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Minacce Social alla Meloni. E le destre si inventano la responsabilità di Conte

“Se togli il reddito ammazzo te e tua figlia”. “Ci vuole la morte di lei e sua figlia”. “Veramente attenta, finiscila cò sta cosa di togliere il reddito di cittadinanza sennò ti ammazzo ma lo capisci?”. I messaggi erano indirizzati all’account Twitter della presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

A inviarli è un 27enne siracusano disoccupato. Su disposizione della Procura di Siracusa, personale della Polizia Postale e della Digos ha eseguito una perquisizione ora indagato per violenza privata aggravata nei confronti della premier.

Povera Giorgia

Bipartisan la solidarietà. “Un abbraccio a Giorgia Meloni e a sua figlia per le gravi minacce subite – scrive su Twitter il vicepremier e ministro degli Esteri Antonio Tajani –. Se qualcuno pensa di condizionare l’azione di questo governo con la violenza si sbaglia di grosso. Mi auguro una condanna trasversale verso l’accaduto”.

“Le minacce a Giorgia Meloni non sono solo rivolte al presidente del Consiglio, ma a tutta la politica. Per questo – scrive Pier Ferdinando Casini su Facebook – bisogna unirsi nel respingerle con fermezza al mittente”.

“Le gravi minacce alla presidente del consiglio e a sua figlia sono un atto vile e inaccettabile – dichiara a nome delle deputate e dei deputati democratici la capogruppo alla Camera, Debora Serracchiani –. Di fronte a questo nuovo attacco, ribadiamo la nostra ferma condanna a ogni violenza, in qualsiasi forma si manifesti, ed esprimiamo la nostra solidarietà a Giorgia Meloni e alla sua famiglia”.

“Le minacce alla vita dei familiari sono oltre ogni limite. Solidarietà a Giorgia Meloni” scrive su Twitter il leader di Articolo 1 ed ex ministro della Salute Roberto Speranza. “Tutta la mia solidarietà a Giorgia Meloni per le disgustose minacce di morte ricevute sui social, indirizzate non solo a lei ma anche alla figlia. I responsabili vanno individuati e puniti, bisogna fermare questa pericolosa escalation di odio” scrive sui social Mara Carfagna, deputata e presidente di Azione.

Fomentatori in azione

Sarebbe stato solo un disgustoso episodio di cronaca se a qualcuno non fosse che qualcuno, al solito, non ha resistito alla tentazione di politicizzare anche questo ennesimo cretino. A far parte le danze è la berlusconiana Licia Ronzulli che scrive: “Ci sono cattivi maestri che vanno in piazza a dire cose non vere: qualcuno sta alimentando questo clima, sta armando la mano di qualcuno – ha detto la capogruppo di Forza Italia al Senato –. Andare nelle piazze a raccontare che aboliremo il rdc è una palese distorsione della realtà”, significa “aizzare le folle, armare le piazze”

E ancora: “Raccontare che tra 8 mesi ci sono persone che resteranno senza vuol dire – ribadisco – aizzare le folle e armare le piazze. Continuerà ad esserci per chi ne ha necessità“. La sottosegretaria al Mur Augusta Montaruli (Fdi) sottolinea “il silenzio una parte della politica. Particolarmente grave è l’atteggiamento di chi, come Giuseppe Conte e il suo Movimento 5 Stelle, da un lato sta aizzando le piazze e dall’altro non ci pensa minimamente a prendere le distanze da toni e posizioni violente”.

Solo che Conte ha espresso la solidarietà, eccome, definendo “esecrabile” la minaccia, esprimendo vicinanza e raccontando delle tante minacce ricevute durante la pandemia. E così torniamo alle solite: strumentalizzare un cretino criminale per sferrare un attacco politico è immorale. Ma ancora più immorale è non rendersi conto che le piazze le aizzano la povertà e la disperazione che se ne fregano dei dibattiti sul Pos e dei decreti sui rave. Questa pagliacciata degli animi infervorati dagli avversari politici non terrà ancora troppo a lungo. Ai partiti di governo conviene governare e smetterla di fare opposizione alla loro opposizione.

