utero di una donna. E non si può quindi pensare di forzare una donna a portare avanti una gravidanza che non desidera, perché è proprio quel legame a darle il diritto e la libertà di decidere. Quando parliamo di diritto all’aborto, dobbiamo tenere presente che non si può vietare l’aborto. Al massimo si può vietare l’aborto sicuro perché, come vediamo nei Paesi in cui non è consentito, le donne che vogliono interrompere una gravidanza lo fanno lo stesso, clandestinamente, con il conseguente aumento del tasso di mortalità da aborto»

«Daremo alle donne il diritto di non abortire» diceva Giorgia Meloni a settembre dell’anno scorso. Qualcuno ha fatto finta di non cogliere il messaggio. Ora eccoci qua.

Buon mercoledì.

Nella foto: frame del video dell’audizione in commissione al Senato della ministra Roccella, 24 gennaio 2023

PER APPROFONDIRE LEGGI LEFT

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I piani di Silvio e Salvini: scatenare Nordio per logorare la Meloni

Una cosa è certa: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni maledice il giorno in cui il suo ministro Carlo Nordio ha deciso di agitare le acque del governo tirando fuori la questione delle intercettazioni, aggiungendo un problema di cui non c’era bisogno.

Forza Italia blinda il ministro della Giustizia Nordio, la Lega lo molla. Ma il bersaglio è lo stesso: Giorgia

Anche se Meloni insiste nel fingere che “tutto va bene” le critiche e le polemiche nella sua maggioranza non si placano. Per questo la sua promessa di “incontrare tutti i ministri per definire il cronoprogramma del governo” annunciata da Meloni suona come una messa in riga.

“Il clima in Consiglio dei ministri è ottimo e tutti i ministri lavorano in piena sinergia con Palazzo Chigi. Nello specifico, la presidente Meloni ribadisce la sua piena fiducia nel Guardasigilli, che ha fortemente voluto a Via Arenula e con il quale mantiene contatti quotidiani”, ribadiva qualche giorno fa una nota dal Palazzo Chigi.

Ma come stanno veramente le cose? Di sicuro nel dibattito sulle intercettazione Matteo Salvini ha visto uno spiraglio per logorare la sua rivale interna. Le stoccate non mancano. Salvini invita a evitare “lo scontro con la magistratura e viceversa” e puntualizza che la magistratura “ha al lavoro persone perbene che sono in tribunale non per fare politica o per intercettare a casaccio”.

“Abbassare i toni”, ripete Salvini, ma chi lo conosce bene sa che è un invito alla carica ai suoi. Sfiduciare Nordio e rubare a Fratelli d’Italia la fetta di elettorato più legalitaria è l’obiettivo facile da scorgere. In questo quadro si inserisce anche lo schierarsi del sottosegretario leghista alla Giustizia, Andrea Ostellari, contro il “bavaglio” ai giornalisti che pubblicano le intercettazioni paventato dal suo parigrado al ministero Delmastro di FdI: “La qualità di una democrazia si misura anche dalla libertà della stampa di pubblicare notizie e opinioni scomode. Servono delle regole, perché non può esistere il diritto alla gogna. La soluzione tuttavia va individuata senza mettere il bavaglio ai tanti professionisti dell’informazione che contribuiscono a rendere la nostra società più informata e vigile”, ha tuonato nei giorni scorsi.

Il dibattito sulle intercettazioni disegna un quadro diverso dalla maggioranza parlamentare. A difendere Nordio (o meglio, a martellare le intercettazioni) sono inevitabilmente Forza Italia, con Berlusconi che intravede la possibilità di compiere ciò che non gli è riuscito nel 2008, e, manco a dirlo, il sedicente Terzo polo. Ieri Calenda ha rilanciato la favola delle “intercettazioni che divulgate ovunque spesso distruggono la vita delle persone” accusando Fratelli d’Italia di “giustizialismo”.

“Nordio è una persona colta e libera e se Fratelli d’Italia proverà a bloccarlo avranno dei problemi”, avvisa Calenda, mentre Renzi ripete il mantra berlusconiano “il problema non è l’uso ma l’abuso”. Per fortuna, a proposito di abusi, l’ex ministro Orlando con un’interpellanza al ministro della Giustizia proprio ieri ha ricordato a Nordio e al governo che le “violazioni” gli permettono di esercitare i suoi diritti ispettivi oltre a farne carne da propaganda e da dichiarazioni alla stampa.

“Appare, dunque, urgente e necessario vigilare sulla corretta applicazione delle norme già approvate in materia ed evitare assolutamente – conclude Orlando – di utilizzare questo tema come terreno di scontro ideologico, provocando guerre e delegittimazione tra poteri dello Stato”, scrive Orlando. Vittoria Baldino, vicecapogruppo M5S a Montecitorio ieri l’ha spiegata così: “Il punto reale è che Nordio è passato da tecnico a ministro, esattamente come questo governo è passato da opposizione a maggioranza. Una maggioranza tanto composita con posizioni non chiare che si riflettono in modo evidente nelle teorie contraddittorie di Nordio”.

