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Cultura cercasi: l’imbarazzante caccia al tesoro del centrodestra italiano

Per sostituire il neo ministro alla Cultura Alessandro Giuli che ha sostituito il dimissionario ex ministro Gennaro Sangiuliano il Maxxi di Roma, una della massimi istituzioni culturali della Capitale, è automaticamente scattata la consigliera più anziana. Solo che Raffaella Docimo, 65 anni, dal 2023 membro del Consiglio di amministrazione su indicazione proprio di Sangiuliano è professoressa ordinaria di Odontoiatria pediatrica a Tor Vergata che scrive nel suo curriculum di essere specializzata in “igiene dentale, prevenzione odontoiatrica sul territorio, problematiche odontoiatriche clinico-terapeutiche in età evolutiva” mentre l’istituzione che presiede si occupa di architettura, il design e fotografia. 

Raffaella Docimo tra le altre cose è molto amica di Sangiuliano (sarebbe stata lei a presentare il ministro a Maria Rosa Boccia), si dice sia amica della sorella d’Italia Arianna Meloni ed era candidata per Fratelli d’Italia alle scorse elezioni europee. Così a Palazzo Chigi hanno pensato che in effetti è troppo perfino per il governo più familistico d’Italia e così a breve verrà rimpiazzata dalla giornalista Emanuela Bruni. 

Tutto a posto, sembrerebbe, se non fosse per un paio di considerazioni inevitabili. L’odontoiatra stona comunque anche nel consiglio di amministrazione, a pensarci bene. In più appare evidente che la classe dirigente che secondo Meloni dovrebbe imporre una nuova egemonia culturale ha un serio problema nelle prime linee ma ancor di più nelle seconde. 

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Vangelo secondo Mussolini: quando la parrocchia “dimentica” l’antifascismo

“Purtroppo si è venuti a sapere troppo tardi chi fossero i richiedenti, i quali avevano inizialmente chiesto gli spazi, parlando di una semplice festa”, spazi che per “prassi consolidata” sono concessi “per feste di compleanno o per iniziative di natura benefica e, comunque, mai per iniziative politiche di qualsiasi orientamento”. Ha risposto così la parrocchia di San Giuseppe Lavoratore, a Pontenuovo di Magenta quando si è saputo che nel fine settimana i neo fascisti del gruppo Lealtà e azione hanno organizzato una bella adunata all’interno delle stanze di un oratorio. 

C’è voluta l’Anpi per ricordare che il gruppo “è una formazione politica che si ispira ad un passato che la storia, la lotta partigiana e antifascista ha sconfitto e condannato con la Liberazione avvenuta il 25 aprile 1945. A questo giudizio politico – ha aggiunto l’Anpi milanese – si aggiunge il fatto che sono guidati da pluricondannati per pestaggi e violenze di vario genere avvenute nel mondo degli ultras di calcio”. 

Quando il caso ha cominciato a fare rumore il parroco e l’ex parroco si sono affrettati a dire che “non erano a conoscenza della reale natura dell’evento”. Non male come scusa per chi  si propone come “guida spirituale” di una comunità. Non hanno avuto sospetti nemmeno quando hanno letto che il programma prevedeva un incontro su “arte e fascismo” con Vittorio Sgarbi e il vicedirettore de La Verità Francesco Borgonovo.

La Comunità pastorale con molto imbarazzo ha dovuto vergare un comunicato con cui si dissocia dagli eventi. Quindi si dissociano da sé stessi. “Abbiamo la consapevolezza che sia stata una leggerezza imperdonabile”, dicono. C’è da sperare che sia solo una leggerezza. 

Buon lunedì. 

Nella foto: frame del video della conferenza di Vittorio Sgarbi su arte e fascismo all’incontro di Lealtà e azione

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Sangiuliano, le sorelle Meloni e l’inganno della famiglia tradizionale – Lettera43

Da sempre la politica sa che infilare il naso nelle mutande e nel privato dei cittadini è un gioco pericoloso e destinato a fallire. Fratelli d’Italia non fa eccezione. E così sono finiti strozzati dalla loro stessa propaganda.

