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Commissione Ue, troppi uomini in squadra: von der Leyen e il rebus delle quote rosa

A Bruxelles un intrigo politico minaccia la credibilità dell‘Unione europea. Ursula von der Leyen, Presidente della Commissione europea, affronta una sfida imprevista: comporre una Commissione che rispecchi l’equilibrio di genere, principio tanto sbandierato quanto apparentemente irraggiungibile.

Dopo aver guidato l’Ue attraverso pandemia e crisi ucraina, von der Leyen si trova ora impantanata in una palude di resistenze che minacciano di vanificare gli sforzi per la parità di genere. Il quadro è preoccupante: solo nove donne nominate dai paesi membri, escludendo la Presidente stessa. Un numero che rappresenterebbe un passo indietro, un colpo all’immagine di un’Unione che si vanta di promuovere l’uguaglianza.

La situazione assume contorni grotteschi considerando l’esistenza di una “commissaria per l’uguaglianza”. Come può un’istituzione che predica l’uguaglianza fallire così clamorosamente nel metterla in pratica È una domanda che genera imbarazzo e frustrazione nei corridoi di Bruxelles.

Il paradosso dell’uguaglianza: quando la teoria si scontra con la pratica

Le ragioni addotte dai paesi membri per giustificare la penuria di candidature femminili sono varie e, in alcuni casi, francamente deboli. Si va dalle dinamiche di coalizione interne ai singoli paesi, che limiterebbero la libertà di scelta dei leader, a considerazioni di politica domestica che vedrebbero nella nomina a commissario europeo un modo per “liberarsi” di figure scomode o, al contrario, per premiare fedeli alleati. Motivazioni che, se possono avere una logica nella miope prospettiva nazionale, appaiono francamente inadeguate di fronte alla sfida di costruire un’Europa più equa e rappresentativa.

Von der Leyen non si arrende. Sta cercando di persuadere, pressare e quasi costringere i paesi recalcitranti a riconsiderare le loro scelte. Belgio e Romania hanno ceduto, altri come Slovenia e Malta sono sotto pressione. È una partita a scacchi politica dove ogni mossa può determinare il successo o il fallimento di un principio fondamentale.

Il rischio è che questa battaglia si trasformi in un boomerang per von der Leyen. La sua richiesta di ricevere due nomi (maschio e femmina) per ogni posizione è stata largamente ignorata, in quello che appare come un atto di sfida alla sua autorità. Una sfida che potrebbe minare la sua leadership già all’inizio del secondo mandato.

La partita a scacchi di von der Leyen: strategie e rischi di una battaglia cruciale

C’è chi sussurra che von der Leyen stia pagando il prezzo di un approccio troppo assertivo, percepito come un’ingerenza nelle prerogative nazionali. Altri puntano il dito contro l’apatia dell’opinione pubblica, come se la parità di genere fosse un lusso da tempi di bonaccia.

La verità sta nel mezzo. La battaglia per la parità nelle istituzioni europee riflette una lotta più ampia nelle società dei paesi membri. Una lotta contro pregiudizi radicati, strutture di potere consolidate, una visione della leadership ancora troppo spesso declinata al maschile.

Un eventuale fallimento non sarebbe solo una sconfitta personale per von der Leyen ma un segnale preoccupante per tutta l’Unione. Confermerebbe che, nonostante i proclami, l’Europa è ancora lontana dal realizzare l’uguaglianza che predica.

La speranza è ora riposta nel Parlamento europeo. L’assemblea di Strasburgo potrebbe bocciare alcune nomine maschili, forzando alternative femminili. Una soluzione in extremis, non priva di rischi, ma forse l’ultima chance per salvare il principio della parità nella Commissione.

La palla è nel campo dei leader nazionali: saranno all’altezza della sfida La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro della Commissione von der Leyen ma anche la credibilità dell’Unione Europea come baluardo di uguaglianza e progresso. Il tempo stringe e i cittadini europei osservano. 

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Boccia smonta pezzo per pezzo la versione di Sangiuliano, la poltrona del ministro traballa

Ci sono gli ingredienti per una commedia di fine estate: la collaboratrice del ministro a sua insaputa, i presunti viaggi pagati a nostra insaputa, le delicate riunioni sulla sicurezza del G7 indelicatamente aperte a estranei e ovviamente, come in ogni farsa che si rispetti, le smentite e le contraddizioni. 