Audito in commissione Giustizia in Senato il Garante per la protezione dei dati personali, Pasquale Stanzione ieri ha spiegato che la legge vigente coniuga privacy e informazione, basterebbe attuarla. Il dibattito in corso, quindi, è una resa dei conti su tutt’altro.

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Ultimatum di Bruxelles all’Italia. Sui balneari Giorgia tira a campare

Una soluzione “a livello strutturale”, che “non sia temporanea”, per “mettere in sicurezza” le concessioni balneari e gli imprenditori che le detengono, di fronte a una direttiva Ue sbagliata. A margine della sua visita a Algeri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni mette in scena il solito spettacolo: equilibrismo tra le regole che impone l’Europa e le intemperanze dei partiti della sua maggioranza che per fare il pieno di voti hanno fatto promesse che non potranno mantenere.

Il piano “strutturale” di cui parla Meloni è un pavido procrastinare. L’obiettivo è semplicemente quello di riuscire ad evitare una proroga della messa a gara delle concessioni e lo smantellamento della riforma sulla Concorrenza voluta dall’ex premier Mario Draghi, che alzerebbero la tensione con Bruxelles. Ci sono da salvare, intanto, le concessioni in scadenza per il 2023, che il governo vorrebbe blindare alla faccia delle norme europee.

Da qui la decisione di ‘accantonare’ gli emendamenti sul tema presentati da FdI al decreto Milleproroghe. Ma non sarà facile convincere gli alleati di Forza Italia e Lega a fare altrettanto, prospettando loro una strada diversa. Alla finestra rimane l’Europa, che oggi ribadisce all’Italia la necessità di rispettare gli impegni pur precisando che questi ultimi non sono legati all’attuazione del Pnrr, concedendo così all’esecutivo uno spiraglio di manovra.

“Non ho cambiato idea sul tema della difesa dei nostri imprenditori Balneari da una direttiva che secondo me non andava applicata su quel settore”, assicura Meloni, spiegando che “la questione è molto complessa, il punto è capire quale sia, nell’attuale situazione, la soluzione più efficace a livello strutturale: quello a cui io sto lavorando è una soluzione che non sia temporanea”, continua la premier, annunciando la convocazione dei “partiti di maggioranza per ragionare insieme” e poi delle “associazioni dei Balneari, prima che gli emendamenti siano votati, per capire se la proroga sia la soluzione più efficace. Però il mio obiettivo è mettere in sicurezza questi imprenditori”.

L’Ue, dal canto suo, segue “molto da vicino le recenti discussioni in Italia sulla riforma della concorrenza che è stata adottata lo scorso anno”, sottolinea la portavoce della Commissione europea Sonya Gospodinova, spiegando che “siamo in contatto con le autorità italiane anche in vista dell’attuazione dei loro impegni” e ricordando che “abbiamo una procedura d’infrazione in corso”.

Finale già scritto

Nel governo qualcuno vede come occasione le parole di Veerle Nuyts, per la quale “le concessioni Balneari non sono formalmente incorporate nelle pietre miliari e negli obiettivi del piano di ripresa e resilienza”.

Maurizio Gasparri ci si butta a pesce dicendo che il discorso di Nuyts “dimostra quanto sia percorribile la strada di una proroga per chiarire lo stato delle cose. Gli imprenditori interpretano le parole di Bruxelles come “giustizia alla battaglia contro le menzogne”, secondo il presidente di Assobalneari Italia Federturismo Confindustria Fabrizio Licordari. Le opposizioni non la vedono così. Di “gioco delle tre carte” parla il vicecapogruppo del Pd alla Camera Piero De Luca, Osvaldo Napoli di Azione vede un “balletto molto poco dignitoso”.

“Non ho cambiato idea”, ripete a tutti Giorgia Meloni. Ma lo schema, ci vuole poco per capirlo, ormai è la fotocopia delle puntate precedenti: simulare una guerra all’Europa per poi allinearsi sommessamente e rimangiarsi le promesse. Solo che il gioco durerà finché i partiti di maggioranza accetteranno di fare la figura degli utili idioti rimessi a cuccia dalla neostatista Meloni. E c’è chi giura che la pazienza avrà un limite molto più vicino di quanto si pensi.

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La politica (e Gianni Cuperlo)

Gianni Cuperlo di sicuro non vincerà queste stanche primarie del Partito democratico. Il deputato del Pd ha troppa esperienze sulle spalle per non sapere che la sua candidatura serve più che altro a fomentare la politica in un dibattito congressuale che molti temevano incagliato in questioni di caminetti e di equilibri interni. Finora sta andando esattamente così.

