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A teatro si ride della mafia

Perché salire su un palco, come mi accade per tutti i giorni di questa settimana, al Teatro della Cooperativa di Milano per ridere di mafia Perché la realtà è tragica e perché la memoria ormai è diventata un rito. Quando abbiamo deciso di preparare lo spettacolo Il ridicolo onore.

Perché salire su un palco, come mi accade per tutti i giorni di questa settimana al Teatro della Cooperativa di Milano, per ridere di mafia

Falcone e Borsellino 30 anni dopo e le teste di minchia la criminalità organizzata per l’ennesima volta era diventata un ricordo da esporre come un feticcio. In occasione dei trent’anni dalla morte di Falcone e Borsellino abbiamo assistito a commemorazioni cariche di retorica ma mancava un punto fondamentale: com’è possibile commemorare una storia che non è stata raccontata per intero? Com’è possibile commemorare riuscendo a spegnere il desiderio di verità e giustizia

Noi siamo un Paese strano, al rovescio, e come ci insegnavano i giullari fin dal ‘500 (li abbiamo inventati noi, in Italia, li abbiamo esportati noi nel mondo) non c’è niente di più potente della risata per mostrare che il re è nudo. Con la rista possiamo raccontare quanto sia ridicolo il potere quando ha bisogno di fare il prepotente per governare secondo le regole. La storia delle mafie e dell’antimafia in questo Paese è una storia di omissioni (caratteristica fondante dell’etica mafiosa) ed è una questione di rovesciamenti.

Falcone e Borsellino da vivi furono oggetto di una delegittimazione e di un isolamento continui che accadde non per mano della mafia ma con l’atteggiamento di politici, giornalisti, intellettuali di quell’epoca. Alcuni sono gli stessi che ora li hanno trasformati in miti. È comodo così: i miti si adorano, non si interrogano, non possono parlare.

E così nel trentennale dalla loro morte non ci siamo accorti che Totò Cuffaro e Marcello Dell’Utri (due condannati per mafia che per percorsi diversi avevano incrociato la strada dei due magistrati) hanno avuto un ruolo rilevante nella scelta del candidato sindaco della Palermo di Paolo e Giovanni e poi nelle elezioni regionali siciliane. Noi siamo un Paese già pronto per diventare un canovaccio a disposizione dei giullari. Anche sulla narrazione dei cattivi.

Per decenni abbiamo dipinto Totò Riina come l’uomo che da solo era in grado di tenere sotto scacco una nazione e poi non l’abbiamo ascoltato quando di fronte a un giudice ha detto testualmente “Latitanza A me non mi ha mai cercato nessuno”.

Poi ci hanno detto che Riina era il braccio ma la mente era Provenzano. Provenzano l’abbiamo visto arrestato in un casale in mezzo alle capre mentre collezionava santini e ascoltava musicassette con la colonna sonora de “il padrino” e quella del cartone animato dei “Puffi”. Sarebbe bastato interessarsi a loro un po’ più a fondo senza stare sulla superficie del giornalismo scandalistico per capire che le menti stanno fuori dalla mafia. Ma non ci siamo interrogati.

Mark Twain scriveva che non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è

Lo stesso accade in questi giorni con Matteo Messina Denaro. Mark Twain scriveva che non dobbiamo avere paura di ciò che non conosciamo ma dobbiamo temere ciò che crediamo vero e invece non lo è. Mentre ci innamoravamo dei boss mafiosi le inchieste di questi anni hanno raccontato politici, imprenditori e professionisti al servizio della criminalità organizzata.

Mentre guardavamo le fiction sui “cattivi” i presunti buoni hanno nascosto i soldi trasformandoli in case costruite che non hanno bisogno di essere vendute, ipermercati che non hanno abbastanza clienti. Un riciclaggio che cambia la forma delle nostre città. Allora ridere diventa un’arma bianca per dire l’indicibile e per rivendicare un antiracket culturale. Come ci ha insegnato un altro meraviglioso giullare antimafioso: Peppino Impastato. Ci vediamo in teatro.

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Quel rapporto Italia-Grecia che infrange la legge da un quarto di secolo

Un rapporto congiunto di diversi media investigativi in ​​Europa ha rilevato che alcune persone che arrivano in Italia dalla Grecia nella speranza di presentarsi come richiedenti asilo vengono detenute in stanze buie negli scafi delle navi passeggeri e rispedite in Grecia. Vedrete che non ne parlerà quasi nessuno.

La detenzione illegale può durare a volte più di un giorno e, secondo quanto riferito, viene usata anche nei confronti di bambini e minori. In alcuni casi si scopre che rifugiati e migranti siano stati persino ammanettati. Tra le persone colpite negli ultimi 12 mesi c’erano decine di richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Siria e Iraq.

Lighthouse Reports , un’organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di giornalismo investigativo afferma che «… alle persone che rischiano la vita nascondendosi sui traghetti diretti ai porti adriatici italiani di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi nella speranza di chiedere asilo viene negato l’opportunità di farlo». «Invece, vengono trattenuti al porto prima di essere rinchiusi sulle navi su cui sono arrivati ​​e rispediti in Grecia», sottolinea l’organizzazione. I dati forniti dalle autorità greche mostrano che negli ultimi due anni almeno 157 persone sono state rimpatriate dall’Italia alla Grecia in questo modo, mentre si pensa che più di 70 abbiano subito la stessa sorte nel 2020. Tuttavia quasi tutti sono d’accordo che questi siano solo i numeri ufficiali.