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Salvini triste, solitario y final

Nella sua Lega è tornato Umberto Bossi a scavargli un fossato intorno. Già questo dice quando Matteo Salvini sia fragile dentro e fuori al suo partito. Nei giorni scorsi in Lombardia il consigliere regionale Gianmarco Senna ha annunciato l’addio al partito di Salvini per entrare nel Terzo polo, e quindi sosterrà Letizia Moratti alle prossime elezioni regionali. Nella lista di Moratti sono quelli che sperano di entrare nella lista della ex vicepresidente della Regione Lombardia con un doppio obiettivo: mettersi di traverso all’eventuale vittoria di Attilio Fontana per dare uno schiaffo a Matteo Salvini e – per quanto riguarda i consiglieri regionali – sperare di essere rieletti.

In Lombardia la Lega non è più di Salvini. Dopo Bergamo, nei congressi provinciali il Comitato Nord di Bossi si prende Brescia, Lodi, Cremona. A Varese assente Giorgetti, che non ha votato. A Rovigo, in Veneto, al primo congresso provinciale, ha vinto Guglielmo Ferrarese. È vicino all’assessore Cristiano Corazzar, in linea con Zaia. Stessa cosa a Cremona dove segretario è Simone Bossi altro leghista da Comitato Nord. Pavia va a Jacopo Vignati, grazie al sostegno del vicepresidente del Senato, Gian Marco Centinaio. A Como è stata invece riconfermata Laura Santin che è la moglie di Fabrizio Cecchetti, segretario della Lega Lombarda, uno che in Lombardia ha lavorato contro Attilio Fontana.

Il calo del partito di Salvini sembra inarrestabile anche a livello nazionale, assestandosi al 7,6 per cento, più di un punto sotto il pessimo risultato delle politiche e scavalcato anche dal Terzo polo, al 7,9. Vola la sua avversaria Giorgia Meloni. Anzi, a dirla tutta, Matteo Salvini e Giorgia Meloni ormai giocano in due campionati diversi: lui arranca in un ministero di cui non ha competenze e a cui non riesce a dare slancio (attaccata a quella bolsa trovata del ponte sullo Stretto) mentre lei tira i fili del Paese.

Ieri sera Matteo Salvini, logorato e svuotato da una sconfitta che può riuscire solo a rallentare, ha impugnato il suo telefono convinto di avere trovato una grande idea per scaldare gli animi dei suoi elettori. Ha preso un video dei tifosi del Marocco che festeggiavano a Milano e l’ha pubblicato su Facebook commentando con «il Marocco elimina la Spagna, così “festeggiano” a Milano… Mi auguro che i responsabili vengano identificati e ripaghino tutti i danni». È passata qualche manciata di minuti e la Questura di Milano ha diramato un comunicato in cui scrive che «non ci sono stati disordini o criticità».

Poi Matteo è andato a dormire.

Buon mercoledì.

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Il Governo scontenta tutti. Pure gli elettori della Meloni

Dice Giorgia Meloni di essere “stufa” degli attacchi al suo governo. Avrebbe un senso se non fosse la stessa Meloni che solo con gli attacchi, solo con quelli, è riuscita a racimolare voti stando da sola seduta all’opposizione. Con Giorgia Meloni non è d’accordo nessuno, il suo governo è riuscito nell’improba impresa di mettere d’accordo Confindustria e sindacati, oltre all’Ocse, a Bankitalia e tutto il resto.

Chi sperava nella rivoluzione sovranista si è ritrovato un governo fotocopia di Draghi

Così Meloni ha deciso di mandare in avanscoperta il suo sottosegretario Giovanbattista Fazzolari per dire quello che avrebbe detto in prima persona se non fosse a Palazzo Chigi, dove un minimo di compostezza istituzionale è richiesta per stare a galla. Ma il problema di Giorgia Meloni di cui nessuno parla in questi giorni sono anche i suoi elettori.

Sì, gli elettori che continuano a crescere nei sondaggi l’hanno votata per avere ”una svolta” cha non è nemmeno all’orizzonte. Gli ex elettori di Salvini che hanno deciso di traslocare in Fratelli d’Italia, ad esempio, l’hanno fatto in gran parte perché ritenevano il leader leghista troppo morbido con la linea Draghi e con i diktat dell’Ue e finora hanno dovuto sorbirsi dalla presidente del Consiglio una linea economica fatta di lacrime e sangue come il suo predecessore alla presidenza del Consiglio e una linea diplomatica appiattita sui desiderata di Bruxelles.