La farsa del ministro e la smentita social: quando Instagram diventa tribunale

Lo stillicidio contro il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano per le sue trasferte con la sua consulente-non consulente Maria Rosaria Boccia si arricchisce di una nuova puntata e questa volta a farne le spese è la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Ieri la premier ha rassicurato gli italiani durante una comoda intervista a 4 di sera su Rete 4: “Io ho parlato con il ministro Sangiuliano, soprattutto per le questioni che interessano il profilo del governo, e mi dice che effettivamente lui aveva valutato la possibilità di dare a questa persona un incarico di collaborazione non retribuito, poi ha fatto una scelta diversa, ha deciso di non dare quell’incarico di collaborazione per chiarire alcune questioni. Mi garantisce – ha detto Meloni – che questa persona non ha avuto accesso a nessun documento riservato, particolarmente per quello che riguarda il G7, e soprattutto mi garantisce che neanche un euro degli italiani e dei soldi pubblici è stato speso per questa persona”. 

Sculacciato dalla premier il ministro Sangiuliano questa mattina ha vergato una lettera per La Stampa in cui ripete i concetti espressi: la nomina di Boccia non c’è mai stata per alcuni conflitti di interesse riscontrati, nessun euro pubblico è stato speso per le trasferte e la quasi consulente non avrebbe mai partecipato a nessuna riunione operativa. Solo che Boccia decide di non stare zitta e risponde dal suo account Instagram punto su punto. “Dopo otto giorni di silenzio una toppa peggio del buco”, scrive la consulente più veloce del West che aggiunge: “Siamo sicuri che la nomina non ci sia stata A me la voce che chiedeva di strappare la nomina sembrava femminile… la riascoltiamo insieme?”. 

E sui potenziali conflitti di interesse riscontrati dal capo di gabinetto dice: “Quando li avrebbe riscontrati? Durante le vacanze estive? Il capo di gabinetto era presente da remoto alla riunione del 15 agosto perché era in ferie. Sotto l’ombrellone ha verificato i miei potenziali conflitti di interesse? E soprattutto quali sono?”.

Ce n’è anche sui soldi pubblici che Meloni giura non siano mai stati spesi. “Mai speso un euro del Ministero? Io non ho mai pagato nulla, mi è sempre stato detto che il ministero rimborsava le spese dei consiglieri tanto che tutti i viaggi sono sempre stati organizzati dal Capo segreteria del ministro”. E alle affermazioni del ministro sul fatto che lei non abbia mai preso parte alle riunioni operative sul G7, replica: “Quindi non abbiamo mai fatto riunioni operative? Sopralluoghi? Non ci siamo mai scambiati informazioni?”.

“Le uniche vite turbate sono state la mia e quelle della mia famiglia”, scrive ancora Boccia nella storia su Instagram, aggiungendo: “La stampa mi ha definita: influencer, accompagnatrice, sartina, ‘una che si vuole accreditare’, millantatrice, la Anna Delvey della politica italiana, aspirante collaboratrice, consolatrice, badante, un amore culturale. Ad oggi non ho ricevuto né le scuse da parte dei giornalisti (nonostante abbia sempre smentito tempestivamente tutte le dichiarazioni che leggevo ed ascoltavo) né le scuse di chi mi ha coinvolto ingiustamente in questa spiacevole situazione”. 

Meloni, Sangiuliano e Boccia: il triangolo (non) amoroso che fa tremare il governo

La farsa – politicamente serissima – ora arriva al bivio: qualcuno tra il duo Meloni-Sangiuliano e Boccia sta dicendo il falso. La poltrona del ministro alla Cultura pericolosamente traballa. 

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Le carezze agli evasori stanno nei numeri

Il giornalista economico Roberto Seghetti sulla newsletter quotidiana Appunti di Stefano Feltri mette in fila alcune norme entrate in vigore dal primo giorno di settembre. 

