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Non hanno voglia di lavorare! Sicuri? Il caso Cospalat

È una storia piccola che dice molto e per questo merita di essere raccontata. Accade a Valvasone Arzene, in provincia di Pordenone, dove sulla vetrina del negozio della Cospalat è apparso un cartello che ripete un mantra che da mesi si ritrova nelle dichiarazioni di certi politici e nelle righe di certi editoriali: “Con grande rammarico ci troviamo obbligati a comunicare che sospendiamo l’attività nello spaccio di Valvasone per mancanza di personale che abbia un minimo di voglia di lavorare”, si legge, affisso all’ingresso.

A Pordenone, sulla vetrina del negozio della Cospalat, un cartello che ripete un mantra che da mesi si ritrova nelle dichiarazioni di certi politici e nelle righe di certi editoriali

Le motivazioni di quel cartello (fin troppo facile da prevedere) le spiega a Il Gazzettino il consigliere di Cospalat Friuli Venezia Giulia Renato Zampa: “le candidature sono rappresentate quasi solo da over 50. Poi iniziano i problemi – ha detto Zampa – lavorare il sabato non va bene, iniziare il turno alle otto è troppo presto, gli spostamenti sono troppo lunghi. Ecco perché con quel cartello abbiamo voluto provocare. Sarà un caso, ma da quando è comparso il messaggio ho ricevuto tre telefonate”.

Fin qui è la favola nera perfetta per buttare fango sui lavoratori che non vogliono lavorare, sui giovani indolenti e perfino sull’odiosissimo Reddito di cittadinanza. Solo che all’improvviso il giochino si rompe e interviene il sindaco di Valvasone Arzene, Markus Maurmair che chiede al negozio di raccontare ai giornali anche quanto sarebbe lo stipendio e aggiunge: “da anni l’attività funziona soprattutto grazie alla buona volontà delle persone che vi lavorano. Non vorrei fosse una sorta di giustificazione per una chiusura preventiva collegata al fatto che nelle vicinanze aprirà a breve un’altra attività similare”.

Non ci vuole molto per capire che il sindaco sa particolari che preferisce non proferire ma che si possono facilmente immaginare, ovvero che anche alla Cospalat il lavoro è un privilegio che si deve scontare cedendo dignità e diritti.

Senza bisogno di essere giornalisti d’inchiesta del resto basta scorrere la pagina Facebook dell’attività per trovare commenti di cittadini evidentemente ben informati che raccontano di lavoratori “che fanno 12 ore al giorno ma in busta paga il minimo” e si augurano che “la gente possa sapere come stanno le cose”.

Su Indeed, uno dei siti più conosciuti per leggere le opinioni sulle aziende di dipendenti e di ex dipendenti un lavoratore in prova a novembre del 2020 racconta di “pessima amministrazione dei punti vendita mancanza di rispetto verso il personale” mentre un altro ex dipendente è ancora più preciso: “Non lo consiglio a nessuno, – si legge – la paga é sempre in ritardo e vengono ingiustamente sottratte giornate e ore di lavoro anche se svolte regolarmente, vengono sottratte anche permessi e ferie inoltre non viene nemmeno stipendiata la 13esima e 14esima anche se prevista dal contratto, impossibile avere delle risposte dal datore di lavoro in merito a tutto questo”.

Ci deve anche essere qualche problema di correttezza degli orari se è vero che tra le risposte a chi domanda come sia organizzata la flessibilità qualcuno risponde: “40 ore settimanali ma non rispettate dall’azienda. Ne fanno fare meno a loro piacimento senza nemmeno una comunicazione”.

Di Cospalat si ritrova, tra le altre cose, un vecchio articolo del Messaggero Veneto che racconta di 16 patteggiamenti per il reato di associazione per delinquere, finalizzata alla frode in commercio e commercio di sostanze alimentari nocive nel 2014. C’è anche “il provocatore” autore del cartello Renato Zampa che al tempo patteggiò una pena di 1 anno, 5 mesi e 10 giorni di reclusione (sospesa con la condizionale).

Ed è proprio Zampa che, mentre si sollevava il polverone, ha deciso di rispondere al sindaco scrivendo: “questo Paese sta regredendo e bisogna fare qualcosa per cambiare la mentalità delle persone. Basta assistenzialismo. È tempo di tornare alla cultura del dovere, del sacrificio e della responsabilità”. Iniziare l’anno sfidando il senso del ridicolo, schiacciando sempre le solite corde.

