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Come si assomigliano Giorgia Meloni e Al Sisi

La Cop 27, il negoziato dell’Onu sui cambiamenti climatici, ieri ha vissuto la sua prima giornata dedicata alla politica. La giornata più utile per capire cosa si intenda per transizione energetica nei Paesi del mondo, per sondare le posizioni dei Paesi e per testare la reale volontà di agire per il clima.

Giorgia Meloni è arrivata a Sharm el-Sheikh con la ripartenza delle trivelle in tasca nel mare Adriatico. Non male arrivare all’importante vertice con un’azione politica contraria alle linee guida dell’Ipcc (l’organo scientifico delle Nazioni Unite) e dell’Agenzia internazionale dell’energia che prevede la riduzione di tutte le fonti fossili (gas compreso) già dal 2025.

Il segretario del’Onu António Guterres dice senza troppi giri di parole che il cambiamento climatico è «la sfida centrale del nostro secolo» e noi «la stiamo perdendo». Dice sostanzialmente le stesse cose che ripetono coloro che qui da noi vengono bollati come bigratisti ambientali, inutili allarmisti. Ma non si riesce ad uscire dalla falsa cortesia. Secondo l’Onu, si dovrebbe «mettere fine alla dipendenza dai combustibili fossili e dalla costruzione di centrali a carbone, eliminando gradualmente il carbone nei Paesi dell’Ocse entro il 2030 e ovunque entro il 2040». È esattamente il contrario di ciò che pensano (e che vogliono fare) quelli che stanno al governo in Italia.

Basta andare un centimetro più in là delle dichiarazioni di intenti per accorgersi della realtà: secondo un’analisi del sito specializzato Carbon Brief citata ieri dal Guardian, Stati Uniti, Regno Unito, Canada e Australia non hanno raggiunto la loro “giusta quota” di finanziamenti per il clima a favore dei Paesi in via di sviluppo. I Paesi ricchi si erano impegnati a fornire 100 miliardi di dollari l’anno entro il 2020, ma l’obiettivo è stato mancato.

La presidente del Consiglio ha incontrato il presidente Al Sisi e i due si sono accorti con piacere di assomigliarsi. Entrambi puntano sul gas come elemento di futuro di prosperità nonostante l’Agenzia internazionale dell’energia non lo consideri nemmeno possibile elemento di transizione. Così l’Egitto che possiede un quinto delle riserve del gas di Eni e la presidente del Consiglio non potrebbero non andare d’accordo, non potevano evitarsi un incontro bilaterale a porte chiuse in cui – dicono loro – avrebbero parlato di “energie e migranti” nella lingua in cui Italia e Egitto si parlano da anni: quella dei soldi.

Figurarsi se avevano voglia e tempo di parlare di Giulio Regeni. L’omicidio dello studente italiano è un altro di quei discorsi che si estrae dal cassetto delle buone intenzioni quando serve ma non entra mai negli incontri che contano davvero. Giorgia Meloni ieri ha parlato di “forte attenzione al caso Regeni” (una frase retorica che non significa nulla) e oggi Giuliano Foschini su Repubblica ci fa sapere che nelle scorse settimane il capo dipartimento del Ministero della Giustizia Nicola Russo ha fatto sapere ai nostri magistrati che “per gli egiziani nessun processo e nessuna collaborazione sono possibili”.

Tutto come prima, quindi. L’unica differenza è che ora non si vergognano nemmeno di fotografarsi sorridenti e felici.

Buon martedì.

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Il campo stretto. Anche in Lombardia. Arriva la Moratti

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È una storia regionale ma si porta addosso i segni, gli errori, le pessime abitudini e l’incaglio nazionale. Per questo conviene parlare delle prossime elezioni di Regione Lombardia. Ieri è accaduto che Letizia Moratti per l’ennesima volta ha confermato la sua intenzione di candidarsi alle prossime elezioni regionali.

Ieri Letizia Moratti per l’ennesima volta ha confermato la sua intenzione di candidarsi alle prossime elezioni regionali in Lombardia

Qualche giornale molto distrattamente o molto poco furbescamente titola che Moratti “annuncia la sua candidatura”. È falso. Tutti i bene informati sanno che l’ex vice di Attilio Fontana è partita per la campagna elettorale già da un pezzo, con uno staff già funzionante da mesi e con un impegno economico già considerevole.

La novità politica è che ora Letizia Moratti ufficializza di avere al suo fianco Azione e Italia Viva a suo sostegno. Con Renzi l’accordo c’era già da tempo mentre Calenda si deve essere convinto nel privé della sua marcetta per la pace a modo suo. Non sono d’accordo con i negoziati per far smettere la guerra ma hanno chiuso il negoziato per le elezioni regionali.

Il Partito Democratico ha quindi, per l’ennesima volta, inseguito il sedicente Terzo Polo per ritrovarsi con un pugno di mosche. In realtà ci sarebbero stati anche 5 anni per presentarsi almeno una volta nella vita con un progetto politico che non li costringesse a cercare un nome dell’ultim’ora ma evidentemente non ci sono riusciti.

Ora che accade? Il segretario regionale Vinicio Peluffo nell’assemblea regionale di ieri mattina cha ribadito che «Moratti non è un’opzione». Lo ripete anche chi, come il senatore Alessandro Alfieri, ha provato fino all’ultimo a costruire un’alleanza con renziani e calendiani cercando di farli convergere sul nome di Cottarelli.

