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Con Meloni siamo già all’agiografia. Bestiario di governo a catinelle

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L’agiografia di Giorgia Meloni, Matteo Salvini bastonato, eccoci al nostro bestiario di governo quotidiano.

AMICI PER FINTA
“Grande collaborazione e unità di intenti”. E’ quanto si legge in una nota congiunta della Lega e Fdi al termine dell’incontro tra Meloni e Salvini. “Entrambi i leader hanno espresso soddisfazione per la fiducia data dagli italiani alla coalizione e hanno ribadito il grande senso di responsabilità che questo risultato comporta. Meloni e Salvini hanno fatto il punto della situazione e delle priorità e urgenze all’ordine del giorno del governo e del parlamento, anche alla luce della complessa situazione che l’Italia sta vivendo”. Il comunicato suona vero come la famosa foto di Salvini e Meloni sorridenti in riva al mare, pochi minuti prima di ricominciare a farsi la guerra.

SANTANCHÈ METTE A CUCCIA SALVINI
Dice Daniela Santanchè in un’intervista a Il Foglio: “La Lega, purtroppo, non ha raccolto un successo eclatante a queste elezioni. Hanno una grande occasione di rilancio. Con lealtà. Governando. Non si può essere di lotta e di governo, anche quando si sta dentro a un governo di centrodestra”. Traduzione: Salvini ha perso e non si metta in testa di avanzare pretese. Facile facile.

MA CHE DAVERO?
Secondo Repubblica Draghi, dopo aver parlato con Meloni, avrebbe assicurato ai leader europei che il prossimo governo: sosterrà, anche militarmente, l’Ucraina e terrà unito il fronte delle sanzioni contro Mosca; sosterrà la Nato senza tentennamenti e non approverà scostamenti di bilancio. Che Giorgia Meloni per rassicurare la comunità internazionale prometta di governare secondo la mitologica agenda Draghi a cui si è strenuamente opposto per racimolare voti è tutto quello che sappiamo sull’ipocrisia politica di questo tempo.

E LA MATRICE?
È spuntata ieri l’immagine di copertina che Anna Paratore, madre di Giorgia Meloni, teneva sul suo profilo Facebook con scritto “evoluzione, qualcosa è andato storto”: il disegno rappresenta la scimmia che dagli imperatori romani e Garibaldi si staglia fino a Mussolini imponente su tutti per poi rimpicciolirsi con Andreotti, Fini, Berlusconi, Napolitano e Monti. C’è bisogno di altre spiegazioni?

ANTI-ANTI-ANTIFASCISTI
Dice Aldo Cazzullo che “Giorgia Meloni non è fascista, al massimo è antiantifascista”. Quindi ora ci tocca diventare antiantiantifascisti. A proposito vi ricordate a scuola la lezione sulla doppia negazione?

SIAMO ALL’AGIOGRAFIA
Sempre per quella vecchia storia della stampa italiana con la schiena dritta di fronte al potere su Twitter il giornalista di Valigia Blu Matteo Pascoletti ha raccolto solo una parte degli articoli su Giorgia Meloni in questi giorni: c’è Repubblica che scrive di un racconto fantasy di Giorgia Meloni da ragazzina titolando sul “lato tenero di Giorgia”, c’è il Corriere della Sera con un bel quadretto di famiglia con la sorella di Meloni che racconta le sue ansie, sempre il Corriere che racconta della “famiglia difficile”, L’Unione Sarda che ne rivendica le origini sarde, Repubblica che rassicura che Meloni non è fascista perché l’ha detto sua madre, l’Ansa che parla del suo “look della svolta”, Il Fatto Quotidiano che racconta l’incontro tra Meloni e il suo compagno (lei aveva in mano una banana), il personal trainer che ne racconta gli allenamenti in palestra, Will Media che ci spiega come la storia di Meloni parta “da un abbandono”, l’estetista che ci racconta come Meloni non lasci mance ma sia “una di loro”, la su barista di fiducia che teme che il bar ne risenta dopo la vittoria, La Repubblica che ci racconta che legge Pasolini, il compagno che fino all’altro ieri era di sinistra e ora si scopre che non è di sinistra. Del resto l’avevano predetto storici e intellettuali che il rifascismo si sarebbe presentato con garbo, quasi con simpatia.

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Salvini ha già cominciato a fare il Salvini

Si possono fare tutte le foto di questo mondo, si possono vergare amorevoli comunicati stampa congiunti ma alla fine non riusciranno mai ad ammansire la natura di Matteo Salvini, incapace di affrontare qualsiasi responsabilità di governo se non nel ruolo del guastatore interno vorace di recuperare voti. Così il nuovo governo italiano che dovrebbe essere tra qualche settimana – quello stesso governo che da anni racconta di essere stato bloccato da oscuri poteri forti – è incagliato prima ancora di partire sulle pretese infantili del capo della Lega.

