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La morte di Riccardo e la nostra incapacità di affrontare sconfitte e fragilità

Quell’auto di Riccardo schiantata contro un platano, il giorno prima dei festeggiamenti di una laurea che non aveva mai preso, poco prima di quel viaggio in Giappone ricevuto come premio per un’impresa che era solo raccontata, contiene molte storie. Non è solo quella di Riccardo e della sua famiglia (per cui questo è il momento del dolore), ma anche quella di uno studente trentenne iscritto alla facoltà di Medicina in lingua inglese all’università di Pavia che prima di suicidarsi ha scritto al suo rettore spiegando la sua incontrollabile paura di perdere la borsa di studio e di non riuscire a pagarsi gli studi; c’è un fuorisede che a ottobre di quest’anno si è suicidato la sera prima che arrivassero i suoi genitori per festeggiare una laurea che non esisteva, c’è lo studente dell’Università Federico II di Napoli trovato morto dopo aver raccontato ai genitori un piano di studi che non era mai stato compiuto.

Qualsiasi modalità di empatia viene bollata come una mollezza

C’è in purezza tutto questo tempo incapace di affrontare le sconfitte e le fragilità. Gli adulti troppo inadeguati nel giudicare i percorsi dei figli. I figli che non considerano interlocutori i loro genitori. C’è soprattutto il feticcio del merito che altro non è che lo sdoganamento di una disfunzionale competizione ormai assurta a modello sociale. Un tempo in cui la competizione (che di per sé non è certo un danno) è diventata incapacità di tollerare la possibilità di fallire. Anche perché mentre si spinge la competizione come strumento principe della crescita, stiamo sgretolando qualsiasi spirito di collaborazione, anche nei suoi termini più larghi. Progressivamente nel nostro Paese qualsiasi modalità di empatia viene bollata come una mollezza che non possiamo permetterci. Così il percorso è tracciato: “l’io” che deve farsi super nel più breve tempo possibile, il “noi” che è solo una folla di adoratori o i resti di quelli che siamo riusciti a sconfiggere, un senso di comunità che è un’utopia inapplicabile al reale e infine la solidarietà che diventa un lusso troppo sospetto per poterselo concedere senza secondi fini. Ed è esattamente quello che siamo diventati noi.

La morte di Riccardo e la nostra incapacità di affrontare sconfitte e fragilità
La macchina di Riccardo dopo lo schianto.

L’ossessione del merito, una religione del capitalismo

Il passaggio dal mito della competizione all’ossessione del merito (ormai diventata una religione del capitalismo) è fin troppo facile. Per questo mentre il governo spinge sul ministero del Merito bisognerebbe rileggere chi come Beatrice Bonato da tempo ci invita a «smettere di spingere gli studenti verso il miraggio di punteggi più elevati, riconoscere gli allievi dotati senza pretendere di creare, fin dalla scuola, un’élite dei talenti». Un libricino che andrebbe riletto è anche quello di Carmelo Albanese, Il feticcio della meritocrazia: «Il fatto che la valorizzazione e l’utilizzo delle capacità individuali, secondo le inclinazioni personali, non sia stato messo in pratica nelle nostre comunità è una forma di delirio particolare. Un drammatico incidente di percorso lungo la via del buon senso», scrive Albanese.

Con l’individualismo esasperato alla fine si rimane soli

«Nei sistemi meritocratici trionfa solo la categoria statica e inviolabile del potere. Nelle società meritocratiche il potere viene conferito a certi individui attraverso il premio al merito, supposto ma non reale perché considerato costante  e non variabile. Gli individui a cui viene dato il premio al merito, inizialmente sono stati meritevoli di qualcosa in un certo contesto riferito a delle variabili, ma poi entrano nel meccanismo meritocratico dimenticando il merito». Si arriva quindi all’epilogo: spingendo sull’individualismo travestito di merito e di competizione alla fine c’è chi rimane solo. Sorprende che ci sorprenda.

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Paladino degli agenti violenti Ma Salvini ha fregato anche loro

Quando nel 2019 sei agenti della polizia penitenziaria in servizio al carcere Lorusso e Cutugno di Torino sono stati arrestati, Matteo Salvini li difendeva a spada tratta. L’accusa era quella di ripetuti atti di violenza e tortura nei confronti dei detenuti nel periodo tra aprile 2017 e novembre 2018. Un’accusa piuttosto grave: il reato contestato (in base all’articolo 613bis del codice penale) è punito con la reclusione da 4 a 10 anni.