Sangiuliano, le sorelle Meloni e l’inganno della famiglia tradizionale

Un fallimento innegabile è quello dell’egemonia culturale, chiodo fisso di Giorgia Meloni e dei suoi. Arrivare al governo per la prima volta guidando la compagine più di destra fin dai tempi dell’Assemblea costituente per i tipi di Fratelli d’Italia significava poter giocare alla luce sole. Gli obiettivi erano chiari, dichiarati fin dai primi giorni di insediamento: dimostrare la destra da sempre demonizzata è culla di una cultura che merita credibilità nazionale e internazionale.

Sangiuliano, le sorelle Meloni e l'inganno della famiglia tradizionale
Giorgia Meloni, Gennaro Sangiuliano e Arianna Meloni.

Con il governo Meloni la famiglia tradizionale è diventata la lente con cui giudicare il mondo

Certo, si tratta di una cultura iper conservatrice, perfino reazionaria, disposta all’illiberalità pur di difendere le tradizioni. Così la famiglia tradizionale ripetutamente evocata da Meloni e dai suoi adepti è stata posta al centro di un manifesto sociale collettivo: c’è l’uomo e la donna, c’è il marito e la moglie, ci sono i figli come responsabilità nei confronti della patria, c’è il mantenimento degli equilibri come fine ultimo di ogni azione di ogni buon cittadino servitore della nazione. La famiglia tradizionale era la lente per osservare e giudicare il mondo, dividere i buoni dai cattivi, individuare più facilmente i pericolosi. Con quella lente diventavano pericolosi gli omosessuali perché sovvertitori dell’ordine naturale,  sospettati i non tradizionali perché invocavano il progresso solo per legittimare i propri vizi, diventavano inaffidabili i cultori dei diritti perché volevano semplicemente perseguire nuovi malcostumi. L’egemonia culturale di questa destra bisbigliava all’orecchio degli italiani: «State tranquilli, ci siamo noi, il futuro sarà quello di una volta». Peccato che “la volta” a cui fanno riferimento i tradizionalisti per convenienza in fondo non ci sia mai stata. Non è mai esistita. Da secoli la politica sa che infilare il naso nelle mutande e nel privato dei cittadini è un gioco pericoloso destinato a fallire. Lo sanno anche i meloniani, semplicemente non l’hanno imparato.

Sangiuliano, le sorelle Meloni e lo sbriciolamento della famiglia tradizionale
Arianna Meloni con Francesco Lollobrigida (Imagoeconomica).

Alla fine i Fratelli d’Italia sono finiti strozzati dalla loro stessa propaganda

Giorgia “donna, mamma, cristiana” Meloni ha una famiglia infelice come tutte le altre. Non è protetta dalla sua affezione alla tradizione. Aveva al suo fianco un maschio che si lasciava andare a battute grevi in pubblico e per cui le donne sono prede. Quella famiglia tradizionale propugnata sui manifesti, la premier non è riuscita a costruirsela in casa. Il partito che aveva votato contro il divorzio breve perché «contrario ai matrimoni usa e getta» ha visto la sua leader separarsi con un post su Facebook, senza nemmeno essere passata dal matrimonio. Non erano sposati nemmeno Arianna Meloni e il ministro Francesco Lollobrigida quando la sorella della premier ha ufficializzato la fine della loro relazione perché «l’amore è un’altra cosa». E qui di nuovo a imporre una definizione di cosa sia o cosa sia l’amore. Lollobrigida attacca i giornalisti: «Ridicolo chi gioisce dei problemi altrui», dice, senza accorgersi che non sono i problemi al centro dell’attenzione ma la mancanza di coerenza. La famiglia inamovibile e tradizionale come fondamento della società è un loro comandamento ripetuto allo sfinimento. Giudicare le famiglie degli altri con una clava politica inevitabilmente rende politico il privato. Così sono finiti strozzati dalla loro stessa propaganda.

Sangiuliano, le sorelle Meloni e lo sbriciolamento della famiglia tradizionale
Gennaro Sangiuliano e la moglie a Venezia, il 28 agosto 2024 (Imagoeconomica).