Avrebbe voluto essere di nuovo ministro dell’Interno, come se fosse carta straccia il processo che gli pende sulla testa per avere lasciato lessare dei poveri disperati in mezzo al mare, e vorrebbe essere in una posizione politica quasi pari con Giorgia Meloni. Non conta che il suo partito sia uscito sonoramente sconfitto da una tornata elettorale in cui la destra ha fatto il pieno di voti. Non importa che tutti i maggiorenti del suo partito gli si scaglino addosso senza tregua da giorni. Matteo Salvini ha una sua idea della realtà senza nessun nesso con la realtà e vorrebbe plasmare ciò che gli accade intorno al suo sguardo sbagliato.

Il problema non è solo della presunta maggioranza di governo ma è un tema politico che tocca il Paese: se è vero che nel centrosinistra le relazioni sono a pezzi anche a destra la situazione non è migliore. Sullo sfondo il totonomi del governo Meloni sosta nomi che hanno dell’incredibile: Letizia Moratti messa alla Sanità dopo essere stata a capo della Caporetto lombarda per sistemare i rapporti in vista delle prossime elezioni regionali in Lombardia è un esempio lampante.

Non resta che stare a guardare il disastro che si è riusciti a far accadere.

Buon giovedì.

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Nel Pd si apre la successione a Letta

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Nessuno ovviamente lo dice apertamente – non sarebbe una gran figura – ma nel Pd, di fronte alla prospettiva di essere opposizione, il tema che scalda le discussioni è il congresso e l’elezione del prossimo segretario. I “tempi rapidi” di cui ha parlato Enrico Letta sono un avviso che non ha bisogno di troppe interpretazioni.

Nel Pd il tema che scalda le discussioni è il congresso e l’elezione del prossimo segretario

Matteo Orfini spiega che “il problema di fondo è che non è più chiaro a nessuno quale sia la missione del Pd” e invita ad abbandonare la discussione sulle alleanze: “Basta pensare e parlare solo di alleanze. Abbiamo sprecato tre anni così: la nostra unica proposta politica è stata allearci. A prescindere, e senza idee. Politica delle alleanze, ma senza politica. Un partito non può essere solo questo. Sennò diventa inevitabilmente solo un partito di potere, un partito dell’establishment”.

Nella sua riflessione il capo dei Giovani turchi trova anche lo spazio per stilettare qualche aspirante segretario (“i nomi che leggo sono di persone che sono state in primissima linea in questa campagna, con risultati non esattamente esaltanti”).

Chi è già uscito allo scoperto, con la sua esuberanza (non amata da tutti all’interno del partito) è il sindaco di Pesaro Matteo Ricci, presidente di Ali e coordinatore dei sindaci Dem, che sulla sua candidatura alla segreteria in un’intervista all’agenzia Dire dice che “ci sono tanti amministratori che me lo stanno chiedendo” (un classico) e lancia l’idea di “una fase costituente, aperta” per “provare a pensare un rinnovamento vero del nostro soggetto politico dal punto di vista dei contenuti, del linguaggio e dell’organizzazione”.

Il candidato naturale per il dopo Letta alla segreteria del Pd per molti continua a essere il governatore emiliano Bonaccini

Il candidato naturale per il dopo Letta per molti continua a essere Stefano Bonaccini, che per tutta la campagna elettorale è stato attento a non creare frizioni col segretario e che da giorni fissa alcuni punti chiave su quello che dovrebbe fare il Pd: “Una busta paga in più in tasca ai lavoratori e un un salario minimo per chi oggi non è coperto da un contratto collettivo. Una forte spinta sulla transizione ecologica ed energetica perché significa bollette più basse e un pianeta più pulito per i nostri figli, a fronte della destra che vaneggia di nucleare senza dire dove e quando. Infine, più sanità pubblica”.

Su di lui potrebbero confluire sia Base Riformista che Area Dem. Bonaccini non ha mai chiuso ai 5 Stelle rivendicando anzi esempi di buon governo insieme sui territori. Si parla di un possibile ticket alla segreteria con Simona Bonafé. Su Bonaccini è intervenuto a gamba tesa invece Goffredo Bettini che chiede “una persona di sostanza più che di immagine. Formata sul campo, piuttosto che inventata dai media. Sobria e misurata, piuttosto che egocentrica e solitaria. Colta, perché ha letto più libri che giornali. Che sia in grado di presentare venti cartelle scritte, spiegando cosa vuol fare, piuttosto che vivere di continuo l’ebbrezza dei Tweet”.

