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Decreto Aiuti quater: a proposito di priorità

La norma urgente inserita nel decreto Aiuti quater dal governo è il rialzo del tetto del contante a cinquemila euro. Era talmente urgente che il governo non è riuscito ad aspettare la legge di Bilancio: Salvini cinguetta felice su Twitter e gli italiani saranno ben contenti di sapere che in questo momento di difficile congiuntura economica e di bollette salate potranno caracollare in giro con i contanti (che non hanno) nel borsello.

Per rendere il tutto ancora più grottesco il comma dei contanti è stato inserito nell’articolo che proroga gli incentivi sotto forma di credito di imposta per i commercianti che si dotano di strumenti per i pagamenti elettronici, con uno stanziamento di 80 milioni di euro. A proposito degli incentivi ai commercianti: si tratta di 50 euro (cinquanta euro) per ogni registratore telematico acquistato.

A sorpresa è stato rivisto il Decreto superbonus 110% che ora diventa al 90%. Sul punto il governo è riuscito perfino a scontentare partiti della sua stessa maggioranza, con Forza Italia che chiede a Giorgia Meloni se non fosse il caso di incontrare almeno le associazioni di categoria prima di prendere questa decisione. Non male.

Polemiche interne anche sul via libera alle trivellazioni. La Lega è contraria e ha nel presidente del Veneto, Luca Zaia, il suo primo oppositore: teme, per come è scritta nel decreto Aiuti quater presentato ieri, che apra la strada anche alle estrazioni nell’Alto Adriatico. Non male.

E per le bollette? Le imprese potranno rateizzare le bollette per i consumi registrati a partire dal primo ottobre scorso al 31 marzo 2023 e fatturati entro il 31 dicembre 2023 per un massimo di 48 rate mensili. La garanzia per i finanziamenti ai fornitori di gas sarà offerta da Sace e le banche non potranno imporre un tasso di interesse superiore «al rendimento dei buoni del Tesoro poliennali (Btp) di pari durata». E le famiglie? Niente.

In compenso nel giro di pochi giorni Giorgia Meloni è riuscita a scassare i rapporti diplomatici con la Francia e con l’Ue sull’immigrazione con il soldatino Piantedosi nella parte dello “stupito”. Ecco tutto, siamo messi così.

Buon venerdì.

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Le bravate sui migranti costano caro

Se riuscissimo a scrollarci di dosso la retorica che ammorba di propaganda queste prime settimane del nuovo governo dovremmo avere il coraggio di raccontare le storie di quella donna sbarcata troppo fredda per sopravvivere e di quel bambino di venti giorni arrivato già morto a Lampedusa.

Mentre la politica dai denti aguzzi di Meloni, Salvini e Piantedosi si lambicca sulla differenza tra migranti, profughi e clandestini, il Mediterraneo inghiotte vite

La prima aveva vent’anni e troppo gelo in corpo. Ha perso la vita al poliambulatorio di Lampedusa mentre inutilmente cercavano di rianimarla e stava su un barchino che trasportava un’altra donna ricoverata d’urgenza al nono mese di gravidanza, un ragazzo siriano piegato in due dalle fitte provocate dall’appendicite e una bambina di quattro anni stremata dalle convulsioni per una febbre troppo alta.

Il neonato invece allo sbarco ha trovato già pronta la sua bara bianca, pronta a essere impilata insieme a tutte le altre bare dei bambini morti nei giorni scorsi per un’esplosione sull’imbarcazione. Peggio è andata agli uomini e alle donne che non hanno nemmeno la dignità di restituire un cadavere e che stanno sotto al mare, sconosciuti ai vivi e ai morti, inghiottiti nel più famelico cimitero liquido dei nostri anni, il Mediterraneo.

Tra i vivi si potrebbe invece raccontare la storia di un quattordicenne silenzioso e piegato su se stesso che è rimasto a bordo della Geo Barents insieme ai trattenuti del “carico residuale”, dimenticato dai controlli che certificavano chi fosse degno per poter scendere e rimasto giorni in un angolo della nave senza le parole per raccontare la propria situazione. è stato notato durante l’ennesima ispezione.

È minorenne, si sono detti. E l’hanno fatto scendere. Si potrebbe partire da qui per provare a ribadire che su quelle navi ci sono persone. Gente con le loro storie, i loro dolori, i loro bisogni. Persone che spesso sono al limite tra la vita e la morte, con il pericolo del mare e del freddo. Mentre la politica dai denti aguzzi di Giorgia Meloni e dei suoi scherani Salvini e Piantedosi si lambicca sulla differenza tra migranti, profughi e clandestini, il Mediterraneo si inghiotte vite umane.

Anche la guerra alle Ong vista da qui, dal molo dell’umanità, assume un altro senso: i cadaveri che sbarcano sulle coste italiane, piaccia o no, sono quelli che non hanno avuto la fortuna di incrociare imbarcazioni che si prendono la briga di salvarli. Se finiscono intercettati dalla cosiddetta Guardia costiera libica (quel manipolo di criminali che l’Italia paga e addestra) finiscono dritti nelle camere di torture finanziate dall’Europa; se non incontrano imbarcazioni spesso finiscono nel mortale buco nero del Mediterraneo.

