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Altro che Piano Marshall: mentre l’Italia esulta, l’Ue boccia il Piano di Draghi per l’Ue

Mentre l’Italia si abbandona all’ennesimo delirio di onnipotenza, l’Europa guarda con freddo pragmatismo al “piano Marshall” di Mario Draghi. Le prime pagine dei quotidiani nazionali grondano entusiasmo: “Ue, il piano Marshall di Draghi” (La Stampa), “L’Ue rischia l’agonia” (Repubblica), “Appello per salvare l’Europa” (Corriere della Sera). Il messaggio è chiaro: solo Super Mario può salvare il Vecchio Continente. Peccato che, come spesso accade, la realtà sia ben diversa dalle fantasie italiche. Politico, in un articolo del 10 settembre, smonta pezzo per pezzo l’illusione di un’Europa pronta a seguire ciecamente le ricette dell’ex premier italiano.

Draghi dipinge un quadro fosco: “Diventeremo una società che fondamentalmente si restringe”, dice, parlando di una “torta che diventa sempre più piccola”. La sua soluzione? Un piano da 800 miliardi di euro all’anno tra investimenti pubblici e privati. Sulla carta, una rivoluzione. Nella pratica, un’utopia.

Il piano Draghi: tra ambizione italiana e freddezza europea

Il primo ostacolo, ci ricorda Politico, è la macchina decisionale dell’Ue, un labirinto di veti incrociati e interessi nazionali. Ma il vero scoglio è il denaro. Draghi propone un aumento del debito comune, idea che fa rabbrividire i paesi “frugali” del nord. Tanto che il ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, appena tre ore dopo la presentazione del piano, ha già messo in chiaro che “la Germania non sarà d’accordo”.

È il solito valzer europeo: nord contro sud, austerità contro spesa. E mentre si balla, l’Europa perde terreno nei confronti di Stati Uniti e Cina. Ma c’è di più. Politico sottolinea come il problema non sia solo politico, ma strutturale. L’Ue ha una produttività inferiore agli Usa, è in ritardo nella transizione digitale e ha un sistema di ricerca e sviluppo frammentato. Problemi che non si risolvono con un colpo di bacchetta magica, nemmeno se a impugnarla è Mario Draghi.

L’Europa al bivio: stagnazione strutturale vs riforme radicali

Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso. Mentre l’America ha saputo reinventarsi, passando dall’industria automobilistica al digitale, l’Europa è rimasta ancorata al passato. “Le aziende leader nella ricerca e negli investimenti sono le stesse di 20 anni fa: le auto”, dice Draghi. Un’ammissione di fallimento che nessun piano, per quanto ambizioso, può cancellare dall’oggi al domani.

E qui sta il punto: mentre l’Italia si crogiola nel mito di Draghi salvatore, l’Europa si scontra con una realtà fatta di ostacoli apparentemente insormontabili. Non si tratta di pessimismo, ma di pragmatismo. Come ricorda Politico, “una crescita più lenta dell’1% è quasi impercettibile in un anno, ma su un decennio o due diventa un divario incolmabile”.

In questo contesto, discutere del piano Draghi sembra quasi un esercizio di futilità. Non perché le sue idee siano valide o meno ma perché le condizioni per realizzarle semplicemente non esistono. L’Europa è un gigante con i piedi d’argilla, paralizzato da divisioni interne e incapace di prendere decisioni rapide e coraggiose.

Mentre i media italiani sognano una nuova età dell’oro targata Draghi la realtà europea ci ricorda che i miracoli, in economia come in politica, non esistono. Il “Whatever it takes” che ha salvato l’euro non può salvare un’Europa che non vuole essere salvata.

Non c’è tempo per discutere di piani irrealizzabili, forse sarebbe il caso di chiedersi perché l’Europa si trova in questa situazione. E soprattutto se ha ancora senso parlare di un’Unione che di unito ha ben poco, se non la moneta. L’Ue che non riesce a essere unione per le evidenti differenze tra gli interessi particolari degli stati membri è un problema atavico che non si risolve con un piano Marshall. 