E mentre nella mischia sembra intenzionata a lanciarsi anche l’ex ministra Paola De Micheli, la sinistra del partito continua a sperare in Peppe Provenzano, secondo cui al Pd non serve un “nuovo segretario, ma un nuovo partito. È questo che non siamo riusciti a realizzare ed è questo di cui abbiamo davvero bisogno”.

Sullo sfondo Elly Schlein, ben vista da Letta, che alcune voci indicano come possibile capogruppo Pd a Montecitorio. Schlein però a oggi non è iscritta al partito e negli ultimi giorni ha preferito rimanere in silenzio. Come pure il sindaco di Firenze Dario Nardella ma il Pd non è più quello che lo cullava.

Leggi anche: Letta molla il Pd, ma con comodo. Prima di lasciare la segreteria vuole blindarsi nel partito. Con i fedelissimi alla guida dei Gruppi parlamentari

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Renzi e Calenda s’offrono a Giorgia. Continua il Bestiario di governo

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C’è tutto il baccano per Umberto Bossi senatore a vita, c’è Vittorio Sgarbi che si propone come ministro e il cosiddetto terzo polo che invece è il quarto che si attacca già alla gonna di Giorgia Meloni. Eccoci al nostro bestiario di governo.

SGARBI IL MODESTO
“Di certo non sto qui a dire che non farei il ministro. Ma sono talmente modesto che non voglio la cultura, mi basta il patrimonio”: lo ha detto all’Ansa Sgarbi, durante la presentazione a Roma della mostra Io, Canova. Genio Europeo. In effetti se ha una qualità Vittorio Sgarbi è sicuramente la modestia. Anzi: modestia e garbo.

FONTANA NON SA PIÙ DOVE LECCARE
“Bossi è la storia di questo Paese quindi deve essere sicuramente presente in uno dei due rami del Parlamento” secondo il presidente della Lombardia Attilio Fontana che considera una “pessima notizia, drammatica” il fatto che il fondatore della Lega Nord non sia stato rieletto. Uno si chiede: e come potrebbe entrare in Parlamento Bossi se non è stato eletto? Fontana ha la risposta: “Sarebbe un ottimo senatore a vita”. Interviene anche il presidente di Forza Italia Antonio Tajani: “Ha tutti i titoli!”. Mi pare un’ottima fotografia del momento politico.

LA CEI È GIÀ ALL’OPPOSIZIONE
Dichiara il cardinal Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei: “l’agenda dei problemi del nostro Paese è fitta: le povertà in aumento costante e preoccupante, l’inverno demografico, la protezione degli anziani, i divari tra i territori, la transizione ecologica e la crisi energetica, la difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, l’accoglienza, la tutela, la promozione e l’integrazione dei migranti, il superamento delle lungaggini burocratiche, le riforme dell’espressione democratica dello Stato e della legge elettorale”. Patria e famiglia non so, ma con Dio si sta già mettendo male per il nuovo governo.

CARLO E MATTEO
“Meloni premier avrà la nostra opposizione. Voteremo contro la fiducia, presenteremo i nostri emendamenti. E, se chiederà un tavolo per fare insieme le riforme costituzionali, noi ci saremo perché siamo sempre pronti a riscrivere insieme le regole”. Così il leader di Italia viva, Matteo Renzi, nella sua Enews di oggi. Ieri così anche Carlo Calenda: L’alleanza con Pd non la farò: l’avrei fatta prima. Un governo di larga coalizione, questo voglio fare. Serve un Governo di Alleanza comune, mi auguro anche con la Meloni”. Ben svegliati a tutti.

PRESIDENTE ONOMATOPEICO
Renato Schifani vince le elezioni regionali in Sicilia, ringrazia “Berlusconi, Meloni, Salvini, Romano e Totò Cuffaro“ e annuncia il Ponte sullo Stretto. Bentornati anni ‘90.

COERENZA SALVINI
Matteo Salvini, 11 ottobre 2019: “Abolizione dei senatori a vita ed elezione diretta del presidente della e Repubblica”. Salvini ieri: “proporrò che Bossi sia nominato senatore a vita”. Non riesce a passare un giorno, uno che sia uno, senza smentirsi. Campione. A proposito, questa cosa che Meloni vorrebbe Salvini all’agricoltura ha un retrogusto cattivissimo, non trovate?