Il braccio di ferro umanitario dell’Italia contro l’Unione europea intanto sposta la nave Ocean Viking nel porto di Tolone, in Francia. “In via del tutto eccezionale”, precisa il governo francese che dopo avere litigato per 48 ore con il governo italiano sottolinea che “l’Italia era il primo beneficiario del meccanismo di solidarietà europeo di ricollocazione”.

Questo meccanismo, ha sottolineato il ministro dell’Interno francese Darmanin, deplorando l’atteggiamento dell’Italia, “prevede in particolare, delle ricollocazioni di persone rifugiate dai Paesi europei di primo ingresso, per rispondere, effettivamente, al diritto internazionale e al diritto del mare”.

La Francia blocca per ritorsione il patto sui ricollocamenti. L’Ue giustamente ricorda gli obblighi umanitari alla Meloni e ai suoi ministri. Piantedosi frigna ritenendo “incomprensibile” che gli altri Stati se la prendano con l’Italia se non rispetta i patti. Solo che il meccanismo europeo continua a non funzionare – nonostante sia funzionato benissimo per i profughi ucraini e bianchi – e alla fine basta uno Stato che decide di lucrare elettoralmente sui profughi per incagliare tutto. Quelli, intanto, muoiono.

 

Leggi anche: I migranti nel gioco delle destre. L’editoriale del direttore Gaetano Pedullà 

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Intesa tra M5S e Pd, il vero ostacolo è Letta

Giuseppe Conte aveva un sogno: poter affrontare le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia con un Pd senza più Enrico Letta. Un cambio al vertice del partito avrebbe reso molto più semplice superare la spaccatura per la caduta del governo Draghi e avrebbe permesso al M5S di costruire un rapporto nuovo senza rancori.

Finché il segretario uscente del Pd Letta resta al Nazareno ricucire i rapporti con il M5S è impossibile

Il congresso dei Dem però è un’operazione ancora lontana e i giochi in Lazio e Lombardia si devono sciogliere nel giro di pochi giorni. Dopo la conferenza stampa in cui Conte ha dettato le condizioni minime per poter ragionare su un’alleanza dal Pd sono partite due reazioni opposte: c’è chi non vede l’ora di dichiarare conclusa qualsiasi alleanza con i grillini (Letta incluso) e ne approfitta per provare a rompere e c’è chi, come Nicola Zingaretti, si sforza di riportare la discussioni su binari politici lasciando da parte gli screzi personali tra i i due leader.

L’assessora alla Regione Lazio Valentina Corrado spiega che “il presidente Conte ha rimarcato che si parte dai temi e non dai nomi. Come abbiamo sempre fatto. Fine dell’alleanza con il Pd? Per me – dice Corrado – non determinano la fine dell’alleanza se c’è la volontà di partire da quei temi. Spero si sgomberi il campo da interpretazioni varie”.

Il punto centrale è che nel M5S vedono impossibile la costruzione di un’alleanza che preveda la partecipazione del cosiddetto Terzo polo. “Il voto utile non ci porta da nessuna parte”, ha ribadito ieri Conte. Ed è il Pd a dover decidere cosa voler essere.

La situazione è molto più fluida in Lombardia dove Renzi e Calenda hanno già scelto di correre da soli con Letizia Moratti come candidata. Ma la partita delle prossime elezioni regionali è un filo che tiene insieme tutti gli irrisolti nazionali.

Al Pd viene chiesta la prova di una reale volontà di avvicinamento ma il Pd in questo momento è una barca guidata (poco) da una segreteria di fatto dimissionaria. “Può accadere di tutto”, dicono dal M5S. Tutto e il suo contrario. Solo che il tempo a disposizione è poco, pochissimo.

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Fontana fa il bis in Lombardia. Pisapia si tira fuori

“I leader del centrodestra, come a più riprese anche singolarmente dichiarato, riconfermano il presidente Attilio Fontana come candidato della coalizione per le prossime elezioni regionali in Lombardia.

Ora è ufficiale. Il governatore uscente Attilio Fontana è il candidato del centrodestra alle prossime elezioni regionali in Lombardia

Il valore del centrodestra unito, la nostra compattezza e la nostra coerenza sono la garanzia per proseguire il cammino comune di buongoverno, basato sulla centralità dei bisogni dei cittadini e delle comunità”. Ora è ufficiale. Il presidente uscente di Regione Lombardia Fontana è il candidato del centrodestra.

Lo affermano i leader che con un certo sprezzo del ridicolo ieri si sono lanciati in mirabolanti dichiarazioni che stridono con qualsiasi senso di realtà. “Fontana ha svolto un lavoro incredibile”, dice il coordinatore regionale lombardo della Lega Fabrizio Cecchetti elencando tra i meriti il “superamento della pandemia” come se i disastri di Fontana e Gallera fossero già dimenticati: “Ha svolto una campagna vaccinale da record, ha rilanciato la sua economia e il suo tessuto produttivo come confermano tutti gli indicatori economici, occupazionali e produttivi, ha avviato riforme sociali, per l’ambiente e il territorio.

Fontana sta facendo correre come una Formula 1 la nostra Regione”, spiega Cecchetti. Licia Ronzulli, presidente del gruppo Forza Italia al Senato e coordinatrice del partito in Lombardia, spiega la ricandidatura di Fontana come “conseguenza naturale del gran lavoro svolto negli ultimi cinque anni”.