Nelle carte dei pubblici ministeri che hanno indagato sui sei agenti si parla di minacce, di detenuti presi a schiaffi e sputi, malmenati, denudati e insultati. Lui aveva già deciso che erano innocenti: “Non è possibile credere più ai carcerati che ai poliziotti”, disse.

Si sbagliava. Lo stesso è accaduto per gli agenti del carcere di San Gimignano condannati per tortura e lesioni aggravate contro un detenuto: si tratta di un pestaggio avvenuto ai danni di un 31enne tunisino durante un trasferimento coatto di cella. Le violenze sono documentate in un video.

Ma per Salvini questo non basta, come non basta la sentenza di condanna del tribunale di Siena, ché secondo il leader della Lega si trattava del “primo caso al mondo di tortura postdatato di 13 mesi e senza torturato”. Salvini strumentalizzava il fatto che il detenuto, per paura di ritorsioni, non ha mai denunciato quanto accaduto. Il caso è scoppiato dopo che un’operatrice del carcere ha scritto una lettera al tribunale di sorveglianza.

Nel 2020 stessa storia. “Le forze di polizia devono avere libertà assoluta di azione, se devono prendere per il collo un delinquente e questo si sbuccia il ginocchio o si rompe una gamba sono cazzi suoi, ci pensava prima di fare il delinquente”, disse appoggiando la protesta contro l’introduzione del reato di tortura. “Il primo delinquente di turno li può denunciare per essere stato arrestato con troppa irruenza o psicologicamente torturato”, disse Salvini.

Dalla parte sbagliata

Quando a Caserta quell’anno scoppiò il finimondo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere Salvini ci spiegò che era “una follia” che a “pagare per tortura devono essere i poliziotti che hanno riportato in cella i delinquenti”. Quel giorno quasi trecento agenti della polizia penitenziaria muniti di caschi e manganelli, alcuni a volto coperto, fecero irruzione nelle celle e per ore presero a calci, pugni e schiaffi i detenuti del reparto Nilo.

Il carcere campano è al centro di un processo che ha visto il rinvio a giudizio davanti alla Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere di 105 imputati. I reati contestati a vario titolo vanno dall’omicidio colposo come conseguenza di tortura alle lesioni pluriaggravate, passando per l’abuso di autorità e il falso in atto pubblico.

Ora Salvini è al governo e che succede? La legge di Bilancio prevede 35 milioni di euro in meno per i prossimi tre anni per l’amministrazione penitenziaria. “Siamo veramente incazzati”, dice Donato Capece, segretario generale del Sappe: ”ci hanno chiesto i voti e ora tagliano i fondi”.

“Gli agenti sono increduli e disillusi, ci aspettavamo fondi per rendere possibile il servizio, in questo momento non lo è, non è solo questione delle unità mancanti, anche i 36mila agenti in servizio non hanno la dotazione adeguata: scarpe, equipaggiamenti, formazione. Non si capisce perché promettono e poi non solo non mantengono, ma tagliano: dieci milioni nel 2023, quindici nel 2024, undici dal 2025”, dice Gennarino De Fazio, segretario del sindacato di polizia penitenziaria della Uil.

È il metodo Salvini: propaganda che tanto è gratis e poi nullafacenza. Fino alla prossima difesa d’ufficio. Tanto qualcuno in questo Paese ci casca ancora.

 

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Tajani ci ha ripensato. Non incontrerà il ministro degli esteri dell’Iran

Antonio Tajani ci ha ripensato. Fonti del ministero dicono che il vice presidente del Consiglio, nonché ministro agli Esteri, non incontrerà il ministro degli esteri del regime della repubblica islamica dell’Iran che prenderà parte all’ottava edizione del Med (Mediterranean dialogues).

Fonti della Farnesina hanno riferito che il vice premier Antonio Tajani non incontrerà più il suo omologo della repubblica islamica dell’Iran

Come abbiamo scritto nell’edizione de La Notizia in edicola oggi l’Associazione Democratica degli Iraniani aveva scritto al ministro, alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni e al Parlamento per chiedere “di stigmatizzare la partecipazione all’evento in questione del rappresentante del regime iraniano e di porre in atto tutti gli sforzi necessari atti a evitare l’incontro tra il Ministro degli Esteri Italiano con quello del regime iraniano”.

