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Sui territori c’è vita per la Sinistra con i 5 Stelle

C’è una sinistra (e un pezzo di Pd) che nelle prossime regionali si sta organizzando per andare con il M5S. Al di là degli accordi (impossibili nel Lazio e difficilissimi in Lombardia, secondo fonti pentastellate) con il Partito democratico si sta consolidando una compagine di politici che considerano i grillini l’unico polo intorno al quale costruire un’alleanza.

C’è vita a sinistra. Mentre nel Lazio ci si muove per il “polo progressista” intorno al M5S anche in Lombardia si colgono segnali simili

È di qualche settimana fa l’iniziativa lanciata da Stefano Fassina per costruire “una rete progressista” intorno a Giuseppe Conte alternativa alle destra ma capace anche di “sottrarsi all’egemonia del Pd” caratterizzandosi per il No alla guerra e col primato della questione sociale. L’assemblea dei sottoscrittori della lettera “verso il polo progressista”, promossa tra gli altri dallo stesso Fassina, Loredana De Petris, Alfonso Pecoraro Scanio, Eugenio Mazzarella, Claudio Grassi, Pina Fasciani, Paolo Cento e Maurizio Brotini ha approvato un ordine del giorno per costituire “Coordinamento 2050”, un’associazione civica, ecologista e di sinistra a cui ha partecipato anche Conte.

“Coordinamento 2050, con autonomia politica ed organizzativa, ma senza velleità di fondare l’ennesimo partitino, avvia una relazione politica con il Movimento 5 Stelle… al fine di promuovere un credibile polo progressista, adeguato alle sfide per il governo di Comuni, Regioni e dell’Italia”, si legge nel comunicato che ne sancisce la nascita. La strada parallela al Movimento potrebbe essere sperimentata già nelle prossime elezioni regionali del Lazio, dove il Pd e il Terzo polo hanno siglato il patto elettorale convergendo sul nome di D’Amato. è molto probabile quindi che la lista M5S possa essere affiancata da una lista della “sinistra” romana o che comunque si arrivi a un accordo politico in altre forme.

Mentre nel Lazio ci si muove per il “polo progressista” intorno al M5S anche in Lombardia si colgono segnali simili. Gli ex “arancioni” di sinistra che permisero a Giuliano Pisapia di sconfiggere Letizia Moratti durante le comunali di Milano nel 2011 si stanno infatti organizzando per dialogare con i 5S, nel caso in cui non corra con la coalizione guidata dal Pd, per proporre un’iniziativa politica che li veda affiancati alla lista 5 Stelle. Si tratta di attivisti (e eletti a livello comunale e regionale) che non si riconoscono nella linea del Pd e che in alcuni casi non hanno seguito la segreteria di Nicola Fratoianni in Sinistra Italiana.

Anche loro, come nel caso dei “laziali”, affermano che solo il Movimento 5 Stelle si sia occupato dei temi fondanti della sinistra (dal Reddito di cittadinanza all’attenzione per il lavoro) e nonostante non condividano tutto dei grillini vedono lì il polo naturale da costruire per capovolgere le politiche di Regione Lombardia e per portare un reale cambiamento. L’avvicinamento è stato costruito nelle ultime settimane e la possibilità che si tramuti in un’alleanza politica è data per probabile. Un Movimento 5 Stelle striato di “arancione” che inaspettatamente potrebbe ripescare volti e nomi di una campagna elettorale storica e che potrebbe tornare molto utile al partito di Conte per pescare voti anche dove fino a qualche mese fa sarebbe stato impossibile immaginare di trovarli.

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Eccoli, gli scafisti

Nessuna parola, come previsto, da parte degli sceriffi del Mediterraneo che siedono negli scranni più alti del governo sugli scafisti quelli veri, gli scafisti che rispettano in toto la narrazione della maggioranza di governo: lucrano sulle perone, sono un elemento di “pull factor” spingendo i migranti a prendere un appuntamento sule coste libiche concordato con loro, uccidono le persone se diventano un impiccio nell’organizzazione della traversata e evitano i controlli una volta arrivati a terra.

Poiché non sono Ong – come tornerebbe utile a questi una condanna che sia una di qualsiasi Ong – ieri non si è discusso dell’ordinanza del Gip David Salvucci, emessa nell’ambito dell’inchiesta “Mare aperto” della Procura di Caltanissetta, che delinea l’esistenza di un’associazione «estremamente ampia e strutturata» che svolgeva «in maniera imprenditoriale» la propria attività e che poteva vantare «plurimi contatti» con gruppi analoghi attivi «non solo in varie parti della Sicilia, ma anche in altri Paesi dell’Europa (non si dimentichino i ripetuti arrivi di scafisti dalla Francia) e dell’Africa».