Che gli elettori non sprizzino felicità si scorge tra i commenti sui social della presidente, quando non sono prontamente moderati. Stesso discorso per la guerra in Ucraina: a destra c’è un folto gruppo di italiani convinti che nella Russia di Putin ci siano i valori che andrebbero ripristinati in Occidente. Delusi anche loro.

Poi ci sono gli evasori, quelli che Meloni e i suoi ministri stanno accarezzando fin dalla prima ora dell’insediamento. La tarantella sul Pos si concluderà con una cifra ben inferiore ai 60 euro promessi in questi giorni. Nelle stanze di Palazzo Chigi si sussurra che la leader di Fratelli d’Italia vorrebbe chiudere a 30 euro ma non c’è troppo ottimismo. E se è vero che nei 60 euro rientra la stragrande maggioranza dei pagamenti elettronici dei piccoli commercianti con una cifra molto inferiore il numero delle operazioni possibili si riduce drasticamente. E non saranno contenti, no.

Stesso discorso per il condono: in campagna elettorale Meloni e Salvini lasciavano intuire di voler predisporre una “pace fiscale” (da quelle parti il condono lo chiamano così) che risolvesse le sofferenze della pandemia. Nulla di fatto. Si parla di cartelle esattoriali dal 2010 al 2015 sotto i mille euro.

Troppo distanti dai 10mila euro ventilati in campagna elettorale, troppo lontani negli anni. Troppo lontani i tempi del condono tombale di Berlusconi che con pochi spicci azzerava tutte le posizioni con il fisco. “Non ce lo permette l’Europa”, dicono i parlamentari eletti nei loro territori. E così si ricomincia: “Schiavi dell’Europa” e così via.

Stesso discorso per chi con Giorgia Meloni sperava nelle frontiere chiuse e nei colpi di cannone contro i migranti. Dopo lo sprint iniziale del ministro Piantedosi (bacchettato dall’Europa e soprattutto dal diritto internazionale) anche l’immigrazione diventerà solo una questione di narrazione.

C’è poi la flat tax molto più sfumata del previsto, le accise della benzina sono addirittura aumentate, ci sono gli odiati tedeschi e francesi che avrebbero dovuto essere “rimessi a posto” e invece sono lì a dettare le condizioni. Il bramato attacco all’aborto si è ridotto a un paio di slogan durati per qualche giorno.

Poi ci sono i no vax, che nella Meloni vedevano l’occasione della loro seconda Norimberga e che, anche nel loro caso, si devono accontentare di risparmiare qualche euro di multa. Doveva essere un rivoluzione e invece è solo una furba presa del potere. Finché dura.

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Schlein tallona Bonaccini, venti di scissione nel Pd

No, non è così scontato. Negli uffici del Nazareno circola un sondaggio che dà Stefano Bonaccini con un gradimento al 25% per la segreteria del Pd ma poco dietro, al 21%, sarebbe tallonato da Elly Schlein che ha ufficializzato la sua candidatura. Sarebbero sotto il 5% gli altri due candidati Matteo Ricci e Paola De Micheli.

Un sondaggio dà Elly Schlein a soli 5 punti da Stefano Bonaccini. Nel caso vincesse gli ex renziani minacciano l’addio

Il dato è importante perché nel mese di gennaio ci saranno le votazioni “interne” al partito tra gli iscritti ma poi, stando allo Statuto, il 19 febbraio i primi due si sfideranno alle primarie aperte. I dati si riferiscono solo al gradimento tra gli iscritti al Pd ma con questi numeri è probabile che molti degli indecisi, quando i due sfidanti si affronteranno ai banchetti aperti anche ai simpatizzanti, decideranno di convergere su Elly Schlein. Che per tutta la giornata di ieri è stata l’obiettivo degli attacchi della destra e del cosiddetto Terzo polo.

Tra i renziani e i calendiani serpeggia il timore che un’eventuale vittoria di Schlein allontani definitivamente qualsiasi possibilità di collaborazione con i Dem e, nonostante il bullismo di facciata, sanno benissimo che la sponda con il Partito democratico gli serve per governare in diverse realtà.

Anche per questo la giornata di ieri si è consumata tra rivendicazioni varie (con Renzi che reclama di essere “l’inventore” di Schlein) e minacce di separazione. Lo spettro della “scissione” nel caso di vittoria di Schlein ora non è più una voce isolata (il primo fu Gori venerdì) ma una minaccia dell’area progressista. Non proprio il clima ideale per ricostituirsi.