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Nel congresso del Pd irrompe il candidato Guizzetti e vale la pena raccontarlo

Il bergamasco Antonio Guizzetti, un passato alla Banca mondiale, si fa avanti per la segreteria del Pd con la sfida di raccogliere a tal fine 4mila firme. Lo annuncia lui stesso in un’intervista su repubblica.it. «Mi considero un underdog, uno sfavorito. Non appartengo a nessuna corrente interna né a gruppi di potere, ma credo che la mia trentennale esperienza internazionale possa dare un contributo importante al Pd». «Avverto nel percorso congressuale una certa improvvisazione, mancanza di competenze e progettualità», continua. «Bonaccini è sicuramente un ottimo amministratore. Per le idee mi sento più vicino a Schlein, ma ho anche una grande stima per Gianni Cuperlo. Credo che il Pd abbia bisogno di un rinnovamento totale della classe dirigente, di abbattere le correnti. Il segretario non lo decidono Bettini e Franceschini». Negli anni Novanta, quando ha iniziato a lavorare alla Banca Mondiale, riferisce di essere stato «a stretto contatto con Draghi – racconta -. Credo che abbia interpretato molto bene il suo ruolo: è riuscito a dare una boccata di ossigeno alla Banca mondiale». Come capo del governo, a suo avviso, Draghi invece «non è stato capace di interpretare quel ruolo di mediazione e compromessi che un politico italiano deve fare per poter gestire la cosa pubblica. Non ha potuto dare quel contributo che un uomo del suo valore avrebbe potuto dare ad un Paese come l’Italia».

Tutti si chiedono: ma chi è Guzzetti? Cercare tra il suo passato è un viaggio che provoca vertigini. Dal Messaggero Veneto scopriamo che a gennaio del 2011 «si è autoinvitato con una semplice mail, direttamente dall’America» alla cerimonia per il Premio Nonino e spiegare che «l’Italia si salverà attraverso le capacità imprenditoriali di famiglie come i Nonino». In un’intervista a BergamoNews dice di sé: «Bergamo mi è sempre stata un po’ stretta. Sono un po’ sessantottino, nel senso che appartenevo al movimento studentesco. Dopo il Liceo decisi di frequentare la Bocconi perchè già allora ero molto interessato alle problematiche dei Paesi in via di sviluppo. Io non volli mai entrare nel business di mio padre perchè anche se era buono, generoso e cattolico, per me era un capitalista, quindi stava dall’altra parte della barricata. Andai a fare un dottorato alla London School of Economics, perchè pensai che la carriera universitaria mi potesse offrire un buon compromesso per quello che volevo fare: aiutare la società e guadagnarmi da vivere. Poi feci un altro dottorato a Parigi, Doctorate d’Etat, e quando tornai in Italia, il rettore della Bocconi mi contattò dicendomi che c’era una richiesta da parte della Banca Mondiale di mandare dei giovani economisti a Washington…».

Molto si evince dalla sua pagina Facebook. E qui si rischia di avere le vertigini. Di certo non amava molto il presidente della Repubblica Mattarella se è vero che il 30 gennaio del 2015 scriveva «Incantatore di Serpenti: Come ha fatto “Renzie” a sdoganare – rendendolo “credibile” e quindi “presidenziabile”, come la “embedded” stampa italiana oggi applaude all’unisono – un personaggio come Sergio Mattarella (quelli che – secondo “Renzi I” – dovevano essere tutti rottamati per favorire un ricambio della “classe politica italiana”) definito “Umille Servitore dello Stato” (ahahaha!) e farlo – forse (D’Alema pensaci tu!) – diventare Presidente della Repubblica Italiana Massoneria, Logge, Tri – Lateral, Grande Vecchio, Please help me!». Per ribadire il concetto scriveva «JE NE SUIS PAS SERGIO MATTARELLA !». Ma nel suo profilo parla di tutto. Chiedeva di “annullare Expo”, inneggiava alla “rivoluzione proletaria” («In talia non ci sono i soldi per la cultura, la scuola, la sanità, le pensioni, eccetera ma le infrastrutture costano mediamente 30% in più del loro costo “reale” di mercato con personaggi che hanno case, ville, conti all’estero, non pagano le tasee, hanno vitalizie da decine di migliaia di Euro, eccetera e impuniti rapinano le casse pubbliche»), se la prendeva con le cooperative («Le cooperative sono un sistema di malaffare che paga tangenti per ottenere lavori, commesse,eccetera, per di più legate a partiti di sinistra. VERGOGNA»).

Opinioni sulla geopolitica Nel 2015, commentando la dichiarazione di Obama dopo l’uccisione di Giovanni Lo Porto, Guizzetti scriveva: «Stessa Storia di Sempre: Obama si scusa e promette un risarcimento in dollari (gli USA comperano tutto con i dollari, anche il dolore delle persone) alla famiglia di una morte avvenuta 4 mesi fa (ne aveva parlato a Renzi in occasione della recente visita del nostro PM alla Casa Bianca Se No: colpevole Obama, Se Si: colpevole Renzi). Poi, quale diritto hanno gli USA di invadere, uccidere, bombardare in qualsiasi angolo del mondo per combattere il terrorismo (quale?). Mondo Cane». Una candidatura “frizzant”, non c’è che dire.

Buon martedì.