Ai gruppi criminali stranieri l’associazione di carattere transnazionale si appoggiava in caso di necessità di «soggetti da adibire allo svolgimento di specifiche mansioni (gli scafisti appunto) o di beni materiali necessari all’organizzazione dei viaggi e temporaneamente indisponibili al proprio interno».

«Il costante collegamento con sodalizi gemelli disposti a sopperire alle temporanee difficoltà e mancanze dell’associazione per cui si procede – si legge ancora nell’ordinanza – da sì che la sopravvivenza di quest’ultima non sia, in effetti, mai legata alla sorte dei singoli sodali, neppure quando questi si trovino in posizione apicale, poiché, con appoggi esterni, l’attività delittuosa può comunque essere fattivamente proseguita».

Nessun dibattito sull’aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita i migranti da loro trasportati e di averli sottoposti a trattamento inumano e degradante. Nessun cenno al fatto che gli scafisti fossero disposti a buttare la gente in mare nel caso in cui avessero avuto problemi nella navigazione. Niente di niente.

Il silenzio conferma un punto semplicissimo: a questi non frega niente dell’immigrazione, non frega niente delle vite umane da salvare, non frega niente di frenare i canali criminali che ruotano intorno a questi disperati, non frega niente capire chi deliberatamente mette a rischio la vite delle persone. A questi interessa solo piegare la realtà alla loro narrazione additando le Ong come colpevoli unici (nonostante si occupano solo di una minima percentuale degli sbarchi) per incendiare i loro elettori.

Forti con i giusti e deboli con i prepotenti.

Buon venerdì.

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Il Pd si sveglia in Lombardia. Majorino sfida Fontana e Moratti

Quindi il candidato sarà Pierfrancesco Majorino. Ma bisogna raccontarlo fin dall’inizio il tumultuoso percorso del Partito democrato alle prossime elezioni regionali in Lombardia perché dentro ci sono tutti i mali del partito nazionale e perché riflette perfettamente il difficile momento di una forza politica che si ritrova schiacciata tra il Movimento 5 Stelle e il Terzo polo, sfiancata dalle correnti interne, infragilita da una segreteria nazionale dimissionaria e un congresso che arriva troppo tardi per affrontare le elezioni regionali con serenità.

Il parlamentare Ue Pierfrancesco Majorino sarà candidato presidente della Regione Lombardia. Sul suo nome spiragli d’intesa con il M5S

Forse conviene partire dalla rottura del cosiddetto “fronte progressista” con Giuseppe Conte, su cui Letta e molti dei suoi avevano investito moltissimo anche in vista delle competizioni elettorali future. C’è la caduta del governo Draghi, ci sono le accuse incrociate e i coltelli che sbucano. La rottura con il Movimento 5 Stelle ringalluzzisce – sarà un ringalluzzimento brevissimo – la cosiddetta “Base riformista” ovvero la corrente che comprende molti vicini a Matteo Renzi e considerati la parte “liberal” del partito.

Sembrava scontato che la fine di ogni rapporto politico con il Movimento 5 Stelle sarebbe stato il viatico per un accordo naturale con Carlo Calenda non solo per le scorse politiche del 25 settembre ma anche per le future elezioni regionali. Sulla Lombardia era tutto pronto per riproporre a livello regionale lo schema che aveva portato alla conferma di Giuseppe Sala sindaco di Milano con il Partito democratico fulcro di una coalizione che prevedeva le anime liberali e le anime più a sinistra in grado di dialogare per fronteggiare l’avanzata della destra. Poi il giocattolo si è rotto. Calenda abbandona Letta in piena campagna elettorale per le politiche e le ripercussioni arrivano fino al Pirellone.

Il Partito democratico, di colpo, è solo. Il “fronte largo” sognato dal segretario Enrico Letta è una striminzita compagine che prevede +Europa (moncata da Calenda), Sinistra Italiana e Verdi. Ci sono in Lombardia anche diverse realtà civiche ma chiunque mastichi un po’ di politica sa che quelle esperienze sono difficilissime da replicare al di fuori delle elezioni amministrative. Siamo a un mese fa circa. Al Nazareno e alla segreteria regionale lombarda del Pd sanno che tocca mettere le mani anche sulla Lombardia. I dirigenti nazionali e regionali sanno anche che l’impresa è improba per almeno due motivi. Innanzitutto il centrodestra in Lombardia, dagli anni di Formigoni in poi, tiene i fili di tutti i centri di potere nella regione.