Il copione è chiaro: ripetere bugie allo sfinimento sperando che nei prossimi mesi possano sembrare quasi vere. Intervengono in pochi (e poco rilevanti) dalle parti di Fratelli d’Italia: Giorgia Meloni ha da tempo deciso di lasciare la Lombardia al suo alleato Salvini per puntare alla presidenza della Regione Lazio e la leader di Fratelli d’Italia sa benissimo che sulla candidatura di Fontana si giocherà inevitabile battaglia interna della Lega con Zaia e Fedriga già pronti a fare pesare un eventuale passo falso del sempre più quasi ex segretario Matteo Salvini.

Così, mentre il cosiddetto Terzo polo anche ieri ha passato tutta la giornata a pestare i piedi perché il Partito democratico non ci è cascato al travestimento di Letizia Moratti da nuova stella del progressismo, ora rimane il campo del centrosinistra a dover ufficializzare i passi per le prossime elezioni regionali.

Con l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia poteva tornare l’asse giallorosso

Decaduta la possibilità di candidatura dell’economista Carlo Cottarelli che si è ritirato dalla corsa per l’apparentamento di Renzi e Calenda con Letizia Moratti in campo – ancora per qualche ora – rimaneva la possibilità che fosse l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia (ora europarlamentare) a mettere tutti d’accordo facilitando la formazione di un campo largo che poteva comprendere anche il Movimento 5 Stelle.

Non sarà così e il percorso si fa più tortuoso e presumibilmente servirà tempo prima che si organizzino le primarie, si ufficializzi un candidato e si riesca a costruire una base programmatica da “offrire” agli alleati da aggregare. I dirigenti regionali sono chiari: non c’è nessuna possibilità che il Pd pensi nemmeno lontanamente a un appoggio a Letizia Moratti, nonostante l’ex sindaca di Milano si affanni in queste ore a chiamare chiunque conosce implorando l’appoggio.

Pisapia: “Ci ho pensato seriamente. Ma credo che la soluzione migliore per il centrosinistra e per il civismo sia quella di cambiare schema”.

Giuliano Pisapia si è dichiarato non disponibile aprendo, dunque, la strada delle primarie, che nel partito chiedono da tempo. “Desidero ringraziare le tantissime persone che mi hanno manifestato la loro stima e il loro affetto. Ci ho pensato seriamente – dice al Corriere Pisapia – ma credo che la soluzione migliore per il centrosinistra e per il civismo sia quella di cambiare schema”.

Alcuni nomi sono già di fatto in campo da tempo. Pierfrancesco Maran, assessore al Comune di Milano, ha iniziato il suo tour della Lombardia con un’iniziativa dal titolo inequivocabile: “Cominciamo da capo”. Maran nonostante la giovane età, 42 anni si è occupato di deleghe pesanti come Mobilità e Urbanistica ed è stato uno dei protagonisti della svolta “arancione” che determinò la sconfitta di Letizia Moratti per mano di Giuliano Pisapia.

Impegnata in eventi regionali è anche Stefania Bonaldi, ex sindaca di Crema che non aveva lesinato critiche al Pd nelle ultime elezioni politiche dove era stata candidata in posizione praticamente impossibile. Al segretario regionale Vinicio Peluffo piacerebbe una discesa in campo anche del sindaco di Brescia Emilio Del Bono che è riuscito nella difficile impresa di arginare le destre in una città che era feudo della Lega.

Del Bono è un nome gradito anche alla dirigenza nazionale che vorrebbe provare a forzare – nel caso di un no da parte di Pisapia – il suo nome senza passare dalle primarie. “Opzione impossibile” fanno sapere però alcuni membri della segreteria. A sinistra Vittorio Agnoletto (di Medicina democratica) ha già dato la sua disponibilità per competere alle primarie.

Si attende invece la posizione del Movimento Cinque Stelle che da giorni continua a ripetere di “non voler ragionare sui nomi ma sui contenuti”. Pesa, va però detto, anche la mancanza di una decisione netta da parte di Giuseppe Conte che pure nella sua ultima conferenza stampa in cui ha parlato di elezioni regionali non ha preso posizione sulle vicende lombarde. Anche perché in Lombardia il M5S pesa molto meno del dato nazionale. E alla fine questo conterà.

Leggi anche: Zingaretti ai titoli di coda. Il Pd regala il Lazio alle destre. Oggi il governatore che favorì l’asse giallorosso si dimette. Lascia in eredità un partito allo sbando

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Il ministro della propaganda nelle scuole

Ieri a tutte le scuole d’Italia è arrivata una lezione sul comunismo. Solo che l’insegnante in questo caso si è dimostrato piuttosto ignorante. Non ci sarebbe nulla di male se la firma sotto quella lettera non fosse quella del ministro all’Istruzione Giuseppe Valditara che ha sfruttato l’occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino per profondere propaganda: «La caduta del Muro, – scrive Valditara – se pure non segna la fine del comunismo – al quale continua a richiamarsi ancora oggi, fra gli altri paesi, la Repubblica Popolare Cinese – ne dimostra tuttavia l’esito drammaticamente fallimentare e ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente. Il comunismo è stato – scrive Valditara- uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale. Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra. Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte».