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Stretta finale Pd-M5S in Lombardia

Renzi e Calenda sono sempre lì. All’assemblea tenutasi a Milano di Italia Viva Matteo Renzi insiste: “lo sanno gli amici del Pd lombardo: se Majorino decide di fare il vice della Moratti, noi in Lombardia si vince e dopo 30 anni la Lombardia cambia colore. Io ci credo fino all’ultimo”, dice.

In Lombardia si va verso verso l’intesa Pd-M5S nonostante Renzi. Confronto serrato per ricostruire l’asse giallorosso

Senza nessuno sprezzo del ridicolo, con i sondaggi ormai a disposizione di tutti, il cosiddetto Terzo polo propone al Partito democratico di fare da vice nonostante abbia il doppio dei voti. Farebbe ridere se non ci fosse di mezzo la serissima opportunità di strappare Regione Lombardia alla destra dopo quasi trent’anni e se questa patetica strategia di logoramento nei confronti del Pd non fosse fatta sulla pelle dei cittadini.

Che Letizia Moratti non abbia nulla da spartire con il centrosinistra l’ha ripetuto durante l’evento del candidato Pierfrancesco Majorino (nella foto) perfino l’assessore dem di Milano Pierfrancesco Maran, uno che crede fermamente al valore di un perimetro politico che preveda anche il cosiddetto Terzo polo: “L’opzione Moratti è impraticabile”, ha scandito dal palco.

Per questo il segretario regionale del Pd Vinicio Peluffo risponde a Renzi con una provocazione: “Se Renzi vuole giocarsi la partita da vincente – dice – e non da spettatore noi ci siamo: ritiri il sostegno a Letizia Moratti e liberi dai tatticismi romani i rappresentati lombardi di Azione e Italia viva. Altrimenti il dubbio è che l’appello di Renzi abbia un unico significato: mettere le mani avanti per la sconfitta”.

Netto anche Majorino ieri: se anche “facessimo un accordo” con la candidata del terzo polo alle regionali del 2023 in Lombardia, Letizia Moratti, “tantissimi elettori di centrosinistra comunque non ci seguirebbero” quindi “accadrebbe la cosa peggiore di tutte: non solo perderemmo con Fontana, ma perderemmo con Fontana sostenendo la Moratti, che sarebbe il punto più alto della crisi possibile”.

Del resto il Partito democratico da giorni sta lavorando per allargare la coalizione dalla parte opposta, aprendo al Movimento 5 Stelle. Da giorni le parti si stanno incontrando per discutere “sui temi”, come aveva chiesto Giuseppe Conte, prima di discutere “di nomi”. L’accordo tra M5S e Pd potrebbe in effetti riaprire la partita (seppur difficile) e influire anche sugli scenari nazionali. Un primo incontro c’è stato lunedì, per oggi è programmato il secondo. “Condividiamo con forza un approccio che parte dal confronto sui temi fondamentali per cambiare la Lombardia.

Ricordandoci sempre che l’obiettivo, per il bene della nostra regione, è battere Fontana”, ci dice il candidato alla Presidenza di Regione Lombardia Pierfrancesco Majorino. Il sindaco di Milano Beppe Sala intanto annuncia di voler fare “una telefonata a Conte”: “Credo lo chiamerò per parlargli di quali sono i punti che possiamo condividere”, ha risposto ai cronisti che lo incalzavano.

Sullo stato della trattativa il 5 Stelle Dario Violi ci spiega: “È stata una prima riunione interlocutoria, dove noi abbiamo illustrato i cinque punti del nostro programma, mentre abbiamo scelto di accantonare la questione del candidato – spiega il coordinatore lombardo del Movimento -. L’idea è di fare altri due o tre incontri a partire da martedì, per vedere se c’è la possibilità di trovare un accordo sui temi”.

A taccuini chiusi e microfoni spenti qualcuno giura che alla fine l’accordo si farà. “Questione di giorni”. Resta solo da risolvere il nodo con +Europa che non vuole i grillini in coalizione. Ma qualcuno ricorda che erano gli stessi che avevano messo il veto proprio su Majorino e poi sono scesi a miti consigli.