A proposito di Cottarelli: l’ex punta di diamante della campagna elettorale del PD, diventato senatore grazie al paracadute della lista plurinominale dopo essere stato sonoramente sconfitto nella sua Cremona niente di meno che da Daniela Santanché, continua ad avere idee piuttosto confuse se è vero che si è presentato a Milano all’evento di Calenda per «farsi vedere da queste parti» (ha detto proprio così). Qualcuno dica al senatore del PD che allearsi con la destra per batterla è una scena che gli elettori dem hanno già visto e non è andata benissimo.

Il Partito Democratico ha deciso di aprire alle primarie per scegliere il candidato

La notizia vera è che il Partito Democratico ha deciso di aprire alle primarie per scegliere il candidato, coinvolgente +Europa, Movimento 5 Stelle, Sinistra Italiana, Verdi e tutti coloro che vogliono starci. Non è molto ma è già qualcosa. Del resto voler sconfiggere il Palazzo con manovre da Palazzo (perdente) non era una grande idea.

E chissà che la lezione lombarda, dopo l’ultima esperienza elettorale e dopo le decine di lezioni a livello locale, non serva una volta per tutte per capire che il sedicente Terzo Polo legittimamente gioca la sua partita politica e che considerarlo un alleato strutturale sia una miopia ormai intollerabile.

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Le bestie sono sulla terraferma

Lo chiamano “sbarco selettivo” ma è bestiale razzismo. Scegliere chi far sbarcare a Catania in base a «salute, genere ed età», come spiega Petra Krischok, tuttora a bordo della nave Humanity, e portavoce di Sos Humanity non è solo contrario a qualsiasi legge ma è una selezione di “degni e non degni” tra i disperati. Se non sono disperati, come credono questi al governo, allora non si capisce perché non mandarli indietro tutti.

«I naufraghi sono sfiniti», sottolinea a LaPresse la Ong, facendo presente che uno di loro ha avuto un esaurimento nervoso. E Sos Humanity avverte: «Non ci è stato chiesto di partire, noi restiamo nel porto e abbiamo intenzione di sbarcare anche gli altri 35 naufraghi ancora a bordo». Intanto la procura di Catania ha aperto un’inchiesta sulla possibile presenza di scafisti su nave: le indagini della Squadra mobile mirano ad individuare eventuali componenti dell’equipaggio delle due barche soccorse dalla Ong nel Mediterraneo. “Carico residuale”, hanno chiamato gli altri. Come se fossero merci rispedite al mittente.

Intanto a Catania è arrivata la nave Geo Barents di Msf: la storia si ripete. A bordo ci sono 572 naufraghi, e secondo quanto riporta Candida Lobes di Msf, che è sulla nave, «ci sono donne incinte, bambini, la più piccola di 11 mesi, persone che hanno subìto ripetute violenze in Libia, e hanno bisogno di sbarcare in un posto sicuro».

A Meloni, Piantedosi e Salvini arrivano i complimenti di Orbàn e questo è un ottimo indizio per capire come l’europeismo mimato da Meloni fosse tutto uno schifoso bluff. A Orbàn piacerebbe anche sapere che ai giornalisti è stato impedito di assistere alle operazioni di sbarco e di soccorso. Ricardo Gutièrrez, segretario generale della Federazione europea dei giornalisti, fa sapere che «casi simili si sono verificati in Grecia, Polonia e Ungheria» e la giurisprudenza ha sempre «confermato il principio di libertà di accesso per i giornalisti, soprattutto se intervengono forze dell’ordine. Ciò che accade in Italia non mi pare normale».

Come fa notare la giurista Vitalba Azzollini «il ministro Piantedosi e gli altri firmatari del decreto pensano che per evitare l’accusa di respingimento, vietato dall’art. 33 Convenzione di Ginevra (e non solo), basti l’eufemismo “assicurare l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”? Il concetto è uguale». «Oltre il danno, la beffa. Persone rimandate in mezzo al mare, senza assistenza di traduttori, mediatori culturali, legali che spieghino loro come difendersi da questo respingimento, come possono fare ricorso al Tar? Una presa in giro. Svuotare il diritto di difesa: ecco fatto», spiega Azzollini.

Benvenuti nel governo Meloni.

Buon lunedì.

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Ong e migranti: il senso di Piantedosi e Salvini per le leggi e la geografia

Ci risiamo. In mezzo al mare caracollano quattro navi strapiene di disperati slavati dall’annegamento nel Mediterraneo. Sono tre navi di Ong, il boccone perfetto per il nuovo governo affamato di disperati da bastonare per distogliere l’attenzione da quello che ci sarebbe da fare. Sono 1000 migranti in tutto. Clandestini, li chiamano molti membri dell’esecutivo che nemmeno nel loro nuovo ruolo riescono a sciacquarsi la bocca. Del resto l’assioma è banale, anche se non hanno il coraggio di ammetterlo: se sono neri sono clandestini, se sono poveri sono clandestini, se sono inutili sono clandestini.