I luoghi di detenzione illegale (fonte Lighthouse Reports)

Le navi, insomma, diventano prigioni non ufficiali in cui avvengono detenzioni illegittime sulla base di un accordo bilaterale tra Italia e Grecia fin dal 1999. Secondo l’accordo l’Italia è legalmente autorizzata a rimpatriare nel Paese i migranti privi di documenti arrivati ​​dalla Grecia. Tuttavia, secondo i principi dell’accordo, i richiedenti asilo sono esclusi e dovrebbero essere autorizzati a presentare la loro domanda e farla esaminare. L’Italia ha ripetutamente violato questa disposizione, portando a un contenzioso davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) quasi dieci anni fa: nel 2014, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva già stabilito che questo tipo di rimpatrio dei richiedenti asilo in Grecia fosse illegittimo. Ma l’Italia ha continuato.

Un uomo illegalmente detenuto (fonte: Lighthouse Reports)

Un richiedente asilo dall’Afghanistan racconta di essere stato rinchiuso in «una stanza lunga due metri e larga 1,2 metri». «Hai solo una bottiglietta d’acqua e niente cibo […] Abbiamo dovuto rimanere in quella piccola stanza all’interno della nave e accettare le difficoltà», ha detto ai giornalisti. Dana Schmalz, Senior Research Fellow in Refugee Law presso il Max Planck Institute for Comparative Public Law and International Law, ha dichiarato all’agenzia di stampa AFP che l’inchiesta ha mostrato «una sistemazione chiaramente disumana» dei migranti a bordo delle navi sottolineando come questa pratica violi «sia il diritto dell’Ue che i requisiti della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Buon venerdì.

Nella foto: una immagine dall’inchiesta Lighthouse Reports 

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Orioles: “Trent’anni per un arresto, non c’è nulla da festeggiare”

Riccardo Orioles di arresti e di speranze deluse ne ha visti. Nel 1982 ha fondato con Pippo Fava il mensile I Siciliani e da lì il suo fare giornalismo raccontando mafie, massoneria e potere non si è mai fermato.

Da conoscitore della mafia, come vede il dibattito dopo l’arresto di Messina Denaro?
“Tipico italiano, come il dibattito ipocrita sul fascismo. Vede, in Sicilia abbiamo una buona usanza, quella di eleggere il presidente della Regione. Dopo qualche mese che viene eletto di solito i carabinieri lo arrestano e finisce in galera. Da noi accade anche che quando escono dalla galera scelgano il sindaco di Palermo. L’ultimo sindaco l’hanno scelto Cuffaro e Dell’Utri. Questo è il clima siciliano. Questo succede nel profondo sud. In Italia abbiamo un presidente del Consiglio che non è finito in galera solo per questioni giuridiche. Era Giulio Andreotti. Il dibattito di questi giorni è surreale. Abbiamo preso un delinquente. Meritano belle parole i carabinieri e qualcun altro. L’abbiamo preso dopo 30 anni. Poteva capitare peggio. L’hanno preso a pochi metri dalla Dia, questa è scalogna. Ai tempi di Provenzano, che era anche lui un “bellissimo” mafioso siciliano, l’hanno preso con la bibbia sul comodino e seguendo la moglie che gli portava la biancheria pulita. I carabinieri l’hanno pedinata e l’hanno accalappiato. Dopodiché a casa di Provenzano hanno trovato 200 pizzini con richieste di aiuto di professori, medici, avvocati, imprenditori siciliani. Nessuno con la coppola, tutta gente per bene, come dicono qui. Significa che quando capita di andare a Palermo da un medico, un ingegnere o un avvocato è possibile che siano quelli che hanno chiesto aiuto a Provenzano. E, badi bene, non l’hanno fatto di nascosto ma hanno firmato con nome e cognome. Provenzano è morto in carcere ma questi 220 professionisti dove sono finiti? Sono stati inquisiti? Sono al confino? Tutto questo per dire che Provenzano è stato un pezzo di territorio per anni, non risulta che qualcuno lo abbia riconosciuto. Io vorrei sapere perché devo pagare le tasse per accendere le lampadine della strada in cui fanno finta di non conoscere il mafioso ricercato da 30 anni”.

Ma di chi è la responsabilità?
“La colpa sarà di un capro espiatorio. La colpa non è mai degli italiani. Nel caso della mafia non è di nessuno, la colpa sarà solo del mafioso che ha avuto la disgrazia di farsi beccare. E così ora abbiamo sconfitto la mafia”.

E poi?
“Aspettiamo il dibattito. Poi ci sarà la polemica sul perché non è giusto metterlo in galera, poi ci sarà da processarlo e qualcuno litigherà sull’ergastolo per uno che ha strangolato il bambino. La mia consolazione, che consola me, è che gli italiani sono tolleranti quando i guai succedono ma poi prima o poi si svegliano. Vediamo tra 10 anni quando qualcuno nessuno pagherà per la latitanza trentennale. E quando parlo di colpe non parlo di carabinieri o dei magistrati ma dei cittadini. Il tabaccaio del Paese che non l’ha riconosciuto. Che gli succede? Niente. Vede, nel nostro caso il pesce puzza dalla coda. Il senso comune è sempre lo stesso: mi faccio i cazzi miei”.