«Perché la mia candidatura è arrivata in ritardo? Se avessi potuto non l’avrei fatto. E non per mancanza di passione, ma al contrario per troppa passione per questo congresso, che pensavo che fosse l’occasione per fare discussioni che non abbiamo mai fatto», ha detto ieri Cuperlo a un incontro del partito alla sala Candilejas a Bologna.

Ieri con un mazzo di rose bianche Gianni Cuperlo ha portato il suo omaggio alle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. Nella prima giornata emiliano-romagnola della sua campagna per il congresso Pd, e prima dell’iniziativa in programma sotto le Due torri, ha voluto far visita alla lapide con i nomi delle 85 vittime nella sala d’aspetto della stazione. E da lì critica la proposta di una commissione parlamentare di inchiesta sugli anni di piombo, arrivata nei giorni scorsi in Parlamento su iniziativa di Fdi, che ha preoccupato subito l’associazione dei familiari delle vittime. «Non vorrei che la destra al potere volesse rileggere la storia di questo Paese – attacca Cuperlo – le pagine gloriose e le pagine tragiche. Usare il potere che si ha per condizionare la lettura storica di fatti che sono da decenni di fronte all’opinione pubblica è un qualcosa che confligge con il nostro senso di verità e giustizia, ma anche di etica pubblica e di memoria condivisa». La lapide in sala d’aspetto, afferma il candidato alla guida del Pd, «è un luogo simbolico di questa città, del dolore e della sofferenza di Bologna. Ma è anche il luogo dove la città ha mostrato la sua dimensione e il suo orgoglio, la sua passione civile e la matrice antifascista dei bolognesi. Il 2 agosto è uno spartiacque e questo luogo è il simbolo della richiesta di verità e giustizia, rivendicata ogni anno. Non potevo che partire da qui».

Leggendo le parole di Cuperlo mi sono tornate in mente le critiche di chi accusa il Partito democratico di cose del passato. Sono gli stessi che vorrebbero insegnarci il progressismo intendendo come una tiepida pulsione a non esagerare mai nei progetti e nelle proposte. In fondo la strage di Bologna a molti farebbe comodo archiviarla come “storia passata”. E invece la politica è anche la perseveranza della memoria usata come arma bianca per scegliere la resistenza mentre tutti ci invitano alla resilienza. E l’ho trovata un’uscita politicissima, questa di Cuperlo.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video dell’incontro con Gianni Cuperlo, sala Candilejas, Bologna, 23 gennaio 2023

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Altro che verità per Regeni. Con l’Egitto pure la salute è un affare

Ma che ci è andato fare il ministro degli Esteri Antonio Tajani in Egitto? Se davvero è passato dal al-Sisi per ricordare che forma abbiano i diritti civili la missione possiamo tranquillamente certificarla come fallita.

Nonostante il ministro ci dica che il presidente egiziano “è disposto a rimuovere tutti gli ostacoli” per accertare la verità sull’omicidio dello studente italiano Giulio Regeni e su un giusto processo per lo studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki qualcuno non gli deve avere insegnato che “gli ostacoli” sono i silenzi di quel al-Sisi a cui ha sorridentemente stretto la mano.

Presi in giro

Ieri, perciò, hanno perso la pazienza, per l’ennesima volta, anche i genitori di Regeni, Claudio e Paola Effendi, che hanno dichiarato di non avere “aspettative” di nessun tipo: “Basta, per favore, basta finte promesse – hanno spiegato -. Pensiamo sia oltraggioso questo mantra sulla ‘collaborazione egiziana’ che invece è totalmente inesistente.

Fiducia in chi? Se rivolta alla Istituzioni, siamo costretti ad averla, viviamo in Italia – rispondono – Questa è una domanda che ci pongono spesso tutti i giovani che incontriamo e che osservano e valutano il mondo politico. Rispondere è sempre molto complicato”.

La famiglia Regeni sottolinea come “nessun componente del governo attuale” si sia degnato di fargli visita, nonostante sia un viaggio più breve e più comodo di un volo fino al Cairo. Siamo, per ora, nell’ennesima puntata di quella che i genitori di Giulio Regeni descrivono come una sequela di “tutte le promesse mancate, l’ipocrisia, le strette di mani come mera esibizione, la retorica di certi discorsi o comunicati” che evidenziano, come dicono loro, “la chiara prevalenza degli interessi sulla tutela dei diritti umani, alla parola interessi sarebbe da sostituire il termine interessamento che pone una vera attenzione alle persone”.