La caduta di Sangiuliano, il Cesare messo a difesa dell’egemonia culturale di destra

Il ministro alla Cultura di un governo che vorrebbe imporre un’egemonia culturale è il perno della narrazione. Lo capisce anche uno scemo. Non interessa qui l’ardore sentimentale privato di Sangiuliano, che venerdì ha presentato le «dimissioni irrevocabili» no, non è questo il punto. Interessa che il Cesare messo a difesa della nazione, dell’onorabilità delle istituzioni, del “dio, patria e famiglia” si sia mostrato permeabilissimo, fragile, debole. L’inamovibilità delle relazioni e dei sentimenti rivenduta come culto si è sbriciolata di fronte al primo brindisi al tramonto. Così alla fine ai meloniani, invischiati in umanissime turbolenze, non resta che confidare nella comprensione di chi crede che la modernità stia anche nell’astenersi dal giudizio continuo della sfera personale. Peccato che siano quelli che avrebbero voluto cancellare.

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La sorella d’Italia di Orbán

“Giorgia Meloni è la mia sorella cristiana”. Ha parlato così ieri il presidente ungherese Viktor Orbán al Workshop Thea di Cernobbio. “All’inizio – spiega – questo rapporto non ha avuto un ruolo importante nella politica europea, ora però insieme possiamo aprire una nuova era”. Secondo Orbán “avere le stesse basi culturali gioca un ruolo più importante rispetto al passato” e Meloni “non è solo una collega politica ma una ‘sorella cristiana’…”.

“Questo concetto – ha concluso – ha un senso politico fondamentale per l’Ungheria ma credo anche per l’Italia e questo aspetto culturale della politica tornerà in Europa come è giusto che sia”. La presidente del Consiglio Meloni sogna – lo ha sempre sognato – di essere autorevole. L’autorevolezza è il suo chiodo fisso, quasi tradendo una sorta di complesso di inferiorità.

Nessuna autorevolezza però si è vista contro la pur risicata lobby dei balneari. Lì il pugno di ferro della premier si è trasformato in una pavida carezza, preoccupata di non irritare l’Unione europea. Così alla fine l’autorevole Meloni ha deciso di non decidere fino alle prossime elezioni. Nessuna autorevolezza si è vista in occasioni delle elezioni Ue, quelle che avrebbero dovuto rivoluzionare l’Unione europea, secondo la propaganda di Fratelli d’Italia. Il voto di astensione di Meloni alla presidenza von der Leyen è il marchio doc di chi avrebbe voluto essere maestra di equilibrio e invece si è sciolta nell’evanescenza politica.

Poca autorevolezza si è vista nell’atteggiamento della premier verso i suoi ministri, da Sangiuliano, del quale ha respinto le dimissioni (le prime) per poi trovarsi costretta ad accogliere le seconde (quelle di ieri), e Santnachè, scaduti in comportamenti fuori luogo soprattutto per un governo di autorevoli. Meloni è autorevole per Orbán.

Autorevole e cristiana, qualsiasi cosa significhi l’esser cristiani per un governo che predica bene e razzola male persino sulla tanto sbandierata famiglia tradizionale. E che si volta dall’altra parte di fronte alla morte a Gaza e nel Mediterraneo. Sorella italiana d’Orbán.

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La “corruzione a norma di legge”

Ecco la nuova frontiera della corruzione italiana magistralmente delineata dal professor Alberto Vannucci in un suo recente articolo per LaVoce.info. L’evoluzione è notevole: dalla volgare tangente in contanti siamo giunti all’elegante “corruzione a norma di legge”.

I casi di Liguria e Venezia ci offrono un prezioso spaccato di questa raffinata pratica. I nostri politici d’affari, creature ibride tra l’imprenditoria e la politica, hanno finalmente compreso che la legge non va infranta, ma semplicemente interpretata con creatività. Perché violare apertamente le norme quando si possono piegare con tanta grazia

Le decisioni, ci assicurano, vengono prese “nel rispetto della legge”. Un sollievo per tutti noi cittadini, indubbiamente. I favori si concedono con discrezione, attraverso un intricato sistema di finanziamenti, consulenze e cortesie reciproche. Un vero capolavoro di ingegneria sociale.