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Trasparenza zero sui miliardi del Pnrr

Avrebbe dovuto essere tra le altre cose il trionfo della trasparenza e invece a un anno e mezzo dall’approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza avere i dati sul suo avanzamento continua a essere un’impresa ostica. Nelle intenzioni del governo il sito Italia domani, andato online a inizio agosto, avrebbe dovuto essere il portale per il monitoraggio del Pnrr a disposizione di partiti, cittadini.

Ad un anno e mezzo dal via al Pnrr avere informazioni sul suo avanzamento è un’impresa

Peccato che da nessuna parte sia possibile monitorare con dati aggiornati il rispetto delle scadenze periodicamente previste dal piano. Si tratta di 190 miliardi di euro che arriveranno all’Italia dall’Unione europea entro il 2026, oltre ai 30 miliardi di euro del fondo complementare nazionale a supporto. Eppure solo con dati aperti, rielaboratili e pubblicamente disponibili si potrebbe chiedere conto alla politica di come si stia procedendo.

Per questo oltre 50 realtà del mondo civico hanno deciso di lanciare la campagna #ItaliaDomaniDatiOggi che chiede un maggiore impegno per la trasparenza alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al ministro per gli Affari europei, il Sud, le Politiche di coesione e (appunto) il Pnrr, Raffaele Fitto (nella foto).

Gli estensori dell’appello ricordano come ne portale Italia domani siano presenti informazione solamente per 5mila progetti legati a quattro procedure di gara, per un valore complessivo di circa un miliardo di euro che risalgono al mese di maggio.

“Tuttavia nella seconda relazione che il governo Draghi ha presentato al parlamento nei primi giorni di ottobre, si legge che i progetti che risultano attualmente in corso sarebbero oltre 73mila. – scrivono – I dati mancanti sarebbero dovuti confluire in un unico database centralizzato attraverso il sistema informatico Regis. Un portale creato dal ministero dell’economia in cui tutti i soggetti coinvolti avrebbero dovuto caricare le informazioni legate agli interventi di loro competenza. Ma, com’è evidente, ciò non è ancora avvenuto. L’obiettivo di fornire a cittadini e realtà del terzo settore dati aperti e riutilizzabili a fini di monitoraggio peraltro doveva essere conseguito già nel 2021. Tuttavia i ritardi nell’implementazione della piattaforma avevano fatto mancare questo primo appuntamento. Successivamente, il governo aveva assicurato che tale infrastruttura sarebbe stata operativa entro il 30 giugno di quest’anno. Ciò anche a seguito di impegni presi con la Commissione Ue. Anche questo traguardo però è stato mancato”.

“Il Pnrr – si legge nell’appello – rappresenta una sfida epocale ed irripetibile per il nostro paese. Una sfida che avrà impatti significativi anche sulle generazioni future. Da questo punto di vista, la trasparenza e la disponibilità dei dati sono condizione essenziale per promuovere il dibattito, esercitare il controllo civico e intervenire per scongiurare sprechi ed errori”. In base ai dati disponibili, sappiamo già per certo che quest’anno l’Italia spenderà meno risorse del Pnrr rispetto a quanto preventivato.

Fino a oggi il nostro Paese ha ricevuto 67 miliardi di euro e il governo Draghi aveva dichiarato l’obiettivo di spenderne circa 20,5 miliardi di euro entro la fine del 2021, circa la metà rispetto alla spesa preventiva con la tabella di marcia originaria. Il 1° dicembre, un articolo pubblicato su La Stampa scriveva che la spesa entro la fine di quest’anno si aggirerà intorno ai 15 miliardi di euro, lontani anche dal traguardo fissato dal precedente governo. Quindi? A che punto siamo davvero?

Leggi anche: Il Pnrr non basta più, la Meloni batte cassa a Bruxelles. Ma il braccio di ferro con l’Ue sul Pos non aiuta

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Il Governo del Vittimismo

L’abbiamo già scritto e sta riaccadendo, ancora. Sulla legge di Bilancio la tattica del governo Meloni è sempre la stessa usata fin dai tempi dell’opposizione: farsi vittime, raccontare un accerchiamento, utilizzare il dissenso generale come medaglia.