Davvero Tajani non conosce i questi 7 anni di depistaggi, di false informazioni e di boicottaggi del governo egiziano? I risultati che Tajani avrebbe dovuto riportare in Italia, come ha scritto bene ieri l’onorevole Laura Boldrini, avrebbero dovuto essere “il domicilio degli indagati per far ripartire il processo”.

Tajani è andato in Egitto per le questioni energetiche? Difficile da credere se è vero che il piano energetico è già definito da tempo. È andato davvero, come ha ripetuto ieri per tutta la giornata, per “stabilizzare la Libia”? Bah. Una cosa è certa.

Con un tempismo perfetto proprio ieri il Gruppo San Donato (uno dei più importanti gruppi di sanità privata, con l’ex ministro Angelino Alfano alla presidenza) ha annunciato la firma col ministero della Salute e della Popolazione egiziano e con Gksd Investment Holding di un importante (e fruttuoso) memorandum per la gestione di ospedali in Egitto, il primo dei quali sarà lo Sheikh Zayed, uno dei principali istituti sanitari a Il Cairo.

“L’Italia possiede tra i migliori sistemi sanitari pubblici al mondo e l’erogazione di prestazioni gratuite sia da ospedali pubblici sia da ospedali privati convenzionati, efficienti e di altissima qualità, è una delle pietre angolari di esso”, ha detto Paolo Rotelli, vicepresidente del Gruppo San Donato spiegando che l’obiettivo “è far riconoscere le nostre competenze sanitarie con i fatti, direttamente nelle strutture egiziane, aiutando così il Paese a consolidare il proprio sistema sanitario e a preparare il futuro della medicina insieme”.

Un coincidenza Può essere. “A pensare male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina”, diceva l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Intanto i genitori di Regeni e Zaki possono aspettare.

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Morti che non noterà nessuno

Il luogo è quello già letto e sentito altre volte. Sentito solo di sfuggita perché si tratta di una di quelle notizie che sfioriamo e ricordiamo solo per assonanza. Borgo Mezzanone. Borgo Mezzanone, nel foggiano, è un buco d’umanità in cui buttiamo i rifiuti che non vogliamo vedere: il ghetto dei braccianti che valgono solo per i chili che riescono a raccogliere o a trasportare.

A Borgo Mezzanone sono stati ritrovati stamattina un uomo e una donna morti probabilmente per le esalazioni provenienti dal braciere che avevano acceso durante la notte per soffiare una tiepidezza utile almeno a non congelarsi. Da queste parti il ristoro non esiste, al massimo è consentito sopravvivere. E anche sopravvivere è un privilegio.

A Borgo Mezzanone però non vive un pugno di braccianti che questo Paese ha dimenticato. A Borgo Mezzanone sono in 1.500, pronti a sparpagliarsi ogni mattina per fare gli schiavi e imbandire le tavole del “Made in Italy” che esportiamo con fierezza nel mondo, sempre attenti a lavarlo dal colore del sangue e dall’odore della fatica senza diritti.

Borgo Mezzanone non è un’eccezione.

Sono 150 i ghetti presenti sul territorio italiano. La prima indagine, voluta dal ministero del lavoro e politiche sociali, in collaborazione con l’Anci, l’Associazione nazionale dei comuni italiani, intitolata Le condizioni abitative dei migranti che lavorano nel settore agroalimentare, li definisce “insediamenti informali”. Ma di fatto sono ghetti, formati da baracche, casolari abbandonati, tende e malmesse roulotte, dove abitano oltre 10mila persone di origine straniera che lavorano nelle campagne. Manodopera fondante il comparto dell’agroalimentare.

150 ghetti, sparsi in 38 comuni, divisi in undici regioni lungo lo Stivale. Presenti per lo più tra Puglia e Sicilia, Calabria e Campania. Foggia, la provincia con il numero maggiore di insediamenti (8 i comuni coinvolti, oltre il 20% del totale), seguita dalla provincia di Trapani (4), Reggio Calabria (3), Andria-Barletta-Trani (2), Caserta (2), Cuneo (2) e Rovigo (2). Realtà dalle dimensioni diverse (gli insediamenti più grandi, quelli che superano il migliaio di persone, sono a Borgo Mezzanone, frazione di Manfredonia, dove si contano 4 mila presenze, e nel gran ghetto di Rignano a San Severo, dove sono oltre 2mila presenze), in cui lo Stato consente che si viva nel totale degrado, senza servizi sanitari e igienici.

Dove mancano interventi finalizzati all’integrazione, la mediazione culturale, l’alfabetizzazione. Dove spesso è presente il caporalato e il lavoro irregolare è all’ordine del giorno. Insediamenti che, nel 41,3% dei casi, hanno carattere stabile e permanente. Basti pensare che undici, tra questi, esistono sul territorio da oltre 20 anni; 16 fino a dieci anni, 21 da sei, 27 da uno a tre anni. Luoghi dove manca lo Stato e dove i morti non li nota nessuno.