Si stanno dimenticando, nel dibattito, le cose più importanti?
“Non vedo alcun dibattito: è una barzelletta, è un varietà. Nel mese scorso ho avuto il problema di un ragazzo siciliano malato, che distribuisce volantini in Toscana perché qui morirebbe di fame. Questo è uno serio che ha fatto antimafia, uno dei miei redattori, questo giovane italiano è disoccupato ma è esiliato. Nel momento del bisogno gli sono arrivati dei denari da una sua amica, che insegna all’università in Canada. Se era per l’Italia poteva morire. Messina Denaro è storia di mafia e corruzione ma è soprattutto storia di indifferenza. In Sicilia noi abbiamo avuto un solo governo nostro fatto da siciliani responsabili, questo governo è stato nel 200 aC, c’era Dioniso, poi non abbiamo più avuto governi popolari”.

Come sta in questo momento il movimento antimafia
“Io faccio antimafia con ragazzi che alla sera tornano a casa, si levano il cravattino da cameriere e ascoltano la mia telefonata e hanno l’immensa pazienza di sentirmi e di farsi rimproverare. Facciamo il nostro dovere ma siamo soli. Ogni volta che propongo a un ragazzo di fare qualcosa ho paura. Più invecchio più ho paura: questo ragazzo così generoso tra 5 anni sarà un disoccupato e tra 10 un fallito perché nessuno gli perdonerà di essersi schierato. Il mondo è pieno di questa gente. Ma non è solo colpa dei politici, c’è la pigrizia di un cittadino che accetta di diventare un suddito e per questo Messina Denaro è uno dei minori problemi che abbiamo. Il prossimo bambino strangolato potrà avere giustizia forse tra 30 anni”.

Però l’arresto di un latitante rimane una buona notizia…
“In questi giorni mi sono incazzato con i miei compagni perché volevano andare in piazza per festeggiare la cattura di Messina Denaro. 30 anni di latitanza non si festeggiano, gli ho spiegato. Se proprio volete andate dal primo carabinieri che incontrate e stringetegli la mano”.

 

Leggi anche: Tutti a parlare del Viagra e dei vestiti di Messina Denaro. Ma è così che si inabissano gli politici amici e gli affari di Cosa Nostra

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Un’altra sentenza: il respingimento in Libia è illegale. E quindi quello italiano è favoreggiamento

È il 30 luglio del 2018. La Asso 28, rimorchiatore della società armatrice “Augusta Offshore” che operava a supporto della piattaforma Sabratha della società petrolifera “Mellitah Oil & Gas” – è stata allertata da personale della piattaforma della presenza di un gommone con 101 persone migranti in acque internazionali, tra cui donne e bambini. La Asso 28, dopo aver accolto a bordo un presunto agente libico, ha intercettato il gommone ed ha riportato i migranti in Libia, dove sono sbarcati al porto di Tripoli per essere poi nuovamente detenuti e sottoposti a trattamenti degradanti e violazioni dei propri diritti.

Dopo la condanna in primo grado di giudizio anche la Corte d’Appello all’esito dell’udienza del 10 novembre 2022 conferma la decisione del Tribunale di Napoli che aveva ritenuto che la condotta del capitano integrasse i reati di “sbarco e abbandono arbitrario di persone”, di cui all’art. 1155 del codice di navigazione, e di “abbandono di minore” di cui all’art. 591 del codice penale. Le motivazioni saranno disponibili a marzo 2023.

Scrive Asgi che «se finora queste prassi hanno goduto di un’effettiva impunità e sono state adottate in maniera sistematica dalle autorità italiane per impedire alle persone migranti di raggiungere le coste italiane, la conferma della condanna rafforza il principio che nessun capitano è esentato dal rispetto del diritto internazionale ed in particolare dalla necessità che i naufraghi siano condotti in un porto sicuro quale non è la Libia».

Ma c’è un altro particolare interessante. Il governo italiano con il suo memorandum con la Libia e con la silenziosa accettazione dell’Unione europea fornisce mezzi e addestramento alla cosiddetta Guardia costiera libica per accalappiare i disperati in mezzo al mare e riportarli all’inferno. Tecnicamente quindi l’Italia favorisce gli esecutori di un reato accertato da un tribunale italiano.

Buon giovedì.

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Tutti a parlare del Viagra e dei vestiti di Messina Denaro

Vi prego basta, per favore basta con i profumi e i vestiti di Matteo Messina Denaro. Nemmeno i tre giorni che ormai sono passati sono serviti per raddrizzare il tiro e focalizzarsi su ciò che di più conta: alcuni degli amici, anche potenti, di Matteo Messina Denaro li conosciamo già. Sappiamo i loro nomi e i loro cognomi e sarebbe il caso di scriverli, ripeterli, dirceli, almeno per smontare questa assurda narrazione del boss utile per farci un film o un libro ma alieno in questo nostro Paese.