Il ragionamento di Piantedosi diventa uno spot perfetto per Salvini

Il neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, calatosi subito nel ruolo del mangiamigranti per compiacere il governo, rilascia un’intervista al Corriere della Sera in cui dice sostanzialmente: queste quattro navi battono bandiera norvegese e tedesca quindi sono quei Paesi che dovrebbero «farsi carico dell’accoglienza» dei migranti soccorsi, poiché questi ultimi hanno «messo piede per la prima volta» proprio in quei Paesi, salendo sulle navi. Matteo Salvini sgrana gli occhi. Il ragionamento fila, funziona ed è uno spot perfetto per diventare slogan sui suoi social. Quindi rilancia: «Dove dovrebbe andare una nave norvegese? Semplice, in Norvegia». Applausi, sorrisi e pacche sulle spalle. Che bravi che siamo, si dicono.

Il regolamento di Dublino non è applicabile a bordo delle navi

Peccato che sia tutto un’enorme sciocchezza. Una sciocchezza, tra l’altro, sulla pelle di vite umane. È vero che le navi rappresentano un’estensione territoriale dei rispettivi Stati di bandiera. Lo stabilisce la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare fin dal 1982: navi che battono la bandiera di un solo Stato, salvo casi eccezionali, in mare “sono sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva”. Per dare credito alla loro sciocchezza dalle parti del governo si cita anche il Regolamento di Dublino (che curiosamente in Europa proprio la destra non ha mai voluto modificare) secondo il quale se “il richiedente asilo ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro” allora è quello Stato a essere “competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. Si legge così nell’articolo 13. Le leggi però bisogna conoscerle tutte. «Dublino si applica nel momento in cui si arriva a terra, Dublino non è applicabile a bordo delle navi, il caso Hirsi lo dimostra, unità governative che non hanno personale specializzato a bordo per poter fare lo screening non possono essere considerate la frontiera d’ingresso per l’applicazione della Convenzione di Dublino», spiegava in audizione parlamentare già nel 2017 il contrammiraglio della Guardia costiera italiana Nicola Carlone. Ci sarebbe anche una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo risalente al 2012. Solo che quella sentenza condannò l’Italia dell’ultimo governo Berlusconi per i respingimenti in mare e quindi è stata dimenticata in fretta. Vi si legge chiaramente che è impossibile esaminare la situazione dei migranti a bordo delle navi prima dello sbarco. Cade così anche l’idea di Giorgia Meloni di procedere alla richiesta dello status di rifugiato in mezzo al mare.

Il decreto anti rave party subirà almeno due modifiche dal Parlamento: le criticità riguardano intercettazioni e definizione del reato.
Matteo Piantedosi (Getty Images).

Le leggi e la geografia non possono piegarsi alla propaganda

Le norme sul soccorso marittimo sono chiare: gli sbarchi devono avvenire nel primo “porto sicuro” disponibile. E per “primo porto sicuro” si intende un luogo in cui venga garantito il rispetto dei diritti umani (quindi no, la Libia non è un porto sicuro) e il più vicino dal punto di vista geografico. Come ribadito anche dall’ambasciata norvegese in una nota diffusa dalla trasmissione Il Cavallo e la torre: «La responsabilità primaria nel coordinamento dei lavori per garantire un porto sicuro alle persone in difficoltà in mare è di competenza dello stato responsabile dell’area di ricerca e di salvataggio in cui è stata prestata tale assistenza. Anche gli Stati costieri confinanti hanno una responsabilità in tali questioni. La Norvegia non ha alcuna responsabilità ai sensi delle convenzioni sui diritti umani o del diritto del mare per le persone imbarcate a bordo di navi private battenti bandiera norvegese nel Mediterraneo». L’Italia sta lì, in mezzo al Mediterraneo, e di quella posizione se ne deve fare carico con oneri e onori. Le leggi e la geografia non possono piegarsi di fronte alla propaganda. Ai ministri e alla presidente del Consiglio tocca fare politica, politica sul serio, e cercare una soluzione mediando con l’Ue. Oppure possono fottersene e giocare con la vita delle persone. Non è difficile immaginare come andrà a finire.

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Roma caput pacis, in marcia per dire basta all’orrore del conflitto in Ucraina. La classe politica ha fallito, ora ascolti il popolo della pace

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La pace non c’è mai stata per davvero. Di guerre ne abbiamo viste e ne vediamo tante ma questa guerra in Ucraina ha alimentato una virulenza contro i pacifisti che difficilmente si era vista in giro dopo le guerre mondiali. Pacifisti traditori della patria, pacifisti che sono i migliori alleati del nemico, pacifisti dipinti come irresponsabili naïf da trattare con superficialità e da ricoprire di paternalismo. È una storia vecchia, è vero.

Fate… strada

Siamo il Paese che ha avuto uno dei già grandi testimoni contro le guerre come Gino Strada e l’abbiamo infangato da vivo tutti i giorni della sua vita, pronti a piangere lacrime di polistirolo solo dopo la sua morte. I pacifisti in questo Paese funzionano e piacciono solo quando stanno dentro qualche libro di storia o vengono commemorati in qualche celebrazione.

Così il furore bellico che in Ucraina stupra le donne, uccide i bambini, bombarda i civili, e ha strappato la libertà a un’intera nazione dalle nostre parti si è trasformato in una clava per sistemare i conti aperti con gli avversari politici, con i giornalisti ritenuti ostili. Usare una strage alle porte dell’Europa per farne polemica politica interna: anche questo non stupisce in un Paese con una classe dirigente che non ha visioni più larghe del proprio orto e del recinto dei suoi interessi personali.