Nella foto Antonio Guizzetti (dal suo profilo facebook)

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Il sangue iraniano e noi che arriviamo tardi

Un giovane poco più che trentenne è morto in Iran dopo venti giorni di coma a seguito di torture. Era stato arrestato, pestato a sangue e poi rilasciato. L’hanno fatto tornare a casa perché avevano paura che morisse in cella. E infatti è morto a casa.

Si chiamava Mehdi Zare Ashkzari, era un ex studente di farmacia all’Università di Bologna e due anni fa era tornato in patria. Ed è Amnesty International Italia a diffondere le prime informazioni sul caso. Poi il messaggio di Patrick Zaki che, con la scomparsa del trentenne iraniano, sottolinea come l’Università di Bologna abbia «ora una nuova vittima della libertà di espressione». Zaki, che di anni di carcere se n’è già fatti due in Egitto per un “reato d’opinione”, lo dice benissimo: «Purtroppo, questa volta, era troppo tardi per salvarlo».

Mehdi Zare Ashkzari «era uno di noi», dice all’Ansa Sanam Naderi, iraniana che vive a Bologna. «Era conosciutissimo, molti studenti sono stati da lui, hanno mangiato la pizza dove lavorava. Era sempre sorridente». Mehdi si era iscritto all’università nel 2015 e per un periodo aveva lavorato come fattorino, per mantenersi agli studi, poi come aiuto-cuoco in una pizzeria.

Secondo l’ultimo aggiornamento di Hrana, l’agenzia di stampa iraniana per i diritti umani, ammonterebbero a 508 le persone uccise durante le proteste divampate nel Paese, inclusi 69 bambini. Un dato impressionante, che si è aggiunto al numero di arrestati (oltre 18mila). Il report, peraltro, ha segnalato che al momento sono andate in scena più di 1.200 manifestazioni di contestazione in 161 città. I dati forniti dall’agenzia, per la cronaca, fanno riferimento al periodo dal 26 settembre al 7 dicembre.

Buon anno nuovo.

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L’Arabia Saudita è il prossimo Qatar

Ci siamo lasciati alle spalle i mondiali di calcio del Qatar che si è ripulito la faccia agli occhi del mondo usando il pallone come cipria e ungendo con i soldi la politica e le organizzazioni internazionali. Dei mondiali in cui i diritti umani sono stati solo un passaggio obbligato che si è ridotto a qualche scenetta (spesso poco credibile) e alle parole incredibilmente false delle autorità.

L’Arabia Saudita può imparare dal Qatar come usare il calcio (e forse la corruzione) per sembrare un partner politico credibile

Alla fine, come sanno benissimo i professionisti dello sportwashing, ci ricorderemo della partita finale, di Leo Messi e il regime qatariota potrà apparire democratico perché ha avuto accesso alle cerchie che contano.

Qualche tempo fa il principe bin Salman, il “grande amico” di Matteo Renzi (secondo le parole dello stesso Renzi) aveva lanciato “Visione 2030” per rilanciare l’immagine delle’Arabia Saudita. Anche da quelle parti il lavoro spesso non è altro che una schiavitù legalizzata e in più c’è l’omicidio commesso ai danni del giornalista Jamal Kashoggi che, secondo l’intelligence USA, sarebbe stato compiuto proprio su ordine del principe.

Ora le cose sono cambiate: Biden ha ammorbidito le sue posizioni, bin Salman può contare sulla feconda attività di pro loco esercitata da un ex presidente del Consiglio italiano e come è avvenuto con l’acquisto della squadra di calcio del Paris Saint Germain per il Qatar anche i sauditi hanno deciso di buttarsi nel calcio internazionale comprando il Newcastle.

C’è di più: la squadra saudita dell’Al Nassr si è regalata l’ex campione Cristiano Ronaldo che per una cifra stratosferica (si parla di un miliardo di euro per 7 anni) sarà più testimonial che calciatore.

Qui si arriva al bivio: per i mondiali di calcio del 2030 tra i Paesi candidati a ospitare le partite c’è proprio l’Arabia Saudita. Un’Arabia Saudita arretrata come (se non peggio) il Qatar che può imparare dai qatarioti come usare il calcio (e forse la corruzione) per sembrare un partner politico credibile. È quello che proprio Renzi chiamava “nuovo Rinascimento” (ricordate?), sta avvenendo in diretta sotto i nostri occhi. Con la risata complice (e ricca) di Cristiano Ronaldo come testimonial.

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Clima, l’aumento degli eventi meteo estremi e l’immobilismo dell’Italia

Non c’è un bel clima, no, nell’anno che passa. Alluvioni, ondate di caldo anomalo e di gelo intenso, frane, mareggiate, siccità, grandinate: il 2022 è stato un anno nero per il clima, segnato da un’accelerazione degli eventi meteo estremi nel mondo e anche in Italia, segnata quest’anno da più caldo e siccità. Come raccontano i dati di bilancio dell’Osservatorio CittàClima di Legambiente, realizzato in collaborazione con il gruppo Unipol, e sintetizzati nella mappa del rischio climatico. Nel 2022 la Penisola ha registrato un incremento del 55 per cento di casi rispetto al 2021: 310 fenomeni estremi che quest’anno hanno provocato impatti e danni da Nord a Sud e causato 29 morti. Nello specifico si sono verificati 104 casi di allagamenti e alluvioni da piogge intense, 81 casi di danni da trombe d’aria e raffiche di vento, 29 da grandinate, 28 da siccità prolungata, 18 da mareggiate, 14 eventi con l’interessamento di infrastrutture, 13 esondazioni fluviali, 11 casi di frane causate da piogge intense, 8 casi di temperature estreme in città e 4 eventi con impatti sul patrimonio storico.