Il centrodestra da queste parti è molto di più di una coalizione politica: è un sistema interconnesso di posizioni e di privilegi che garantiscono il totale controllo sulla macchina regionale e su tutti i suoi derivati. Per dirla semplice: se il centrodestra perde in Lombardia ci sono fior fiore di dirigenti pubblici lautamente pagati a cui tocca trovarsi un lavoro o, nel migliore dei casi, a cui tocca sottoporre il proprio lavoro al giudizio dei nuovi arrivati. Il secondo problema non da poco è che Letizia Brachetto, in società detta Moratti, si è messa in testa di concludere la sua carriera politica con la presidenza di Regione Lombardia.

Salvini, Berlusconi e Meloni non sono della stessa idea ma la potenza economica di Moratti può concedersi di correre anche senza l’assenso e le liste dei suoi ex alleati. Accade così che una vicepresidente decida di sfidare il suo presidente. Sarebbe un’occasione non da poco per un centrosinistra che non soffre di complessi di inferiorità e invece la candidatura di Moratti manda ulteriormente in tilt il Pd. Qualcuno invita i Dem ad allearsi con la destra (Moratti) per battere la destra, qualcuno propone di far vincere Moratti e chiedere in cambio almeno la Sanità. Letta e i suoi dicono no.

Arriviamo a oggi. Il Pd nel giro di poche settimane è riuscito a bruciare la candidatura di Cottarelli (sconfitto a Cremona e chissà perché ritenuto valido per la Lombardia), ha incassato il no del sindaco Sala (no ripetuto ciclicamente negli ultimi mesi), ha preso atto del rifiuto di Giuliano Pisapia, del sindaco di Brescia Del Bono. In compenso il Pd ha detto no a Pierfrancesco Maran, che si era detto disposto a correre per le primarie (con anche Pizzul e Bonaldi disponibili) perché serviva “un nome unitario”. Solo che il “nome unitario” che doveva essere pronto e facilissimo si è rivelato più difficile del previsto e così l’annuncio di Pierfrancesco Majorino (deputato europeo del Pd) slitta di ora in ora.

Qualcuno chiede: perché Majorino non corre per le primarie? Perché bisogna agire subito, rispondono i dirigenti regionali e nazionali che però non riescono a agire subito. Negli ultimi giorni s’è visto di tutto: +Europa spaventata dalla candidatura di Majorino (appartenente all’ala sinistra del Pd e considerato troppo “aperturista” nei confronti del M5S), il M5S che nel giro di qualche ora ha espresso due posizioni quasi opposte, i partiti della coalizione che dicono no alle primarie e perfino Bruno Tabacci (sì, quel Bruno Tabacci) ritenuto papabile per correre contro Fontana e Moratti.

Alla fine, sono quasi tutti d’accordo, i Dem riusciranno a forzare e Pierfrancesco Majorino sarà candidato. Solo che per non fare le primarie bisogna prendere almeno i due terzi dei voti all’assemblea regionale e a qualsiasi osservatore superficiale verrebbe da chiedersi come possa l’ala centrista del Pd (Base riformista, che qui ha come punto di riferimento l’ex ministro Lorenzo Guerini) accettare un “comunista” come Majorino come candidato. Una lingua velenosa ieri sera ha sussurrato: “Appoggeranno Majorino per potergli dire che la sconfitta è tutta colpa sua e per poterlo bruciare”.

Qui funziona così, per alcuni la Lombardia è solo una delle tante vittime sacrificabili sull’altare della partita più importante: il congresso nazionale. E come si convinceranno quelli di +Europa “Gli si offre qualcosa a Roma. Una vicepresidenza, una cosa qualsiasi, e alla fine staranno al gioco”, bisbigliano nei corridoi lombardi. E Guerini? “A Guerini non interessa, ormai è riuscito a prendersi il Copasir”. Per ora siamo qui. Poi là fuori c’è da convincere gli elettori.