Basta con i profumi e i vestiti di Matteo Messina Denaro. Alcuni nomi e cognomi ci sono già

Parliamo ad esempio di ciò che raccontano il collaboratore di giustizia Vincenzo Sinacori e l’ex senatore Vincenzo Garraffa, che nel 1994 Messina Denaro si attivò per far votare Antonio D’Alì (rampollo della famiglia D’Alì Staiti per la quale il padre aveva lavorato), candidato nelle liste del Popolo della Libertà, per l’allora nuovo movimento politico “Forza Italia”: infatti alle elezioni politiche del marzo quell’anno D’Alì risultò eletto al Senato con 52mila voti nel collegio senatoriale di Trapani-Marsala, e venendo rieletto per altre tre legislature.

D’Alì nel 2001 venne nominato sottosegretario di Stato al Ministero dell’interno nei Governi Berlusconi II e III fino al 2006. Raccontiamo di Giuseppe Grigoli, proprietario dei supermercati Despar nella Sicilia orientale, condannato per mafia e riciclaggio (erano i soldi di Messina Denaro) e a cui hanno confiscato qualcosa come 700 milioni di euro. Raccontiamo di un elettricista diventato imprenditore in brevissimo tempo, Vito Nicastri, che tra il 2002 e il 2006 aveva ottenuto il più alto numero di concessioni in Sicilia per costruire parchi eolici e riciclare il denaro di Messina Denaro.

Raccontiamo di Carmelo Patti, proprietario di Valtur considerato anch’egli favoreggiatore e prestanome di Messina Denaro: il sequestro di oltre un miliardo e mezzo di euro è stato eseguito nel novembre 2018. Ricordiamo che esponenti di una cosca vicina a Messina Denaro sono stati arrestati per aver trasferito in Sicilia una somma di denaro guadagnata con l’allestimento di alcuni stand dell’Expo di Milano del 2015.

Le indagini in quel caso hanno portato a indagare anche il vicepresidente di Unicredit Fabrizio Palenzona. Anche a San Marino si è trovato un legame: un professionista ha avuto contatti email con uno stretto collaboratore di Messina Denaro. E ancora. La Direzione Investigativa Antimafia ha sequestrato nel 2017 alcune società riconducibili a Gianfranco Becchina, che era stato indagato per traffico di reperti archeologici, che avrebbe avuto legami con lui.

Tra i beni sequestrati risulta anche un’ala del castello di Castelvetrano di Federico II del 1239, divenuto Palazzo ducale dei principi Pignatelli. Poche ore dopo il sequestro, scoppia un incendio nell’ala del palazzo appena sequestrato e alcuni documenti vengono distrutti. In seguito a ciò è stata avviata un’indagine.

Ancora: il 15 dicembre 2020 vengono arrestate 13 persone, molti dei quali fiancheggiatori di Messina Denaro tra cui Salvatore Barone, ex direttore dell’azienda dei trasporti Atm di Trapani, compresi numerosi imprenditori e uomini appartenenti alle famiglie mafiose di Alcamo e Calatafimi.

Tra gli indagati anche il sindaco di Calatafimi Segesta, Antonino Accardo, per corruzione elettorale. E poi c’è la massoneria: logge coperte come la “Scontrino”, di cui facevano parte persone di ogni livello sociale. Lo stesso si può dire per “La Sicilia”. Questi sono i nomi da fare. Di questo dobbiamo discutere. Un bel pezzo della rete di Messina Denaro è già sotto i nostri occhi. Ed è molto più importante dei profumi.

 

Leggi anche: Riflettori accesi su un varietà. Così i buchi neri restano. Parla il giornalista Orioles: è il trionfo dell’ipocrisia. “Trent’anni per un arresto, non c’è nulla da festeggiare”

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L’ipocrisia del Governo sulle intercettazioni

Mentre tutti lo celebravano per l’arresto del boss Matteo Messina Denaro il procuratore di Palermo l’ha detto chiaro e tondo: “Le intercettazioni – ha spiegato il magistrato durante la conferenza stampa – sono state uno dei pilastri dell’inchiesta. Stiamo parlando di uno strumento indispensabile e irrinunciabile per il contrasto alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Senza le intercettazioni le indagini non si possono fare oppure non portano a nessun risultato. Questo è un discorso importante che deve essere chiaro una volta per tutte”.

Per Nordio i boss non usano il telefono. Ma con la cattura di Messina Denaro si rimangia tutto: “Le intercettazioni sono indispensabili”

Una volta per tutte, puntualizza Maurizio De Lucia perché fa un certo effetto assistere in queste alle celebrazioni delle stesse persone che da anni vorrebbero demolire le indagini antimafia (e non solo quelle) mettendo in discussione uno degli strumenti più proficui e importanti. Così ieri è bastato pochissimo tempo perché il ministro della Giustizia Carlo Nordio si sentisse chiamato in causa.

In diretta a Radio 24 non può fare a meno di accodarsi al clima festoso e dire che “le intercettazioni sono uno strumento indispensabile per il terrorismo e la mafia, ciò che va cambiato radicalmente è l’abuso che se ne fa per i reati minori con conseguente diffusione sulla stampa di segreti individuali e intimi che non hanno niente a che fare con le indagini”. Sarebbe curioso capire cosa intenda un ministro della Giustizia per “abuso”.