Si va dall’abbassamento al 120% (prima era fino al 240%) delle sanzioni per i contribuenti che non presentano la dichiarazione fiscale; c’è poi la sanzione da 250 a 1.000 euro se non ci sono imposte da dichiarare raddoppiata nel caso in cui non si tengano i libri contabili; la sanzione in caso di dichiarazione infedele era dal 90 al 180% e ora è solo del 70%; l’omessa dichiarazione dell’Iva comportava una sanzione fino al 240% e ora si è dimezzata al 120%; l’infedele dichiarazione Iva invece dalla sanzione massima del 180% ora scende al 70%. 

Dalla relazione sul rendiconto generale dello Stato della Corte dei conti sappiamo che i controlli in Italia sono ben al di sotto del periodo prepandemico mentre “consistente è il numero dei contribuenti che non versano quote rilevanti delle imposte dovute e dichiarate: a fronte degli importi richiesti a seguito di comunicazioni di irregolarità, solo poco più del 20 per cento viene corrisposto”. 

“Lo stesso accade – scrive la Corte dei conti –  per i controlli documentali: delle somme dovute sono versate in media meno del 30 per cento. Un fenomeno che risulta ancora più grave quando accompagna misure come le rottamazioni delle cartelle esattoriali con consistenti vantaggi per i singoli contribuenti”. 

Le carezze agli evasori di questo governo stanno tutte nei numeri. Come ai bei tempi di Silvio Berlusconi, semplicemente con l’aggiunta di un furbesco riserbo. 

Buon martedì. 

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Flop formazione e lavoro, roba da Chi l’ha visto?

Eccoci qui, a un anno esatto dall’introduzione del tanto decantato “supporto formazione e lavoro”, l’ennesima panacea del governo Meloni per risolvere il problema della disoccupazione. Di questo strumento miracoloso sappiamo praticamente nulla. Mentre il Reddito di cittadinanza veniva costantemente messo sotto la lente d’ingrandimento, accusato di ogni male possibile, il suo sostituto naviga nell’oblio più totale. La trasparenza tanto sbandierata si è persa nei meandri della burocrazia, o forse qualcuno ha deciso che meno si sa, meglio è. I numeri parlano chiaro: 96.161 beneficiari in dieci mesi. Un risultato che fa impallidire persino il tanto criticato Reddito di cittadinanza. Il vero capolavoro è l’assenza totale di dati su quanti abbiano effettivamente trovato lavoro.

La ministra Calderone si vanta di 11 mila assunzioni, ma da gennaio è calato il silenzio. I numeri non sono così lusinghieri come si vorrebbe far credere. Ci raccontano che la povertà è in calo, ma l’Istat ci svela che il “supporto formazione e lavoro” non ha contribuito minimamente a questo risultato. Anzi, ha persino peggiorato la distribuzione dei redditi. Un capolavoro di inettitudine, non c’è che dire. Il colpo da maestro è la spesa: 107,6 milioni di euro in nove mesi, contro i 122,5 milioni previsti per il solo 2023. Un risparmio che fa gola al governo, certo, ma sulla pelle di chi sta cercando disperatamente di sbarcare il lunario. In questo teatro dell’assurdo, l’unica certezza è che il governo Meloni ha creato un mostro burocratico ancora più opaco e inefficace del suo predecessore. Un bluff colossale. Solo che a questo giro gli indignati tacciono.

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Asse oscurantista Orbán-Trump, contagio illiberale da est a ovest

Viktor Orbán, premier ungherese noto per le sue posizioni autoritarie e filo-russe, sta estendendo la sua influenza alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti del 2024. La sua alleanza con Donald Trump non è solo una questione di affinità ideologica, ma è supportata da un fitto network di relazioni internazionali. Orbán ha partecipato a eventi organizzati dall’Heritage Foundation e dall’American Conservative Union, dove ha promosso la sua visione illiberale.

Orbán e Trump: un’alleanza costruita su valori illiberali

Durante la Conservative Political Action Conference (CPAC) in Ungheria, Orbán ha espresso il suo sostegno per un secondo mandato di Trump, dichiarando che “la vittoria di Trump è la nostra speranza”. Questa stretta collaborazione si basa su una visione condivisa del nazionalismo e sulla resistenza ai valori progressisti. Entrambi i leader vedono nella loro alleanza una possibilità di riformare l’ordine internazionale a favore di una politica estera isolazionista e di un consolidamento del potere autoritario.