Per concludere la lettera – inviata ai dirigenti di ogni istituto e pubblicata sul sito del ministero  il ministro usa queste parole: «Il crollo del Muro di Berlino segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia. Un ordine politico e sociale imperfetto, pieno com’è di contraddizioni, bisognoso ogni giorno di essere reinventato e ricostruito. E tuttavia, l’unico ordine politico e sociale che possa dare ragionevoli garanzie che umanità, giustizia, libertà, verità non siano mai subordinate ad alcun altro scopo, sia esso nobile o ignobile. Per tutto questo il Parlamento italiano ha istituito il 9 novembre la “Giornata della libertà”. Su tutto questo io vi invito a riflettere e a discutere».

Come sottolinea giustamente il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo ieri era anche la giornata dell’Onu contro il fascismo e l’antisemitismo, in ricordo della Notte dei Cristalli ma evidentemente il ministro se n’è dimenticato. Intervistato da Daniela Preziosi su Domani Pagliarulo spiega: «Non convince l’invettiva contro il comunismo. Il comunismo – scrive il ministro – come “la via verso il paradiso in terra che si lastrica di milioni di cadaveri”. È come se io dicessi, per esempio, che la via del liberalismo, e più in generale, del capitalismo, è lastricata da milioni di cadaveri. Dei Paesi colonizzati. Delle guerre imperialiste. Dei morti sul lavoro. Per non parlare, appunto, dei nazisti e dei fascisti, come se non ci fosse mai stata la Shoah e la Seconda guerra mondiale. Le parole del ministro sono un modo scorretto e unilaterale per affrontare errori ed orrori del cosiddetto socialismo reale, che ci sono stati e meriterebbero ben altra e più obiettiva e imparziale riflessione. Si ignora inoltre, visto che il professor Valditara è ministro della Repubblica italiana, il ruolo determinante nel Pci nella Resistenza, nella conquista della democrazia, nella stesura della Costituzione, nella ricostruzione di un Paese semidistrutto dalla guerra nazifascista. Inoltre si deborda dalla legge che non parla di comunismo, ma di totalitarismo. Più in generale si dimentica il contributo di sangue che i comunisti di tutta Europa hanno versato per liberare i popoli dal nazifascismo. Infine ricordo che la Costituzione è dichiaratamente antifascista e non anticomunista, come il ministro. Questa lettera è soltanto un dotto manifesto anticomunista di estrema destra, una vecchia cosa, un armamentario del revisionismo storico. Ma ciò che preoccupa maggiormente è la lettera in sé, perché diventa elemento formativo verso gli studenti. Nella misura delle sue rimozioni e della sua tendenziosità, diventa elemento de-formativo».

Una lettera da vero Minculpop. Il ministero del merito diventa anche quello della propaganda. E intanto un’altra giornata politica è scivolata sulle bizze di un membro di governo che non è riuscito a trattenere la propria natura. Sullo sfondo ci sarebbero anche di problemi da risolvere. Ma quando affioreranno in tutta la loro gravità, vedrete, ci sarà sempre qualche migrante da usare come arma di distrazione. Propaganda e distrazione: la politica postfascista è anche nei metodi, oltre che nelle parole.

Buon giovedì.

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La Moratti in corsa toglie più voti alle destre che ai progressisti

In Lombardia bisogna invertire la narrazione. Anzi, per dirla meglio, occorre rimettere la realtà al suo posto scrollandosi di dosso le mistificazioni di Renzi e Calenda. Che Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, vedova Moratti, sia un problema politico per il centrosinistra è una millanteria che non ha nessun senso.

In Lombardia bisogna invertire la narrazione. Che Letizia Moratti sia un problema politico per il centrosinistra è una millanteria che non ha nessun senso

Potranno metterci tutto l’impegno Matteo Renzi e Carlo Calenda ma la Moratti da queste parti è la sindaca di Milano che secondo la Corte dei Conti avrebbe avuto “il connotato della grave colpevolezza, ravvisabile in uno scriteriato agire, improntato ad assoluto disinteresse dell’interesse pubblico alla legalità e alla economicità dell’espletamento della funzione di indirizzo politico-amministrativo spettante all’organo di vertice comunale”.

È la presidente Rai che ci disse che l’ente pubblico doveva essere “complementare a Mediaset”. È la ministra all’Istruzione agli ordini di Berlusconi che smontò la legge Berlinguer per proporre una delle peggiori riforme della scuola. È la donna che a Milano sfilava contro gli immigrati con De Corato.

È la sindaca che rimediò una pessima figura da ricandidata accusando Giuliano Pisapia di un reato che non aveva mai commesso. Possono twittare anche tutto il giorno quelli del cosiddetto Terzo polo ma Letizia Moratti è una donna di destra per i lombardi. Una donna di destra perdente, un capolavoro negativo in Lombardia.

I voti di Letizia Moratti sono un problema per Attilio Fontana, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. E il centrosinistra deve rinsavire dal suo atavico senso di responsabilità e rendersene conto il prima possibile. Anche i sondaggi parlano chiaro: Moratti ha in mano una rilevazione che la immagina circa al 14%: niente. La sfida è e continuerà a essere con Fontana e ripetere l’errore già avvenuto alle elezioni politiche di perdere tempo con un sedicente polo che sculetta come se fosse il primo quando non ha nessuna possibilità di vittoria questa volta potrebbe costare molto caro.