Clima, l'aumento degli eventi meteo estremi e l'immobilismo dell'Italia
I danni degli eventi meteo estremi in Italia. (Getty)

Il Nord Italia l’area più colpita, in particolare la Lombardia

Molti gli eventi che riguardano due o più categorie, per esempio casi in cui esondazioni fluviali o allagamenti da piogge intense provocano danni anche alle infrastrutture. Nel 2022 sono aumentati, rispetto allo scorso anno, i danni da siccità, che passano da 6 nel 2021 a 28 nel 2022 (+367 per cento), quelli provocati da grandinate da 14 nel 2021 a 29 nel 2022 (+107 per cento), i danni da trombe d’aria e raffiche di vento, che passano da 46 nel 2021 a 81 nel 2022 (+76 per cento), allagamenti e alluvioni, da 88 nel 2021 a 104 nel 2022 (+19 per cento). A livello territoriale, quest’anno il Nord della Penisola è stata l’area più colpita, seguita dal Sud e dal Centro. A livello regionale, la Lombardia è la regione che registra più casi, 37, seguita dal Lazio e dalla Sicilia, con rispettivamente 33 e 31. Rilevanti anche i casi registrati in Toscana, 25, Campania, 23, Emilia-Romagna, 22, e Piemonte, 20, Veneto, 19, Puglia, 18. Tra le province, quella di Roma risulta quella più colpita con 23 eventi meteo-idro, seguita da Salerno con 11, Trapani con 9, Trento, Venezia, Genova e Messina con 8 casi. Tra le città, Roma (13) e Palermo (4).

Nella lotta alla crisi climatica siamo in grave ritardo

Per Legambiente, «i dati del bilancio dell’Osservatorio CittàClima indicano ancora una volta l’urgenza per l’Italia di un deciso cambio di passo nella lotta alla crisi climatica attraverso politiche climatiche più ambiziose e interventi concreti non più rimandabili. A tal riguardo l’associazione ambientalista, tra le azioni urgenti da mettere in campo, chiede l’approvazione in tempi rapidi del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici aggiornato e pubblicato nei giorni scorsi sul sito del Mase, e che ora dovrà essere oggetto di consultazione pubblica secondo quanto previsto dalla procedura di valutazione ambientale strategica». Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, sottolinea che «la fotografia scattata dal nostro Osservatorio CittàClima ci restituisce un quadro preoccupante di un anno difficilissimo, concluso con le notizie sulle temperature primaverili di fine dicembre in Italia, sulla tempesta artica che ha colpito il Nord America, causando decine di morti, e sull’ondata di freddo in Giappone. Nella lotta alla crisi climatica il nostro Paese è ancora in grave ritardo, rincorre le emergenze senza una strategia di prevenzione, che farebbe risparmiare il 75 per cento delle risorse spese per riparare i danni».

Clima, l'aumento degli eventi meteo estremi e l'immobilismo dell'Italia
Acqua alta a Venezia. (Getty)

Meno gas, impianti eolici, Piano nazionale: le cose da fare

Quindi l’appello al governo Meloni: «Al posto di nuovi investimenti sul gas, chiediamo cinque azioni urgenti da mettere al centro dell’agenda dei primi mesi del 2023: a una veloce approvazione del Piano nazionale di adattamento climatico, devono seguire lo stanziamento di adeguate risorse economiche per attuarlo, non previste dalla legge di bilancio approvata; l’aggiornamento del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) agli obiettivi europei di riduzione dei gas climalteranti del RePowerEu, dimenticato dal governo Draghi; nuove semplificazioni per tutti gli impianti a fonti rinnovabili, a partire dal repowering per gli impianti eolici esistenti; la velocizzazione degli iter autorizzativi con nuove linee guida del ministero della Cultura per le Sovrintendenze e una forte azione di sostegno e sollecitazione alle Regioni per potenziare gli uffici che autorizzano gli impianti». Tutti i dati dell’Osservatorio Città Clima sono raccolti nella mappa online del rischio climatico, aggiornata nel layout e nella grafica e con un focus sul progetto europeo Life+AGreeNet che ha l’obiettivo di rendere le città della costa del Medio Adriatico più resilienti al cambiamento climatico attraverso vari interventi. Intorno a tutto questo ci sono i negazionisti climatici, che scrivono pensosi editoriali su presunti autorevoli giornali, che non hanno ancora imparato la differenza tra clima e temperature, che usano una bufera di neve per dirci che il surriscaldamento non esiste. Intanto un altro anno è passato.