Basterebbe la sola parola “abusi”, ancora di più per un ministro della Giustizia, per capire che Nordio si riferisce a pratiche illegali. E le intercettazioni illegali, con buona pace di Nordio e del centrodestra più gelosamente garantista, lo sono per definizione.

Così serve qualcuno che ha dedicato la vita professionale alla lotta alle mafie, l’ex procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho ora deputato del Movimento 5 Stelle per chiarire che “l’unico strumento che si utilizza per la mafia sono intercettazioni e collaboratori di giustizia. Quando si indebolisce l’uno e l’altro è evidente che si indebolisce tutta la lotta. Le intercettazioni – spiega De Raho – il più delle volte non nascono per il contrasto alle mafie. Alle mafie si arriva dopo. Perché le intercettazioni partono dalla corruzione e da altri reati e sviluppandosi su questo binario poi arrivano a tutto quello che c’è dietro”.

Non è così difficile da capire. Come spiega De Raho “le grandi indagini nascono da una diffusione del monitoraggio dei rapporti illeciti che sono tantissimi. Peraltro la corruzione è un momento di grande difficoltà del Paese, incide sulla democrazia, incide sulla concorrenza, sullo squilibrio economico, sulle disuguaglianze. Incide su tutto ciò che è invece la base del Paese. Quindi ridurre le intercettazioni è qualcosa di gravissimo”.

E anche se dalle parti di Forza Italia, come il vicepresidente della Camera Mulè, fingono di non avere “mai messo in discussione le intercettazioni”, confidando probabilmente nell’eccesso di entusiasmo di queste ore, è ancora limpidissima l’immagine di Nordio che con presuntuosa sicumera ci spiegava che “i mafiosi non parlano al telefono”: “Nordio smentisce se stesso”, ripete la senatrice del M5S Floridia.

E in effetti a guardare la scena da fuori diventa difficile darle torto. Nel dibattito interviene anche l’Ordine dei giornalisti che per bocca del presidente Carlo Bartoli ricorda a Nordio e al governo che “introdurre ulteriori limitazioni alla conoscibilità degli atti che sono comunque pubblici e già filtrati, vorrebbe dire sottrarre informazioni preziose per ricostruire vicende di importanza pubblica anche rilevante”.

Ma nella maggioranza insistono: “Basta abusi”, dice Maurizio Lupi, condannando “gli stralci che riguardano la vita privata e che non hanno nulla a che fare con il codice penale”. Il fatto è che questi garantisti a fasi alterne si devono essere persi i giornali di questi giorni impegnati a romanticizzare gli orologi, i gusti sessuali, lo stile degli abiti, le malattie e tutto il resto del Messina Denaro esposto come un trofeo di caccia, pronto per essere impagliato.

L’ipocrisia sta tutta qui. Il viceministro alla Giustizia, il berlusconiano Francesco Paolo Sisto, prova a buttarla sui costi auspicando “un ripensamento e una revisione di una spesa certamente eccessiva”. Intanto in commissione Giustizia al Senato, presiede Giulia Bongiorno: la maggioranza insiste per screditare le intercettazioni.

Nel pomeriggio arriva la proposta di rendere non intercettabili i numeri di telefono degli avvocati difensori. La fa il professore di procedura penale, Giorgio Spangher, uno che nei suoi interventi parla di “regime dei tabulati”, per capirsi. Sta all’ex pm Roberto Scarpinato, senatore M5S, ricordare che “ci sono avvocati che possono commettere reati impropri” come, ad esempio, “il summit di mafia che si svolse proprio nello studio legale di un difensore” e che venne scoperto grazie alle intercettazioni.

Il caso dell’avvocato nonché ex dirigente di Fratelli d’Italia, Giancarlo Pittelli, è lì sotto gli occhi di tutti, solo per citarne uno. Il punto è sempre lo stesso. Mentre il governo celebra e si appropria di un’operazione della magistratura con l’altra mano prova a demolire quella stessa magistratura che finge di onorare. La paura è sempre quella che le intercettazioni possano captare una frase sbagliata, magari di qualche potente che finisce nell’elenco delle telefonate di quei boss che molti vorrebbero descrivere come corpi estranei alla politica e all’imprenditoria.

E così non si accorgono che il loro timore, quella loro imbarazzata difesa, non fa che confermare l’utilità delle intercettazioni per svelare relazioni, convergenze di interessi e favoreggiatori che non avremmo mai sospettato. Intanto ieri a Foggia, grazie alle intercettazioni, è venuta alla luce un’ipotesi di concussione e corruzione in gare d’appalto dell’azienda ospedaliera universitaria Ospedali Riuniti. Alla fine, per fortuna, irrompe la realtà.

 

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Messina Denaro, de Magistris: “Inquietante l’annuncio di Baiardo”

Luigi de Magistris, il giorno dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro che idea si è fatto?
“In primo luogo che, con successo magistrati e carabinieri hanno assicurato alla giustizia l’ultimo boss dell’ala stragista di cosa nostra. Poi penso alle coperture di cui ha goduto dalla borghesia mafiosa per 30 anni. Poi al fatto che si chiude in modo simbolico ed eclatante una fase della strategia politica di cosa nostra, quella dell’attacco militare allo Stato, che dal 1992/1993 è stata sostituita dalla trattativa durante le bombe per passare alla convivenza stato-mafia”.