La preoccupazione per questa alleanza è crescente tra gli ex funzionari repubblicani negli Stati Uniti. Figli di una tradizione conservatrice più moderata, vedono nell’abbraccio tra Orbán e Trump un pericolo per la democrazia. Il sostegno di Trump a Orbán è infatti percepito come un segnale di allineamento con posizioni che potrebbero minare ulteriormente la coesione occidentale, in particolare riguardo al sostegno all’Ucraina.

L’influenza di Orbán non si limita però alla retorica. La sua partecipazione attiva alle conferenze della CPAC negli Stati Uniti e il suo coinvolgimento con l’International Republican Institute (IRI) dimostrano come Orbán stia cercando di plasmare il dibattito politico americano dall’interno. La sua strategia è chiara: indebolire l’impegno occidentale in Ucraina e promuovere una politica estera che favorisca gli interessi di Mosca e Pechino, il tutto sotto il manto di una “difesa della civiltà cristiana.”

Le conseguenze globali della strategia di Orbán

Questa alleanza potrebbe avere ripercussioni significative sulle elezioni americane del 2024. Un ritorno di Trump alla Casa Bianca, con Orbán come modello e consigliere, rischierebbe di consolidare un asse illiberale che potrebbe cambiare drasticamente il panorama politico globale.

In Europa, Orbán ha già dimostrato la sua abilità nel dividere e destabilizzare, utilizzando la migrazione e i valori tradizionali come armi politiche. Ora, con Trump al suo fianco, mira a fare lo stesso negli Stati Uniti, mettendo in discussione i fondamenti della democrazia liberale e promuovendo una nuova era di autoritarismo globale.

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Il lavoro invisibile che tiene in piedi l’Italia

C’è un esercito silenzioso che ogni giorno si prende cura delle nostre case, dei nostri figli, dei nostri anziani. Sono le badanti, le colf, le baby sitter che permettono a milioni di famiglie italiane di andare avanti. Eppure questo lavoro fondamentale resta ancora in gran parte invisibile, sommerso, privo di adeguate tutele.

L’ultimo rapporto dell’Osservatorio Domina sul lavoro domestico in Italia ci restituisce una fotografia impietosa di un settore che vale l’1% del PIL ma che continua a essere trattato come figlio di un dio minore. Parliamo di quasi 900mila lavoratori regolari, cui si aggiunge una quota stimata di oltre 960mila irregolari. Un esercito di 1,8 milioni di persone, per lo più donne e straniere, che mandano avanti le nostre case mentre noi andiamo in ufficio.

Ma a che prezzo? Il tasso di irregolarità sfiora il 52%, contro una media nazionale dell’11%. Più della metà di questi lavoratori, insomma, non ha un contratto regolare. Niente contributi, niente malattia, niente ferie. Una situazione di sfruttamento legalizzato.

Lavoro domestico, lo sfruttamento invisibile: numeri e paradossi di un settore nell’ombra

E non si tratta solo di sfruttamento economico. Il rapporto evidenzia come il 30% dei lavoratori domestici si trovi sotto la soglia di povertà. Persone che ogni giorno si prendono cura dei nostri cari ma che faticano ad arrivare a fine mese. Una contraddizione stridente in un Paese che si definisce civile.

Ma il paradosso più grande è che a pagare il prezzo più alto sono proprio le donne. Quelle stesse donne che, grazie al lavoro di colf e badanti, possono dedicarsi alla carriera. Il 70% del lavoro domestico è svolto da donne straniere, spesso costrette a lasciare i propri figli nei Paesi d’origine per prendersi cura dei nostri. Gli “orfani bianchi”, li chiamano. Bambini cresciuti senza madri perché queste sono impegnate ad accudire i nostri di figli. Una catena dello sfruttamento globale di cui siamo inconsapevoli beneficiari.

E non finisce qui. Il rapporto evidenzia come la maggior parte dei datori di lavoro domestico siano anziani con pensioni basse. Persone che hanno bisogno di assistenza ma che faticano a pagarla regolarmente. Un cortocircuito del welfare che scarica sulle famiglie costi che magari potrebbero essere a carico dello Stato.