Buon lunedì.

Nella foto: frame del trailer del film One Day One Day di Olmo Parenti sul ghetto di Borgo Mezzanone

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Sulla Giustizia torna in onda lo stesso film del 2008. Bavaglio stampa e stretta sulle intercettazioni: riecco il piano di Silvio

C’è lo stesso odore del 2008, quelli sono sempre gli stessi ma forse siamo peggiorati noi. Il 7 giugno del 2008 Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, a Santa Margherita Ligure disponeva il divieto di ordinare ed eseguire intercettazioni, anche nell’ambito di indagini giudiziarie. Un provvedimento da cui avrebbero dovuto essere escluse, secondo Berlusconi, “solo le inchieste che riguardano la criminalità organizzata, la mafia, la camorra e il terrorismo”.

Indietro tutta

Sembra tutto uguale a oggi, vero? Certo in quell’epoca i toni erano diversi: Berlusconi presidente del Consiglio aveva un’agibilità di manovra molto più ampia della sua attuale collega Giorgia Meloni, l’Ue pesava molto meno nei propositi politici dei governi e il berlusconismo sembrava un’onda inarrestabile.

A quel tempo Berlusconi prometteva “5 anni di carcere per chi le eseguirà e per chi le propagherà” promettendo anche “una forte penalizzazione economica per gli editori che le pubblicano”. La sostanza quindici anni dopo però è la stessa. Il giochino di lasciare intonse le indagini di criminalità è lo stesso.

“Guai a cancellare le intercettazioni L’apporto fornito nella cattura di Messina Denaro, per esempio, è indiscutibile. Di contro, guai a pensare che ci sia sempre uno scrupoloso rispetto delle leggi: in alcuni casi è emersa la ricerca dei reati ‘purchessia’ e ‘a ogni costo’. E questo non va”, ha detto ieri la presidente della commissione Giustizia del Senato Giulia Bongiorno. Tradotto è lo stesso identico discorso.

Nell’occhio del ciclone ci sono, ancora, i giornalisti seppur con toni più furbi e apparentemente sfumati: “Bisogna intervenire da una parte con l’Ispettorato generale per verificare che non vi siano fuoriuscite di notizie dalle Procure stesse, dall’altra parte con una norma più stringente. E poi lo dico onestamente, sì, anche sui giornali” ha detto ieri Andrea Delmastro, parlamentare di Fratelli d’Italia e sottosegretario della Giustizia.

Tira una brutta aria

In quel 2008 dovette intervenire il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per frenare gli insaziabili appetiti di impunità. “Sulle intercettazioni servono soluzioni bipartisan”, disse il presidente della Repubblica. Il berlusconismo provò addirittura la strada del decreto legge, stoppato per intervento del Quirinale. C’è lo stesso odore del 2008 solo che in quel caso la sollevazione contro il vergognoso attacco alle indagini fu ampissima.

Non solo i partiti d’opposizione (che invece oggi tentennano) ma anche gran parte della stampa sottolineava come quel garantismo fosse solo un travestimento della voglia di impunità. Oggi il governo Meloni riesce a essere più liquido, apparentemente benevolo, e gli è più facile ottenere un appannamento della memoria.

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Perché la storia della bidella pendolare è un’occasione persa

Quando le notizie non servono per raccontare storie ma diventano martelli per fracassare le idee avversarie accade che giornali, televisioni e social media sia avviluppino in uno sconcertante gioco endogamico che non parla a nessuno. È il caso della bidella Giuseppina, assurta all’onore delle cronache per una presunta e incredibile avventura di pendolarismo estremo che la porterebbe a svegliarsi alle 4 di mattina per prendere un treno da Napoli e presentarsi in orario al suo luogo di lavoro a Milano, pronta a tornare indietro entro mezzanotte.

Giuseppina è diventata il randello da usare contro gli indolenti che si cullano sul RdC

Nel giro di poco tempo, manco a dirlo, Giuseppina è diventata il randello con cui dare addosso ai presunti indolenti che insozzerebbero l’economia di questo Paese cullandosi sul Reddito di cittadinanza e rifiutandosi di percorrere qualche chilometro per una naturale inclinazione al divano. La notizia in fondo conta poco per gli avversari che usano la cronaca solo come spunto per soffiare sullo scontro. Così una storia minore diventa pietra dello scandalo e per giorni ci si rincorre per confermarla o smentirla, assiepati nei dintorni dell’istituto per accogliere testimonianze e rivelazioni. Qualsiasi giornalista di lungo corso sa, tra le altre cose, che con un microfono acceso in mezzo alla gente inebriata dalla ribalta si possono raccogliere voci di ogni tipo e così la straniante inchiesta del giornalismo al servizio delle ideologie si trascina con allievi, genitori e baristi che offrono versioni opposte: Giuseppina è gentile e cara e presente tutti i giorni, Giuseppina è una furba che sarebbe in congedo permanente, assenteista diventata senza meriti un feticcio di laboriosità.