Una certa politica si è ovviamente presa i meriti. Quanto possono influire i governi in operazioni così lunghe e complicate?
“Un governo appena insediato quasi per nulla, semmai l’arresto di Messina Denaro potrebbe essere un segnale che qualcuno vuole dare al nuovo governo. Quando cambiano equilibri politici e si prefigura anche una nuova stagione di riforme strutturali sulla giustizia diversi possono avere interessi a posizionarsi”.

Ma a che punto è la lotta alla mafia nel nostro Paese?
“C’è un calo di tensione preoccupante, a tutti i livelli. Il Palamaragate ha fatto scendere ai minimi storici la fiducia in una parte della magistratura. Le riforme normative e da ultimo la “Cartabia” spuntano le armi di contrasto e delineano sempre più un magistrato burocrate e conformista. Le mafie che abbandonano la strategia militare di attacco al cuore dello Stato e decidono di infiltrarsi con il silenziatore abbassano anche il livello di attenzione dell’opinione pubblica. Per non parlare delle motivazioni del processo d’appello sulla trattativa stato-mafia dove nell’assolvere importanti uomini delle istituzioni i giudici arrivano a dire che trattare non è reato se il fine è scongiurare le stragi. Siamo alla legittimazione giudiziaria della convivenza”.

Cosa potrebbe cambiare nelle mafie dopo questo arresto?
“Si consolida definitivamente la strategia post-trattativa tra pezzi di stato e mafia che è penetrata sempre di più nella politica, nell’economia e anche nelle istituzioni a tutti i livelli. Il Paese senza i capitali delle mafie andrebbe in default e le collusioni arrivano fino agli apparati di controllo delle istituzioni, magistratura compresa”.

Fa molto discutere l’intervista di Salvatore Baiardo che preannuncia l’arresto. Che ne pensa
“Inquietante per lucidità e preveggenza. Del resto più di un indizio lascia sospettare che ci sia altro. Questo altro bisogna capire cos’è”.

Ma Stato e mafia trattano ancora
“Credo siamo alla fase finale della trattativa, potremmo vedere altri atti che sono il prodotto della trattativa, siamo alla convivenza non traumatica e il fiume di denaro pubblico che si sta riversando sul nostro Paese è il miglior cemento del rapporto tra mafie e pezzi di Stato. La mafia dei colletti bianchi vuole avere mani libere per mettere le mani in pasta”.

Che ne pensa delle polemiche sulla riforma delle intercettazioni?
“Le riforme che il governo vuole attuare sulla giustizia, in particolare ridimensionando l’uso delle intercettazioni anche per reati gravi, come quelli contro la pubblica amministrazione, renderà più difficile anche contrastare il rapporto tra mafia ed istituzioni. Invece di rafforzare l’azione della magistratura la si vuole indebolire e metterla sotto l’orbita del potere esecutivo ed allora addio ad indagini come quelle sulla trattativa stato-mafia”.

 

Leggi anche: Messina Denaro, i vertici dei Carabinieri: “Lo abbiamo sempre cercato in Sicilia. Non ci sono misteri, né segreti inconfessabili”

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Il senso del ridicolo su Matteo Messina Denaro

Era inevitabile che l’arresto del latitante più ricercato d’Italia scatenasse l’euforia che smutanda i vizi. Come la virologia e la geopolitica anche l’antimafia è un tema divertente su cui scannarsi, facile da strumentalizzare perché ricco di misteri e comodo per riempire le pagine dei giornali.

Sull’attribuzione del merito al governo Meloni (come vale da sempre per qualsiasi governo) tocchiamo le prevedibili vette della banalità della propaganda. Il governo che su qualsiasi argomento da giorni si difende spiegandoci che i problemi sono ereditati “dal governo precedente” e che “in tre mesi non si può risolvere tutto” vorrebbe convincerci di essere riuscito a risolvere l’arresto di Messina Denaro prima del problema di accise e bollette. Basta un po’ di logica per cogliere l’inganno. Ma è notevole anche l’orda di editorialisti che hanno il fegato di scrivere che “con il governo Meloni sono cadute le protezioni del boss”. I fatti – mica le opinioni – dimostrano che la latitanza di Matteo Messina Denaro è stata coperta da famiglie politiche appartenenti a una precisa area politica (in primis quella dell’ex senatore berlusconiano D’Alì). Va bene l’entusiasmo ma almeno evitiamo di cancellare la storia.

C’è poi il solito vizio di romanticizzare il boss e di raccontarlo come corpo alieno alla borghesia, alla politica e all’imprenditoria. Anche questo è già accaduto sia per Totò Riina sia per Bernardo Provenzano. Raccontarne i profumi, gli orologi, gli abiti, i profilattici è un errore di spostamento di attenzione. Ciò che ci interessa di Matteo Messina Denaro è capire chi lo ha protetto così a lungo, con chi ha fatto affari, chi ha fatto eleggere, con chi ha riciclato i suoi soldi. Volendo ci sarebbe anche da sapere chi fossero i veri mandanti dell’uccisione di Falcone e di Borsellino. Questi sono i punti. A meno che la romanticizzazione del boss non sia utile a indorare la sua prossima facoltà di non rispondere. Meno letteratura, più pressante richiesta di verità. Sarebbe meglio per tutti.