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Dall’arresto al CPR: l’odissea dei palestinesi ingiustamente accusati di terrorismo

A marzo di quest’anno aveva fatto molto rumore l’arresto di tre palestinesi residenti in Italia. Secondo il gip distrettuale de L’Aquila Anan Kamal Afif Yaeesh, Ali Saji Ribhi Irar e Mansour Doghmosh stavano progettando un’azione terroristica da compiersi nell’insediamento israeliano di Avnei Hefetz, in Cisgiordania mediante l’utilizzo di un’autobomba. L’ordinanza di custodia cautelare in carcere era stata emessa dal gip, su richiesta della Procura – Direzione distrettuale Antimafia e Antiterrorismo del capoluogo abruzzese in coordinamento con la Procura nazionale Antiterrorismo.

“Soddisfazione per la cattura all’Aquila di tre pericolosi terroristi, operazione che conferma il continuo impegno e la grande capacità investigativa delle nostre Forze dell’ordine”, diceva l’11 marzo il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, definendoli “membri di una cellula militare legata alle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, che pianificavano attentati, pure suicidari, verso obiettivi civili e militari anche di Stati esteri”.

A luglio la Cassazione aveva deciso di annullare la richiesta del mandato di cattura, pur rimandando l’ultima decisione per la loro scarcerazione allo stesso Tribunale del Riesame che si è pronunciato due giorni fa annullando il provvedimento cautelare e ordinando l’immediata liberazione per due di loro Ali Irar e Mansour Doghmosh. Non erano terroristi.

Da ‘pericolosi terroristi’ a liberi cittadini: il ribaltamento giudiziario

“Tutto quello che possono dire sui miei assistiti – ha spiegato l’avvocato Flavio Rossi Albertini – è che ‘forse’ hanno qualche ruolo nella resistenza in Cisgiordania ma questo non è reato in Italia. Diventa reato solo se è configurato come terrorismo, così come definito dalla convenzione di New York del 1999. O riescono a dimostrare che hanno travalicato quei limiti posti dal diritto internazionale, oppure, in assenza di altre prove, non possono trattenerli”.

Con Mansour Doghmosh ed Ali Irar, sempre con l’accusa di terrorismo, in marzo a L’Aquila, anche un terzo cittadino palestinese, Anan Yaeesh – già in carcere da fine gennaio – era stato raggiunto da un ulteriore analogo provvedimento di custodia cautelare. La Corte d’Appello dell’Aquila aveva però respinto la richiesta di estradizione avanzata per lui dalle autorità israeliane. Richiesta poi ritirata da Israele a fine aprile con una nota inviata al ministero della Giustizia. Yaeesh è l’unico per il quale, fin da questa estate con l’udienza in Corte di Cassazione, era stata confermata la misura della detenzione.

Per il comitato ‘Palestina L’Aquila’ i due appena scarcerati erano “stati accusati ingiustamente a causa di una vera e propria montatura politica. Il loro arresto è avvenuto a distanza di un paio di settimane da quello di Yaeesh con il quale hanno legami di amicizia, conoscenza. Quest’ultimo è stato arrestato su procura di Israele per il suo attivismo pro-Palestina mentre, in quanto rifugiato politico, godeva della protezione internazionale”.

Il limbo dei ‘non terroristi’: tra scarcerazione e rischio rimpatrio

Dopo l’udienza di scarcerazione Mansour Doghmosh però è stato trasferito immediatamente in un Centro di permanenza per i rimpatri (CPR) e quindi la domanda è fin troppo facile: dove vorrebbero rimpatriare Doghmosh? In Palestina dove da 11 mesi si sta consumando una guerra che conta 40 mila vittime? Oppure da detenuto politico in un carcere israeliano dove per la stessa Corte d’Appello de L’Aquila si consumano “torture e trattamenti inumani e degradanti”?

Il Comitato per la liberazione di Anan Yaeesh chiede alle forze politiche di intervenire. Il ministro (e il governo) per ora tace. La moglie e i tre figli di Mansour Doghmosh attendono di conoscere il loro futuro.