Ha ragione il capogruppo al Parlamento Europeo Brando Bonifei che dice: “Ma che ci fa nel Pd chi vuole candidare Moratti?”. O come dice Andrea Orlando “sorprende la sorpresa per il rifiuto del Pd a sostenere la candidatura di Letizia Moratti. Il fatto che a qualcuno sia venuto in mente di proporlo deve farci però riflettere su quanto lavoro c’è da fare per restituire al Pd un’identità chiara e riconoscibile”. Gambe in spalla e lavorare.

Pisapia potrebbe mettere d’accordo realtà civiche, associazioni, disillusi e creare un fronte ampio, M5S incluso

La Regione è contendibile. Lo dice al telefono anche Giuliano Pisapia che in queste ore è sommerso dalle richieste di candidatura. Un nome che mette d’accordo tutti e che convincerebbe perfino la cordata del Pd che da mesi insiste per ottenere le primarie: Pisapia è l’ex sindaco di Milano che ottenne una vittoria a cui non credeva nessuno e che dimostrò come un’alleanza larga ma netta, con un’identità forte, può tranquillamente rovesciare le sorti di una Regione che sembrava irraggiungibile.

Pisapia, ora al Parlamento europeo, dice di essere molto impegnato nella sua attività a Bruxelles ma rispetto ai giorni scorsi ora si intravede qualche spiffero. Ora sono in molti a crederci all’interno del Pd e soprattutto tra quella marea arancione che si era attivata al suo fianco.

Anche perché Pisapia potrebbe mettere d’accordo realtà civiche, associazioni, disillusi e creare un fronte ampio, M5S incluso, nonostante la tattica. Sullo sfondo rimane l’ipotesi del sindaco di Brescia Emilio Del Bono (ma a quel punto le primarie verrebbero chieste e il M5S potrebbe sfilarsi) e una generazione che aspetta di avere la sua occasione (Majorino, Maran).

Ma ciò che conta ora è rendersi conto che la realtà è molto più rosea di quello che sembra. Agli amici del Terzo polo sfugge che candidare una personalità di centrodestra contro il centrodestra in Lombardia crea un problema al centrodestra. Mica a quegli altri. Anzi, offrono un’ottima opportunità al centrosinistra. Basta coglierla. Invertite la narrazione.

 

Leggi anche: Sanità lombarda in rianimazione. Ecco il conto della Riforma Moratti. Tagli al personale, carenza di posti letto e di farmaci. Così la destra ha portato il sistema al collasso

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Un Paese sempre più precario e sempre più povero

Terminata l’emergenza Covid-19 il mercato del lavoro appare ancora intrappolato nella precarietà: dei nuovi contratti attivati nel 2021 sette su dieci sono a tempo determinato, il part time involontario coinvolge l’11,3% dei lavoratori (contro una media Ocse del 3,2%), solo il 35-40% dei lavoratori atipici passa nell’arco di tre anni ad impieghi stabili, i lavoratori poveri rappresentano ormai il 10,8% del totale. Il nostro poi è l’unico Paese dell’area Ocse nel quale, dal 1990 al 2020, il salario medio annuale è diminuito (-2,9%), mentre in Germania è cresciuto del 33,7% e in Francia del 31,1% e dove le politiche in tema di sostenibilità sono state adottate appena dall’8,6% delle imprese, di queste la gran parte solo per il miglioramento nella gestione dei rifiuti, dove invece resta una chimera la creazione di filiere ecosostenibili (appena 1,2%) e per la produzione/consumo di energie da fonti rinnovabili (3,1%).

È quanto emerge dal “Rapporto Inapp 2022 – Lavoro e formazione, l’Italia di fronte alle sfide del futuro” presentato ieri alla Camera dei deputati dal professor Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp (Istituto nazionale per l’Analisi delle politiche pubbliche). All’evento è intervenuta la ministra del Lavoro e delle politiche sociali, Marina Calderone.

«Malgrado alcuni segnali confortanti – ha affermato Sebastiano Fadda – alcune debolezze del nostro sistema produttivo sembrano essersi cronicizzate, con il lavoro che appare intrappolato tra bassi salari e scarsa produttività. Per questo occorre pensare ad una “nuova stagione” delle politiche del lavoro, che punti a migliorare la qualità dei posti di lavoro, soprattutto per i neoassunti e per i lavoratori a basso reddito, per le posizioni lavorative precarie e con poche possibilità di carriera, dove le donne e i giovani sono ancora maggiormente penalizzati. Le politiche del lavoro devono integrarsi con le politiche industriali e con le politiche di sviluppo, in una strategia unitaria orientata al rafforzamento della struttura produttiva, alla crescita del capitale umano e dell’innovazione tecnologica, al rafforzamento della coesione e della sicurezza sociale. Una strategia che deve essere disegnata ed attuata a tutti i livelli territoriali con un coordinamento capace di rispondere alle sfide del profondo cambiamento strutturale in atto».

In Italia il tasso di occupazione, sceso dal 58,8% al 56,8% all’inizio della pandemia, ha ripreso a crescere solo nel 2021 e – come si legge nel rapporto – ha impiegato 18 mesi per tornare ai livelli pre-crisi. Nei Paesi Ocse la risalita era già consistente nel secondo trimestre 2020 e si è completata in 15 mesi. Nel 2021 sono stati 11.284.591 le nuove assunzioni, con prevalenza della componente maschile: 54% contro il 46% per le donne.