La latitanza. Ah, la latitanza. Matteo Messina Denaro frequentava il quartiere («usciva, salutava, faceva una vita normale», racconta un vicino di casa), era in cura nella clinica più prestigiosa di Palermo, scattava selfie insieme agli infermieri, scambiava messaggi con le pazienti della clinica per corteggiarle. Questo significa qualcosa in particolare? Troppo presto per arrivare a conclusioni. Un cosa è certa: che certi politici e commentatori vadano su giornali e televisioni a spiegarci che l’impunità e la libertà con cui si muoveva Matteo Messina Denaro lo rendessero ancora più difficile da individuare è una bestemmia illogica che non si può sentire.

Un po’ di serietà, per favore, sull’antimafia.

Buon mercoledì.

Nella foto: Matteo Messina Denaro nel 1993 (identikit della Polizia di Stato)

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Corsa a saltare sul carro dell’Antimafia. E a frenare la Commissione

Chissà se questa nuova passione per l’antimafia dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro dalle parti del governo li convincerà finalmente a muoversi per istituire quella Commissione Antimafia che era stata tutt’altro che prioritaria fino a ieri.

Chissà se l’arresto di Messina Denaro dalle parti del governo li convincerà finalmente a muoversi per istituire la Commissione Antimafia

Lo scorso 27 dicembre con una lettera firmata da Luigi Ciotti inviata al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, al Presidente della Camera Lorenzo Fontana e del Senato Ignazio La Russa e a tutti capigruppo della Camera e del Senato, Libera e le associazioni aderenti alla rete, hanno chiesto al Parlamento l’istituzione in tempi brevi della Commissione Bicamerale d’inchiesta sul fenomeno delle mafie e delle altre organizzazioni criminali.

La Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno delle mafie e sulle altre associazioni criminali – scriveva Libera nell’appello – non è una commissione parlamentare permanente, ma necessita di essere istituita con legge ad ogni nuova legislatura. Per questa ragione fin dal primo giorno dell’insediamento delle Camere, numerosi senatori e deputati hanno depositato il disegno di legge per la sua istituzione, consci che sia una priorità per il nostro Paese.

Meloni e i suoi hanno promesso di esaminare alla Camera la proposta di legge sull’istituzione della Commissione il prossimo 27 gennaio. Come ribadisce Libera i tratta di un primo passo importante che risponde alla richiesta avanzata dalla rete di associazioni aderenti a Libera. La calendarizzazione è una buona notizia ma è importante che si lavori velocemente per l’istituzione della Commissione e che questa lavori alacremente per leggere ciò che sta avvenendo sui territori e avanzi accanto alla denuncia delle proposte utili a liberare il Paese dalla morsa degli interessi criminali e dalle troppe connivenze di cui godono.

Le numerose inchieste portate avanti da magistrati e forze dell’ordine dimostrano con chiarezza che mafie e corruzione sono ancora forti e che c’è bisogno di uno scatto, di un sussulto di coscienza prima che sia troppo tardi.

“La pandemia e la crisi economica – scrive l’associazione fondata da don Ciotti – che stiamo vivendo conducono molte persone ad occuparsi delle emergenze quotidiane da affrontare, ma c’è un filo rosso che tiene unite le grandi diseguaglianze globali, le speculazioni finanziarie, le mafie e la corruzione. È il filo della criminalità dei potenti, delinquenti che trovano il modo di stringere sodalizi a scapito di ampie fasce della popolazione, che rischia di sentirsi sempre più impotente e di essere in via crescente impoverita. Le numerose inchieste portate avanti da magistrati e forze dell’Ordine dimostrano con chiarezza che mafie e corruzione sono ancora forti e che c’è bisogno di uno scatto, di un sussulto di coscienza prima che sia troppo tardi. Nella politica del Paese il problema delle mafie è un argomento messo da parte: è giunto il momento di diventare più presenti in quei contesti scomodi e lontani dove le mafie proliferano”.

Ieri l’arresto di Messina Denaro sembra finalmente avere svegliato qualcuno: “È urgente l’istituzione della commissione antimafia. Credo che questa straordinaria cattura imponga ai partiti un’assunzione di responsabilità. Occorre che anche in questa legislatura venga istituita, con legge e con la massima urgenza, la commissione antimafia”, ha dichiarato ieri il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia al Senato, dimenticando di essere al governo con il suo partito.

Noi siamo qui ad aspettare. Scoprire chi ha protetto per trent’anni il più importante latitante di Cosa nostra è già il primo interrogativo per la commissione che verrà.