In Iran si sta consumando in queste settimane un eccidio delle libertà e della democrazia, con 470 morti dopo 70 giorni di protesta e con più di 15mila persone arrestate. I processi farsa (con l’accusa di “essere nemici di Dio”) si celebrano senza la presenza di avvocati difensori e coinvolgono anche minorenni. Spesso per quell’accusa viene accordata la pena capitale. È altresì noto a tutti che l’Iran sostiene e fornisce attrezzature militari alla Russia nella guerra con l’Ucraina.

La Comunità Europea, dove l’onorevole Tajani ha ricoperto il ruolo di Presidente del Parlamento, sta varando delle sanzioni contro la repubblica islamica, sia per il sostegno militare fornito alla Russia, sia per le continue violazioni dei diritti umani e civili in Iran. L’incontro bilaterale previsto molto probabilmente non avrà luogo, fanno sapere dalla Farnesina. Per una volta almeno non si stringeranno mani sporche di sangue.

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Testimone usa e getta. Così lo Stato ha abbandonato Angelo Niceta

C’è un testimone di giustizia che ha perso 14 chili in 15 giorni per uno sciopero della fame, con intorno il silenzio di quasi tutti per chiedere che sia rispettata la legge e chiedere spiegazioni sulle gravi e molteplici anomalie verificatesi mentre si trovava sotto protezione. Angelo Niceta è un ex importante imprenditore tessile palermitano che nel 2013 cominciò a rendere spontaneamente dichiarazioni all’autorità giudiziaria di Palermo.

Il testimone di giustizia Angelo Niceta ha fatto il suo dovere. Ma le istituzioni l’hanno lasciato da solo

In seguito alle sue dichiarazioni, ravvisando un grave pericolo per l’incolumità di Angelo e dei suoi congiunti, la Procura di Palermo chiese, nelle persone degli allora pubblici ministeri Antonino Di Matteo e Pierangelo Padova, l’inserimento di Angelo e della sua famiglia nel programma speciali misure di protezione del Ministero dell’Interno riservato ai Testimoni di Giustizia e l’immediato trasferimento in località protetta.

Ma inspiegabilmente, quando già si trovava in località protetta, a Niceta venne comunicato, senza che mai fino ad oggi sia stata fornita la motivazione di questa decisione, che la Commissione Centrale del Ministero dell’Interno, allora presieduta dal sottosegretario Filippo Bubbico, lo aveva inserito nel programma di protezione come Collaboratore di Giustizia. Un pentito, insomma. Ritenendo offensiva questa scelta nel 2015 decise quindi di rinunciare al programma di protezione e di tornare a Palermo.

Nel frattempo continuò a rendere dichiarazioni. Nel giugno 2017 decise di iniziare uno sciopero della fame per chiedere il rispetto dei suoi diritti. In quei giorni vennero presentate tre interrogazioni parlamentari. Il 4 luglio del 2017 la Procura di Palermo chiese nuovamente, nelle persone dell’allora Procuratore della Repubblica Franco Lo Voi e dell’allora Procuratore Generale presso la Corte d’Appello Roberto Scarpinato, il programma di protezione per Angelo e la Famiglia nella qualità di Testimone di Giustizia.

Tale richiesta vedeva anche il parere favorevole della dottoressa Franca Imbergamo per la Procura Nazionale Antimafia. Il 12 luglio del 2017, dopo 43 giorni di sciopero della fame, Angelo venne nuovamente trasferito insieme ai suoi familiari (la moglie e i 4 figli) in località protetta, stavolta in qualità di Testimone di Giustizia. Ma la storia non finisce qui.

Angelo e la famiglia, pur vivendo in località protetta, contrariamente a quanto previsto dalla legge, vengono lasciati formalmente senza un programma di protezione, in uno status provvisorio che impedisce l’accesso ad alcuni diritti e prerogative riconosciuti ai Testimoni di Giustizia titolari di un programma di protezione.

Solo nella primavera del 2019, con due anni di ritardo, il programma venne approvato dalla Commissione Centrale del Ministero dell’Interno il programma. Nel frattempo per due volte nell’abitazione del figlio Enrico nel 2019 (e poi quest’anno) entrano degli estranei. Nel secondo episodio la casa viene vandalizzata e per terra vengono lasciati escrementi.