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L’assedio fantasma: le ossessioni di Palazzo Chigi

«Occhio ai nani e alle ballerine», avrebbe detto ieri il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia alla sua truppa parlamentare – lo scrive anche Repubblica – in una giornata che ha denudato il re.

Giorgia Meloni e i suoi in sole ventiquattro ore hanno fabbricato una sfilza di ossessioni di complotti che non sarebbe credibile nemmeno in un telefilm di quart’ordine. 

Sono nemici i poliziotti – di questo s’è detto – che rassicurano la premier solo con la loro assenza. Ma sono nemici anche i figli di Berlusconi, Marina e Pier Silvio, che secondo Palazzo Chigi starebbero tutto il giorno a brigare sugli affari mutandeschi dell’ex fidanzatino di Meloni e delle ipotetiche fidanzate dei suoi ministri.

Sono nemici i leader europei che non si sono bevuti la favola del ministro Fitto come autorevole commissario quando ne hanno visto la denominazione d’origine del governo più a destra tra i paesi che contano in Europa. Sono nemici , ça va sans dire, quelli dell’opposizione perché sono traditori e nemici della patria. 

Sono nemici gli alleati di Forza Italia perché si impuntano sui diritti civili e sono nemici gli alleati della Lega perché vogliono rosicchiare i voti a destra. Sono nemici perfino i commessi e gli uscieri di Palazzo Chigi, immaginari come gole profonde al servizio dei poteri forti. 

Sono nemici perfino i giornalisti amici come Sallusti che si arrogano il diritto di vedere complotti ovunque come una sorella Meloni qualsiasi. Sono nemici i giornalisti, quasi tutti nonostante i camerieri. 

Ha ragione Foti, mancano solo i nani e le ballerine. 

Buon mercoledì. 

In foto: La presidente del Consiglio Meloni con la pugile Angela Carini che gridò al complotto dopo essere stata sconfitta da Imane Khelif

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Niente accordo a Bruxelles, slitta il via libera alla squadra di Ursula

In un’inattesa mossa che ha colto di sorpresa gli osservatori politici di Bruxelles, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha posticipato l’annuncio della composizione del suo nuovo esecutivo. La decisione, comunicata in via ufficiosa, ha generato un fermento di speculazioni nei corridoi delle istituzioni europee, sollevando interrogativi sulle dinamiche interne che stanno plasmando il futuro assetto dell’organo esecutivo dell’Unione.

Il rinvio, inizialmente previsto per oggi, è stato ufficializzato attraverso lo spostamento dell’incontro tra von der Leyen e i leader dei gruppi politici del Parlamento europeo a martedì 17 settembre. Questo slittamento, apparentemente motivato da ragioni procedurali legate alla nomina del commissario sloveno, cela in realtà una complessa rete di negoziazioni e bilanciamenti politici.

La motivazione ufficiale addotta per il rinvio è legata alla recente designazione da parte della Slovenia dell’ex ambasciatrice Marta Kos come candidata commissaria. La mossa, che risponde all’appello di von der Leyen per una maggiore parità di genere nella Commissione, richiede ancora la ratifica del parlamento sloveno, prevista per venerdì. Tuttavia fonti autorevoli suggeriscono che questa formalità procedurale potrebbe essere un pretesto per guadagnare tempo e affinare la distribuzione degli incarichi.

Il valzer delle nomine: un gioco di equilibri e pretesti

Il portavoce capo della Commissione, Eric Mamer, in una dichiarazione congiunta con il servizio stampa del Parlamento europeo, ha sottolineato che “è solo dopo questo passaggio che la nomina del candidato sarà completa e ufficiale”. Questa precisazione, apparentemente banale, nasconde la complessità di un processo decisionale che va ben oltre le mere formalità istituzionali.