Nel 2021 il 68,9% dei nuovi contratti sono a tempo determinato (il 14,8% a tempo indeterminato). Nell’insieme il lavoro atipico (ovvero tutte quelle forme di contratto diverse dal contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato full time) rappresenta l’83% delle nuove assunzioni con un aumento del 34% negli ultimi 12 anni.

«Il tema del crescente aumento dei contratti non standard – ha precisato Fadda – rappresenta una costante del modello di sviluppo occupazionale italiano, che ha attraversato la prima crisi 2007-2008, sino a diventare requisito “strutturale” della ripresa post Covid». A dimostrazione di ciò l’analisi comparata longitudinale per i periodi 2008-2010, 2016-2018 e 2018-2021 di chi svolgeva un impiego precario. In tutti questi periodi la “flessibilità buona” ha portato a un’occupazione stabile tra il 35 e il 40%. Dei rimanenti, sempre a distanza di tre anni, una quota ha continuato a svolgere un lavoro precario (tra il 30 e il 43% a seconda del triennio), un’altra ha perso l’impiego ed è in cerca di lavoro (16-18%), un’altra ancora è uscita dalla forza lavoro dichiarandosi inattiva (17% nel 2021, nel 2010 era il 3%).

Nel 2021 – si legge ancora nel report – il part time involontario (la quota di lavoratori che svolgono un lavoro a tempo parziale non per scelta) rappresenta l’11,3% del totale dei lavoratori contro il solo 3,2% nell’area Ocse. Allo stesso tempo la tendenza alla riduzione dell’orario di lavoro sembra non arrestarsi e il prodotto per singola ora è bloccato dal 2000 rispetto a tutti i Paesi, non solo membri dell’Ue.

Ci sono poi quanti, pur lavorando (dipendente o autonomo) sono in una famiglia a rischio povertà, cioè con un reddito disponibile equivalente al di sotto della soglia di rischio povertà. Nell’ultimo decennio (2010-2020) il tasso di “lavoro povero” è stato pressoché costante con un valore medio pari a 11,3% e una distanza rispetto all’Unione europea superiore mediamente del 2,1%.

L’8,7% dei lavoratori (subordinati e autonomi) percepisce una retribuzione annua lorda di meno di 10mila euro mentre solo il 26% dichiara redditi annui superiori a 30mila euro, valori molto bassi se comparati con quelli degli altri lavoratori europei. Se consideriamo il 40% dei lavoratori con reddito più basso, il 12% non è in grado di provvedere autonomamente ad una spesa improvvisa, (quindi non ha risparmi o capacità di ottenere credito), il 20% riesce a fronteggiare spese fino a 300 euro e il 28% spese fino a 800 euro. Quasi uno su tre ha dovuto posticipare cure mediche.

Tutto questo in un contesto generale in cui il nostro Paese nel corso degli ultimi 30 anni (1990-2020) è l’unico ad aver registrato un calo dei salari (-2,9%) a fronte di una crescita media dei Paesi Ocse del 38,5%. Nello stesso periodo la produttività è cresciuta del 21,9%, non sembrano dunque aver funzionato i meccanismi di aggancio dei livelli salariali alla performance del lavoro. Nell’ultimo decennio (2010-2020), in particolare, i salari sono diminuiti dell’8,3%.

«Questa condizione di stagnazione dei salari è resa più preoccupante dalla ripresa dell’inflazione – ha concluso il presidente dell’Inapp – per cui si torna a porre il problema dei meccanismi idonei a contrastare la riduzione del potere d’acquisto di tutti i redditi fissi. Le cause di una dinamica salariale così contenuta sono diverse, una di queste è il meccanismo di negoziazione dei salari. Resta bassa la quota di imprese che dichiarano di applicare entrambi i livelli di contrattazione (4%); Inoltre, in sette anni si è ridotto il numero di aziende che dichiarano di applicare un Contratto collettivo nazionale (-10%), mentre si è più che duplicata la quota di imprese che dichiarano di non applicare alcun contratto (dal 9% nel 2011 al 20% nel 2018)».

È una discesa lenta che sembra inarrestabile. Si parla di “identità della sinistra” che sarebbe andata persa: la sfida da raccogliere è questa.

Buon mercoledì.

 

* In foto: una protesta dei lavoratori precari del Consiglio nazionale delle ricerche davanti alla sede del Cnr a Roma, 22 settembre 2021

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Majorino: “L’accoglienza selettiva è una pratica oscena”

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Pierfrancesco Majorino, dopo essere stato assessore per il Partito democratico alle politiche sociali del Comune di Milano con il sindaco Giuliano Pisapia e poi con il sindaco Beppe Sala è sbarcato all’Europarlamento con 93.175 voti. In entrambi i ruoli si è impegnato per la tutela delle persone contro ogni discriminazione, per il contrasto alla violenza di genere e contro la tratta degli esseri umani.

Anche per questo l’immigrazione e la situazione del Mediterraneo sono tra i punti centrali della sua attività politica. L’abbiamo intervistato su quello che è accaduto al porto di Catania, con i migranti relegati sulle navi e “selezionati” in base all’età, al sesso e alle condizioni di salute.