È particolarmente edificante notare come i ruoli si siano invertiti: non sono più i partiti a dettare le regole del gioco, ma gli imprenditori stessi. I “mini-partiti personali” sono diventati strumenti flessibili, perfettamente adattabili alle esigenze del mercato politico-affaristico.

Le contropartite? Nulla di così volgare come una mazzetta. Si parla di contributi alle campagne elettorali, finanziamenti a nobili iniziative politiche. Tutto perfettamente tracciabile, fiscalmente ineccepibile.

Certo, potremmo soffermarci su dettagli insignificanti come terreni inquinati bonificati a metà o spiagge pubbliche miracolosamente privatizzate. Ma sarebbe di cattivo gusto, quando tutto avviene nel pieno rispetto delle procedure amministrative.

Il professor Vannucci ci mette in guardia: questa nuova forma di corruzione è più sottile, più difficile da individuare e da contrastare. Finalmente la corruzione si è fatta civile, quasi impercettibile.

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Assegno unico e gli immigrati fantasma: l’ultima favola di Meloni

Ogni giorno un numero di illusionismo politico. Anche questa volta la protagonista è Giorgia Meloni e il tema è l’assegno unico familiare. Un tema delicato, che tocca le corde sensibili di milioni di famiglie italiane e che meriterebbe un’analisi attenta, al di là delle dichiarazioni roboanti.

La presidente del Consiglio, in un video sui social network, ha recentemente dichiarato che il suo governo sta “dando battaglia in Europa” per difendere l’assegno unico. Secondo Meloni la Commissione europea vorrebbe che questa misura fosse estesa “a tutti gli immigrati che esistono in Italia”, il che equivarrebbe a “uccidere l’assegno unico”. Parole forti, che dipingono uno scenario apocalittico per una delle misure di sostegno alle famiglie più importanti degli ultimi anni. La realtà, come spesso accade, è ben diversa da quanto affermato dalla premier. Pagella Politica ha analizzato attentamente la questione e no, le cose non stanno per niente così. 

La realtà dietro le dichiarazioni: cosa chiede davvero l’Ue

L’assegno unico e universale, introdotto dal governo Draghi nel 2021, è una misura di sostegno economico per tutte le famiglie con figli a carico, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori. Un provvedimento che, ironia della sorte, aveva visto il voto favorevole di Fratelli d’Italia, allora all’opposizione.

La Commissione europea ha effettivamente mosso delle critiche all’attuale struttura dell’assegno unico. Tuttavia non si tratta di un attacco indiscriminato o di una richiesta di estensione a “tutti gli immigrati”, come vorrebbe far credere Meloni. Il nodo della questione riguarda la conformità della misura al diritto europeo, in particolare al principio di non discriminazione tra lavoratori dei diversi Stati membri dell’Ue.

Secondo la Commissione il requisito dei due anni di residenza in Italia per accedere all’assegno unico rappresenterebbe una discriminazione nei confronti delle famiglie di cittadini Ue trasferitesi da poco nel nostro Paese per motivi di lavoro. Una critica che si basa su principi fondamentali del diritto europeo, come la libera circolazione dei lavoratori e la parità di trattamento.

Discriminazione o adeguamento? Il vero nodo della questione

È fondamentale sottolineare che queste richieste di modifica riguardano principalmente i cittadini comunitari, non “tutti gli immigrati” come affermato da Meloni. La fonte della Corte di giustizia dell’Ue citata da Pagella Politica chiarisce che i regolamenti in questione si riferiscono specificamente ai “diritti dei lavoratori europei, dei rifugiati e delle loro famiglie”, senza includere esplicitamente i lavoratori immigrati da Paesi non Ue.

Certo, esistono accordi tra l’Ue e alcuni Paesi terzi che potrebbero portare a un’estensione dei beneficiari anche al di fuori dei confini dell’Unione. Ma si tratta di casi specifici, non di un’apertura indiscriminata come paventato dalla premier.

La realtà, dunque, è ben più sfumata di quanto Meloni voglia far credere. Non si tratta di “uccidere l’assegno unico”, ma di adeguarlo ai principi di non discriminazione su cui si fonda l’Unione Europea. Un processo certamente complesso, che potrebbe richiedere una revisione dei criteri di accesso e un possibile aumento degli stanziamenti, ma non certo la fine della misura.