L’attribuzione dei portafogli ai 26 commissari designati rappresenta un delicato esercizio di equilibrismo politico, geografico e di genere. Von der Leyen si trova a dover navigare tra le pressioni dei governi nazionali, le aspettative dei gruppi politici europei e l’imperativo di garantire una rappresentanza equa e diversificata. La sua richiesta iniziale alle capitali europee di proporre sia un candidato maschile che femminile è stata largamente disattesa, costringendo la Presidente a sollecitare attivamente la nomina di candidate donne da parte di diversi paesi.

Il cambio di rotta della Slovenia, che ha sostituito il candidato iniziale Tomaž Vesel con Marta Kos, è emblematico di questa dinamica. Se confermata, la nuova composizione della Commissione vedrebbe la presenza di 11 donne su 27 membri, un passo avanti significativo verso l’obiettivo di parità di genere, seppur ancora non pienamente raggiunto.

Il rinvio dell’annuncio offre a von der Leyen un margine temporale prezioso per condurre ulteriori consultazioni con le capitali europee, i commissari designati e altri attori chiave. Questo tempo aggiuntivo potrebbe rivelarsi cruciale per dirimere le controversie emergenti e placare i malumori che si stanno manifestando in seno ai gruppi politici del Parlamento europeo.

Malumori e resistenze: la Commissione sotto pressione

In particolare Verdi e Liberali hanno espresso aperta contrarietà alla prospettata nomina dell’italiano Raffaele Fitto, esponente di Fratelli d’Italia, a vicepresidente esecutivo. Questa designazione, che eleverebbe un rappresentante dei Conservatori a una posizione di primo piano, sta generando frizioni all’interno della coalizione parlamentare. Analogamente, i Socialisti non hanno ancora metabolizzato l’esclusione del loro Spitzenkandidat, Nicolas Schmit, a favore del popolare Christophe Hansen.

La composizione finale della Commissione dovrà necessariamente tenere conto di questi equilibri politici, bilanciando le ambizioni dei singoli stati membri con la necessità di un esecutivo coeso e funzionale. Von der Leyen si trova così a dover orchestrare un delicato gioco diplomatico, cercando di soddisfare le aspettative contrastanti senza compromettere l’efficacia operativa della futura Commissione.

In questo contesto di intense negoziazioni il rinvio dell’annuncio appare non tanto come un segno di debolezza quanto piuttosto come una mossa strategica volta a garantire una composizione ottimale dell’esecutivo europeo. La Presidente dimostra così di voler privilegiare la sostanza sulla forma, anche a costo di affrontare critiche per il mancato rispetto della scadenza inizialmente prevista.

L’attesa per la presentazione ufficiale della nuova Commissione si protrae dunque di una settimana, con l’appuntamento ora fissato per martedì prossimo a Strasburgo. Sarà quella l’occasione per von der Leyen di svelare al Parlamento europeo, e all’intera Unione, la squadra che guiderà l’esecutivo comunitario nei prossimi cinque anni, affrontando sfide cruciali per il futuro del progetto europeo. Al fianco delle altisonanti visioni di Mario Draghi la Commissione appare già come un’anatra nata zoppa.

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La paladina della sicurezza, ora teme i suoi guardiani

La giornata inizia con un’anticipazione de La Stampa: Giorgia Meloni avrebbe ordinato la rimozione degli agenti di polizia dal piano del suo ufficio a Palazzo Chigi. Un fatto senza precedenti nella storia della Repubblica.

Secondo le fonti del quotidiano, la premier avrebbe comunicato la decisione al cerimoniale e all’ispettorato, senza fornire spiegazioni ufficiali. La richiesta includerebbe anche un maggiore filtro sui commessi più vicini al suo ufficio.

Le motivazioni sarebbero molteplici: un clima intossicato da scandali, ombre e sospetti; la preoccupazione personale della premier, già espressa in passato; il caso del ministro della Cultura Sangiuliano. 

La Stampa riporta che Meloni si fiderebbe ormai solo della propria scorta, guidata da Giuseppe Napoli, marito della sua segretaria storica Patrizia Scurti. Del resto i nemici immaginari e le “opache manovre” sono una costante nella narrazione meloniana. 