Ieri è accaduto che il capo del Servizio struttura economica del Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia, Fabrizio Balassone, davanti alle commissioni Bilancio riunite (ma sono presenti solo 7 parlamentari) ha criticato i provvedimenti bandiera dell’esecutivo. Sulla flat tax Balassone ha spiegato che «la sussistenza di regimi fiscali eccessivamente differenziati tra differenti tipologie di lavoratori pone un rilevante tema di equità orizzontale, con il rischio di trattare diversamente, in modo ingiustificato, individui con stessa capacità contributiva».

Sui pagamenti elettronici Bankitalia ha detto l’ovvio: «I limiti all’uso del contante, pur non fornendo un impedimento assoluto alla realizzazione di condotte illecite, rappresentano un ostacolo per diverse forme di criminalità ed evasione». Ma va Non era così difficile. Così come non è difficile capire che «per gli esercenti, il costo del contante in percentuale dell’importo della transazione è superiore a quello delle carte di debito e credito». A meno che, ovviamente, il contante non finisca sotto il cuscino.

Chissà che ne pensano poi, oltre ai partiti del governo, anche quelli del sedicente Terzo polo del fatto che sul reddito di cittadinanza Bankitalia afferma che «una forma di reddito minimo a sostegno delle famiglie più bisognose è presente in tutti i Paesi dell’area dell’euro e in molti di essi presenta carattere di universalità. In questi anni il sussidio ha contributo dapprima a contenere gli effetti negativi dell’epidemia di Covid sul reddito disponibile delle famiglie più fragili e poi a sostenere il potere d’acquisto particolarmente colpito dal recente shock inflazionistico». A meno che, come vedete accadrà, non si voglia semplicemente cambiargli il nome per il gusto della propaganda sulle spalle dei poveri.

La manovra finanziaria è criticata dai sindacati, da Confindustria, dalla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti. Ma dalle parti del governo dicono che «questo è un bene». Il vittimismo del resto prevede che il disaccordo generale verso le proprie azioni indichi un “complotto generale” da abbattere. E continueranno così, fino alla fine. Insistendo come quello che prende l’autostrada contromano e per tutto il viaggio si lamenta di essere circondato da scemi. Fino allo schianto.

Buon martedì.

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Congresso Pd, a vincere sarà sempre Renzi

Lucia Annunziata in un suo editoriale su La Stampa di ieri l’ha scritto chiaro. “Chi vincerà il congresso del PD? Elementare Watson: Matteo Renzi”, scrive Annunziata che fa notare nel suo pezzo come Stefano Bonaccini, Dario Nardella, Matteo Ricci e Paola De Micheli siano, in un modo o nell’altro, stati vicini a Matteo Renzi.

Non è una colpa, ma i nomi in corsa per la segreteria del Pd, da Bonaccini a Nardella, da Ricci a De Micheli, in un modo o nell’altro, sono da sempre vicini a Renzi

Ha ragione Annunziata a specificare che essere stati vicini a Renzi non è e non può essere una colpa. Però è un fatto. Che ora tutti fingano di non saperlo rende il quadro generale ancora più paradossale. Negare di essere stati convintamente renziani del resto significa non doversi assumere la responsabilità di formulare un giudizio su quel momento politico e sulle iniziativa politiche di Renzi, dal Jobs Act allo Sblocca Italia fino alla gestione del partito e poi alla modalità della sua separazione.

Il PD non ha mai elaborato il renzismo e sembra non avere nessuna voglia di farlo. Lo spiegava bene ieri Chiara Geloni: “Nel gesto delle dimissioni di Zingaretti, nelle sue reticenti e contraddittorie e mai analizzate motivazioni, nel modo in cui è stato sostituito da Letta, richiamato e votato all’unanimità come (quasi) all’unanimità era stato cacciato da palazzo su richiesta di chi lo definiva un incapace, così come oggi nelle grottesche affermazioni degli ex vice, delfini, capi territoriali di Renzi secondo cui “nel Pd non ci sono renziani” c’è tutta l’incapacità del Pd di guardarsi allo specchio e fare un bilancio di questi anni.

Non solo Renzi è ancora il capo e molti ancora, all’occorrenza, gli obbediscono, come è riscontrabile di continuo. Ma sono intatte le ragioni per cui gli si sono completamente e acriticamente affidati, e probabilmente lo rifarebbero. – scrive Geloni – Sono gli stessi, magari più educati, gli slogan: largo ai sindaci e ai “territori”, “una nuova classe dirigente di amministratori”, il senso di autosufficienza “maggioritaria”, la retorica del “siamo gli unici davvero democratici”. È per questo non detto che chi non è stato renziano e si e limitato a convivere col renzismo oggi non riesce a esprimere una candidatura e un progetto non renziano per il Pd”.