È comprensibile che il governo voglia difendere una politica di sostegno alle famiglie italiane. Ma è altrettanto importante che questa difesa si basi su fatti concreti e non su distorsioni della realtà. Le famiglie italiane meritano chiarezza e onestà, non spauracchi agitati per fini politici.

L’assegno unico non è in pericolo di morte. Ciò che rischia di morire, se non stiamo attenti, è la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nella politica, minata da dichiarazioni che giocano con le paure invece di affrontare le sfide con onestà e pragmatismo.

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La crociata anti-cricket finisce sulla Bbc: sport vietato ai bangladesi di Monfalcone

A proposito di integrazione l’Italia si trova nuovamente sotto i riflettori internazionali per una questione che sa di medioevo. La Bbc, con un articolo dal titolo eloquente sulla “città italiana che ha bandito il cricket”, ha puntato i suoi fari su Monfalcone, piccola cittadina del Friuli-Venezia Giulia che si è guadagnata una fama poco invidiabile.

Ma andiamo con ordine. Monfalcone, nota per il suo cantiere navale Fincantieri, ha visto negli anni un afflusso costante di lavoratori bangladesi, tanto che oggi quasi un terzo della popolazione è di origine straniera. E fin qui nulla di strano per una cittadina industriale in un’Italia che invecchia e ha disperato bisogno di manodopera. Il problema nasce quando questi nuovi cittadini decidono di praticare il loro sport nazionale: il cricket.

La sindaca Anna Maria Cisint, esponente della Lega di Matteo Salvini, ha deciso che il cricket non s’ha da giocare. Con una mossa che sa più di crociata che di amministrazione pubblica, ha di fatto bandito questo sport dalla città. Le motivazioni? Ufficialmente mancanza di spazi e pericoli legati alle palle da cricket. Ma leggendo tra le righe dell’articolo della Bbc, emerge una realtà ben più inquietante.

Miah Bappy, capitano di una squadra locale, rivela alla giornalista Sofia Bettiza che il vero motivo del divieto è la loro condizione di stranieri. Aggiunge che se osassero giocare all’interno di Monfalcone, la polizia interverrebbe immediatamente per fermarli. Una situazione che sa di apartheid sportivo, con multe fino a 100 euro per chi osa impugnare una mazza da cricket all’interno dei confini comunali.

La crociata anti-cricket: quando lo sport diventa un pretesto

Ma la storia non finisce qui. Mentre la comunità bangladese si vede costretta a giocare in un parcheggio fuori città, la sindaca Cisint si prepara a portare la sua crociata anti-cricket (e non solo) in Europa. Sì, perché la paladina della “difesa dei valori cristiani” è stata eletta al Parlamento europeo, entrando orgogliosamente nel gruppo dei Patrioti europei. U

n’ascesa politica costruita sulla retorica anti-immigrazione e sulla lotta a quello che lei chiama “un forte processo di fondamentalismo islamico” nella sua città. La situazione ha raggiunto livelli tali che la stessa Cisint è ora sotto protezione 24 ore su 24 a causa di minacce di morte ricevute per le sue posizioni sui musulmani.

Oltre Monfalcone: un raggio di speranza nel vicino San Canzian d’Isonzo

Ma non tutto è perduto. Mentre Monfalcone chiude le porte al cricket, il vicino comune di San Canzian d’Isonzo le apre. Come riportato da un articolo sul giornale locale Il Goriziano, il campo sportivo di Begliano è stato messo a disposizione di venti squadre bengalesi per tutte le domeniche fino a fine luglio. Un’iniziativa salutata come “storica” dal segretario dell’asd Monfalcone Tigers, Ahmed Masum, e sostenuta da consiglieri regionali e rappresentanti locali.

Il sindaco di San Canzian, Claudio Fratta, ha dichiarato: “Abbiamo inteso dare spazio allo sport per offrire un’opportunità a tutto il territorio e garantire a ognuno un momento di svago e divertimento”. Parole che suonano come una lezione di civiltà e integrazione per la vicina Monfalcone.