 

Leggi anche: Majorino e l’identità che conta. L’editoriale del direttore Gaetano Pedullà

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Regionali, Pd in stallo in Lombardia. Nel Lazio la sconfitta è scontata

Le 48 ore di tempo che si erano dati per uscire dalla tragicommedia del nome “unitario” da offrire alla coalizione stanno passando. Il Pd in Lombardia non riesce a trovare la quadra tra Pierfrancesco Majorino, Fabio Pizzul, Simona Malpezzi, Stefania Bonaldi e Antonio Misiani mentre Pierfrancesco Maran insiste nel valutare come “unico scenario” le primarie che considera un passaggio obbligato.

Sinistra bloccata sui nomi per la corsa al Pirellone. E un sondaggio anticipa la débâcle per il dopo Zingaretti

Durante la giornata è tornato alla ribalta anche sul nome di Lia Quartapelle ma la deputata non ha nessuna intenzione di entrare nell’agone, confermando il suo sostegno a Maran. “Non è piacevole ogni giorno leggere sui giornali e sui media di quest’impasse – ha detto il sindaco di Milano Giuseppe Sala -. Quello che mi dicono dei partiti è che sono vicini a una conclusione e quindi a una scelta”.

Anche perché nel frattempo la coalizione si fa sempre più piccola e difficile. Lombardi Civici Europeisti propongono Bruno Tabacci (a cui non si nega mai una candidatura a qualsiasi cosa), Sinistra Italiana e Verdi per ora stanno alla finestra. Il M5S intanto nega qualsiasi accordo sull’opzione Majorino e riporta la scelta di Giuseppe Conte che vorrebbe convergere – nel caso in cui si trovi un accordo con il Pd – su un nome terzo. Ipotesi, questa, che rimetterebbe tutto in discussione e a cui si aggiungerebbe la complicazione di +Europa che ribadisce di non voler fare parte di un’alleanza che comprenda i pentastellati.

Insomma, il caos. Per questo il segretario regionale Vinicio Peluffo vuole in giornata trovare una soluzione, qualunque sia: un nome da offrire agli alleati e che provi a dialogare con il Terzo polo oppure primarie veloci da approntare in fretta e furia. La coalizione, tutt’altro che larga, è molto meno scontato di quello che si crede. Oggi alla fine si arriverà a un nome che sarà con ogni probabilità proprio l’eurodeputato dem Pierfrancesco Majorino.

Nel Lazio invece fa discutere il sondaggio realizzato dall’istituto Izi

Nel Lazio invece fa discutere il sondaggio realizzato dall’istituto Izi fra il 12 e il 14 novembre su un campione di mille intervistati che certifica come l’assenza di un solo partito dalla coalizione larga determinerebbe la sicura vittoria della destra nel dopo-Zingaretti. Una destra che può permettersi perfino il lusso di non correre troppo per scegliere un nome (alla fine dovrebbe essere il meloniano Rampelli) e che costringe a una seria riflessione la coalizione da affiancare al candidato scelto da Partito Democratico e Terzo polo Alessio D’Amato (nella foto).

“Con quei numeri si vede che la partita è persa e i cittadini progressisti, democratici e ecologisti del Lazio devono rassegnarsi a vedere trionfare la destra. Giustamente gli girano le scatole. Come girano pure a noi”, scrive su Facebook il segretario nazionale di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni che lancia un invito: “Si azzeri tutto, si riapra un tavolo di confronto sui temi – scrive Fratoianni – senza primogeniture e senza l’ossessione di piantare bandierine o fare i primi della classe. Altrimenti l’esito è segnato”.

D’Amato assicura che sulla sua candidatura non ci sia “l’ombra di Calenda” ma appare evidente che il suo nome escluda di fatto i 5S dalla possibile coalizione. Troppo difficile ricomporre l’asse giallorosso (tra l’altro con Enrico Letta segretario, seppur dimissionario) in così breve tempo, con in mezzo ancora la spinosa questione del termovalorizzatore e con Renzi e Calenda che fanno di tutto per “marchiare” la candidatura di D’Amato. “Una coalizione la più ampia possibile che da domani deciderà anche sia gli aspetti programmatici che le modalità”, dice D’Amato ma il copione sembra già scritto.

Leggi anche: “Ma quale autonomia. La Lega vuole solo Regioni di serie A e B”. Parla la deputata M5S, Daniela Torto: “Inaccettabile spaccare il Paese in due”

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Missili ucraini in Polonia. Figuraccia di Letta e Calenda

Le bombe non erano russe. Poi quando si parla di “furia bellicista” fanno gli offesi e i più squinternati di loro accusano nel mucchio di essere filoputiniani. È passato un giorno ma non è arrivata nessuna scusa, nemmeno un rammarico da quelli che l’altro ieri sera, presi da arrapamento bellico, hanno fatto l’esatto contrario di ciò che dovrebbe fare un buon politico e un buon giornalista. Gira un video in cui una giornalista chiede a Biden “può dirci qualcosa sui missili caduti in Polonia” e il presidente Usa risponde semplicemente “no”. Così, come converrebbe a un politico.