La notizia fa il giro dei media, suscitando reazioni e commenti. Poi, il colpo di scena: Palazzo Chigi emette un comunicato che smentisce categoricamente l’articolo: “È priva di fondamento la notizia secondo la quale sono state date nuove disposizioni alle forze di polizia presenti a Palazzo Chigi nei confronti delle quali il presidente del Consiglio da sempre ripone piena e totale fiducia”.

La vicenda sembra chiudersi qui ma c’è un ulteriore sviluppo: viene diffusa una nuova nota che smentisce la precedente smentita, riportando lo stesso testo del primo comunicato. I poliziotti smentiscono Palazzo Chigi. La presidente regina della retorica sulle forze dell’ordine non si fida. Resta da vedere come potrebbero fidarsi di lei i cittadini.

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Bugie, bugie, sempre bugie

Il palcoscenico di Cernobbio con la solita esibizione, con Giorgia Meloni nel ruolo di Pinocchio in tailleur, jongleur di numeri e mezze verità. Un’esibizione degna del miglior illusionista, ma che non regge alla prova dei fatti.

La premier ci racconta che “l’Italia è la prima nazione per realizzazione del suo Pnrr”. Falso: abbiamo raggiunto solo il 37% dei nostri obiettivi, con cinque Paesi davanti a noi. La Francia ha ricevuto il 60% delle sue rate, noi il 50%. Ci narra la “vergogna tutta italiana” di musei chiusi nei festivi, dimenticando che Louvre, Prado e Tate Modern fanno lo stesso. Una svista geografica o un’amnesia selettiva

Meloni millanta un “Pil che cresce più della media europea”. Bugia: come spiega Pagella politica cresciamo dello 0,2%, esattamente come la media Ue e la Francia. La Spagna ci surclassa con lo 0,8%. Si vanta che siamo “la quarta nazione esportatrice al mondo”, quando in realtà siamo sesti con una quota del 2,8% sul totale mondiale, percentuale già raggiunta in passato.

La perla “Abbiamo messo altri 3 miliardi sull’assegno unico”. Falso: sono 2,9 miliardi spalmati su tre anni. E quando dice che l’occupazione femminile è al massimo storico con il 53,6%, dimentica di dire che il trend è iniziato prima del suo governo ( e che sono per lo più lavori precari e part time ndr).

Meloni si vanta del “tasso di disoccupazione più basso dal 2008”, con il 6,5% a luglio. Vero, ma omette che il calo è iniziato ben prima del suo insediamento. Stessa storia per i contratti stabili: in aumento, ma la tendenza era già in atto.

Insomma, la presidente del Consiglio sembra aver scambiato Cernobbio per un’agenzia di propaganda nordcoreana, dove i numeri si inventano e la realtà si piega a piacimento.

Buon martedì.

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Renzi a corto di pubblico, manca solo il sipario

Luigi Marattin ha finalmente deciso di abbandonare il Titanic di Italia Viva, portando con sé un centinaio di dirigenti territoriali. Una vera e propria Waterloo per il partito personale di Matteo Renzi, che si vede abbandonato persino da chi, fino a ieri, ne cantava le lodi.

Il motivo? Una svolta a sinistra troppo repentina, imposta dal capitano senza consultare l’equipaggio. “Non condividiamo la decisione di entrare nel campo largo”, tuona Marattin, come se fino a ieri non avesse notato la rotta zigzagante del suo ex leader. E aggiunge, con una punta di amarezza: “Una scelta del genere avrebbe dovuto essere presa in un Congresso”.

Ah, la democrazia interna, concetto sempre alieno in casa Renzi, dove la base e i dirigenti vengono esibiti di solito per amplificare gli applausi. Ma il bello viene dopo. Marattin annuncia la nascita di “Orizzonti liberali”, l’ennesima associazione-non-partito-ma-forse-sì che dovrebbe salvare l’Italia. Perché si sa, nel circo della politica italiana, non c’è nulla di più liberale che cambiare casacca ogni due per tre.