Iniziano a delinearsi i contorni della riforma del reddito di cittadinanza: verrà fissato un termine oltre il quale non si riceverà più il sussidio.
Reddito di cittadinanza (Getty Images)

Le radici della propaganda fatichista e la demolizione dei diritti

Nessuno, quasi nessuno, che si interroghi sul fatto che la propaganda fatichista di novelli Stakanov come salvatori del prodotto interno lordo abbia radici ormai profonde. Furono i tempi dei manager che si licenziavano in tempi di lockdown per vivere felici, rilasciando interviste in cui lodavano la flessibilità e il salutismo di far consegne in bicicletta. Un genere letterario che ci ha ammorbato per mesi prima di scoprire che gli intervistati non erano mai stati manager ma, soprattutto, erano specchietti per le allodole delle azione di consegne. Poi è stato il turno dell’elogio quotidiano del sacrificio, con qualche politico – anche un ex presidente del Consiglio – che elevava la sofferenza a ingrediente necessario per essere buoni lavoratori. Anche in quel caso pochissimo fu lo spazio dato a chi sommessamente faceva notare che un lavoro che diventa sacrificio è il viatico per la demolizione dei diritti, è una chiacchierata da fare a tavola tra genitori e figli ma non può diventare un paradigma.

Perché la storia della bidella pendolare è un'occasione persa
Il bosco verticale a Milano (Getty Images).

I veri problemi ignorati: dai costi invivibili di Milano agli stipendi da fame della scuola

Eppure se ci prendessimo la responsabilità di non strattonare Giuseppina avremmo modo di discutere dei costi invivibili di Milano che insegue solo inquilini altospendenti ma li paga con stipendi periferici. Avremmo anche potuto discutere dello spropositato aumento (destinato a salire ancora) degli spostamenti necessari per sopravvivere. Potremmo perfino discutere dello stipendio di tutte le Giuseppine d’Italia (1.100 euro al mese) che fotografano una realtà praticamente assente dai dibattiti di politici e giornalisti completamente scollegati dalla realtà. E potremmo aggiungere un mondo della scuola in cui gente come Giovanni ha dovuto viaggiare tutti i giorni da Caserta a Siena come personale aggiuntivo Covid per rimanere ora disoccupato (la sua e le altre storie sono qui).

Perché la storia della bidella pendolare è un'occasione persa
Pendolari a Cadorna, Milano (Getty Images).

L’Italia pendolare non ha bisogno di testimonial per rendere credibile lo sfacelo

Avremmo potuto, insomma, far cadere l’ossessione per Giuseppina e cogliere lo spunto per raccontare un’Italia pendolare che non ha bisogno di testimonial per rendere credibile lo sfacelo. Le macerie di un Paese in cui lo schiavizzato (si trovano facilmente, senza bisogno della bidella) viene premiato con una pacca sulla spalla e con l’esposizione agli altri come esempio. A meno che i politici barzotti per la storia della bidella pendolare non pensino davvero di risollevare il Paese facendo percorrere 1000 chilometri al giorno agli italiani in cambio di pochi spicci. Anche questa, pensandoci bene, sarebbe stata un’ottima domanda da porre.

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“In Sicilia molti politici conniventi con i clan. Negarlo è impossibile”. Parla il nipote di Messina Denaro: “Lo Stato non freni l’Antimafia”

Giuseppe Cimarosa ha 40 anni e fa l’istruttore di equitazione e il regista di teatro equestre. È nipote di Matteo Messina Denaro ma ha scelto l’antimafia. La madre Rosa Filardo è cugina di primo grado del superlatitante e il padre Lorenzo collaborò con la giustizia fino al 2017, anno in cui morì. E l’ultima foto di Messina Denaro è stata scattata proprio al matrimonio dei suoi genitori.

Cimarosa, la sua sensazione dopo l’arresto di Messina Denaro?
“Da subito sollievo, gioia felicità e orgoglio. Perché era qualcosa che si sperava di ottenere anche se non ci credevo affatto che sarebbe venuto questo giorno”.

Nei giorni scorsi ha organizzato un presidio a Castelvetrano, nel feudo di Messina Denaro. Com’è andata
“Non benissimo. L’ho voluto fare lì perché volevo invitare i cittadini a manifestare coraggio. Ora serve coraggio. Dobbiamo toglierci la cappa di mafiosità. La mafia e Matteo Messina Denaro erano operativi perché la gente ha paura. Lo volevo fare nella piazza di fronte alla famiglia Messina Denaro perché ha un valore diverso, lì viene fuori il coraggio, ispirandomi a Peppino Impastato e i suoi 100 passi dal boss Badalamenti”.