Posseduti dalla furia bellica Renzi e Calenda accusano la Russia di aver lanciato i missili contro la Polonia. Poi però zero scuse

Mentre perfino il governo polacco chiedeva cautela e stava attento a non alzare i toni (che da quelle parti vengono alzati facilmente per racimolare consenso) i politici e giornalisti nostrani con le bombe ancora calde si lanciavano in dichiarazioni da Terza guerra mondiale. “A fianco dei nostri amici in questo momento drammatico, carico di tensione e di paure. Quel che succede alla #Polonia succede a noi”, twittava svelto il segretario del Partito democratico, senza curarsi nemmeno di aspettare qualche notizia ufficiale.

Non ha torto Enrico Letta: può capitare anche a noi che con una guerra sul confine si finisca per ritrovarsi bombe su qualche nostro granaio. La guerra del resto è questa, fatta di morte che si spiaccica in giro senza cura. Le bombe intelligenti – la storia dovrebbe avercelo insegnato – sono sempre molto meno intelligenti di quel che si pensa. Solo che alla luce delle dichiarazioni del giorno dopo quel tweet appare semplicemente come il risultato dell’irrefrenabile voglia di essere la prima voce che annuncia “terra!” abbarbicata sull’albero maestro.

E che in questo caso la “terra” sia una guerra ancora più vasta sembra non essere un problema. Ridicolmente straripante anche il solito Carlo Calenda che a pochi minuti dalle prime confuse notizie di agenzia sentenzia: “La follia russa generata dalle pesanti sconfitte continua. Siamo con la Polonia, con l’Ucraina e con la Nato. La Russia deve trovare davanti a se un fronte compatto. I dittatori non si fermano con le carezze e gli appelli alla pace”.

Calenda, come suo solito, riesce perfino a inserire una polemica di politica interna su un evento che avrebbe potuto essere mostruosamente spaventoso per gli equilibri del mondo. Impareggiabile è riuscito a far scorrere il giorno successivo senza nemmeno un timido rimorso. Tra i tanti giornalisti che tifano escalation svetta com’era facile prevedere Gianni Riotta: “Attacco contro Paese @NATO #Polonia con vittime conferma che deriva terrorista russa non ha guida ma segue hubrys Putin fino a rischiare la guerra mondiale. Pensare di fermare il dittatore con la resa lo scatena. Serve batterlo e isolare la sua Quinta Colonna in Italia e UE”. Basta rileggerlo il giorno dopo per capire la drammatica ridicolaggine di un’affermazione del genere.

In compenso ieri, nella giornata che avrebbe dovuto essere di scuse e mani alzate, la cerchia dei bellicisti furiosi se n’è inventata un’altra: “Quindi volete dire che siccome i missili erano ucraini allora Putin non ha nessuna responsabilità!” Scrivono in coro. No, nessuno lo dice e nessuno lo pensa, tranne quelli filoputiniani sul serio. Solo che non capire che dei missili russi avrebbero provocato una crisi politica che, essendo invece ucraini, per ora è sventata è una bella notizia. Ovviamente è una bella notizia per chi confida nella pace, quelli che tifano guerra sovraeccitati sui loro divani dovranno aspettare la prossima occasione. Tanto i messaggi – seppure sbagliati – sono arrivati a chi di dovere.

Leggi anche: Calenda e Letta pippe a Risiko. L’editoriale del direttore Gaetano Pedullà

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Hai visto, Giorgia, com’è incredibile?

Dice Giorgia Meloni che trova incredibile il dibattito che si è aperto (in realtà è solo l’osservazione di una manciata di giornalisti, giusto per ridimensionare) sulla sua scelta di portare con sé sua figlia in occasione della sua ultima missione da presidente del Consiglio a Bali. «Mentre torno a casa (…) mi imbatto in un incredibile dibattito sul fatto che sia stato giusto o meno portare mia figlia con me. (…) Ho il diritto di fare la madre come ritengo e ho diritto di fare tutto quello che posso per questa Nazione senza per questo privare Ginevra di una madre», ha scritto Giorgia Meloni su Instagram.