Oggi Niceta chiede allo Stato di rispettare le regole, visto che, nonostante l’esiguità del mensile rapportato ad un nucleo familiare di 6 persone, negli ultimi anni non gli sono stati effettuati regolarmente i rimborsi per le spese mediche e legate allo studio e per chiedere allo Stato risposte sulle troppe anomalie capitate negli ultimi anni a lui e alla sua famiglia.

Quando Niceta ha raccontato dei rapporti dei suoi famigliari con il boss Guttadauro, con l’ex sindaco Ciancimino e con Bernardo Provenzano l’hanno ascoltato e usato. Ora forse semplicemente non serve più.

Leggi anche: La mafia sparita dalle news. Ecco la normalizzazione tanto temuta da Borsellino. Ogni giorno inchieste e blitz contro i clan. Ma su tv e giornali non se ne parla più

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Cosa hanno fatto finora

Dopo una legge di Bilancio, al di là del Parlamento, si possono stilare giudizi su un governo. Al di là dei numeri, commentati mirabilmente dagli economisti nostrani che negli ultimi giorni dicono tutto e il suo contrario, ci sono posizioni politiche che emergono con evidenza.

Le promesse mancate, ad esempio. Di solito sono le cose più banali, poco influenti sulla spesa generale, però sono utilissime per scardinare l’ipocrisia. Che ieri la benzina sia aumentata per la rimozione del taglio sulle accise è un contrappasso fantastico. Sono le stesse accise che Salvini ogni giro promettere di abolire del tutto, sono quelle accise su cui una giovane Giorgia Meloni aveva girato un bel video promozionale in cui ne prometteva la graduale abolizione. Nel computo generale si tratta di poca roba ma per i cittadini è una manifestazione immediata: basta recarsi al distributore.

La mano tesa agli evasori è talmente evidente che perfino le trasmissioni di destra lo confessano. Ieri sera su non so quale rete televisiva berlusconiana mi sono imbattuto (per sbaglio, eh) in una serie di interviste a artigiani che con laboriosa onestà ammettevano che non ci sia nessun altro possibile motivo all’innalzamento dei contanti fino a 5mila euro se non favorire il nero. L’Italia già oggi è fanalino di coda nei pagamenti digitali, ora è pronta per fare molto peggio. Un politico che tende la mano all’evasione usando la giustificazione delle “troppe tasse”, senza prendersi la briga di abbassarle è colpevole di concorso esterno, oltre che incapace.

Stessa cosa per ambiente e transizione energetica. Il governo Meloni ha tagliato i 94 milioni destinati alle piste ciclabili che erano rimasti nel Fondo per lo sviluppo delle reti ciclabili urbane istituito dalla legge di bilancio 160/2019. Figurarsi cosa accadrà sullo sviluppo di una mobilità sostenibile: Salvini, Meloni e Berlusconi vedono nel motore termico il salvadanaio del loro consenso. Non è nemmeno un caso che sia stato tagliato del 45% il fondo anti dissesto idrogeologico, nonostante i morti di Ischia. Loro sono questa roba qua, sempre sul bordo del conservatorismo al limite del complottismo.

Poi c’è il lavoro. Niente salario minimo (alla faccia dell’Europa), premi solo per (poche) donne con figli (perché non figliare è un demerito per un governo ipercattolico, ovviamente), reintroduzione dei voucher. Anche qui con due righe possiamo farci un’idea.

Bentornati nel passato.

Buon venerdì.

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La mafia sparita dalle news

Avete notato che la politica, i media non parlano più di mafia È scomparsa la mafia Tre giorni fa è sbarcato all’aeroporto di Fiumicino, proveniente dalla Spagna, Mario Palamara. Palamara ha 53 anni, è di Melito Porto Salvo ed è un importante broker di droga che operava in Toscana, soprattutto al porto di Livorno.

Avete notato che la politica, i media non parlano più di mafia È scomparsa la mafia È la normalizzazione tanto temuta da Borsellino

I suoi traffici erano al centro dell’inchiesta “Molo 13” che ha svelato un’operazione di importazione di cocaina del valore di un milione di euro, passata per l’Olanda. “Ora siamo entrati in ottica industriale”, lo informava uno dei suoi uomini, compiaciuto per il carico in partenza. Ne avete letto? Ne avete sentito parlare, magari da qual ministro che ogni giorno si dice contro la droga e che citofona ai presunti minuscoli spacciatori? Niente.