Leggi anche: Un colpo al cuore della mafia. Ma la guerra non è affatto vinta. La cattura di Messina Denaro non è la fine. Troppe le domande senza risposta per poter festeggiare

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Il vero problema: la disuguaglianza che cresce

In Italia, i super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri. È quanto emerge dai nuovi dossier di Oxfam diffusi per l’apertura del World economic forum di Davos

«Nel biennio pandemico ’20-’21 – si legge nel report dedicato alle sperequazioni globali, La disuguaglianza non conosce crisi – l’1% più ricco ha visto crescere il valore dei propri patrimoni di 26.000 miliardi di dollari, in termini reali, accaparrandosi il 63% dell’incremento complessivo della ricchezza netta globale (42.000 miliardi di dollari), quasi il doppio della quota (37%) andata al 99% più povero della popolazione mondiale. Battuto dunque il record dell’intero decennio 2012-2021, in cui il top-1% aveva beneficiato di poco più della metà (il 54%) dell’incremento della ricchezza planetaria. Per la prima volta in 25 anni aumentano inoltre simultaneamente estrema ricchezza ed estrema povertà».

«Mentre la gente comune fa fatica ad arrivare a fine mese i super-ricchi hanno superato ogni record nei primi due anni della pandemia, inaugurando quelli che potremmo definire i ruggenti anni 20 del nuovo millennio. – ha dichiarato Gabriela Bucher, direttrice esecutiva di Oxfam international – Crisi dopo crisi i molteplici divari si sono acuiti, rafforzando le iniquità generazionali, ampliando le disparità di genere e gli squilibri territoriali. Pur a fronte di un 2022 nero sui mercati a non restare scalfito è il destino di chi occupa posizioni sociali apicali, favoriti anche da decenni di tagli alle tasse sui più ricchi, che ne hanno consolidato le posizioni di privilegio. Un sistema fiscale più equo, a partire da un maggiore prelievo sugli individui più facoltosi, è uno degli strumenti di contrasto alle disuguaglianze. Un’imposta del 5% sui grandi patrimoni potrebbe generare per i Paesi riscossori risorse da riallocare per obiettivi di lotta alla povertà a livello globale affrancando dalla povertà fino a 2 miliardi di persone».

«Tra il 2020 e il 2021 cresce la concentrazione della ricchezza in Italia», spiega poi una nota di Oxfam dedicata alle disuguaglianze nel nostro Paese intitolata Disguitalia. «La quota detenuta dal 10% più ricco degli italiani – prosegue la nota – (6 volte quanto posseduto alla metà più povera della popolazione) è aumentata di 1,3 punti percentuali su base annua a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 20% più povero e di un calo delle quote di ricchezza degli altri decili della popolazione. La ricchezza nelle mani del 5% più ricco degli italiani (titolare del 41,7% della ricchezza nazionale netta) a fine 2021 era superiore a quella detenuta dall’80% più povero dei nostri connazionali (il 31,4%). I super ricchi con patrimoni superiori ai 5 milioni di dollari (lo 0,134% degli italiani) erano titolari, a fine 2021, di un ammontare di ricchezza equivalente a quella posseduta dal 60% degli italiani più poveri».

«Nonostante il calo del valore dei patrimoni finanziari dei miliardari italiani nel 2022, dopo il picco registrato nel 2021, il valore delle fortune dei super-ricchi italiani (14 in più rispetto alla fine del 2019) mostra ancora un incremento di quasi 13 miliardi di dollari (+8,8%), in termini reali, rispetto al periodo pre-pandemico – si legge ancora in Disguitalia -. Seppur attenuata fortemente dai trasferimenti pubblici emergenziali, cresce nel 2020 – ultimo anno per cui le dinamiche distributive sono accertate – la disuguaglianza dei redditi netti, per cui l’Italia si colloca tra gli ultimi paesi nell’Ue. La povertà assoluta, stabile nel 2021 dopo un balzo significativo nel 2020, interessa il 7,5% delle famiglie (1 milione 960 mila in termini assoluti) e il 9,4% di individui (5,6 milioni di persone). Un fenomeno allarmante che ha visto raddoppiare in 16 anni la quota di famiglie con un livello di spesa insufficiente a garantirsi uno standard di vita minimamente accettabile e che oggi vede quelle più povere maggiormente esposte all’aumento dei prezzi, in primis per beni alimentari ed energetici.

«Nuovi accordi tra le parti sociali sono particolarmente necessari per i circa 6,3 milioni di dipendenti del settore privato (oltre la metà del totale dei dipendenti privati) in attesa del rinnovo dei contratti nazionali alla fine del mese di settembre 2022» si legge nel comunicato Oxfam dedicato al nostro Paese. «Lavoratori che rischiano, con le regole di indicizzazione attuali, di vedere un adeguamento dei salari, calati in termini reali del 6,6% nei primi nove mesi del 2022, insufficiente a contrastare l’aumento dell’inflazione. Se il miglioramento del mercato del lavoro italiano nel 2022 dovrà essere valutato alla luce dei rischi di una nuova recessione, restano irrisolti i nodi strutturali della “crisi del lavoro” nel nostro Paese: la ridotta partecipazione al mercato del lavoro della componente giovanile e femminile, marcate e crescenti disuguaglianze retributive, il crescente ricorso a forme di lavoro non standard e conseguente diffusione del lavoro povero».

Ecco il primo punto di programma di un partito di sinistra.

Buon martedì.

* Foto di Manuel Alvarez da Pixabay

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