Tenete a mente anche la dichiarazione del suo guardaspalle, il ministro Guido Crosetto che scrive: «Qualcosa lasciatelo fuori dalla becera polemica ideologica. Almeno le cose sacre. Come il rapporto tra genitori e figli».

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui ci sono un manipolo di persone che vorrebbero giudicare le famiglie degli altri secondo i loro assi cartesiani.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui politici pluridivorziati condannano le coppie non conformi al giudizio del loro Dio che loro stessi non rispettano.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui l’amore viene definito “giusto” o “sbagliato” secondo i dogmi di qualcuno che decide qualche coppia sia naturale e quale non lo sia.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui i rapporti tra genitori e figli vengono giudicati da qualche piccolo leader di partito che vorrebbe imporre al Paese l’esempio di sua nonna.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui politici e giornalisti si infilano nel letto dei cittadini (che non sono, badate bene, personaggi pubblici) solo per mietere un po’ di voti o di antipatia per gli avversari.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui il ministro della Difesa decide cosa sia sacro – il rapporto tra madre e figlia – mentre giudica sacrificabile la vita delle persone in mezzo al Mediterraneo.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui un politico come Pillon ha costruito la sua carriera politica (tra l’altro nei partiti della loro maggioranza, sarà un caso) decidendo cosa sia una devianza e cosa non lo sia.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui i liberali perdonano le avventure di letto di Silvio Berlusconi e poi citofonano o espongono alla berlina il poveretto di turno in qualche periferia per solleticare la pancia dei loro elettori.

Hai visto Giorgia com’è schifosamente incredibile?

Buon giovedì.

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Lombardia al voto insieme al Lazio. Il piano anti-Moratti di Fontana

Molto difficile possano esserci sorprese nonostante l’opposizione abbia dichiarato battaglia. Sarà il governatore Attilio Fontana a scegliere quando fissare l’appuntamento con le urne, potere esercitato fino a ieri dal prefetto. Resta salvo il superiore potere di un decreto del ministero dell’Interno.

Il governatore della Lombardia Fontana accelera sulla nuova legge elettorale. Con la riforma potrà decidere la data del voto

Il disegno del Centrodestra lombardo sarebbe quello di andare al voto insieme alla Regione Lazio, l’accorpamento delle elezioni lombarde e laziali permetterebbe di risparmiare sui costi ma, al tempo stesso, farebbe il gioco della Lega e del governatore: prima si vota e meno tempo avrebbero Letizia Moratti e l’opposizione per organizzare la propria campagna elettorale.

È in fase di approvazione in Consiglio regionale la modifica alla legge elettorale vigente, la n. 17 del 31 ottobre 2012 (Norme per l’elezione del Consiglio regionale e del Presidente della Regione) che affida al presidente della Regione Lombardia la possibilità di scegliere quando stabilire la data del voto entro un range di tempo prestabilito: massimo 30 giorni prima della fine della legislatura e 60 giorni dopo, ovvero non prima del 4 febbraio 2023 e non oltre il 7 maggio. Non solo.

Il progetto di legge attribuisce al governatore anche la competenza sull’assegnazione dei seggi consiliari alle singole circoscrizioni elettorali: la ripartizione dei seggi tra le circoscrizioni è effettuata dividendo il numero complessivo degli abitanti della regione per il numero dei seggi attribuiti al relativo Consiglio – 80 in Lombardia – e assegnando di conseguenza i seggi in proporzione alla popolazione di ogni circoscrizione sulla base dei quozienti interi e dei resti più alti. La popolazione è determinata in base ai risultati dell’ultimo censimento.

La seduta è stata convocata anche in sessione notturna con eventuale prosecuzione nella giornata di lunedì 21. L’opposizione ha chiesto il doppio turno. “L’esito delle votazioni è scontato ma la situazione è paradossale”, commenta il consigliere Marco Fumagalli del Movimento 5 Stelle.

“Alla legge sulla democrazia e cioè la legge elettorale il presidente Fermi ha applicato il regolamento in modo intransigente limitando il tempo di discussione per evitare l’ostruzionismo. Ma è ostruzionismo voler ridurre il peso del premio di maggioranza oppure introdurre il divieto di terzo mandato per consiglieri e Presidente? Siamo qui in aula perché nel 2012 il legislatore regionale non si è allineato alle altre regioni. Dopo 10 anni Fontana si accorge e cerca di porre rimedio a 90 giorni dalle probabili elezioni. In realtà voleva solo avere il potere di indire le elezioni per prendere in contropiede la Moratti”.