A Cosenza qualche giorno fa si è pentito Danilo Turboli. Coinvolto nei procedimenti “Testa del serpente” e “Reset“, il 27enne cosentino è considerato partecipe al gruppo Lanzino-Ruà e vicino ad uno dei maggiori esponenti, Roberto Porcaro. Le sue dichiarazioni potrebbero essere un terremoto per la ‘Ndrangheta nel cosentino, confederata in sette clan di cui Turboli sta facendo nomi, cognomi, anche dei referenti politici.

L’avete letto? I boss di Cosa nostra Francesco Pace e Girolamo “Luca” Bellomo stavano scontando una condanna, rispettivamente a 25 anni di reclusione il primo e a dieci il secondo. Entrambi vicini al boss superlatitante di Castelvetrano, Matteo Messina Denaro, nelle settimane scorse sono tornati in libertà per buona condotta. Le nuove norme del codice antimafia, hanno impedito, infatti, l’applicazione dei provvedimenti di sorveglianza speciale e entrambi sono tornati liberi e senza alcun vincolo. Ne avete sentito parlare?

A Catania è stato smantellata la cosca mafiosa dei Cursoti Milanesi. Dall’inchiesta “Zeus” emerge che il gruppo comprava cocaina nel Napoletano, dal clan camorristico Sautto-Ciccarelli di Caivano, con il quale due affiliati al clan Cappello-Bonaccorso avrebbero avviato una joint venture per il traffico della sostanza stupefacente. ‘Ndrangheta e Camorra soci per riempire il Paese di cocaina. Nessun commento, nulla.

A Prascorsano, vicino a Torino, Polizia e Carabinieri hanno dovuto usare la forza per un provvedimento di confisca addirittura del 2017. Nella villa comodamente abitava ancora la famiglia di Domenico e Giuseppe Racco, padre e figlio, entrambi condannati per ‘Ndrangheta nell’ambito dell’inchiesta Minotauro, ritenuti membri della locale di ‘ndrangheta di Cuorgnè. Il prefetto di Torino, Raffaele Ruberto, spiega: “Anche un semplice ricorso può far slittare per anni l’esecuzione dei provvedimenti”.

A Roma ieri anche in Appello si conferma che i Casamonica sono mafia, in purezza. Su di loro si erano accapigliati tutti i conduttori, i politici. Oggi poco più della semplice cronaca. Vi ricordate l’assistente parlamentare di Giusy Occhionero (ex Leu poi passata a Italia Viva) che sfruttava la politica per parlare con i carcerati? È stato condannato a 15 anni in appello, l’altro ieri.

Sono solo alcune delle notizie di mafia solo in questi ultimi giorni. Le mafie sono scomparse dal dibattito pubblico, sono considerate una banale consuetudine giudiziaria. Sparite dai programmi politici e dai dibattiti. Vanno bene solo per qualche serie televisiva o videogioco. Paolo Borsellino temeva l’invocata “normalizzazione” della mafia.

Raccomandava il “meritorio compito di tenere ora come non mai desta l’attenzione dell’opinione pubblica sugli accennati problemi, affinché dietro il paravento della cosiddetta “normalizzazione” non si pervenga invece ad una frettolosa “smobilitazione dell’apparato antimafia”. E invece eccola qui.

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Salario al macero

Sono almeno 4 anni che i sindacati e i vari governi discutono di salario minimo. Si è partiti dalla proposta Catalfo (quando si diceva che 9 euro all’ora fosse la soglia minima per la decenza) e poi quella dell’ex ministro Orlando. Ieri si sono votate diverse mozioni sul salario minimo, quella di Andrea Orlando (Pd), di Giuseppe Conte (M5s) e di Marco Grimaldi (Verdi-Sinistra), e una (piuttosto minimale) di Matteo Richetti (Terzo polo).

È passata invece la mozione della maggioranza che, molto simbolicamente, è stata spinta dal nuovo sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon che ha deciso di fregarsene del recepimento della direttiva europea che chiede l’introduzione del salario minimo entro il 2024 (nei pochi retrogradi Paesi che ancora non adottano questa misura, tra cui l’Italia) parlando genericamente di un obiettivo di «tutela dei diritti dei lavoratori attraverso una serie di iniziative, a partire dall’attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolti nella contrattazione collettiva» e facendo riferimento all’iniziativa di «monitorare e comprendere motivi della non applicazione, avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale». Se vuole lo aiutiamo noi: il motivo, semplicissimo, è da ricercare tra l’insipienza dei nostri governanti.