C’è Calenda che usa la guerra per svilire Conte, c’è Renzi che usa la guerra per prendere a schiaffi Letta, c’è Giorgia Meloni che la guerra la usa per fiaccare le polemiche del suo alleato Berlusconi, c’è la guerra che Salvini usa come fondotinta per rivendersi come “mai stato amico di Putin”.

Basterebbe solo questo per dare un senso a una marcia per la pace che tra le altre cose chiede alla classe politica di provare a essere un po’ più alta di così. Parlare di pace in Ucraina oggi, come accade per tutte le guerre, significa anche rivendicare il diritto di una politica che faccia il suo dovere, che sappia accordare gli equilibri internazionali senza bisogno di accedere alla violenza come ultimo rifugio degli incapaci.

Perché odiano così tanto i pacifisti? Semplice: perché sono lo specchio del loro fallimento. I pacifisti, è sempre stato così, stanno in piazza a ricordare che la pace richiede una maturità diplomatica e politica che non ha niente a che fare con le prove muscolari, niente a che vedere con l’indegna compagine dei signorotti delle armi. La politica non ha niente a che vedere con la fame insaziabile dei signori della guerra che in questi anni hanno lasciato in giro per il mondo macerie che vorrebbero farci credere siano mattoni per la ricostruzione.

Partito unico bellicista

Fanno il deserto e lo chiamano pace, accade sempre così. C’è da credere che scotti ancora al cosiddetto Occidente – quello che recita altisonante i suoi principi giuridici ma poi fatica tantissimo a metterli in pratica – quell’Afghanistan abbandonato a se stesso che ci osserva dopo essere ripiombato nell’incubo di com’era prima dell’ennesima guerra inutile.

L’Afghanistan sta lì a dirci che in guerra ci perdono tutti tranne i signori della guerra, in guerra ci muoiono i figli dei poveri mentre i ricchi si fanno ancora più ricchi. Fare la guerra a chi non vuole la guerra oggi è il comandamento del Partito Unico Bellicista. Vorrebbero apparire come i più strenui difensori dell’Ucraina e invece sulla pelle degli ucraini giocano una partita che ai pacifista non interessa, anzi fa schifo.

Che tacciano le armi, in primis, e che la politica svolga il suo ruolo. La violenza è l’ultimo rifugio degli incapaci, diceva Asimov. Essere capaci: ecco quello che serve per far smettere la guerra. Più capaci di quel violento di Putin.

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Le bombe non fermano la guerra, solo il negoziato può riuscirci. Parla il coordinatore della Tavola della Pace, Flavio Lotti: “Alziamo la voce contro il partito unico bellicista”

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Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della Pace, è incastrato tra gli ultimi appuntamenti perché sia tutto pronto. Da sempre impegnato per la pace è tra le menti (e i cuori) dell’evento di Roma. Riusciamo a rubargli una chiacchierata.

Iniziamo con la domanda delle domande: a che serve una marcia per la pace?
“Questa manifestazione è necessaria, direi terribilmente necessaria, per fermare la guerra. Per chiedere alle nostre istituzioni, a tutti i responsabili della politica nazionale e internazionale, di fare quello che non hanno ancora fatto: mettere in campo tutte le iniziative che possono togliere la parola alle armi e restituirla alla politica. Perché tutte le guerre finiscono solo se la politica riesce a prendere il sopravvento sulla forza. Anche in questo caso rischia di essere l’unica reale possibilità”.

Qui arriva subito la prima obiezione: non è Putin che deve fermarsi?
“Sono quasi 9 mesi che i governi dell’Ue e dell’Occidente hanno deciso di fare la guerra per fermare la guerra di Putin. Alcuni risultati sul piano militare li hanno ottenuti ma nel contempo la guerra non si è per niente fermata. Anzi, si è aggravata e sta diventando sempre di più devastante. Questa guerra sta ammazzando ogni giorno gli ucraini e allo stesso tempo sta distruggendo quel Paese e allo stesso tempo sta distruggendo la nostra economia. Le nostre vite diventano sempre più esposte alle drammatiche conseguenze della guerra. Una guerra che ci sta devastando. E qui non è come il Covid che quando è passato ci permette di pensare di poter ricominciare: questa guerra finirà per alimentare altre guerre fino a trascinarci in una guerra mondiale dove anche l’impossibile diventa più probabile, cioè lo scoppio di guerra atomica. Dunque la guerra non è stata capace di fermare la guerra, lo vediamo, e non ha nessuna possibilità di fermarla. Dicono che vogliono combattere contro Putin fino alla vittoria ma la vittoria non porterà la pace. La vittoria porterà un’escalation, ci può trascinare nella guerra mondiale, nell’abisso dell’apocalisse atomica. Abbiamo bisogno di trovare una via d’uscita da questa guerra ed è per questo che la marcia serve per chiedere alla politica di ritrovare se stessa e di riprendere nelle mani il nostri futuro, quello dell’Ucraina e del mondo”.