E Renzi? L’eterno Houdini della politica italiana si ritrova ancora una volta a fare i conti con la sua più grande illusione: la lealtà dei suoi seguaci. Mentre gli altri abbandonano la nave lui si affanna a raccattare briciole di consenso alla festa dell’Unità – passando in tre mesi dal “il Pd è finito” al “non massacrate Schlein” con la disinvoltura di un contorsionista.

Eppure, nonostante tutto, il nostro eroe non si arrende. Come un giocoliere che ha perso tutte le palline continua imperterrito il suo show, convinto che prima o poi qualcuno tornerà ad applaudire. Ma la verità, caro Matteo, è che il pubblico se n’è andato da un pezzo. Manca solo il sipario.

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Tutti pazzi per il Signore dell’Agenda

Ma a questo punto a cosa serve la Commissione europea Perché aspettare fino a mercoledì quando basta Mario Draghi per tracciare la rotta dell’Ue, senza questa fastidiosa cerimonia delle elezioni, della conta dei voti, della proclamazione degli eletti, delle alleanze, della nomina dei commissari? Draghi presenta il suo documento sulla competitività dell’Unione e le reazioni parlano quasi più del contenuto. 

Scompare in una nuvola di borotalco Ursula con der Leyen, presidente di una Commissione non ancora formata e già stanca. La più alta carica dell’Unione è già imbrigliata dalle parole di Draghi che dalle parti di Bruxelles    ma non solo – è un’evanescenza vicina all’oracolo. Del resto il terrorismo usato dall’ex banchiere (“o si cambia o si muore”) non ha certo il tono di una consulenza amichevole. Draghi ama essere il capo del governo ombra, von der Leyen pur di non perdere la seggiola accetta di buon grado un poi di buio. 

L’ex banchiere diventato feticcio piace a tutti, al centrodestra e al centrosinistra. I popolari europei applaudono come sempre accade quando si sente profumo di potere. I riformisti del Pd si sciolgono in un brodo di giuggiole. Dalle parti di Italia Viva (dove alla fine resterà solo l’usciere) si spolvera “l’agenda Draghi” per nuove mirabolanti avventure. Calenda promette per oggi un’esegesi del verbo di Draghi, perché le sue tavole non vadano disperse. 

Colui che ha diretto come Direttore generale del tesoro lo smantellamento delle Partecipazioni Statali, poi da Governatore della Banca d’Italia ha auspicato l’anticipazione di un anno del pareggio di bilancio poi imposto come obiettivo di medio termine col Fiscal Compact e che poi alla Bce ha accompagnato la deflazione strutturale ha detto che così non va. Draghi ha bocciato Draghi, come dice Tridico. E tutti a applaudire. 

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La patrimoniale non è più un tabù: dal G20 a Lavoce.info, qualcosa si muove

Alla fine ce l’hanno fatta. I ministri delle Finanze del G20 lo scorso luglio hanno trovato un accordo di massima per tassare i super-ricchi. Una proposta che fa tremare i polsi ai Paperon de’ Paperoni di mezzo mondo, ma che rischia di rimanere lettera morta se non si passerà dalle parole ai fatti. 

La proposta del G20: tassare i super-ricchi

L’idea, lanciata dal Brasile di Lula, è semplice quanto rivoluzionaria: far pagare il 2% ai patrimoni sopra il miliardo di dollari. Un obolo che riguarderebbe appena 3.000 ricchissimi globali, ma che frutterebbe la bellezza di 250 miliardi di dollari all’anno. Briciole per loro, una manna per le casse pubbliche sempre più a secco.

Ma non illudiamoci: la strada per arrivare a una vera patrimoniale globale è ancora lunga e tortuosa. Gli Stati Uniti, patria dei miliardari per antonomasia, già si difendono: “La politica fiscale è difficile da coordinare a livello globale”, frena la segretaria al Tesoro Usa Janet Yellen. Tradotto dal politichese: non toccateci i nostri ricchi. 

Eppure i numeri parlano chiaro. Secondo Oxfam, l’1% più ricco del pianeta ha accumulato negli ultimi dieci anni la bellezza di 42 milioni di milioni di dollari. Avete letto bene: milioni di milioni. Una cifra 34 volte superiore a quella accumulata dal 50% più povero della popolazione mondiale. Come dire, i ricchi nuotano nell’oro, mentre metà del mondo arranca con 335 dollari a testa.