Come legge la poca partecipazione?
“Sicuramente molti hanno paura”.

30 anni di latitanza nei suoi luoghi. Chi lo proteggeva
“Lui è stato protetto dalla rete di fiancheggiatori, dagli amici di infanzia, quelli che si considerano fratelli. È stato protetto da rapporti che sono rimasti sempre solidi e inviolati di gente che avrebbe fatto carte false per proteggerlo”.

Cosa pensa del dibattito dopo l’arresto?
“Prima tutti erano virologi e ora sono tutti esperti di mafia. Penso che non si debba dire niente. Non si possono fare previsioni. Bisogna affidarsi alle forze dell’ordine che stanno cercando prove e elementi. Sono stanco di sentire ipotesi e illazioni. Serve verità”.

Il ministro Piantedosi ha detto che “le protezioni politiche” di Messina Denaro sono roba vecchia…
“Non sono d’accordo. Una persona come lui non può generalizzare: è sbagliato a prescindere. Bisogna essere ponderati, razionali. Lo dicono i fatti degli ultimi anni con i tanti comuni sciolti qui in Sicilia. Quanta gente della nostra politica era connivente con la mafia Moltissima”.

Come vede questo risveglio dell’antimafia in Italia
“È un ciclo, l’argomento è caldo e si parla di questo. Invece qui c’è bisogno di attenzione vera, dalla politica, con persone che la Sicilia la capiscono, ci devono essere ragionamenti di chi conosce le dinamiche di questi territori”.

Dal punto di vista personale, dopo la collaborazione di suo padre, cosa significa questo arresto?
“Noi abbiamo chiuso un capitolo, abbiamo dato un senso alla sofferenza di questi anni, alla collaborazione di mio padre, e alla sua morte. Abbiamo fatto il nostro dovere di cittadini, niente di speciale. Lo Stato dovrebbe far fiorire storie come queste, molto di più, invece di ostacolarle e lasciare le persone al loro destino”.

Intanto si sta mettendo in discussione l’uso delle intercettazioni…
“Sono imbarazzato. In modo romantico e ingenuo direi che proprio grazie alle intercettazioni abbiamo catturato Messina Denaro. Ma come si può metterle in discussione? A chi giova Se nessuno ha niente da nascondere perché si vuole questa cosa”.

Se dovesse spiegare la mafia ai ragazzi, dopo averla vissuto così da vicino, cosa direbbe?
“Farei leva sui sentimenti e le coscienze. Li metterei davanti a quelle intercettazioni inascoltabili in cui si progettano i delitti, davanti alle immagini delle stragi, agli omicidi, a quel bambino sciolto nell’acido. Per spiegare la mafia ai ragazzi bisogna metterli di fronte al grottesco, in modo crudo.

Ora come prosegue il suo attivismo?
“Io faccio quello che ho sempre fatto. Se la mia storia sarà utile continuerò a raccontarla”.

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Caselli: “La mafia va colpita nella zona grigia”

Dal 15 gennaio 1993 fino al 1999 Gian Carlo Caselli è stato Procuratore presso il Tribunale di Palermo negli anni più bui e sanguinosi della lotta alla mafia. Ammazzati da poco Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Caselli continuò la loro opera mettendo a segno importanti arresti (Giuseppe Graviano, Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Gaspare Spatuzza e Pietro Aglieri) e seguendo la pista “politica” dei rapporti di Cosa Nostra, tra cui il famoso processo su quelli (accertati) tra la mafia e l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti.

Parla l’ex capo della Procura di Palermo, Gian Carlo Caselli: “Sottovalutati i rischi della convivenza con lo Stato”

Caselli era arrivato da pochissimo a Palermo quando venne arrestato Totò Riina al primo incrocio davanti alla sua villa, in via Bernini n. 54, insieme al suo autista Salvatore Biondino. Anche in quel caso si scoprì, come per Matteo Messina Denaro, che il boss non si era mai allontanato dalla Sicilia e dai suoi affetti. Anche in quel caso l’entusiasmo dei siciliani per l’arresto del “capo dei capi” sfumò negli anni a venire di fronte ai silenzi di Riina, di fronte al nuovo ruolo assunto da un altro latitante al suo posto nell’organizzazione criminale (Bernardo Provenzano) e di fronte ai misteri rimasti comunque irrisolti.

Per questo Gian Carlo Caselli è una memoria storica fondamentale per mettere a fuoco il dibattito di questi giorni. Una buona memoria di ciò che è stato è la chiave di lettura fondamentale per il presente e per il prevedibile futuro. Caselli, dopo la pensione dalla magistratura, è presidente del comitato scientifico della Fondazione “Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare” promossa ed istituita da Coldiretti e saggista.