Essere pacifisti oggi non rischia di essere un piacere a Putin?
“In realtà quelli che stanno facendo il gioco di Putin sono i signori che continuano a proporre la guerra come unica soluzione. Putin ha scelto di fare il gioco della guerra e noi stiamo partecipando al suo gioco. L’unico modo per contrastare Putin è smettere di giocare al suo gioco. Dobbiamo fermare Putin attraverso l’unico strumento che può avere successo ovvero l’iniziativa della politica, il negoziato politico. Nessuna guerra ha mai fermato un’altra guerra. Tutte le guerre negli ultimi 20 anni che ci hanno visto coinvolti non si sono mai concluse, anzi hanno sempre generato altre guerre di cui non si vede la fine: Afghanistan, Iran, Siria, Libia, Yemen. Noi siamo andati in Somalia agli inizi degli anni ’90 con un’operazione che si chiamava “Restore hope”, per restituire speranza, e dopo 30 siamo ancora in guerra. L’unica speranza è quella degli affaristi delle armi e dei signori della guerra”.

Come mai assistiamo a questa violenta criminalizzazione dei pacifisti questa volta
“Noi abbiamo due problemi. Il primo è che quello che possiamo chiamare il partito della guerra chela vede come unica strada possibile per fermare Putin. Guerra come unica soluzione. Il secondo problema è il pensiero unico della guerra che oggi controlla tutti i principali mezzi di comunicazione e che non tollera opinioni difformi. Viviamo in un Paese democratico in cui però il diritto di parola e il confronto democratico su cui si basa la democrazia sono azzerati, con pochissime preziose eccezioni. Oggi siamo in questa drammatica condizione che indebolisce la nostra democrazia: soffocare le voci di chi propone altre soluzioni non è solo un grave danno inferto alla possibilità di ritornare in pace ma è un grave danno inferto alla democrazia”.

Ma come si può arrivare alla pace se Putin non tratta
”Non è vero che Putin non vuole trattare, lo ripete in occasioni sempre più frequenti. Certo vuole trattare da posizioni di forza ma noi abbiamo dalla nostra parte il diritto e la legalità internazionale che è il nostro faro e la nostra bussola. Noi abbiamo il nostro obiettivo di fermare la guerra perché sta facendo strage di vite umane, di risorse, di energia. Primo passo: fermare le armi, raggiungere un cessate il fuoco. Secondo obiettivo: riprendere il dialogo a tutto campo, su tutte le questioni aperte. Non c’è solo il problema del ritiro di Mosca dall’Ucraina, che è obiettivo necessario, c’è anche quello di ricostruire le condizioni della sicurezza e della stabilità in Europa e di conseguenza nel mondo. Possiamo avere l’opinione che vogliamo ma la Federazione Russa è una superpotenza quindi il negoziato deve essere su scala planetaria, coinvolgere tutti i paesi del mondo, il Consiglio Sicurezza dell’Onu, gli Usa ormai pienamente coinvolti (100 miliardi spesi da Biden per continuare a combattere, cifre immense). L’obiettivo non può essere negoziare solo quello che accade sul campo di battaglia, dobbiamo negoziare la ricostruzione delle condizioni su scala europea e planetaria. Possono sembrare obiettivi utopistici ma oggi tutto è profondamente interconnesso e non c’è possibilità di risolvere un problema se non risolviamo anche tutte le altre dimensioni. Qual è il primo problema Stiamo precipitando verso guerra mondiale e dobbiamo impedirla”.

Che giornata ti aspetti?
Spero che gli uomini e le donne siano tanti e che possano far vibrare questa domanda di pace che Papa Francesco ha cercato di alimentare, dandole una voce straordinaria. Spero che riusciamo a parlare anche a coloro che non hanno voluto sentire fino a d’ora. Spero che sia l’inizio di un cammino. Quello di domani è un punto di partenza, perché non basterà, servirà altro”.

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L’addio della Moratti fa felice Fontana

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Peggio del previsto. Le dimissioni di Letizia Moratti da vicepresidente di Regione Lombardia aprono la corsa alle prossime elezioni regionali e mostrano d’improvviso i nervi scoperti delle posizioni in campo.

Basta scorrere le dichiarazioni del giorno dopo per rendersi conto che il presidente leghista Attilio Fontana, quello che dovrebbe essere più colpito dall’addio di Moratti, è l’unico che può ostentare sicurezza: “La mia candidatura è nei fatti, mi sembra che i singoli rappresentanti del centrodestra mi abbiano ripetutamente confermato e a questo punto credo non ci sia neanche bisogno di una formalizzazione”, spiega ai giornalisti, lasciando intendere che non è nel centrodestra che Letizia Moratti intende pescare.

Sembra impossibile a scriversi eppure è così. Nel gruppo consigliare regionale del Partito democratico risuonano le posizioni del capogruppo Fabio Pizzul che già alcuni giorni fa invitava il suo partito a “fare importanti valutazioni qualora la vicepresidente Moratti si smarcasse dalla coalizione di centrodestra, prendendone davvero le distanze in maniera chiara e inequivocabile”, com’è effettivamente avvenuto. Seguito a ruota dal collega di partito in Regione Gian Antonio Girelli che invita il Pd a fare “importanti valutazioni”.

Renzi vuole arruolare l’ex ministra Letizia Moratti. Il Pd, invece, non intende candidarla alle regionali lombarde

Così è un gioco da ragazzi per Matteo Renzi infilare il coltello nella piaga e passare al contrattacco: “Se io fossi il segretario del Pd, chiamerei di corsa Letizia Moratti e direi di andare insieme”, dice il leader di Italia Viva ospite su La7 nella trasmissione di Myrta Merlino, L’Aria che tira.