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Le bugie di fine anno

Sia benedetta Pagella Politica che tutti i santi giorni si prende la briga di verificare la veridicità di quello che affermano i politici nostrani. In un Paese normale, a ben vedere, sarebbe un compito della stampa ma poiché il leaderismo dalle nostre parti è un virus che fiacca molti giornalisti tocca ai cosiddetti siti di fact-checking.

Si scopre così che Meloni mente quando dice «I condoni non ci sono nella nostra legge di Bilancio» poiché la legge di Bilancio contiene la cosiddetta “tregua fiscale”, che raccoglie alcuni provvedimenti come lo stralcio automatico delle cartelle esattoriali fino a mille euro, relative al periodo 2000-2015, e la possibilità di ripagare tutto il dovuto al fisco, con uno sconto però sulle sanzioni e gli interessi. Poiché secondo l’enciclopedia Treccani, un condono fiscale è un «provvedimento legislativo che prevede un’amnistia fiscale e ha lo scopo di agevolare i contribuenti che vogliano risolvere pendenze in materia tributaria» e nella letteratura scientifica internazionale, il “condono” (in inglese tax amnesty) è definito come «l’opportunità data ai contribuenti di saldare un debito con il fisco, inclusi gli interessi e le more, pagandone solo una parte» quello del governo Meloni è un condono.

È falsa anche la frase «la morale da chi, oggi all’opposizione, ma quando era al governo ha liberato i boss mafiosi al 41-bis con la scusa del contagio da Covid […], non me la faccio fare». Giuseppe Conte (a cui si riferisce Giorgia Meloni) ha approvato un decreto per favorire il ricorso alla detenzione domiciliare per una serie di detenuti. Tra questi, però, non rientravano le persone condannate per reati particolarmente gravi, tra cui quelli di stampo mafioso.

È una bugia anche quella di Giorgia Meloni che dice «l’estensione della tassa piatta per le partite Iva con fatturato fino a 85 mila euro non discrimina i lavoratori dipendenti». Almeno tre organismi indipendenti, durante le audizioni in Parlamento sul disegno di legge di Bilancio, hanno sollevato critiche verso il provvedimento difeso da Meloni. Stiamo parlando della Banca d’Italia, della Corte dei Conti e dell’Ufficio parlamentare di bilancio.

Ovviamente bugie anche su contanti e evasione. «Negli ultimi dieci anni quando c’è stata meno evasione fiscale è quando c’era il tetto al contante a 5 mila euro», dice Giorgia Meloni. Come fa notare Pagella politica «qui Meloni ha ripetuto lo stesso errore già commesso durante il primo video della rubrica “Gli appunti di Giorgia”. A sostegno di questa tesi, la presidente del Consiglio aveva mostrato un grafico realizzato da Unimpresa secondo cui nel 2010, quando il tetto al contante era a 5 mila euro, l’evasione fiscale stimata in Italia aveva avuto un valore pari a circa 83 miliardi di euro, il dato più basso registrato fino al 2019. Il grafico in questione, così come la dichiarazione di Meloni, è però impreciso e fuorviante. Da un lato, il dato sull’evasione del 2010 è parziale, perché non tiene conto dell’evasione di alcune imposte e di quella dei contributi previdenziali, calcolati invece nelle stime degli anni seguenti. Dall’altro lato, ha poco senso valutare l’efficacia del tetto al contante nel contrasto dell’evasione comparando i valori annuali dell’evasione con quelli dei limiti all’uso del contante. Per valutare il contributo del tetto al contante servono studi scientifici. Come hanno spiegato nelle audizioni sul disegno di legge di Bilancio per il 2023 la Banca d’Italia, la Corte dei Conti e l’Ufficio parlamentare di bilancio, alcuni studi hanno mostrato che in Italia il tetto al contante può contribuire a ridurre il fenomeno dell’economia sommersa e dell’evasione».

Buon venerdì.

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Quando comincia il congresso del Pd?

Nella lingua italiana si definisce congresso un «raduno di diplomatici o di uomini politici o di affari, di cultura o di scienze per la messa a punto o la risoluzione di questioni importanti o di comune interesse». Nel caso del Partito democratico (ma vale per tutti i partiti) il congresso deve decidere quali siano le priorità dell’agenda politica italiana, come interpretarle e come farsene carico. Ce ne sono a bizzeffe.