Un welfare insostenibile: il cortocircuito di un sistema al collasso

Di fronte a questo scenario, le proposte del Governo, secondo l’Osservatorio Domina sul lavoro domestico, appaiono del tutto inadeguate. Si parla di voucher, di detrazioni fiscali, di sanatorie una tantum. Toppe che non risolvono il problema strutturale. Perché la verità è che abbiamo costruito un sistema di welfare che si regge sullo sfruttamento di una manodopera a basso costo e priva di diritti.

Servirebbe una rivoluzione culturale prima ancora che normativa. Riconoscere il valore sociale ed economico del lavoro di cura. Garantire diritti e tutele a chi si prende cura dei nostri cari. Costruire un sistema di welfare universalistico che non scarichi sulle famiglie il peso dell’assistenza.

Altrimenti continueremo a sfruttare il lavoro invisibile di milioni di donne, per lo più straniere. Continueremo a fingere che il problema non esista. Continueremo a delegare alle badanti rumene o ucraine la cura dei nostri anziani, alle colf filippine la pulizia delle nostre case finché il sistema regge.

I numeri parlano chiaro: il 35,4% dei lavoratori domestici proviene dall’Est Europa, il 17,2% dall’Asia. Il 48% sono badanti, il 52% colf. L’età media è di 49,6 anni. Solo il 44,4% lavora per più di 29 ore settimanali. Il 26,5% guadagna meno di 3000 euro l’anno.

E le previsioni demografiche non lasciano spazio a ottimismo: nel 2050 gli over 80 saranno il 14,1% della popolazione italiana, contro il 7,6% attuale. Chi si prenderà cura di loro? Con quali tutele? A quale costo per le famiglie e per lo Stato?

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Per cosa è stata votata Schlein

Inutile girarci intorno. Chi ha votato Elly Schlein per la segreteria del Partito democratico l’ha fatto con la speranza che il partito diventasse qualcosa di profondamente diverso da quello che era stato fino a quel momento. 

Nel dicembre del 2022 quando l’attuale segretaria lanciava a Roma la sua candidatura alla guida del partito disse testualmente: «A Renzi, che dice di averci portato in Parlamento, dico di non dimenticare che per quanto mi riguarda a portami in Parlamento furono 50mila preferenze. Renzi ha il merito di aver spinto me e tanti altri fuori dal Pd con una gestione arrogante. Ha ridotto il Pd in macerie e poi se n’è andato».

A gennaio del 2023 Schlein spiegò che «Renzi ha fatto scelte politiche sbagliate che hanno allontanato molti di noi dal Pd e ha fatto le sue scelte e ha lasciato macerie dopo aver fatto errori su lavoro, migrazione, sblocca Italia». A maggio di quest’anno Renzi spiegava che «il Pd di oggi sta con Cgil e Landini» e chiedeva ai riformisti: «ma che ci fate ancora là dentro?». Qualche giorno dopo, in occasione dell’appoggio del Pd al referendum contro il Jobs act, il senatore fiorentino rincarò la dose. «Finalmente si è fatta chiarezza!», disse stentoreo nel suo ennesimo penultimatum. 

Dice Schlein che «il dibattito sulle alleanze non è interessante» ma bisogna «ragionare sui temi». È la stessa frase usata dai dirigenti del vecchio Pd ogni volta che preparavano un compromesso al ribasso. Ma qui non si tratta di alleanze: si tratta di avere coscienza del perché Schlein sia diventata segretaria, preferita a Bonaccini, con i voti di chi non avrebbe mai votato quel Pd. 

Buon lunedì. 

Nella foto: manifestazione a Genova, 18 luglio 2024 (foto pagina Fb Elly Schlein)

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Siamo in quel periodo dell’anno

Ci avviciniamo a quel momento dell’anno in cui il governo in carica deve fare i conti delle sue promesse, metterli in fila e poi spiegare agli italiani che il risultato non è quello sperato. 

Ad oggi le uniche parole ufficiali dicono che la prossima manovra “come le precedenti, sarà seria ed equilibrata”. Mettere aggettivi ai numeri prima ancora che vengano comunicati è solitamente la strategia per raccontare profumato ciò che puzza. 

Siamo in quel periodo dell’anno in cui Matteo Salvini dovrà spiegare ancora una volta ai suoi elettori che la famigerata “quota 41” del pensioni è una fiaba per allocchi. Siamo in quel periodo dell’anno in cui il leader di Forza Italia Antonio Tajani deve tergiversare sull’aumento promesso delle pensioni minime buttandosi sulla malinconia, su quando c’era Silvio. 