E poi rincara: “Il Partito democratico di Enrico Letta la voglia di vincere non la fa vedere”. Tant’è che per smorzare Renzi tocca intervenire a Matteo Richetti, capogruppo di Azione-Italia Viva alla Camera ma appartenente alla sponda calendiana: “Letizia Moratti non è la candidata”, spiega senza troppi giri di parole. La base del Partito democratico però bolle.

Gli elettori dei Dem assistono increduli alla riabilitazione dell’ex sindaca di Milano, ex ministra alla Cultura berlusconiana che pensavano di avere archiviato sconfiggendola alle elezioni comunali di Milano. Quelle stesse elezioni che avrebbero dovuto aprire una nuova stagione del centrosinistra in Lombardia. Così prima il segretario regionale del Pd Peluffo (“per noi il sostegno alla candidatura di Moratti non è opzione”) e poi il sindaco di Milano Beppe Sala gettano acqua sul fuoco.

La strategia del Nazareno rimane sempre la stessa e si può ritrovare nelle parole della capogruppo al Senato Simona Malpezzi che spiega come “Letizia Moratti è stata espressione del governo che abbiamo contrastato con forza” e mette sul tavolo il nome bisbigliato da settimane: Carlo Cottarelli. Come se le ultime elezioni non fossero state una disfatta epocale i dirigenti nazionali del Partito democratico insistono sulla candidatura dell’economista di Cremona per prendersi la Lombardia convinti che “il nome di Cottarelli costringa il Terzo polo a stare con noi e disinneschi la candidatura di Moratti”, come spiega il senatore lombardo Alessandro Alfieri.

“Il nome perdente di un’elezione disastrosa spinto da una dirigenza dimissionaria”, fanno notare illustri componenti del Partito democratico milanese. Per questo sono in molti, a cominciare dall’assessore milanese Pier Francesco Maran per continuare con il consigliere regionale Pietro Bussolati e la deputata Lia Quartapelle, a credere che le primarie, solo quelle, siano lo strumento che possa attivare il coinvolgimento che serve a rendere contendibile la Regione Lombadia. E la sensazione è che lo pensi anche gran parte degli elettori. Chissà se ancora una volta il Pd cercherà di abbattere il palazzo con giochi di palazzo per perdere ancora.

 

Leggi anche: Il Pd alla canna del gas offre al M5S la scelta del candidato nel Lazio. Astorre smentisce, ma Letta tace. Conte: i nomi non ci interessano

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Nel mirino di Putin i prossimi sono i gay

Aleksandr Khinstein, un deputato del partito al potere Russia Unita, è stato schietto: «Un’operazione militare speciale è in corso non solo sui campi di battaglia», ha detto, usando l’eufemismo approvato dal Cremlino per la guerra, «ma anche nella coscienza delle persone, nelle loro menti e nelle loro anime. Oggi lottiamo affinché in Russia invece di mamma e papà non ci sia ‘genitore 1’, ‘genitore 2’, ‘genitore 3’».

Per rendersi conto dei punti di contatto tra il sovranismo italiano e europeo con Vladimir Putin si potrebbe partire da qui. In Russia il mondo Lgbtqi+ è considerato un diabolico afflato proveniente dall’Occidente per distruggere la tradizione del Paese degli Zar. In questi giorni c’è in discussione un progetto di legge che vieterebbe “la propaganda gay” segnando un periodo ancora più difficile per una comunità già profondamente stigmatizzata. Le leggi vieterebbero la rappresentazione delle relazioni Lgbtq in qualsiasi media – servizi di streaming, piattaforme social, libri, musica, poster, cartelloni pubblicitari e film – e, temono gli attivisti, anche in qualsiasi spazio pubblico.

La proposta di legge è firmata da 400 componenti della Duma su un totale di 450. Difficile che non arrivi sulla scrivania di Putin per essere firmata. L’obiettivo è chiaro: creare un nemico interno per distogliere l’attenzione dalla guerra in Ucraina e per fomentare lo spirito di guerra anche all’interno del Paese. Come spesso accade per accendere la guerra interna basta puntare il mirino contro qualcuno che ha poche armi per difendersi. Il messaggio di Putin è tragicamente cretino pure funzionale: “cari russi, se perdiamo la guerra i vostri figli cambieranno sesso e affosseranno la nazione”.

Gli impauriti oppositori di Putin fanno notare che le nuove leggi potrebbero essere utilizzate per chiudere i festival del cinema e del libro, impedire i servizi medici e altro ancora. Violare le leggi comporterebbe pesanti sanzioni. Qualsiasi attività commerciale che mostrasse immagini di una famiglia con due madri o due padri, ad esempio, potrebbe essere multata fino a 5 milioni di rubli, ovvero circa 81.400 dollari. Gli individui sarebbero soggetti a multe fino a 400.000 rubli, circa 6.500 dollari. Ai film con persone queer potrebbe essere negata la distribuzione.

Maksim Olenichev, un avvocato specializzato in diritti Lgbtq, al NY Times ha spiegato che «il governo fondamentalmente dice che queste persone non hanno gli stessi diritti di tutti gli altri». «’Le persone Lgbtq non sono completamente umane.’ Questo è il modo in cui le persone giustificheranno gli abusi nei loro confronti. Lo scopo è rendere invisibili le persone Lgbtq in Russia».

Non è troppo difficile trovare similitudini.

Buon venerdì.