Majorino, cosa ne pensa di questa nuova “accoglienza selettiva” voluta dal governo che decide chi far sbarcare e cni no?
“Mi pare sinceramente una cosa oscena. Siamo di fronte a un tentativo micidiale di dividere buoni e cattivi tra disperati, a prima vista. E penso che il salvataggio in mare sia un obbligo, al di là delle regole (tema che pure esiste e che dice tutt’altro) per ua questione umanitaria”.

Il governo, per bocca dei ministri Nordio e Piantedosi, ripete che il Trattato di Dublino si applica già sulle navi e che il primo Stato di accesso è quello di bandiera della nave. È corretto?
“È una modalità totalmente impraticabile oltre a essere disumana. La verifica dello status di rifugiato si deve riuscire fare. Il problema semmai è realizzarla in tempi molto brevi. Le persone che chiedono asilo devono essere nelle condizioni di farlo, riuscendo a interloquire con i legali e con le associazioni che si occupano di questo”.

Intanto tra i primi a complimentarsi con il governo c’è Orbàn. È già finita la favola di Giorgia Meloni improvvisamente diventata “europeista”?
“È molto chiaro il posizionamento di Giorgia Meloni in Europa. Oggi mi pare assolutamente evidente. Lei sta con l’Europa di Orbàn. E quella è un’Europa a sovranità limitata nella quale i nazionalismi fanno da padrone”.

È deluso dalla reazione del segretario del Pd, Letta
“Tutt’altro. La delegazione parlamentare del Pd ha seguito la vicenda sul campo. Letta ha espresso l’opinione uguale e identica espressa da tutti i componenti del partito. Il problema vero è che questo è solo un episodio di una strategia molto più ampia e molto più forte del nuovo governo”.

Pesano gli errori compiuti dal Pd ai tempi di Minniti ministero dell’Interno?
“Siamo ormai ben oltre quella impostazione. Impostazione ampiamente condivisa ai tempi dal gruppo dirigente a cui io mi sono opposto fin da subito. La strategia di Minniti si è rivelata inefficace e ha portato risultati molto peggiori di quelli che riteneva anche lo stesso Minniti”.

Forse nell’opposizione pesano anche le scelte compiute da Conte nel suo primo governo con Salvini?
“Non riesco mai a capire perché Conte non abbia il coraggio di dire con chiarezza che i decreti Salvini sono stati un disastro. Per altro gli viene riconosciuto da molti in questa fase una linearità e una coerenza su tanti temi. Questo è un buco nero. Oggi dobbiamo concentrarci sul futuro, sulle regole a livello europeo e italiano: servono canali legali, serve la capacità di riuscire a cambiare completamente approccio. L’immigrazione non è un danno da ridurre, stiamo parlando di persone. Credo che noi dobbiamo lavorare per un governo fermo, trasparente (e non parlo di un generico “porte aperte”) che gestisca i flussi in maniera ordinata. Insieme a questo dobbiamo ricordarci che prima della questione prima politica ci sono delle persone da salvare in mare e terra che vanno velocemente tolte dal rischio della propria vita. Per questo abbiamo portato avanti una battaglia in Ue di cui sono molto fiero chiedendo l’azzeramento della missione Frontex e la sua totale ridefinizione”.

I fatti di Catania sono l’inizio di una strategia di governo che durerà a lungo?
“Questo governo darà in pasto periodicamente al proprio elettorato più duro e più radicale degli esempi di disumanità per evitare che si parli meno possibile dei problemi economici e sociali a cui il governo non dà risposta. Ne sono convinto”.

 

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Ci mancava pure il diritto creativo di Piantedosi

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Il neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, calatosi subito nel ruolo del mangia migranti per compiacere il governo, rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui dice sostanzialmente: queste quattro navi battono bandiera norvegese e tedesca quindi sono quei Paesi che dovrebbero “farsi carico dell’accoglienza” dei migranti soccorsi, poiché questi ultimi hanno “messo piede per la prima volta” proprio in quei Paesi, salendo sulle rispettive navi.

Il Trattato di Dublino non si applica a bordo ma al Paese di sbarco. La linea di Piantedosi smentita anche dalla Corte europea

Il Trattato di Dublino non si applica a bordo ma al Paese di sbarco. La linea del Viminale smentita anche dalla Corte europea. Il Trattato di Dublino non si applica a bordo ma al Paese di sbarco. La linea del Viminale smentita anche dalla Corte europea

Matteo Salvini sgrana gli occhi. Il ragionamento fila, funziona ed è uno spot perfetto per diventare slogan sui suoi social. Quindi rilancia: “Dove dovrebbe andare una nave norvegese? Semplice, in Norvegia”. Applausi, sorrisi e pacche sulle spalle. Che bravi che siamo, si dicono. Il ragionamento è sbagliato e falso.

“Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi, il caso Hirsi lo dimostra, unità governative che non hanno personale specializzato a bordo per poter fare lo screening non possono essere considerate la frontiera d’ingresso per l’applicazione della Convenzione di Dublino”, spiegava in audizione parlamentare già nel 2017 il contrammiraglio della Guardia costiera italiana Nicola Carlone.

Ci sarebbe anche una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risalente al 2012. Solo che quella sentenza condannò l’Italia dell’ultimo governo Berlusconi per i respingimenti in mare e quindi è stata dimenticata in fretta. Vi si legge chiaramente che è impossibile esaminare la situazione dei migranti a bordo delle navi prima dello sbarco.