L’ESPERTO DI LEGGE ELETTORALE
Illuminante intervento dell’europarlamentare leghista Angelo Ciocca: “Bossi rischia di rimanere fuori, mentre toccherà a un nutrito drappello di leghisti del sud italia, portare avanti la battaglia del carroccio e le giuste istanze del Nord. Ma la battaglia contro il Barbarossa usurpatore, l’abbiamo combattuta a Legnano o a Cefalù?”. Qui non serve nemmeno il commento, dai, è troppo anche per me.

SARÀ SOLO UN CASO
Vi ricordate Galeazzo Bignami, quello che si veste da SS e poi ci spiega che era “solo un gioco”? È stato rieletto in Fratelli d’Italia. Guarda te che coincidenza.

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Riconoscere la politica

La campagna elettorale è finita. Se cinicamente possiamo perdonare l’abuso di promesse, di parole e di carezze agli oscurantismi durante la sfida elettorale (e qui no, non lo perdoniamo) ora sarebbe il caso di riconoscere che ciò che accade è tutta politica in purezza. Ora i gesti, i voti e le parole sono azioni che modificano il Paese.

Ieri nel Consiglio regionale della Liguria Fratelli d’Italia (il partito più pesante nel Parlamento che viene) si è astenuto su un ordine del giorno che sottolineava il diritto «di effettuare questa scelta senza dover superare alcuna difficoltà nell’accesso alle strutture che effettuano l’interruzione volontaria di gravidanza». L’ordine del giorno impegnava anche a «sostenere nelle sedi più opportune la richiesta del Parlamento europeo di inserire il diritto all’aborto legale e sicuro nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea».

Abbiamo passato settimane ascoltando Giorgia Meloni giocare sul diritto all’aborto come se fosse una bazzecola delle femministe, un privilegio che le donne si erano conquistato per vezzo. Abbiamo finto di credere a Giorgia Meloni che la lotta all’aborto non sia connaturata all’identità del suo partito, perfino non ci siamo accorti che la consigliera comunale che a Roma aveva esposto lo striscione con scritto “Potere alle donne. Facciamole nascere”, sia stata eletta senatrice sconfiggendo Emma Bonino (con l’aiuto santo di Carlo Calenda).

Non siamo più nella melassa elettorale. I voti di Fratelli d’Italia – anche quelli sparsi nelle amministrazioni locali – sono i voti consapevoli del primo partito d’Italia. Qui non siamo più nel campo dell’allarme democratico usato per propaganda. Non riconoscere la politica ora sarebbe un dolo. Giorgia Meloni – oggi concentrata nel recitare la parte della rassicurante – aveva promesso che avrebbe aggiunto diritti senza toglierne. Non riusciamo a vedere dove siano le aggiunte, in Liguria.

Buon mercoledì.

 

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Salvini commissariato dai governatori. Avviso di sfratto da Zaia

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Dal tweet subito dopo i primi exit poll per ringraziare gli elettori del Centrodestra, al grande silenzio figlio della débâcle del Carroccio che poco a poco prendeva corpo. Che queste elezioni non siano andate nel modo in cui Matteo Salvini sperava è chiaro e non lo nega lo stesso segretario della Lega che ieri mattina ha interrotto il suo personalissimo – nonché stranissimo – silenzio post elettorale.

Nonostante la sonora débâcle, Matteo Salvini non intende cede la poltrona

“Ieri sera sono andato a letto incazzato ma stamattina mi sono svegliato carico” ha spiegato il Capitano, aggiungendo che “commentiamo un dato, il 9 per cento che non mi convince ma con il nove per cento saremo in un governo che mi soddisfa”.

Insomma se qualcuno si aspettava un passo indietro o almeno una qualche forma di mea culpa, è rimasto piuttosto deluso. Anzi a sentire il Capitano sembra quasi che il peggio sia alle spalle e che il futuro non potrà che essere roseo. Pure a chi gli chiedeva lumi sul disastro nei territori del Nord, ormai ex roccaforti che sono state espugnate dagli alleati-rivali di Fratelli d’Italia, Salvini sembra avere una teoria tutta sua con cui vuole dipingersi un po’ come un martire e un po’ come un patriota che ha sacrificato consensi per il bene del Paese dando vita ai governi gialloverde e successivamente a quello di Mario Draghi.

Parole che a ben vedere sembrano essere anche una stoccata indiretta a Giorgia Meloni che invece ha scelto una strada diametralmente opposta, nonché più remunerativa alle urne, mettendosi all’opposizione per l’intera legislatura. In altre parole le cause del tracollo del Carroccio che non è arrivato al 9 per cento, secondo il segretario, andrebbero ricercate soprattutto nella partecipazione al governo di larghe intese guidato dal premier Draghi.