Nella foto: un attivista per i diritti Lgbt arrestato, Mosca, 27 maggio 2012

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Memorandum – C’è il nostro sangue

Da cinque anni goccioliamo sangue. Lo lasciamo in giro, macchiamo le nostre cose, goccioliamo nei nostri percorsi quotidiani, lasciamo impronte al mattino sulla tazzina del caffè, poi sui sedili delle nostre auto, sulle sedie dei nostri uffici, sulle pacche date ai nostri amici, sulle carezze e sul cuscino.

Ieri il memorandum Italia-Libia è stato rinnovato in automatico per altri 3 anni.

È accaduto, non c’erano dubbi, nel modo più vigliacco: stando zitti. Del resto bisogna essere campioni di codardia per riuscire a digerire le conseguenze drammatiche sulla pelle di almeno 100mila persone che dal 2017 a oggi sono state catturate dalla cosiddetta Guardia costiera Libia e riportate forzatamente il Libia, un paese che non può essere in nessun modo considerato sicuro.

Cosa sia la vita dei migranti in Libia è ormai sotto gli occhi del mondo. Ci sono documenti, video, audio, relazioni internazionali che raccontano di donne scelte ogni notte negli stanzoni delle prigioni libiche per soddisfare gli appetiti sessuali dei loro carcerieri. Ci sono le grida dei ragazzi, anche giovanissimi, a cui vengono rotte le dita, i denti, con la schiena segnata dalle botte e dalla plastica lasciata colare incandescente mentre dall’altro capo del telefono ai famigliari vengono chiesti più soldi. Ci sono le prove di uomini appartenenti alla cosiddetta Guardia costiera libica che appena si tolgono quella putrida divisa diventano gli scafisti che dicono di combattere. Ci sono le prove di condizioni di vita disumane, uomini come topi lasciati in capannoni bui senza i già basilari servizi, corpi che dormono l’uno sull’altro. Abbiamo tutto quello che serve per sapere. Ma non sappiamo, non vogliamo sapere.


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L’Italia e l’Unione Europea continuano a impiegare in Libia sempre più risorse pubbliche e a considerarlo un paese con cui poter stringere accordi, all’interno di un complesso sistema basato sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere, che delega ai paesi di origine e transito la gestione dei flussi migratori, con il sostegno economico e la collaborazione dell’Unione Europea e degli Stati membri. Il Memorandum Italia – Libia crea le condizioni per la violazione dei diritti di migranti e rifugiati agevolando indirettamente pratiche di sfruttamento e di tortura perpetrate in maniera sistematica e tali da costituire crimini contro l’umanità”, scrivevano alcuni giorni fa le oltre 40 organizzazioni che sono scese in piazza per chiedere all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e di non rinnovare gli accordi con la Libia.

Il Memorandum prevede il sostegno alla Guardia costiera libica, attraverso fondi, mezzi e addestramento. Continuare a supportarla significa non solo contribuire direttamente e materialmente al respingimento di uomini, donne e bambini ma anche sostenere i centri di detenzione dove le persone vengono sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, abusate e uccise. Dal 2017 la Guardia costiera libica ha ricevuto oltre 100 milioni in formazione e equipaggiamenti (57,2 milioni dal Fondo fiduciario per l’Africa e 45 milioni solo attraverso la missione militare italiana dedicata). Soldi pubblici e risorse destinate alla cooperazione e allo sviluppo, impiegate invece per il rafforzamento delle frontiere, senza alcuna salvaguardia dei diritti umani, né alcun meccanismo di monitoraggio e revisione richiesto dalle norme finanziarie dell’UE. Ugualmente le risorse utilizzate per l’implementazione degli interventi umanitari non hanno bilanciato i crimini contro l’umanità che sono commessi attraverso il Memorandum.

Solo che quel memorandum contiene le impronte digitali di governi di destra e di sinistra, attraversa la storia dei partiti politici italiani che in questi 5 anni hanno usato la solidarietà come vessillo per concimare la guerra elettorale. C’è la prima firma, il 2 febbraio del 2017, dell’ex ministro all’Interno Marco Minniti, salvinista ancora prima di Salvini, che per il governo Gentiloni ha stretto gli accordi con il primo ministro del Governo di Riconciliazione Nazionale libico Fayez al-Sarraj. Ci sono le ditate dei ministri Di Maio e Lamorgese nella proroga del 2 febbraio del 2020. Quando il ministro degli Esteri prometteva di “migliorare gli accordi” che invece sono rimasti intatti e Giuseppe Conte annunciava l’avvio di nuovi negoziati con Tripoli.

Sono cinque anni che trattiamo la Libia come se fosse uno Stato e fingiamo di non sapere che il quadro politico particolarmente instabile disegna un Paese in mano alle bande. Qualsiasi rinnovo sarebbe stato inaccettabile se avessimo avuto occhi per vedere che la Libia è un Paese che vive sulle violazioni ai danni di donne, uomini, bambini e bambine. La Missione d’inchiesta indipendente delle Nazioni Unite parla di “un’impossibilità strutturale di apportare qualsiasi forma di miglioramento delle condizioni di vita delle persone migranti in Libia, a cui si aggiunge un inadeguato accesso dei richiedenti asilo e rifugiati alla protezione internazionale”, descrivendo una Libia dove “episodi di violenza, torture e riduzione in schiavitù sono all’ordine del giorno” e dove risulta evidente “la commistione delle autorità libiche con le milizie, e il loro coinvolgimento nel sistema di detenzione arbitraria, sfruttamento e abuso dei migranti e dei richiedenti asilo”.