Le norme sul soccorso marittimo sono chiare: gli sbarchi devono avvenire nel primo “porto sicuro” disponibile. E per “primo porto sicuro” si intende un luogo in cui venga garantito il rispetto dei diritti umani (quindi no, la Libia non è un porto sicuro) e il più vicino dal punto di vista geografico. Come ribadito anche dall’ambasciata norvegese in una nota diffusa dalla trasmissione Il Cavallo e la torre: “La responsabilità primaria nel coordinamento dei lavori per garantire un porto sicuro alle persone in difficoltà in mare è di competenza dello stato responsabile dell’area di ricerca e di salvataggio in cui è stata prestata tale assistenza. Anche gli Stati costieri confinanti hanno una responsabilità in tali questioni. La Norvegia non ha alcuna responsabilità ai sensi delle convenzioni sui diritti umani o del diritto del mare per le persone imbarcate a bordo di navi private battenti bandiera norvegese nel Mediterraneo”.

Come fa notare la giurista Vitalba Azzollini “il ministro Piantedosi e gli altri firmatari del decreto pensano che per evitare l’accusa di respingimento, vietato dall’art. 33 Convenzione di Ginevra (e non solo), basti l’eufemismo “assicurare l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”? Il concetto è uguale”.

“Oltre il danno, la beffa. Persone rimandate in mezzo al mare, senza assistenza di traduttori, mediatori culturali, legali che spieghino loro come difendersi da questo respingimento, come possono fare ricorso al Tar? Una presa in giro. Svuotare il diritto di difesa: ecco fatto”, spiega Azzollini. Le leggi non si piegano alla propaganda. Anche se sei il ministro preferito di Salvini.

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Letta tiene in ostaggio il Pd

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A qualcuno viene il dubbio che voglia fare la fine di Sansone con tutti i filistei. Il segretario del Pd Enrico Letta continua imperterrito nella sua difficile marcia da segretario dimissionario provando a tenere un partito che gli scivola dalle mani e che ieri in un sondaggio per Affari Italiani viene dato ormai al 16,9%, in caduta libera.

L’ultimo disastro del segretario del Pd Letta alla marcia contro la guerra. Mezzo partito da Calenda e lui a prendere fischi a Roma

Forse sarebbe il momento che qualcuno gli dicesse senza troppi giri di parole che l’errore di non essersi dimesso subito e di avere programmato il prossimo congresso in un lasso temporale così lungo comincia a essere pericoloso.

Sarà per questo che proprio Letta ieri ha scritto che “più la fase della chiamata e della discussione saranno efficaci più si potranno anche contrarre i tempi della fase del confronto tra i candidati, in modo da poter anticipare la data attualmente fissata dalla Direzione nazionale del Pd per il 12 marzo”, incassando la lapidaria risposta del candidato in pectore alla segreteria Stefano Bonaccini che risponde con un “servono tempi rapidi perché il Pd rimanga in vita”.

Solo negli ultimi giorni infatti il segretario ha incassato il contraccolpo della marcia per la Pace di Roma con i suoi parlamentari che hanno deciso di andare in ordine sparso, dividendosi tra la manifestazione ufficiale convocata da più di 600 associazioni nella Capitale e la combriccola milanese guidata da Calenda.

Enrico Letta con molto coraggio – questo gli va riconosciuto – ha deciso di sfilare a Roma beccandosi anche gli insulti dei presenti ma non avere trovato una parola ferma per difendere la strumentalizzazione del pacifismo operata da Renzi, Calenda e un manipolo di liberali l’ha lasciato per l’ennesima volta in un mondo di mezzo che lo espone (insieme al Pd) agli attacchi per troppa tiepidezza.

A questo si aggiunge il nodo della Lombardia, con Letizia Moratti improvvisamente assurta al ruolo di interprete della politica “nuova” (fa ridere solo a scriverlo) del cosiddetto Terzo Polo ormai sempre più impegnato a riciclare i rottami della destra e ripulirli vestiti a puntino.

La scelta di puntare su Cottarelli (inimicandosi anche una bella fetta del partito lombardo) per tenere “dentro” Renzi e Calenda si è rivelata completamente sbagliata. Ancora una volta il Partito democratico si ritrova a dover rincorrere le scelte degli altri, per di più con un cammino di avvicinamento alle elezioni regionali difficile da controllare con l’autorevolezza traballante di una segreteria dimissionaria però pienamente operativa.

Il problema, inutile girarci intorno, è che il Pd si ritrova tra la morsa del cosiddetto Terzo polo e del Movimento 5 Stelle e in questo momento senza un leader legittimato e forte la sua tiepidezza non fa nient’altro che favorire i suoi avversari. Enrico Letta non può pensare che il partito tenga fino a marzo, superando tra l’altro l’inevitabile scontro congressuale che scalderà ancora di più gli animi e alimenterà le divisioni interne.

Occorre fare presto, il più presto possibile perché gli elettori e gli iscritti sappiano quale direzione intenda prendere il partito e per poter legittimare una nuova classe dirigente che tenga la barra dritta sulle proprie scelte e sulla comunicazione. Il bivio del resto è sempre lo stesso: decidere se svoltare verso la socialdemocrazia lasciando perdere destre omeopatiche travestite da riformisti oppure se aderire a una piattaforma di centro (destra) accontentando l’anima più liberale. Si può condire il tutto con qualsiasi affermazione ma il punto è sempre qui.

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