“Lo rifarei? Sì. Ci è costato? Si” ma quel che conta è che “ora gli italiani avranno un governo scelto da loro e con la maggioranza di Centrodestra”. A chi gli chiede se intenda rassegnare le dimissioni, Matteo risponde secco: “Non ho mai avuto così tanta voglia di lavorare per disegnare la linea della Lega per i prossimi cinque anni. Io già domani (oggi per chi legge, ndr) ho convocato il Consiglio federale della lega, ascolteremo tutti. E farò un giro di ascolto provincia per provincia di tutta la Lega” perché, spiega, “il mio incarico è in mano ai militanti, non a due o tre dirigenti di partito. Chi è militante della Lega da trent’anni, è stato abituato da Umberto Bossi – ed è sano – a ragionare nelle sedi opportune, non al vento”.

Peccato che tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, anzi il Nord Italia. Già perché a chiedere la testa di Salvini non sono prezzolati commentatori ma gli stessi big del partito che non hanno digerito la linea politica del segretario. Del resto si è vociferato a lungo dei mal di pancia interni al Carroccio e che fino ad ora sono stati tenuti – con non poca difficoltà – a bada ma che sembrano destinati ad esplodere a breve.

A lasciarlo intendere in modo piuttosto chiaro è il governatore leghista del Veneto, Luca Zaia, che da tempo è in rotta di collisione con Salvini e ieri commentando i risultati ha spiegato che “il voto degli elettori va rispettato, perché, come diceva Rousseau nel suo contratto sociale, ‘il popolo ti delega a rappresentarlo, quando non lo rappresenti più ti toglie la delega’. È innegabile come il risultato ottenuto dalla Lega sia assolutamente deludente”.

Un’analisi schietta e in cui non manca una risposta a distanza a Salvini che ha provato a dare la colpa del flop della Lega alla sua partecipazione al governo Draghi. Secondo Zaia, infatti, “non ci possiamo omologare a questo risultato elettorale trovando semplici giustificazioni” perché, questa è la tesi del governatore, il problema è molto più radicato.

E che si stia andando verso una resa dei conti che in via Bellerio è stata rimandata per troppo tempo, appare evidente anche da altri leghisti come l’europarlamentare trevigiano, Gianantonio Da Re, che senza girarci intorno ha spiegato che “questa disfatta ha un nome e cognome, Matteo Salvini” che “dal Papeete in poi ha sbagliato tutto, ha nominato nelle segreterie delle persone che hanno solo ed esclusivamente salvaguardato il proprio sedere. Quindi si dimetta, passi la mano a Massimiliano Fedriga e fissi in anticipo i congressi per la ricostruzione del partito”.

L’ex Segretario Maroni ha già in mente il sostituto

Sui risultati della Lega alle elezioni è intervenuto anche l’ex segretario Roberto Maroni che in un contributo pubblicato sul Foglio ha dichiarato di avere già in mente il possibile sostituto di Salvini alla segreteria: “Il congresso straordinario della Lega ci vuole. Io saprei chi eleggere come nuovo segretario. Ma, per adesso, non faccio nomi. Stay tuned”.

Insomma, la rivoluzione nella Lega è pronta così come i suoi rappresentanti. “Le avvisaglie c’erano tutte: destrutturazione del partito sui territori, abbandono frettoloso dei temi sui quali la Lega è nata e cresciuta per andare in cerca di un facile consenso a latitudini in cui l’alta volatilità del voto è da sempre cosa nota”, ha scritto in un duro post su Facebook il deputato varesino Matteo Bianchi, vicinissimo a Giancarlo Giorgetti. “Non si può pensare di ricondurre le responsabilità del disastro a Draghi e un partito non può reggersi sulla fede, sui commissariamenti e sulla criminalizzazione del dissenso. Noi siamo nati per far crescere i nostri territori: per questo invito i militanti a chiedere la convocazione immediata dei congressi tramite i propri segretari/commissari di sezione”.

 

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Letta molla il Pd, ma con comodo

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Tanto tuonò che piovve. Nel Pd c’è stato giusto il tempo di superare il trauma del risultato ed è già partita la rincorsa alla testa del partito. Enrico Letta sceglie di presentarsi da solo in conferenza stampa e non è un caso.

Prima di lasciare la segreteria del Pd Letta vuole blindarsi nel partito. Con i fedelissimi alla guida dei Gruppi parlamentari

Comunque la si pensi il segretario del Pd ci ha messo la faccia in tutta la campagna elettorale e ora vuole assumersi da solo la responsabilità della sconfitta. L’analisi a caldo però lascia piuttosto a desiderare se è vero che si innesta sulla linea di tutta la campagna: il fuoco amico, la demonizzazione di Giorgia Meloni e perfino il fantasma di Giuseppe Conte come responsabile della sua confitta.