Ai bordi dell’Europa abbiamo scelto un sacco dell’umido dove buttare i nostri errori e i nostri orrori. Abbiamo deciso di appaltare i nostri confini a aguzzini pagati e addestrati da noi. Se noi siamo i mandanti dei crimini che avvengono nel Mediterraneo e in Libia quello non è sangue nostro? L’unica vera “grande opera” costruita dagli ultimi governi è un cimitero liquido che seppellisce i disperati dopo averli cucinati nei lager. Aiutiamoli “a casa loro”, si diceva dalle nostre parti qualche anno fa. Lo scrisse perfino il segretario del PD Matteo Renzi in un suo libro. Casa loro gocciola dall’accordo che c’è tra casa nostra e casa loro. Un “patto disumano” in cui “la sofferenza dei migranti detenuti nei campi in Libia è un oltraggio alla coscienza dell’umanità”: sono parole dell’Alto commissario Onu per i diritti umani. E noi da cinque anni lasciamo macchie di sangue in giro e non ce ne siamo ancora accorti.

(da Ultima Voce)

La Meloni torna da Bruxelles senza un euro in più per la manovra

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Così Giorgia Meloni, dopo essersi rivenduta come quella che sarebbe andata a Bruxelles a rovesciare i tavoli e a tenere alta la bandiera del sovranismo italiano, si allinea mogia mogia alle consuete modalità di tutti i suoi predecessori, com’è normale che sia. Certo, nessuno si stupisce, soprattutto alla luce del velocissimo processo di istituzionalizzazione che la presidente del Consiglio ha incarnato fin dal minuto dopo la chiusura delle urne.

La Meloni debutta a Bruxelles rinnegando lo storico euroscetticismo. Ma dietro i sorrisi e gli abbracci con gli odiati tecnocrati, la missione Ue è un nulla di fatto

Avere memoria però è un esercizio utile e importante: per questo converrebbe sovrapporre la Meloni di ieri al Parlamento europeo a quella arrembante di qualche settimana fa. Se la campagna elettorale fosse stata una partita di calcio la leader di Fratelli d’Italia avrebbe vinto con un lungo, lunghissimo, fallo si simulazione. Parole di circostanza per tutta la giornata della presidente del Consiglio che ha incontrato Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e la presidente del Parlamento Ue, Roberta Metsola.

La presidente del Parlamento Ue nella sua dichiarazione dopo il colloquio con Meloni dice: “L’incontro con la presidente del Consiglio Giorgia Meloni è andato bene, abbiamo parlato molto di Ucraina, di bollette e di energia. Abbiamo parlato del bisogno che l’Italia resti al centro dell’Ue e dell’Europa. Sono molto contenta della nostra discussione”.

Qualche appunto tra le righe: in Europa la presidente la chiamano presidente, con buona pace della stupida guerra sugli articoli e sulle innescata dai sovranisti di casa nostra e, soprattutto quel “bisogno che l’Italia resti al centro dell’Ue e dell’Europa” che è un’intimazione a non seguire i colpi di testa di qualche membro della maggioranza sovreccitato dal potere. La presidente del Consiglio, intanto, si immerge nei selfie e nei sorrisi e ci fa sapere che è “andata bene”.

Nessun digrignar di denti. Nulla. La quiete diplomatica regna sovrana. Metsola ci tiene anche a ribadire che lei e Meloni sono “totalmente allineate sull’Ucraina. Continuiamo ad essere saldi sulle sanzioni e unite nel riaffermare il nostro sostegno per Kiev”. Nel tempo delle parole, aspettando i fatti, del resto non è un compito difficile fingersi amici degli ucraini se addirittura Salvini e Berlusconi sono riusciti a mimare una distanza da Vladimir Putin.

Ci si trascina così, con parole di rito. Giorgia Meloni dopo l’incontro il presidente del Consiglio Ue, Charles Michel, ripete: “Mi sembra si sia creata una interlocuzione molto franca, molto positiva. Sono contenta di come sia andata questa giornata nella quale ho portato il punto di vista italiano. C’è la necessità di dare il prima possibile concretezza alla soluzione” sulla crisi dell’energia e “sul tetto del gas”. Tradotto: l’Ue conosce benissimo il problema ma la politica, che è roba diversa dal populismo, richiede intese sugli equilibri che hanno bisogno di tempo e di impegno.

Una realtà ben diversa dalle promesse della campagna elettorale farcite di soluzioni lampo che sarebbero uscite dal primo Consiglio dei ministri. Il colpo di genio, la maschera che cade, però è quando la presidente del Consiglio si avvicina ai microfoni e ci dice: “Credo che vedersi da vicino possa aiutare a cambiare la narrativa fatta sulla sottoscritta e sul governo italiano. Non siamo marziani, siamo persone in carne ossa. E dall’altra parte mi sembra che c’erano persone che avevano voglia di ascoltare”.

I nemici europei, i portatori dei poteri forti, i terribili assassini della libertà degli italiani, gli odiosissimi tecnocrati di Bruxelles da vicino le sono risultati persino simpatici. Giusto il tempo per le foto di rito, le strette di mano, e corrono tutti a cena.

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