Gian Carlo Caselli, la mafia torna su tutti i giornali…
“Il fatto è noto. Il il 16 gennaio a Palermo viene arrestato dai Carabinieri del Ros coordinati dalla Procura di Palermo, Matteo Messina Denaro”.

Ma le opinioni sono diverse, cosa ne pensa
“Il nostro è un Paese, come dire, dialettico e amante della discussione. Perché su questo fatto si sono avute letture diverse e confliggenti. la prima lettura ( che personalmente condivido) è quella di un successo storico di cui si deve essere grati a chi lo ha eseguito. Contrapposta è la lettura ( anche di persone ineccepibili come Salvatore Borsellino ) secondo cui l’arresto è una sconfitta, in quanto avvenuto dopo ben 30 anni di serena latitanza. Poi ci sono i dubbiosi, i prevenuti, gli ostili, i complottisti: tutti quelli che in un modo o nell’altro “sentono” puzza di marcio senza che neppure si affacci alla loro mente una possibile presunzione… di non colpevolezza degli “accusati”. Infine ecco gli opportunisti, che attribuiscono con toni trionfalistici alla loro parte politica (di governo) il merito della cattura. Ben diversa da questa lettura è quella delle “opportunità”, che si interroga se la cattura ( soprattutto in caso di “pentimento” dell’arrestato) possa servire per scoprire verità fin qui nascoste. Lo sperano soprattutto i familiari delle vittime, che di verità e giustizia ne hanno avuta fin qui piuttosto poca. Ripeto, la prima lettura è anche la mia”.

Qualcuno, più spericolato, la considera perfino una vittoria definitiva. Dopo la cattura di Messina Denaro, si può parlare di fine di Cosa nostra
“L’arresto di Matteo Messina Denaro è l’ultimo anello di una lunga catena di latitanti individuati che parte trent’anni fa con la cattura di Riina e prosegue poi con altre catture “eccellenti”: Brusca, Bagarella, Aglieri, Ganci, i fratelli Graviano, Vito Vitale, Gaspare Spatuzza, Provenzano,… per ricordare solo alcuni nomi dei tantissimi. è evidente che Cosa nostra stragista (quella dei Corleonesi) ha subito durissimi colpi: se non è finita, sembra in via di estinzione. Come una corazzata colpita più volte anche sotto la linea di galleggiamento, che però non affonda”.

E perché non affonda
“Non si deve dimenticare (mai!) che la mafia, tutte le mafie in verità, non sono “soltanto” una banda di gangster pericolosi. Esse sono anche e soprattutto un’organizzazione criminale strutturata, non una “semplice” emergenza. Vanno affrontate e colpite appunto come organizzazione, oltre che nelle singole componenti individuali. Va anche detto che le associazioni di tipo mafioso non operano nel vuoto. Sono inserite in un sistema di rapporti di complicità che coinvolgono professionisti, imprenditori, amministratori pubblici, uomini politici, soggetti che affiancano i capi della mafia e formano la “borghesia mafiosa” o “zona grigia”. È proprio questa a costituire la vera spina dorsale del potere mafioso”.

Siamo alle solite quindi: la forza della mafia è fuori dalla mafia
“La mafia è forte non solo per la sua organizzazione interna ma anche per le alleanze e gli appoggi esterni, e sono questi che ne spiegano la resilienza nel tempo oltre a favorire le lunghe latitanze. Quindi, oltre a perseguire i boss occorre colpire la zona grigia più di quanto non sia fin qui avvenuto”.

Ma secondo lei c’è la consapevolezza del fenomeno mafioso nella sua interezza
“Quel che si è sempre evidenziato e va evidenziato ancora oggi è un chiaro limite culturale. Quello di percepire la mafia come un problema esclusivamente di ordine pubblico, cogliendone la pericolosità soltanto in situazioni di emergenza, quando, cioè, la mafia mette in atto strategie sanguinarie; quello di trascurare i rischi della convivenza con la mafia quando essa adotta strategie “attendiste”, dimenticando la sua lunga storia di violenze e quella capacità di condizionamento che ha fatto di un’associazione criminale un vero e proprio sistema di potere criminale”.

E continuare a considerare la mafia semplicemente come un fenomeno criminale invece che un sistema di potere, alla fine, cosa potrebbe comportare?
“Di qui un andamento discontinuo, una specie di stop and go, dell’attenzione al problema mafia e delle reazioni ad esso”.

Anche nella politica
“In particolare nella politica (tutta, senza distinzioni di casacche) che è poco incline – al di là dei proclami di facciata – ad inserire la mafia in posizioni di rilevo della propria agenda”.

 

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