Ieri Elly Schlein, piaccia o no, durante la presentazione della sua candidatura a segretaria del Partito Democratico ha detto: “Renzi, che dice di averci portato in Parlamento, dico di non dimenticare che per quanto mi riguarda a portami in Parlamento furono 50mila preferenze. Renzi ha il merito di aver spinto me e tanti altri fuori dal Pd con una gestione arrogante. Ha ridotto il Pd in macerie e poi se n’è andato”.

Pensate a un altro qualsiasi candidato che possa prendere le distanze dal renzismo in questo modo, senza rischiare di essere zittito aprendo un cassetto qualsiasi di quel tempo. E l’aspetto più incredibile è che i renziani (da Guerini a Marcucci a Lotti a un bel pezzo di Base riformista) non hanno nemmeno il coraggio di dichiararlo apertamente. L’assessore di Milano Pierfrancesco Maran, che non appartiene a nessuna corrente, ha dichiarato apertamente di considerare il periodo di Renzi alla guida del PD un’ottima parentesi politica.

L’ha fatto senza nascondenti e tattiche. Così come in modo molto trasparente ha detto che pur non condividendo le idee di Elly Schlein segue con curiosità la sua candidatura ed è convinto che sia un arricchimento. Un congresso normale che non fosse una guerra tra bande andrebbe fatto così. Nei giorni scorsi Giorgio Gori, invece, ha detto che nel caso in cui Elly Schlein diventasse segretaria lui se ne andrebbe dal partito. Tanto per notare le differenze.

Se le parole avessero un senso un rinnovamento della classe dirigente del PD dovrebbe portare inevitabilmente a un confronto (confronto, non uno scontro) tra i Maran e gli Schlein (e i tanti come loro) che non hanno nessun credito aperto con nessuno dei maggiorenti del partito. Così sarebbe un nuovo PD. Solo così. Altrimenti continua a essere una non interessante rivincita tra sconfitti.

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I più grandi inquinatori hanno ricevuto 100 miliardi di euro dall’Ue

Il Wwf lo scrive chiaro e tondo: per una falla nel sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (Ets) le grandi industrie inquinanti negli ultimi nove anni hanno ricevuto dell’Unione europea 98,5 miliardi di euro in quote di carbonio gratuite, ovvero con la licenza di inquinare gratis.

Il sistema Emission trading system è stato introdotto in Ue nel 2005 con lo scopo di implementare un sistema di tariffazione del carbonio per i settori dell’energia elettrica, dell’industria pesante e dell’aviazione ed è finalizzato a incentivare la decarbonizzazione.

Il principio alla base declamato è “chi inquina paga”, ma l’analisi dell’associazione ambientalista sul periodo 2013-2021 dimostra che più della metà delle emissioni Ets (53%) sono state distribuite gratuitamente a chi inquina attraverso il cosiddetto schema di “allocazione gratuita”. Le quote gratuite hanno fatto inceppare il sistema, afferma il Wwf. Inizialmente giustificate dalla paura delle delocalizzazioni da parte delle aziende in altri Stati con norme ambientali meno stringenti, dal 2006 il numero dei permessi è diminuito, stima l’Ong. Nonostante questo, il loro valore è superiore agli 88,5 miliardi di euro addebitati fino ad ora agli inquinatori, principalmente centrali elettriche a carbone e gas, per le loro emissioni di CO2.

«L’analisi mostra che nell’ultimo decennio l’Ets si è basato sul principio ‘chi inquina non paga’, con miliardi di mancati introiti che i Paesi Ue avrebbero potuto invece investire nella decarbonizzazione industriale», spiega Romain Laugier, dell’ufficio per le politiche europee del Wwf e principale autore del rapporto. «I negoziatori Ue devono eliminare gradualmente le quote gratuite il prima possibile e nel frattempo assicurarsi che le aziende che le ricevono soddisfino condizioni rigorose sulla riduzione delle loro emissioni».

Secondo Alex Mason del Wwf, «se i contribuenti rinunceranno a decine di miliardi di entrate, l’industria dovrebbe usare quei soldi per investire nelle tecnologie per decarbonizzare,anziché non fare nulla o addirittura approfittare delle quote gratuite».