La storia di Monfalcone e del suo divieto di cricket è emblematica di un’Italia che fatica ancora a fare i conti con la sua nuova realtà multiculturale. Da un lato abbiamo amministratori che vedono nell’integrazione una minaccia, dall’altro comunità che chiedono solo di poter vivere e lavorare in pace, praticando i loro sport e le loro tradizioni.

Il fatto che la Bbc abbia dedicato un intero articolo a questa vicenda è indicativo di quanto l’Italia sia ancora percepita all’estero come un paese arroccato su posizioni retrograde in tema di immigrazione e integrazione.

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Tradite le promesse agli studenti: un anno dopo resta l’emergenza abitativa

Ricordate gli studenti nelle tende, l’agitazione all’interno del governo con la ministra all’Università Anna Maria Bernini che definiva “giuste” le proteste e prometteva interventi? Era maggio del 2023 e a settembre 2024 non è cambiato nulla. 

Il trend dell’aumento degli affitti per gli studenti, una vera e propria emergenza abitativa, sta rapidamente erodendo le fondamenta del diritto allo studio, trasformando l’istruzione universitaria in un privilegio riservato a pochi anziché in un’opportunità accessibile a tutti.

Il caro affitti in cifre: una panoramica nazionale

Secondo i dati recentemente pubblicati dall’osservatorio del portale Immobiliare.it, il panorama delle locazioni studentesche in Italia sta subendo una metamorfosi drammatica. Le cifre parlano chiaro: Milano, Bologna e Roma, tradizionalmente considerate le mete universitarie per eccellenza, hanno registrato aumenti rispettivamente del 4%, 5% e 9% rispetto all’anno precedente. Gli incrementi si traducono in canoni mensili che raggiungono i 637 euro per una stanza singola a Milano, 506 euro a Bologna e 503 euro a Roma. 

Tuttavia sarebbe un errore considerare questo fenomeno come circoscritto alle sole metropoli del centro-nord. L’ondata di rincari sta investendo l’intero territorio nazionale, colpendo anche le città del Meridione, tradizionalmente considerate più accessibili. Palermo ha visto un aumento dell’8%, con affitti che si attestano sui 282 euro mensili, mentre Bari ha registrato un incremento ancora più marcato dell’11%, arrivando a 357 euro. Persino Catania, nonostante rimanga tra le opzioni più economiche, ha subito un aumento del 3%.

L’incremento medio nazionale del 7% sui canoni di locazione, sia per stanze singole che doppie, si inserisce in un contesto di domanda in forte crescita, con un aumento del 27% nel 2024 rispetto all’anno precedente. Lo squilibrio tra domanda e offerta sta portando a una distorsione del mercato, con conseguenze particolarmente gravose per gli studenti fuorisede.

Come sottolineato da Daniela Barbaresi, segretaria confederale della Cgil, il problema investe circa 900.000 studenti fuorisede e le loro famiglie, costretti a confrontarsi con un’offerta concentrata principalmente nel settore privato. La scarsità di alloggi pubblici e di student housing, nettamente inferiore rispetto ad altri Paesi europei, acuisce ulteriormente il problema.

La gravità della situazione emerge con chiarezza se si considera che, a fronte di quasi 900mila studenti fuorisede (pari al 48% degli iscritti), i posti letto disponibili per il diritto allo studio sono appena 43.864, coprendo solo il 5% del fabbisogno. Questa carenza cronica di alloggi pubblici costringe la stragrande maggioranza degli studenti a ricorrere al mercato privato, esponendoli a costi sempre più insostenibili.

Proposte e richieste: alla ricerca di soluzioni concrete

Di fronte a questo scenario, emerge l’urgente necessità di un intervento strutturale e coordinato. Le proposte avanzate dal Sunia, in collaborazione con Cgil e Udu, puntano in primis all’aumento degli studentati pubblici: l’obiettivo è di aggiungere 60.000 nuovi posti letto ai 50.000 attuali, sfruttando i fondi del Pnrr. Parallelamente, si propone un ampliamento dell’offerta di alloggi a canoni concordati, legati alla disciplina della legge 431 del 1998, con incentivi fiscali mirati a favorire questa tipologia contrattuale.