Che tutto questo accada nei giorni in cui l’Istat certifica in Italia un’inflazione stabile alll’11,8% (record negativo di tutto l’Occidente) dice chiaramente quale sia la linea di questo governo. Non è un caso che ieri il governo sia stato criticato perfino dalla Cisl, che sul salario minimo è stata sempre più che tiepida. Che questo accada mentre è stata tagliata l’indicizzazione delle pensioni è un altro aspetto dirimente.

Sono arrivati e hanno cancellato il Reddito di cittadinanza (e non si sa sostituendolo con cosa). Hanno reintrodotto i voucher, ammennicolo indispensabile per lo schiavismo 2.0. Ora hanno bocciato il salario minimo. Tutto secondo programma.

Buon giovedì.

Nella foto: il sottosegretario al Lavoro Durigon a “Porta a porta”, 30 novembre 2022

 

 

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Toh, al Senato si rivede Renzi. Per attaccare 5S e magistrati

Che Matteo Renzi stia infastidendo qualche eletto e qualche dirigente di Azione non è un mistero. Il senatore toscano, dopo avere toccato il fondo con il suo partito personale Italia Viva, è riuscito a imbroccare il taxi che l’ha riportato in Parlamento con quel Calenda confuso che nel giro di qualche ora ha mollato il Partito democratico per costituire il Terzo polo.

Matteo Renzi ha annunciato che oggi interverrà in Senato. Prima per attaccare Conte e poi i magistrati

In campagna elettorale si è visto pochissimo e sempre con le solite parole d’ordine: Pd brutto, sporco e cattivo, Conte brutto sporco e cattivo. Poco altro. Qualcuno aveva pensato che il senatore fiorentino si fosse fatto momentaneamente da parte per lasciare spazio a Calenda che aveva voluto per sé i riflettori della campagna elettorale ma oggi, dopo qualche mese, la realtà è chiara: il “battitore libero” Renzi è riuscito a liberarsi ancora di più scaricando sulle spalle di Calenda il fardello dell’opposizione (tenue, amichevole, sostanzialmente un appoggio esterno) e dell’organizzazione del Terzo polo che dovrebbe farsi partito.

Lui intanto gongola nei suoi viaggi internazionali, rilascia qualche intervista qua e là (titolo facile: “Pd/Conte brutto, sporco e cattivo”) e promuove in gran cassa il suo ultimo libro. Conferenziere e scrittore con un seggio in Senato di cittadinanza, Renzi fa capolino ogni tanto per annunciare sornione che farà “cadere il governo nel 2023”, per dare una carezza pubblica a Calenda e per scagliarsi quotidianamente contro i suoi nemici.

L’altro ieri avrebbe dovuto essere in tribunale per il processo Consip (in cui suo padre è accusato di traffico di influenze, nonostante la procura di Roma abbia chiesto per ben due volte l’archiviazione) ma era assente. Era accaduto già il 10 ottobre, indisponibile anche in quel caso. Il suo avvocato assicura che sarà in Aula il 6 dicembre prossimo.

Ma dov’era Renzi? Lo racconta lui stesso nella sua newsletter settimanale dal gustoso titolo “come fare opposizione”: “ieri ero a Bangkok con il vice primo ministro della Thailandia al Business Forum tra aziende locali e aziende italiane. Oggi sono ad Atene dove intervengo a un Forum organizzato dall’Economist sulle questioni energetiche e del Mediterraneo”.

Nel corso delle conferenze l’ex presidente del Consiglio non ha mancato l’occasione di celebrare il suo “amico” saudita bin Salman. Anche questo ormai è scontato. Chissà che ne pensa Calenda che proprio sulle attività da conferenziere di Renzi si era detto ripetutamente in disaccordo prima di allearcisi: la memoria selettiva da quelle parti è una forma di sopravvivenza, per poter dire tutto e tutto il contrario.

Renzi però annuncia di tornare oggi. Per cosa Interverrà in Senato due volte, dice. Prima per attaccare Conte e il suo condono su Ischia poi per chiedere “al ministro Nordio – scrive – se ritiene corretto quello che ha fatto il Pm di Firenze Luca Turco quando ha deciso di inviare in Parlamento le carte di Carrai che aveva illegittimamente sequestrato e che la Cassazione aveva ordinato di distruggere”.