Intanto il Partito democratico si lecca le ferite di una direzione regionale che non è riuscita a convergere su un nome da presentare agli alleati. Pierfrancesco Majorino continua a osservare da lontano se il proprio nome possa essere una soluzione unitaria (rispondiamo noi: evidentemente no) e Pierfrancesco Maran attende lo svolgimento delle primarie che nessuno del suo partito vorrebbe.

Un’altra giornata di stallo, l’ennesima che caratterizza un Pd lombardo “esattamente come il Pd nazionale”, dice il consigliere regionale dem Pietro Bussolati. I 5 Stelle aprono a Majorino e i soliti soloni del Centrosinistra – l’ultimo Nando Dalla Chiesa – ancora insistono per convincere il centrosinistra ad appoggiare un nome di destra (Letizia Moratti) per battere la destra. Giusto per dare un’idea del disagio generale.

di Giulio Cavalli e Mariangela Maritato

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Trivellazioni selvagge. Un altro regalo ai colossi dell’energia

Il coordinamento nazionale No Triv non ha dubbi: le nuove trivellazioni decise dal governo sono il miglior regalo alle realtà che hanno alimentato il caro energia. Con una norma inserita nel dl Aiuti-Quater approvato nel tardo pomeriggio di venerdì scorso, il Governo Meloni rompe il muro delle 12 miglia consentendo nuove trivellazioni in Adriatico anche nell’offshore compreso tra le 9 e le 12 miglia marine dalle linee di costa.

Un Report sbugiarda il Governo. Dalle trivellazioni in Adriatico decise dal governo zero vantaggi per famiglie e imprese

Viene così meno il divieto di nuove attività di ricerca e coltivazione di gas che, fatte salve alcune eccezioni, era stato introdotto nella Legge di Stabilità 2016 modificando il precedente articolo 6, comma 17, del Decreto legislativo 152/2006, sulla spinta della campagna referendaria No Triv.

L’area marina interessata, posta al largo del Delta del Po, è compresa tra il 45° parallelo, poco più a sud del Golfo di Venezia, e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro nel fiume Po. Qui si potrà quindi trivellare anche a solo 9 miglia dalla costa a condizione che si sfruttino giacimenti con un potenziale minerario di almeno 500 milioni di metri cubi: un vero incubo per i residenti ed i Comuni del Polesine, più volte duramente colpiti dal fenomeno della subsidenza.

Nella relazione illustrativa del provvedimento si citano ben 5 permessi di ricerca che insistono parzialmente o integralmente in quest’area e di questi, uno riguarda la costa veneta, con il 40% dell’area interessata oltre le 9 miglia e, quindi, potenzialmente coltivabile. Obiettivo dichiarato del Governo è riammettere a produzione le concessioni presenti in Adriatico fino ad esaurimento dei giacimenti senza tuttavia considerare che parte di quelle concessioni è scaduta e che le concessioni hanno comunque una durata ben definita che prescinde dall’esaurimento o meno del giacimento.

La norma approvata dal Consiglio dei Ministri introduce pesanti deroghe al Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (PiTesai): estende la misura prevista per l’area marina al largo del Delta del Po a tutte le aree marine, consentendo quindi il rilascio di concessioni per la coltivazione di gas anche tra le 9 e le 12 miglia marine per giacimenti con un potenziale superiore ai 500 milioni di metri cubi; inoltre prevedendo attività di ricerca e di estrazione di gas in alcune aree interdette, ma non ancora individuate, dal PiTesai.

La scelta di Meloni e della maggioranza che la sostiene, al tempo del Referendum del 2016 contraria a nuove attività estrattive in mare entro le 12 miglia marine, mostra limiti evidenti: non incide sulle cause strutturali del caro-energia che sta colpendo duramente tutte le imprese (non solo quelle gasivore) e le famiglie; premia i principali player dell’Oil&Gas – Eni tra tutti – che hanno tratto enormi profitti grazie alla crisi; promuove l’estrazione ed il consumo di gas naturale assestando un duro colpo alla transizione energetica.

Le cause del caro energia sono ormai note da tempo: mix energetico delle fonti di generazione elettrica sbilanciato a favore del gas, meccanismo di formazione del prezzo sulla borsa del gas e sulla borsa elettrica, ecc. In particolare, il prezzo del gas risente fortemente delle manovre speculative di pochi operatori che, facendo cartello, determinano l’andamento della borsa di Amsterdam.