Letta parla di “un giorno triste” e preannuncia “tempi duri” promettendo “un’opposizione intransigente”. “Se Meloni è a Palazzo Chigi questo è figlio della prima scelta, quella di Conte di far cadere Draghi”, dice il segretario democratico. Ma siamo alle solite: nemmeno la sonora sconfitta riesce a spostare Letta dallo sventolare inutile (se non dannoso) di un governo che è uscito sconfitto dal risultato elettorale.

Poi ce n’è per Calenda (“Sono rimasto amareggiato dai risultati del collegio senatoriale di Emma Bonino per il fuoco amico di Calenda che ha aiutato l’elezione della candidata di destra”) fino al vero annuncio, l’unico che interessa ai dirigenti: il prossimo congresso anticipato. Chi si aspettava le dimissioni immediate del segretario però è rimasto deluso. “In spirito di servizio assicurerò la guida del partito fino al congresso”.

Tradotto significa che vuole essere lui ad assegnare i ruoli parlamentari del governo che viene. Base riformista, la corrente guidata da Lorenzo Guerini e Luca Lotti, prende la notizia come un ulteriore schiaffo: dopo essere stata indebolita dalle scelte del segretario nella composizione delle liste ora rischia di rimanere fuori anche dai ruoli che contano in Parlamento.

L’ex ministro Guerini, sempre silenziosissimo tanto da apparire omeopatico, si lascia sfuggire lo struggimento per l’alleanza con Calenda andata in fumo e prepara i suoi uomini nel partito (molti gli ex renziani, chissà se davvero ex) per affilare le armi in vista del prossimo congresso che non può permettersi di sbagliare.

Per indovinare il candidato non ci vuole troppa immaginazione: il presidente dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha già soffiato sulla sua candidatura e ai libdem del partito non dispiace per niente. Chi conosce Bonaccini però assicura che difficilmente accetterebbe di farsi tirare i fili da un’unica corrente rischiando di apparire un nome divisivo. Non è un caso che proprio Bonaccini nei giorni scorsi abbia ribadito di come il dialogo con il Movimento 5 Stelle sia “un filo di riprendere” lo scorso 17 settembre.

Nell’ala sinistra del partito, guidata dall’ex ministro Orlando, per ora non c’è ancora un nome da buttare nella mischia. Il sindaco di Bari Antonio Decaro (con molti sindaci del partito) chiede di “smantellare il modello fondante del Pd”. Letta ha parlato di “un Pd nuovo” e in molti hanno pensato a Elly Schlein, che al partito per ora non è nemmeno iscritta ma che politicamente arriva proprio dal Pd, nella corrente che fu di Pippo Civati.

Schlein rischia però di essere un “papa straniero”, troppo pericoloso per gli equilibri della nomenclatura interna (e forse a questo Letta si riferiva). Il pericolo è che ancora una volta la resa dei conti però appaia agli elettori come l’ennesimo assestamento di cabotaggi personali senza nessun reale cambiamento. “Per il Pd ci vuole una scossa – dice un parlamentare rieletto al nord – magari anche dirci che ormai il marchio non funziona e conviene sciogliersi sul serio”. Anche questa, se ci pensate, l’abbiamo già sentita.

Leggi anche: Congresso del Pd, chi sarà il nuovo segretario dem che rimpiazzerà Letta dopo la sconfitta alle urne? Tra i nomi papabili Bonaccini e Schlein

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Ministeri, per Matteo uno vale uno. Parte il Bestiario di governo

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È vero, non c’è più spazio per il bestiario elettorale essendo arrivate le elezioni. In compenso sono già iniziate le bestialità di un governo che deve mettersi in piedi in fretta per arrivare in tempo alla Legge di Bilancio e il materiale, ahinoi, abbonda. Eccoci al primo appuntamento del nostro bestiario di governo.

BUSSANO, NESSUNO APRE
Dopo la batosta presa alle elezioni e dopo essere riuscito nella mirabile impresa di twittare ancora una volta a pochi minuti dalla chiusura dei seggi portandosi sfiga da solo Matteo Salvini ora fa finta di niente e fischiettando vorrebbe sedersi al tavolo delle trattative del prossimo governo come se non fosse un cucciolo bagnato fuori sullo zerbino. “Con Giorgia ci sentiamo oggi per ragionare presto e bene del nuovo governo”, dice Salvini.