Insomma, Renzi torna in Senato per togliersi il solito sassolino nelle scarpe contro il M5S e per una questione giudiziaria personale. “Sono questioni che conoscono molto bene i lettori de Il Mostro, un libro che anche in questa edizione ha avuto un successo superiore alle mie previsioni”, scrive Renzi, riuscendo nel capolavoro di buttare in questioni personali rivendute come politica anche la promozione del suo ultimo libro.

E l’opposizione al governo? Niente da dire. Anzi, Matteo ci tiene a far sapere che adora come il suo compare Calenda e s’offre a Giorgia Meloni. Prima di rifare le valigie per il prossimo tour.

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Spunta pure un filoputiniano in lista con la Moratti

Preparatevi perché la corsa del cosiddetto Terzo polo in Lombardia sarà uno spasso. Prima c’è stato l’acquisto del consigliere leghista Gianmarco Senna, amico e sodale di Salvini ora illuminato sulla strada verso Letizia Moratti.

Un passaggio che, ovviamente, Renzi e Calenda hanno salutato con grande entusiasmo fingendo di non sapere (oppure non sapendo, che sarebbe ancora peggio) che Senna è lo stesso che 5 anni fa rilasciava interviste in cui ci spiegava “che lo stato nazione è finito, non ha futuro, la nazione è la conseguenza dello stato istituzione moderno ormai superato in ottica di un federalismo italiano ed europeo”, che Roma è “l’artefice storico dei mali del paese” e che l’Europa è “un nemico ancora peggiore”.

Non male per un partito che vorrebbe essere il più europeista di tutti. Nelle ultime ore, con la presentazione della candidatura della Moratti, abbiamo scoperto che tra i compagni di viaggio di Renzi e Calenda in Lombardia ci saranno il coordinatore lombardo di Grande Nord Davide Boni (ex leghista, ça va sans dire), il fondatore del movimento indipendentista Roberto Bernardelli, ex bossiani come Monica Rizzi, leghisti come Christian Borromini e c’è anche Luca Ferrazzi, già in Alleanza Nazionale.

Tra i futuri candidati in lista per la Moratti in Lombardia c’è anche un grande amico della Russia: Marco Tizzoni

Ma tra i futuri candidati c’è anche un grande amico della Russia: Marco Tizzoni, già esponente “civico” a Rho (fondò la lista Gente di Rho), poi consigliere regionale per la Lista di Roberto Maroni. Durante la cui presidenza il consigliere Tizzoni fu tra i promotori della mozione con cui la Lombardia chiedeva al governo italiano di riconoscere l’annessione (illegale e illegittima) della Crimea alla Russia.

In occasione di un convegno organizzato con l’allora eurodeputato di Forza Italia Stefano Maullu, ora deputato per Fratelli d’Italia, rivendicò la decina di viaggi fatti insieme ad alcuni colleghi per siglari accordi con imprese e università russe. Si dichiarò fermamente contrario alle sanzioni imposte a Mosca (a seguito dell’annessione della Crimea), in nome di “un’amicizia tra i due popoli” e appoggiò l’opinione dell’allora vicepresidente di Regione Lombardia Fabrizio Sala (FI) che vaneggiava di un futuro con “l’Eurasia”.

Facilmente immaginabile lo sgomento tra molti elettori del cosiddetto Terzo polo. Qualcuno fa notare che proprio sulla guerra Calenda sta centrando tutta la sua propaganda politica, a partire dalla sua contromanifestazione organizzata a Milano mentre migliaia di persone scendevano in piazza a Roma. Da parte sua Tizzoni fa sapere di avere cambiato idea (e ci mancherebbe) e che in occasione di quella famosa mozione non è “mai intervenuto in Aula” (come se firmarla non fosse un atto politico già considerevole).

Tra i dirigenti del sedicente Terzo polo provano a far notare che “il sostegno è a Letizia Moratti, non alle liste che comporrà” (non male come unghie sui vetri). Calenda e Renzi per ora tacciono, impegnati a scovare i filoputiniani nei partiti degli altri.

Ma forse non si devono preoccupare troppo: se sono riusciti a far passare per competente Letizia Moratti dopo i disastri al Comune di Milano e da ministra all’Istruzione, se sono riusciti a convincere i loro iscritti che Letizia sia addirittura quasi di sinistra, alla fine potranno anche dire senza vergogna che Tizzoni è sempre stato l’amico di cuore di Volodymyr Zelensky.

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