In queste settimane di congresso del Partito democratico il governo a cui si oppongono ha deciso le misure finanziarie per il 2023 su fisco, sanità, scuola, cultura. Il ministro dell’inferno Piantedosi ha messo nero su bianco l’atteggiamento che l’Italia vuole avere nei prossimi anni nei confronti della violenza, della fame e della disperazione che innescano le migrazioni (perché sono le persone il tema principale, prima delle migrazioni). Il ministro Valditara sta disegnando un modello di scuola che divide i giovani in vincitori e sconfitti. La ministra Santanchè sta progettando un turismo come cerchia solo per gli altospendenti. Il ministro della Guerra, Guido Crosetto, sta intendendo la Difesa come rifocillamento di armamenti. Poi ci sono i poveri, i soliti poveri sempre più poveri a cui si aggiungono i nuovi poveri, che continuano a essere nemici. Ci sarebbe anche il ministro del Cemento Salvini che cerca l’immortalità in mausolei autostradali e ponti smisurati.

Il congresso così non va. Lo sanno dentro il Partito democratico, lo dicono i numeri di un partito in picchiata per cui non vale nemmeno l’antico adagio del “è facile aumentare il consenso mentre si sta all’opposizione”. C’è l’opposizione di base, ci mancherebbe, quella tiritera del non essere mai d’accordo ma manca la politica. Scorrendo le agenzie di stampa degli ultimi giorni si ritrovano lanci su Bonaccini che ci spiega come quello con Pina Picerno non sia “un ticket” ma “un tandem”. C’è la notizia di una “diaspora” in Areadem che “andrebbe verso Bonaccini”. C’è chi annuncia di appoggiare qualcuno per “un Pd più riformista, rigoroso e radicale”. C’è una diatriba sul numero degli iscritti. C’è Boccia che definisce Schlein “sinistra occidentale moderna e ambientalista”. C’è Ricci che avvisa che “il congresso non è un talent show”. Ci sono armamentari retorici che appaiono – a essere buoni – piuttosto vetusti.

Manca la politica comprensibile qui fuori. Tra la gente che non ha il tempo di seguire ogni giorno le sfumature politiche, le differenze tra i vari candidati si riducono nella maggioranza dei casi a una simpatia/antipatia o a una presunta appartenenza. Il congresso del Pd finora non ha prodotto un solo spunto di discussione tangibile su qualcosa che si dovrebbe fare urgentemente. La gente non sa cosa farebbero i candidati del congresso al posto di Piantedosi, di Salvini, di Valditara, di Nordio. In realtà non si è nemmeno capito quali siano gli errori – dico concretamente, elencandoli – che avrebbe compiuto Letta.

Questo non è un congresso finora: è una resa dei conti tra bande che hanno sempre meno peso nella politica nazionale, un’orchestra che suona mentre perfino il Movimento 5 Stelle gli sfila i temi storici. Quando comincia il congresso del Pd?

Buon giovedì.

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M5S, sinistra e liste civiche. Il laboratorio lombardo resta

L’apertura del M5S alle alleanze in Lombardia, anche con il Pd sul nome di Pierfrancesco Majorino (nella foto), ha già attivato sulla stessa lunghezza d’onda i territori.

L’intesa sui programmi con il M5S inizia a riprodursi nei Comuni. E il nome di Majorino cresce malgrado il Pd a pezzi

Non sembra a caso che in Comuni rilevanti, come Cologno Monzese, dove si andrà a votare per il sindaco poco dopo la Regione (a maggio prossimo) si siano già aperti tavoli di trattative con altre formazioni civiche e Sinistra Italiana sui programmi e le cose da fare per battere le destre. Ma se tutto questo – che lo si chiami campo largo o giù di lì) è retroguardia o un laboratorio politico per il futuro.

Fatto sta che a differenza del Lazio, dove i Cinque Stelle correranno contro il Pd, in Lombardia ingrana la campagna elettorale comune per portare Majorino alla presidenza di Regione Lombardia. Certo, non è stato facile scrollarsi di dosso le tossine della rottura prima delle elezioni politiche e non è stato breve: solo da qualche giorno Giuseppe Conte ha dato il via libera dopo un confronto sul programma con i dem e dopo avere parlato personalmente con l’eurodeputato del Pd.

Oltre alle scorie della rottura del “campo largo” sul piano nazionale, in Lombardia il Partito democratico ha dovuto trovare la quadra per votare la deroga alle primarie previste dallo Statuto del partito, decidendo di convergere sul nome di Majorino con un’alleanza che tiene insieme Sinistra Italia, Verdi, e Reti Civiche oltre al M5S.

A favorire tale matrimonio è stata indubbiamente anche la scelta del cosiddetto Terzo polo di convergere su Letizia Moratti che ha deciso di sfidare il leghista Attilio Fontana tentando un’inversione a U che riuscisse a sfondare anche nel campo del Centrosinistra. Missione evidentemente fallita visto che il segretario regionale Pd Vinicio Peluffo ha chiuso fin da subito le porte a qualsiasi tentativo di abboccamento.

La scorsa settimana a complicare la situazione c’è stato lo scandalo in Europa del cosiddetto Qatargate che ha agitato (per poco, a dire la verità) la coalizione più per le strumentalizzazione di Moratti e Centrodestra (con l’amplificazione dei giornali amici) che per un reale dubbio dei partiti nei confronti dell’esperienza di Majorino nell’Europarlamento. Ora comunque il legame è ben saldo.