“C’è una squadra di governo e vedremo di comporla al meglio. Avrò l’onore di essere protagonista nei ragionamenti che si faranno”, ha aggiunto Salvini, ricordando che “l’ultima squadra di governo mi è stata comunicata al telefono la sera prima” (tanto per dire che contava come il due di picche già quando di voti ne aveva parecchi). Il segretario della Lega ha poi detto di “contare che il centrodestra coinvolga tutti, anche ‘Noi moderati’. Tutti siamo coinvolti. C’è bisogno di tutti. Anche nella composizione della squadra di governo”. Sono passate poche ore e fa già tenerezza.

PRONTI VIA PRIMA BUGIA
“Tu comincia a fare quello che è necessario, poi quello che è possibile. Alla fine, ti scoprirai a fare l’impossibile”… Bella la frase citata da Giorgia Meloni nel discorso della vittoria. Ma San Francesco non l’ha mai detta. Parola degli storici francescani”. A rilevarlo in un tweet è Lucio Brunelli, storico vaticanista.

MARTA FASCINA ELETTA IN DAD
La compagna di Berlusconi, Marta Fascina, è riuscita a farsi eleggere nel collegio di Marsala senza nemmeno passarci per sbaglio in tutta la campagna elettorale. “Ci sono andata da bambina”, racconta. Ah, ok, allora siamo a posto. Ora non vediamo l’ora di vederla all’opera. “Mi occupo di Difesa e vi dico che il conflitto si può fermare” aveva detto. Siamo in una botte di ferro.

PILLON (FORSE) ESCLUSO
“Il mio seggio non è scattato, ma io non mi arrendo”, ha detto il candidato della Lega Simone Pillon (nella foto) che ha perso nel plurinominale in Umbria contro Valeria Alessandrini. Pillon è stato spesso criticato per le sue idee anti aborto e a difesa della cosiddetta famiglia tradizionale. Ma c’è il terribile sospetto che le sue idee siano maggioranza in Parlamento, anche senza di lui.

HEIL HITLER
L’avevamo scritto nel bestiario elettorale ed è successo: Calogero Pisano, ex segretario provinciale di Fratelli d’Italia ad Agrigento, nonostante fosse sospeso (prima per finta poi davvero) per avere inneggiato a Hitler è stato eletto nel collegio uninominale in cui era candidato. Ora facciamo un’altra scommessa facile: vedrete che si iscriverà nel gruppo parlamentare di Giorgia Meloni e tutto sarà dimenticato. Tranne la grandezza di Hitler, ovviamente.

VIVA GIORGIA
Gente felice per la vittoria di Meloni: l’ungherese Orbán (“I popoli arrabbiati cambiano i governi pro-sanzioni”), ovviamente la Russia (“Siamo pronti a dare il benvenuto a qualsiasi forza politica in grado di mostrarsi maggiormente costruttiva nei rapporti con la Russia”), il Brasile di Bolsonaro (“Come il Brasile, ora l’Italia è Dio, patria e famiglia”) e Le Pen. Manca solo Satana.

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Conte, missione compiuta. L’Agenda sociale M5S ha cancellato quella di Draghi

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Giuseppe Conte apre la conferenza stampa con gli auguri a Giorgia Meloni “per il compito che le spetta. Noi saremo pronti a difendere i nostri valori e principi costituzionali, consapevoli della rimonta straordinaria della nostra forza politica con questa investitura popolare”, dice il presidente del Movimento 5 Stelle.

Il leader M5S Giuseppe Conte non fa sconti al capo dei dem: “Non cerchi capri espiatori per il suo fallimento”

Ma Conte risponde anche deciso alle accuse del segretario del Partito democratico Enrico Letta (che durante la giornata aveva accusato i 5S di essere la causa della vittoria del centrodestra) invitandolo a “non cercare capri espiatori a cui addossare le sue responsabilità”.

Conte si presenta in conferenza stampa con la consapevolezza di avere compiuto un piccolo capolavoro resuscitando un M5S che molti davano per finito: “Il voto ha testimoniato una grande investitura dei cittadini – dice Conte – nei confronti del Movimento, nonostante dopo la caduta del governo Draghi tutte le forze politiche ci abbiano attaccato e tutti ci dessero fuori gioco. In questo contesto un risultato oltre il 15% è un grande successo che ci dà grande coraggio e determinazione per affrontare questa legislatura senza fare sconti a nessuno”.