Laugier ricorda anche che «del denaro che i Paesi dell’Ue hanno raccolto dall’Ets, almeno un terzo non è stato speso per l’azione per il clima o è stato speso per progetti di discutibile valore per il clima ed è dunque chiaro che l’intero sistema deve essere rafforzato e l’opportunità di farlo esiste oggi, durante le discussioni del Fit for 55».

Tutto bene?

Buon lunedì.

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Giochi di potere e manovre tra correnti. Il Congresso Pd è già partito male

Domenica Elly Schlein lancerà la sua candidatura alla segreteria nazionale del Pd. Il congresso è ancora alle battute iniziali ma sono già cominciate le scintille. Sulla candidatura di Schlein ieri è intervenuto a gamba tesa il sindaco di Bergamo Giorgio Gori che in un’intervista a Huffington Post è nettissimo: “Se vince Schlein potrei lasciare il Pd”.

Ma quale eccesso di liberismo – sottolinea il primo cittadino di Bergamo – “serve il mercato ben temperato di Prodi e un nuovo laburismo”. Secondo Gori “con Elly vince Renzi perché ci sarebbe la ‘deriva francese’ del Pd”.

Quasi scontato il suo annuncio di appoggiare la mozione del presidente della Regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini, sostenuto in toto dalla corrente Base riformista a cui fanno riferimento Lorenzo Guerini e Luca Lotti. A sostegno di Bonaccini tra qualche giorno dovrebbe arrivare anche l’area che fa riferimento a Matteo Orfini.

Chi sta con chi

Oggi in una conferenza stampa al Teatro del Sale invece il sindaco Dario Nardella si ritira dalla corsa in prima persona per il congresso e annuncerà il suo ruolo nella mozione Bonaccini, probabilmente come coordinatore dei comitati congressuali o presidente del comitato promotore.

Di certo Nardella sarà uno dei volti in prima linea. In Toscana Bonaccini ha già incassato l’appoggio del presidente della Regione Eugenio Giani, del presidente del Consiglio regionale Antonio Mazzeo fino alla segretaria Simona Bonafè. Dopo aver sondato il terreno per correre in solitaria Nardella ha ricevuto pressioni da Franceschini e Provenzano per siglare un ticket con Schlein ma alla fine il sindaco di Firenze ha preferito allinearsi con il gruppo dei dirigenti regionali.

Con la strana coppia Franceschini-Provenzano a sostegno di Schlein la “sinistra” del partito rappresentata da Andrea Orlando dovrebbe alla fine convergere sul sindaco di Pesaro Matteo Ricci che piace molto anche a Goffredo Bettini. Ricci, raggiunto al telefono, non conferma e non nega: “Per le candidature c’è tempo – dice a La Notizia – perché in questo percorso bizzarro i termini scadono il 27 gennaio. Da mesi siamo in campo con un bellissimo percorso nella provincia italiana, nel Pd ci siamo riempiti la bocca di partecipazione e poi hanno parlato sempre gli stessi oppure abbiamo parlato solo tra noi. Con il mio tour abbiamo prodotto le prime 10 idee che abbiamo presentato a Roma e il 16 dicembre finiremo il tour e lì tireremo le somme”.

Durante la riunione del comitato costituente per discutere la Carta dei valori l’ex ministro Roberto Speranza ha chiesto di “espungere il liberismo che si è insinuato al suo interno”. Il tema del Pd che deve scegliere se essere un partito socialdemocratico o un partito liberale è sempre presente tra le rivendicazioni di una parte consistente del partito. Su questo Ricci precisa che “il vero riformismo è progressista” e spiega che “ciò che conta in questo momento è l’avere una grande tensione unitaria”.

Sullo sfondo rimangono i presidenti del Sud, Vincenzo De Luca e Michele Emiliano, che al momento non hanno espresso nessuna preferenza tra i candidati in campo. I due hanno anche cercato un nome che potesse rappresentarli, valutando l’ipotesi di un candidato “proprio”. Siamo ancora al momento in cui c’è da capire “chi sta con chi” per leggere gli equilibri futuri. Il che, nonostante le dichiarazioni, dimostra ancora una volta che le tattiche correntizie e gli equilibri interni contano eccome. E “lo spirito unitario” è già in bilico se una figura di primo piano annuncia “o me o Schlein”.

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