Entriamo in quel periodo dell’anno in cui il sostegno economico alla povertà e all’infanzia diventa impossibile per colpa dell’Europa “brutta e cattiva” mentre continuerà ad essere possibilissimo spendere in armamenti come non avremmo mai potuto immaginare nelle peggiori previsioni. 

Siamo in quel periodo dell’anno in cui al governo tocca ammettere di aspettarsi coperture dal concordato biennale proposto a 2,7 milioni di autonomi e imprese sui redditi da dichiarare nel 2024 e 2025 con la garanzia di essere esclusi dai controlli: 2 miliardi di euro attesi dai furbi. 

Ma siamo anche sempre in quel governo in cui la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha già intimato ai suoi alleati in Parlamento di non presentare emendamenti che lei non ha autorizzato. Insomma, ha consigliato di non svolgere la propria funzione parlamentare. 

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Lo Stato delle cose nel governo

Lo Stato delle cose avvicinandosi l’invio di settembre si potrebbe riassumere in pochi punti. 

Il Consiglio dei ministri di oggi è figlio del rinvio prima della pausa estiva, quando la presidente del Consiglio confidava che le vacanza potessero sopire le fibrillazioni nella maggioranza. Missione fallita. 

Agosto ha svelato un Tajani figliol prodigo della Cei improvvisamente innamorato dei diritti civili, del voto cattolico e della presidenza Rai che deve portare in dono ai fratelli Berlusconi. Nelle stesse settimane Matteo Salvini sente la corda intorno al collo stretta dal generale Vannacci che apparecchia il suo movimento con la buona scusa di non essere benamato all’interno del partito. 

Lega e Forza italia hanno bisogno di uno slancio per rinfrancarsi elettoralmente e lo slancio, quando si è al governo, spesso fa rima con necessarie e riconoscibili frizioni nell’esecutivo. 

Fratelli d’Italia avrà gioco facile quindi nell’usare la carta del vittimismo, questa volta contro i suoi alleati, per resistere al logoramento. Nel partito di Meloni vi sono però anche nodi interni da scegliere: l’ubbidiente Fitto verrà spedito in Ue lasciando libera la delicata casella del Pnrr e la ministra Santanchè dovrà salutare la sua sedia da ministra per il processo che incombe. La voglia di rimpasto degli alleati aggiungerà inevitabili fibrillazioni. 

In tutto questo l’Europa “consiglia” da settimane a Meloni di mettere a cuccia il più possibile e il prima possibile i sovranisti che isolano l’Italia a Bruxelles. Poi ci sarebbe la politica, ad esempio, con la Legge di Bilancio da cominciare a immaginare…

Buon venerdì. 

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Al rientro dalle vacanze le stesse bugie

Al ritorno dalle vacanze Giorgia Meloni e il suo governo hanno sventolato una serie di risultati che, a un’analisi attenta, risultano essere esagerazioni o, in alcuni casi, distorsioni della realtà.

Meloni ha dichiarato che il governo avrebbe rivisto il 55% del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma in realtà solo il 5% dei progetti è stato modificato. Un’altra affermazione riguarda la flat tax per le partite Iva fino a 100 mila euro, una misura che la premier ha descritto come una novità introdotta dal suo governo. Tuttavia, si tratta di una norma già esistente dal 2019, estesa solo marginalmente da questa amministrazione.

Sul fronte del calo dei reati, Meloni ha parlato di un crollo del 7% rispetto al 2019, ma non ha menzionato che il numero di reati era già in diminuzione negli anni precedenti. Anche l’aumento dell’occupazione è stato attribuito al governo Meloni, ma i dati indicano che l’incremento è in linea con un trend iniziato ben prima del suo insediamento.

La premier ha rivendicato il merito per il rallentamento dell’inflazione ma l’andamento dell’inflazione dipende da fattori globali e, si sa, non può essere attribuito interamente all’azione di un singolo governo. La diminuzione della corruzione sventolata da Meloni fa riferimento a dati addirittura ventennali. Nel quantificare le esportazioni internazionali la presidente del Consiglio ha aggiunto 40 miliardi di euro che non esistono. 

Buon rientro. E buon giovedì. 

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