Le richieste un anno dopo sono sempre le stesse: indirizzare in modo più efficace i fondi del PNRR verso il diritto allo studio. Si rende necessaria una programmazione di finanziamenti su scala pluriennale, accompagnata da un controllo più stringente sulle iniziative private, al fine di garantire una maggiore equità sociale nell’accesso all’abitazione studentesca. Le tende non sono mai state levate. 

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Macron e il ritornello del “meno peggio”

Emanuel Macron, qui da noi ritenuto da alcuni un luminare della politica, ha dimostrato in un sol colpo la naturale propensione di certi liberali, anche nostrani: fingere di voler sconfiggere la destra per mangiarsi voti a sinistra e infine governare con la destra con i voti incauti di chi ha creduto di concorrere all’altra parte della barricata.

Il fronte popolare che il presidente francese aveva evocato per arginare Marine Le Pen e il suo Rassemblemente National ha partorito Michel Barnier, esponente politico di destra di lungo corso, ex ministro degli Esteri ed ex Alto commissario europeo. 

Il più anziano primo ministro nella storia della quinta repubblica francese (Barnier ha 73 anni) prende il timone in nome di “un governo di unificazione al servizio del Paese e dei francesi”, perifrasi che rimanda quasi sempre ad alchimie politiciste. 

Il Nuovo fronte popolare, la coalizione di sinistra che aveva ottenuto il maggior numero di seggi alle ultime elezioni (pur restando molto lontana dalla maggioranza assoluta), rimane fuori dai giochi e promette battaglia. I macroniani di Renaissance (forti del loro misero risultato) accusano i socialisti di avere aperto la strada alla destra non appoggiando Bernard Cazeneuve. I liberali che accusano il centrosinistra di avere aperto la strada alla destra abbracciata dal loro leader è un antipatico vizio anche al di là delle Alpi. 

Chissà che ne pensano i commentatori italiani che si sono sbellicati applaudendo il “capolavoro politico” del presidente francese che – a detta loro – avrebbe dovuto disinnescare Le Pen. Ora diranno che la soluzione è la “meno peggio”. E il meno peggio è il viatico migliore per il peggio, sempre. 

Buon venerdì. 

In foto il manifesto lanciato dalla France Insoumise che invoca le dimissioni di Macron

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Sangiuliano, la distrazione (di massa) è servita

Mentre i telegiornali e i giornali nazionali hanno aperto con la notizia della scappatella di un ministro che aveva promesso un incarico di prestigio per fare il provolone con una donna al largo di Lampedusa – mica in Libia – ventuno persone sono morte su una barca capovolta. Sette si sono salvati rimanendo per tre giorni aggrappati alla zattera, in mezzo a un pezzo di mare lasciato sguarnito. Quando li hanno recuperati i sopravvissuti avevano negli occhi l’orrore di chi non aveva più speranza. Colpa loro, dei morti e degli scampati, che non hanno ancora capito che prima di naufragare bisogna diventare milionari per ottenere soccorsi.
Mentre ci si occupa dei calori estivi di un ministro il cambiamento climatico sta sfondando le strade delle città, preannunciando un autunno che smutanderà i negazionisti di casa nostra, quelli che misurano la crisi annusando la temperatura sul loro balconcino che si affaccia sulla piazza.
Mentre ci si occupa di un ministro che frigna i balneari hanno ottenuto l’ennesimo rinvio che costerà nuove multe al nostro Paese, quindi a noi. Nel frattempo a suon di spari abbiamo saputo che un rampollo di ‘Ndrangheta al nord (dove la mafia non esiste) puntava agli affari della curva della squadra di calcio campione d’Italia.
Nel frattempo i benzinai dicono che il governo ha licenziato la peggiore riforma sulla distribuzione di carburanti. Un regalo ai petrolieri, dicono. Accade anche che le disuguaglianze geografiche nella scuola pubblica siano già gravi prima dell’autonomia differenziata, mentre gli affitti per studenti schizzano alle stelle.
La distrazione è riuscita. Bravi tutti.

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