Paradossalmente, a beneficiare della misura saranno soprattutto coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalla crisi energetica. La maggior parte delle concessioni fanno capo a Eni, la stessa che nei primi 9 mesi del 2022 ha portato a casa utili per 10,8 miliardi di euro.

L’Eni, che importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), a prezzi blindati e secretati dallo Stato, espressi sostanzialmente dai prezzi doganali. Il prezzo di riferimento per le sue vendite di gas a terzi è però quello spot-Psv (Ttf). Il differenziale tra prezzo spot-Psv (Ttf) e prezzo doganale fa sì che Eni, al pari di altri operatori, tragga profitto dal caro-gas.

In un quadro di così lucida coerenza “fossile” non deve parimenti stupire che il Governo non abbia inserito nell’ordine del giorno della seduta dell’11 novembre – né in quelle precedenti – l’approvazione delle norme attuative sulle Comunità Energetiche Rinnovabili e le linee-guida per identificare le aree idonee su cui installare impianti fotovoltaici, misure attese da mesi e che potrebbero consentire la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica in un paese, come il nostro, “baciato dal sole” come pochi altri ma in cui metà della produzione di energia elettrica dipende dal gas.

Leggi anche: Governo e ambientalismo sono agli antipodi. Urso conferma il rigassificatore a Piombino e le trivelle in Veneto. Il ministro del Made in Italy assicura: si farà tutto

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“Toglietegli il telefono”

Qualche giorno fa Matteo Salvini, che dal basso della sua risicata percentuale incassata alle ultime elezioni twitta come se fosse il padrone del governo, lanciava la proposta di togliere i telefoni alle baby gang. Secondo la sua bizzarra teoria rieducativa la punizione dello scippo dei cellulari avrebbe contribuito a sanificare l’Italia. Come quasi tutte le proposte di Salvini anche questa si distingue per stupidità e per la sua irrealizzabilità.

Ieri sera due missili sono caduti sul suolo della Polonia a Przewodow, cittadina a pochi chilometri dal confine ucraino uccidendo due persone. Il fatto è ovviamente enorme perché la Polonia è un Paese Nato e perché ora la Nato si ritrova a valutare con urgenza se si tratta di un attacco deliberato. Mentre la Nato (non i pacifisti, la Nato) chiedeva cautela sottolineando che “l’importante è che siano accertati i fatti” alcuni politici nostrani, presi dal furore bellico, sono corsi a impugnare il cellulare per gridare alla Terza guerra mondiale e per chiedere interventi nel giro di un amen. Un profluvio di generali da divano ha tirato conclusioni e suggerito strategie mentre tutti i leader del mondo chiedevano di usare cautela.

Sia chiaro: Vladimir Putin proprio ieri ha colpito delle abitazioni nel centro di Kiev e non sarebbe fantasioso immaginare che nella sua feroce follia possa fare qualsiasi cosa. Il fatto è che mentre i furiosi piccoli politici di casa nostra twittano pensando di avere in mano un fucile i politici – quelli seri – evidenziano ancora una volta la distanza tra le macchiette con cui abbiamo a che fare in questo Paese e le persone che provano ad avere un approccio lucido all’invasione russa cercando di limitare i danni.

Stamattina accade che Biden dica che le informazioni preliminari suggeriscono che è improbabile che il missile che ha causato un’esplosione in Polonia martedì e ucciso due civili sia stato lanciato dall’interno della Russia. Parlando ai giornalisti dopo l’incontro con altri leader mondiali a Bali, in Indonesia, al presidente è stato chiesto se fosse troppo presto per dire se il proiettile fosse stato sparato dal territorio di Mosca. “Ci sono informazioni preliminari che lo contestano. Non voglio dirlo fino a quando le indagini non ce le confermeranno”, ha risposto Biden, aggiungendo che “è improbabile in base alla traiettoria che sia stato sparato dalla Russia. Ma vedremo”.

Vale la pena ripeterlo. Se quei missili dovessero essere quelli usati dall’Ucraina per difendersi dalla pioggia russa che ogni sera le cade addosso si tratterebbe comunque di effetto collaterale degli attacchi russi e dal punto di vista etico non sposterebbe di una virgola le responsabilità. Dal punto di vista politico però la differenza sarebbe enorme. E i politici con il telefonino in mano dovrebbero fare politica, non dovrebbero concedersi le cretinerie da tifoseria.

Toglieteli a loro, i telefonini.

Buon mercoledì.

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