Promette un’opposizione “dura, durissima, senza sconti” contro chi vorrebbe cancellare il Reddito di cittadinanza (Giorgia Meloni ieri l’ha messo come priorità della sua azione di governo) rimandando però l’inevitabile dialogo con il Partito democratico: “Con l’agenda Draghi Letta ha venduto un progetto politico che non c’era. Come avevamo detto in campagna elettorale non ci sarà alcun dialogo. Non è una questione personale o di gruppo dirigente, ma di un’agenda: bisogna capire che Pd verrà fuori dal confronto interno che ci sarà. All’esito di quello vedremo se ci saranno le condizioni per riallacciare il dialogo”, spiega ai giornalisti.

Per questo ritiene opportuno spiegare per l’ennesima volta che non si sente responsabile della caduta del governo Draghi rivendicando anzi la natura “progressista” delle sue 9 richieste presentate a Mario Draghi.

“Noi avevamo solo una stella polare nella scorsa legislatura, mantenere il programma elettorale del 2018 e ne abbiamo realizzato l’80% senza fare compromessi al ribasso – spiega Conte – e abbiamo lasciato il governo Draghi perché combattiamo per le nostre battaglie”. L’ex presidente del Consiglio confessa anche di temere con un governo guidato da Giorgia Meloni “una corsa al riarmo”.

Come in campagna elettorale Giuseppe Conte non nasconde di voler tenere il Movimento 5 Stelle nell’arco progressista, svestendosi ancora di più dell’apolitica che fu (“né di destra né di sinistra”) e provando a cambiare pelle ancora una volta. Questo giro in Parlamento avrà dalla sua una truppa più fedele e già testata ma il Movimento 5 Stelle dovrà imparare di nuovo a muoversi da forza dell’opposizione, evitando (come dicono anche alcuni parlamentari) di cadere nel populismo dei tempi del “vaffanculo”.

Passata la luna di miele del recente risultato favorevole il presidente del Movimento 5 Stelle dovrà però fare i conti con la distribuzione delle cariche parlamentari e con la costruzione di un’asse d’opposizione in cui ritagliarsi un ruolo da protagonista. Il progetto evidentemente è quello di ritrovarsi un Pd con una nuova dirigenza pronta a riaprire i discorsi chiusi dopo la caduta di Draghi. Conte ha dimostrato di essere performante in campagna elettorale ora deve smentire il giudizio di essere molto meno bravo a gestire un partito. Gli sciossionisti non ci sono più. Ora non ci sono più scuse.

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La solitudine di Matteo

Il centrodestra ha vinto ma Matteo Salvini ha perso. Ha perso già nella Lega che guida. Ora bisognerà vedere chi avrà il coraggio di dirglielo in faccia e, soprattutto farglielo capire. Le vie sono due: confidare nella presa di responsabilità – forse anche di coscienza – dei suoi collaboratori fidati e vicini, magari con la mediazione del solito Giorgetti, oppure andare allo scontro e accendere l’esagitazione.

Matteo Salvini non sarà presidente del Consiglio (non ci ha mai creduto nessuno, nonostante lo slogan elettorale) ma non sarà molto probabilmente nemmeno ministro agli Interni. Su di lui grava il processo Open arms e Giorgia Meloni non ha intenzione di spendere una forzatura con il Presidente Mattarella per il suo alleato e per quella casella. La leader di Fratelli d’Italia, anzi, sta pensando di presentarsi al Quirinale con una lista di nomi quasi “tecnici”, poco “politici” per ruoli di partito, anche per guadagnare credibilità nazionale. «Non deve sembrare un attacco alla diligenza, deve essere un governo credibile per il Paese, non per i partiti», dice un dirigente di Fratelli d’Italia.

Matteo Salvini, anche questo non l’ha capito, non avrà nemmeno lo spazio per cannoneggiare da oppositore interno come ha già fatto nel primo governo Conte e con Mario Draghi. L’idea che si sta provando a percorrere è quella di responsabilizzare Silvio Berlusconi per calmierare l’alleato leghista, magari spostando anche l’asse delle alleanze interne: non più Silvio-Matteo ma un filo diretto tra Giorgia e il presidente di Forza Italia.

Matteo Salvini, anche se fa finta di non sentirlo, ha intorno un partito che non vede l’ora di scendere dal suo carro, rovesciare la sua segreteria e correre per l’incoronazione di un nuovo leader. Quando ieri ha detto che prima di pensare a un congresso nazionale bisogna «completare i quadri provinciali» è sembrato un vecchio democristiano che vorrebbe ingolfare la sua caduta con un po’ di burocrazia.

La destra è molto più sfilacciata di quello che dicono i numeri delle elezioni e la distribuzione del potere, si sa, può essere colla o tritolo.

Buon martedì.

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