Il dibattito in Italia: un tabù che si sgretola

Ma torniamo all’Italia, dove il dibattito sulla patrimoniale è sempre stato un tabù. Eppure, secondo un sondaggio del Fatto Quotidiano e Oxfam, il 97% degli italiani sarebbe favorevole a un’imposta sui grandi patrimoni. Un plebiscito che fa a pugni con la narrazione dominante secondo cui “le tasse sono un pizzo di Stato”. 

La proposta di Oxfam è chiara: tassare i patrimoni netti sopra i 5,4 milioni di euro. Una soglia che escluderebbe il 99,9% dei contribuenti italiani. Niente paura, quindi, per chi ha la casa al mare o i risparmi sotto il materasso. Si parla di super-ricchi, non del ceto medio tanto caro alla retorica politica.

Patrimoniale: perché finora è stata un tabù?

Ma perché finora la patrimoniale è rimasta un tabù in Italia Per il 65% degli intervistati la colpa è dell’”influenza degli individui molto ricchi su governi e opinione pubblica”. Insomma, il solito giro di lobbies e salotti buoni che tiene in ostaggio la politica. Ora qualcosa si muove. Il 74% dei milionari del G20 si dice favorevole a pagare più tasse. Un’operazione di immagine? Forse. Ma intanto il tabù si sta sgretolando.

E in Europa Il Partito dei socialisti europei, a cui aderisce il Pd, chiede che “le grandi aziende, i grandi inquinatori e i super ricchi paghino la loro giusta quota”. Anche la Sinistra europea spinge per “una tassa sui ricchi per finanziare gli investimenti essenziali per la riduzione della povertà e la transizione ecologica”.

Patrimoniale: cosa si può fare con il gettito

Ma come usare il gettito di una eventuale patrimoniale? Secondo il 60% degli italiani intervistati, i soldi dovrebbero andare alla sanità pubblica. Un’idea non peregrina, visto che mancano 70mila infermieri per l’assistenza domiciliare e le liste d’attesa sono sempre più lunghe.

Forse, la patrimoniale non è più un tabù. Certo, la strada è ancora in salita. Come scrive Tommaso Di Tanno su Lavoce.info, “la distanza fra l’aspirazione a una tassazione più equa e la sua concreta realizzazione è, purtroppo, vista da vicino, lontana anni luce”. Proprio Di Tanno – già professore di Diritto tributario e consigliere economico del Ministro delle Finanze e del Presidente della Commissione Industria del Senato – scrive di “mettere in cantiere ciò che da tante parti si reclama: la riduzione della tassazione del reddito, specie se basso, con l’introduzione della tassazione del patrimonio, specie se alto”. Parlarne non è più un tabù. 

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Commissione Ue, giochi di potere a Bruxelles: le pedine di von der Leyen per l’Europa del futuro

Bruxelles si prepara per l’annuncio della nuova Commissione europea, previsto per mercoledì. Mentre Ursula von der Leyen si appresta a distribuire i ruoli chiave del suo prossimo mandato, l’attesa cresce e le speculazioni si moltiplicano.

Secondo le anticipazioni di Politico, basate su numerose conversazioni con funzionari delle istituzioni europee e delle capitali nazionali, si delinea un quadro interessante delle possibili nomine. Al centro dell’attenzione ci sono i ruoli di vicepresidenti esecutivi, che potrebbero vedere Thierry Breton alla guida dell’industria e dell’autonomia strategica. L’ex ministro francese dell’Economia, nonostante i rapporti non sempre facili con von der Leyen, è considerato un esecutore efficace e rappresenterebbe il peso della Francia nell’UE.

L’Italia potrebbe ottenere un ruolo di rilievo con Raffaele Fitto, indicato come possibile vicepresidente esecutivo per la coesione, l’economia e la ripresa post-pandemica. Questa mossa potrebbe essere vista come un tentativo di von der Leyen di trovare un compromesso con il governo italiano guidato da Giorgia Meloni.