Trovato l’accordo su sanità, trasporti e ambiente (i punti centrali della politica regionale) M5S e Partito democratico appaiono i due cardini del fronte del Centrosinistra, riproponendo lo schema previsto inizialmente da Letta per le elezioni nazionali, salvo poi gettare tutto a mare e regalare Palazzo Chigi alla destra, oltre che condannare il Pd alla deriva verso la quale sta andando in attesa di trovarsi un nuovo segretario.

Ma quanto influirà l’esperienza lombarda sul piano nazionale? Questa è la vera domanda. Ci sarà ovviamente da aspettare i risultati, però è evidente che i rapporti con il Movimento Cinque Stelle sono tra i grandi temi del congresso dem. Il candidato favorito, il presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, ha più volte ribadito la sua volontà, nel caso diventasse segretario, di riunire il campo del Centrosinistra con il partito di Conte e con il Terzo polo (senza spiegare per ora come conciliare moltissime posizioni radicalmente opposte.).

La candidata Elly Schlein (che non piace a Renzi e Calenda) ha parlato di “punti di contatto” con il partito di Conte mentre il suo coordinatore della campagna, il senatore Francesco Boccia è stato chiarissimo: “coordinerò la sua campagna e ricuciremo con il M5S”, ha detto qualche giorno fa a Repubblica. Di “alleanza imprescindibile” con il Movimento ha parlato anche l’ultimo candidato per la guida del Nazareno, Gianni Cuperlo.

Una mossa che ieri ha aggregato il politologo Piero Ignazi, secondo cui “Grazie al suo profilo, Cuperlo può alzare il livello del dibattito di queste primarie”, e se nel 2013 la sua posizione era molto debole, in un momento in cui la forza di Renzi era straripante, oggi è tutta un’altra cosa.

Per questo la campagna elettorale in Lombardia rischia di essere un vero snodo politico nazionale, più del muro contro muro con cui è finita l’esperienza di governo comune nel Lazio, dove dem e Cinque Stelle hanno lavorato fianco a fianco nella Giunta di Nicola Zingaretti, senza che nascesse l’inceneritore ora nei piani dell’erede dell’ex governatore, Alessio D’Amato. Dopo l’esperienza del secondo Governo Conte, la Lombardia è quindi il primo vero tentativo di allineamento tra dem e Cinque Stelle per immaginare un futuro di governo.

E nel territorio lombardo l’intesa potrebbe ripetersi anche per le prossime elezioni amministrative, come sembra fare da battistrada il tavolo di confronto aperto a Cologno Monzese per “dare vita a un fronte progressista inclusivo” per “un reale progetto di rinnovamento politico”. Il futuro potrebbe essere già qui.

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Intimidire i giornalisti non serve più. Fargli causa è più efficace

Prima era stato il Centro di coordinamento sul fenomeno degli atti intimidatori nei confronti dei giornalisti del Ministero dell’Interno, con i propri dati sui minacciati nei primi 9 mesi nel 2022: “sono 84 gli episodi intimidatori commessi in Italia nei primi nove mesi del 2022 contro i cronisti, rispetto ai 162 registrati nello stesso periodo del 2021, con una flessione del 48%”, si legge nel rapporto.

Dai dati del Ministero emerge che per l’88% dei casi “le vittime sono 74 professionisti dell’informazione, tra i quali 21 donne (28%) e 53 uomini (72%). Il 19% delle segnalazioni totali è relativo ad episodi intimidatori perpetrati nei confronti di sedi giornalistiche o di troupe non meglio specificate”. Le regioni più colpite sono “Lazio, Lombardia, Campania, Calabria e Toscana, con 57 episodi complessivi, pari al 68% del totale”.

I dati di Ossigeno per l’informazione: Calano le minacce contro i giornalisti ma aumentano le querele e le azioni civili

Ma i nuovi dati pubblicati da Ossigeno per l’informazione, l’osservatorio non governativo sui giornalisti minacciati e le notizie oscurate con la violenza, fotografano una situazione ben più grave. Ossigeno tiene conto infatti anche delle querele e della cause per diffamazione promosse in modo temerario e strumentale, in violazione del diritto di informazione codificato dall’Articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Solo nei primi 9 mesi sono 173 gli episodi di intimidazioni e minacce nei confronti di 564 operatori di media (giornalisti, blogger, videoperatori), di cui il 29% è costituito da donne, colpite per il 36% da minacce gender based.

Questi dati di Ossigeno mettono in evidenza una crescita delle minacce rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: fra gennaio e settembre 2021 Ossigeno aveva infatti rilevato 288 minacciati, esattamente la metà di quest’anno.

L’osservatorio di Ossigeno per l’informazione che ha verificato 84 episodi su 173 rileva per il 57% degli attacchi una forma di “avvertimento”, nel 35% l’abuso di denunce e azioni legali e nell’8% dei casi vere aggressioni. Anche un’osservazione della matrice degli attacchi riserva sorprese.

Se è vero che nel 16% dei casi si tratta di segnali provenienti da ambienti criminali o mafiosi nel 18% (quindi con una percentuale superiore) gli attacchi provengono da autorità, enti pubblici e politici. Nel 54% dei casi sono persone o associazioni ad accanirsi contro i giornalisti, nel 6% i mittenti sono imprese e imprenditori privati. Tra le regioni svetta il 19% della Lombardia seguita da Toscana (17%), Lazio (14%), Piemonte (11%) e Puglia al 9%.

Aumentano le minacce ma diminuiscono le denunce. “ Perché? Hanno meno fiducia negli interventi delle autorità, o sono più rassegnati o semplicemente hanno più paura di prima e perciò subiscono più spesso senza reagire? Questo aspetto sarà oggetto di approfondimento. Certamente – scrive Ossigeno per l’informazione – però si può dire che la diminuzione delle minacce registrate dal Viminale non è una buona notizia, non è un segnale rassicurante. È anzi un ulteriore segnale di allarme”.

Un dato è certo: oggi per silenziare un giornalista basta avere i soldi per intentare una causa temeraria. Funziona molto più delle minacce fisiche, fa meno rumore e consente di sfruttare uno spazio legislativo che il mondo del giornalismo, le forze politiche, il Parlamento e il Governo sembrano non voler riequilibrare con le opportune contromisure.

Non serve più nemmeno la manodopera criminale, sono i colletti bianchi (e i loro avvocati) a poter indebolire la libertà di informazione. In attesa di stupirsi, come accade tutti gli anni, della posizione nelle retrovie dell’Italia nelle classifiche della libertà di stampa.

Leggi anche: Nel 2022 oltre 500 i giornalisti minacciati. Quasi il doppio rispetto al 2021. Aumentano anche querele e cause civili pretestuose o infondate

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Le lacrime di Giorgia e del coccodrillo

Niente, non ce la fanno. Fingono di essere rispettosi della Costituzione e dei ruoli che ora ricoprono avendo vinto le elezioni ma poi basta un debole soffio per svelare la natura di Giorgia Meloni e della classe dirigente del suo partito. Le celebrazioni della nascita del Movimento sociale italiano sono una cartina tornasole.

Prima è stato il turno di Isabella Rauti che cita Tolkien («le radici profonde non gelano») che fomenta la fiamma, la stessa che Giorgia Meloni definì simbolo del «riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana» rispondendo a Liliana Segre. Ieri è spuntato anche Ignazio La Russa che, tra le altre cose, da presidente del Senato dovrebbe avere un equilibrio ancora maggiore. Furbescamente La Russa (come nel caso di Isabella Rauti) pone la questione con un po’ di condimento familiare e ricorda la fiamma riferendosi al padre «che fu fra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana». Il tutto con la fiamma tricolore, ovviamente.

«Signori, – ha scritto ieri il dem Emanuele Fiano – in questi giorni l’esaltazione dell’Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi, è ormai ai massimi livelli, qui la seconda carica dello Stato. E voi? Ex colleghi in Parlamento? Tutti zitti?». Qualcuno giustamente protesta. La Russa si difende. Per fortuna rimette le cose a posto la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni: «Si celebrano oggi – dice Di Segni –  i 75 anni dalla promulgazione della Costituzione repubblicana, l’affermazione della nostra democrazia antifascista. Eppure c’è chi ritiene di esaltare un altro anniversario – quello della fondazione del Msi – partito che, dopo la caduta del regime fascista, si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi, governo dei fascisti irriducibili che ha attivamente collaborato per la deportazione degli ebrei italiani. Grave che siano i portatori di alte cariche istituzionali a ribadirlo, legittimando quei sentimenti nostalgici». Netto anche l’Anpi. «Con tutto il rispetto per i suoi affetti familiari, l’Onorevole La Russa non ha ancora capito che è il Presidente del Senato della Repubblica antifascista e non il responsabile dell’organizzazione giovanile del Msi. Il suo post è uno sfregio alle istituzioni democratiche», fa sapere il presidente dell’associazione nazionale partigiani, Gianfranco Pagliarulo.

Chissà che ne dicono coloro che avevano scambiato le lacrime di Giorgia Meloni qualche giorno fa in occasione dell’Hannukkah, ricordando la deportazione degli ebrei. Chissà a cosa si riferiva la presidente del Consiglio quando nel suo discorso disse “non tradiremo”. Chissà cosa altro ci vuole per capire che Giorgia Meloni e i suoi compari sono quella roba lì, nient’altro. A proposito, il nome Msi fu scelto – lo dicono i fondatori stessi – perché  «M è l’iniziale per noi più chiara e significativa, non esprime solo Movimento, ma lo consacra con l’iniziale mussoliniana. Vi sono poi le due lettere qualificative della Rsi».

Buon mercoledì.

Nella foto: Giorgia Meloni alla cerimonia dell’Hannukkah (frame video YouTube Vista)

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