Per l’allargamento e la ricostruzione dell’Ucraina, il nome che circola è quello di Valdis Dombrovskis. L’attuale commissario lettone, con la sua vasta esperienza economica e competenza politica, potrebbe essere prezioso in questo delicato settore. Nel frattempo, la spagnola Teresa Ribera è indicata come potenziale vicepresidente esecutiva per la transizione verde e digitale, un ruolo che rispecchia l’importanza crescente di queste tematiche nell’agenda europea.

I pesi massimi: chi guiderà le politiche chiave dell’Ue

Già decisa sembra essere la nomina di Kaja Kallas come Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. L’ex premier estone, nota per la sua posizione ferma nei confronti della Russia, potrebbe portare una prospettiva baltica alla politica estera dell’Ue.

Tra gli altri nomi che emergono dalle anticipazioni, spicca quello di Andrius Kubilius per il portafoglio della sicurezza, industria della difesa e spazio. L’ex primo ministro lituano, noto per la sua posizione ferma sul sostegno all’Ucraina, potrebbe portare la sua esperienza in questo settore cruciale.

Per il mercato interno, si fa il nome di Jessika Roswall, attuale ministro degli affari europei svedese. La sua nomina potrebbe segnalare un focus sulla competitività e l’innovazione, temi cari alla Svezia.

Il portafoglio dell’energia potrebbe andare a Jozef Síkela, ministro ceco dell’industria e del commercio. Síkela si è fatto notare durante la presidenza ceca del Consiglio dell’UE nel 2022, gestendo le discussioni sulla crisi energetica con una famosa felpa bianca che recitava: “Convocheremo tutti i consigli energetici necessari.”

Per quanto riguarda la tecnologia, il nome di Henna Virkkunen emerge come possibile candidata. L’ex ministra finlandese dell’istruzione ha lavorato su numerosi dossier tech e innovazione come eurodeputata, un’esperienza che potrebbe rivelarsi preziosa in questo ruolo.

Le new entry: volti nuovi per le sfide future dell’Europa

Il delicato portafoglio del bilancio potrebbe essere affidato a Piotr Serafin. L’ex braccio destro di Donald Tusk potrebbe portare la sua esperienza nelle negoziazioni con le varie capitali europee, un asset cruciale per gestire il prossimo piano di spesa settennale dell’UE.

Per i servizi finanziari, si parla di Magnus Brunner, l’attuale ministro delle finanze austriaco. La sua solida esperienza economica lo rende un candidato credibile per gestire i delicati dossier finanziari, inclusi gli sforzi per potenziare l’unione dei mercati dei capitali.

Hadja Lahbib, ex giornalista televisiva diventata ministro degli esteri belga, potrebbe assumere il ruolo di commissaria per gli affari interni. La sua esperienza in politica estera potrebbe essere utile per rappresentare l’UE nei paesi non membri e gestire il complesso dossier della migrazione.

Per l’agricoltura, settore sempre cruciale nelle dinamiche europee, si fa il nome di Christophe Hansen. Il lussemburghese, che proviene da una famiglia di agricoltori, ha guidato i negoziati sulle nuove regole UE sulla deforestazione e lavorato sui piani nazionali per la politica agricola dell’UE.

Infine, per il portafoglio del commercio e della sicurezza economica, potrebbe essere in pole position Wopke Hoekstra. L’ex ministro delle finanze e degli affari esteri olandese porterebbe la sua esperienza manageriale in un settore che si preannuncia cruciale per il futuro economico dell’Ue.

Mentre Bruxelles attende l’annuncio ufficiale, le anticipazioni offrono uno sguardo su quella che potrebbe essere la squadra chiamata a guidare l’Unione Europea attraverso le sfide dei prossimi cinque anni. La composizione finale, tuttavia, rimane nelle mani di von der Leyen, che dovrà bilanciare competenze, rappresentanza geografica e equilibri politici per formare la Commissione. 

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