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Il nostro nome per la Commissione Ue?

Oggi è mercoledì quindi tra due giorni scade il termine entro cui i Paesi membri devono inviare i nomi proposti come membri della prossima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen. 

L’Italia – a differenza della gran parte dei Paesi europei – non ha ancora ufficializzato la sua decisione, che dovrebbe comunque ricadere sull’attuale ministro Raffaele Fitto. Soprattutto in Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non c’è stato nessun dibattito sulle competenze che il governo richiede al rappresentante italiano, su quali dovrebbero essere gli obiettivi della nostra “nomina”, su quali dovrebbero essere i suoi rapporti con l’Ue. Nulla.

Ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ironizzato sulla sua “scomparsa” nel periodo estivo nientemeno che dal palcoscenico del Tg1. Il principale telegiornale pubblico ha ospitato la scenetta imbarazzante della premier che ha deciso di tornare al lavoro attaccando ovviamente i giornalisti, a suo dire troppo curiosi sui suoi spostamenti.

Forse non ha capito, Meloni, che sono i nostri spostamenti sotto la sua responsabilità a preoccuparci più di tutto il resto: oltre alla nomina italiana alla Commissione europea ci interesserebbe sapere quando Meloni ha intenzione di sciogliere la vicenda Rai, impantanata da mesi. Forse ha tutta l’aria di una “sparizione” anche la riforma dell’Autonomia differenziata che non piace – lo scopriamo ora – nemmeno a un partito della maggioranza, Forza italia. 

Più delle sue colazioni estive ai giornalisti interesserebbe sapere se la linea sulla politica estera italiana sia quella di Meloni in pubblico, di Salvini in pubblico, di Tajani in pubblico o quella di Meloni in privato all’interno del partito. 

Ci faccia sapere. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: il ministro per gli Affari europei, il Sud e la coesione territoriale Raffaele Fitto e la presidente del Consiglio Giorgia Meloni (governo.it)

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Giorgia, stacce

Che il personale sia politico lo sanno bene dall’altra parte dell’oceano dove l’attuale presidente Usa Joe Biden ha dovuto ritirarsi dalla corsa non per divergenze sul suo operato governativo ma per sue personalissime debolezze. 

Che il personale sia politico lo sanno bene anche i membri della famiglia Meloni che in poco tempo hanno monopolizzato la scena usando la premier, il suo ex compagno Giambruno, la sorella Arianna e il cognato Lollobrigida in metafora di comando, come nelle peggiori dinastie imprenditoriali italiane. 

Hanno poco da lagnarsi quindi quelli del clan (politico) Meloni se il lato famigliare che loro stessi danno in pasto alla stampa poi diventa argomento di dibattito di stampa e di politica. Di mezzo ci sarebbe anche la valutazione di coerenza di una presidente del Consiglio che ha lucrato elettoralmente sulle famiglie degli altri, decidendo cosa fosse tradizionale e cosa no. 

Il 22 aprile del 2015 in occasione della votazione sul cosiddetto divorzio breve Giorgia Meloni scriveva: «Nessuno è obbligato a sposarsi ma se lo fa contrae un impegno serio sul quale la società investe. Non mi convince il fatto che questo vincolo si possa sciogliere in pochi mesi e senza norme in grado di salvaguardare i figli, prime vittime di un rapporto fallito. E dunque non mi convince una legge che rischia di minare la prima cellula della nostra società». 

Giorgia Meloni ha lasciato via social il suo compagno Giambruno per il suo atteggiamento predatorio verso le donne ma ci ripete che Giambruno è il miglior padre possibile per sua figlia, femmina. Il ministro Lollobrigida e la sua ex compagna Arianna Meloni hanno passato anni a decidere cosa fosse “famiglia tradizionale”. Entrambi i nuclei famigliari hanno avuto figli al di fuori dal matrimonio. 

Come direbbero a Roma: Giorgia, stacce.

Buon lunedì. 

Nella foto: frame della trasmissione L’aria che tira, La7, 3 febbraio 2018

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Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre la scienza parla di collasso climatico – Lettera43

Il collettivo di giovani viene combattuto a suon di leggi, invece di essere ascoltato. Il problema è che le ricerche parlano di morti per calore in Europa triplicati entro fine secolo, in caso di aumento delle temperature di 3 gradi. E non basterà il bilanciamento dei minori decessi per il freddo. Eppure questi ragazzi vengono invitati a «tornare a studiare».

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi

Qualche giorno fa ho ripostato su X un messaggio di Ultima generazione che riportava i risultati di uno studio di Nature medicine pubblicato quest’anno. Diceva: «47 mila i morti per caldo in Europa l’estate scorsa, l’Italia il Paese più colpito, oltre 12 mila. Il collasso climatico è vicino e il governo invece di proteggerci, lo alimenta. Noi di #UltimaGenerazione chiediamo un #FondoRiparazione per far fronte alle catastrofi climatiche».

Restrizioni sulle proteste per non disturbare i benpensanti

Confesso fin da subito di adorare gli attivisti di Ultima generazione, pulviscolo attivo capace di fare impazzire gli ingranaggi dei bolsi negazionisti climatici e dei burocrati scettici che lisciano il governo Meloni. Un giorno racconteremo che in Italia un collettivo formato soprattutto da giovani ha intravisto per primo il disastro all’orizzonte e ha ottenuto come risposta dai responsabili adulti una legge su misura: non una norma per riconoscere e combattere il riscaldamento globale, ma restrizioni sulle proteste per non disturbare la digestione dei benpensanti che odiano gli schiamazzi mentre va a fuoco il Pianeta su cui sono seduti.

Per l’ultra destra il caldo è solo sensazionalismo dei poteri forti

I commenti a quel post – leggo raramente i commenti su quella latrina che è diventata X, quel giorno ho compiuto l’errore – sono un misto di paternalismo canzonatorio e di negazionismo cocciuto. Per molti sostenitori dell’ultra destra al governo non c’è nessuna emergenza climatica, il caldo è sensazionalismo soffiato dai poteri forti e il problema è costituito da quelli di Ultima generazione che imbrattano le teche di musei che nessuno dei loro detrattori ha mai visitato dai tempi delle gite alle scuole elementari. Molti commenti invitano i ragazzi di Ultima generazione a «tornare a scuola» e a «studiare». Qualcuno – con molto coraggio – suggerisce che con il riscaldamento climatico «diminuiranno sensibilmente i morti di freddo» e quindi in fondo è una buona notizia.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Vetrine imbrattate di vernice arancione dagli attivisti di Ultima generazione in via del Corso, a Roma (Getty).

I morti per calore in Europa potrebbero triplicare entro il 2100

Studiare, appunto. Lancet Public Health ha pubblicato uno studio secondo cui i morti per calore in Europa potrebbero triplicare entro la fine del secolo, con un aumento sproporzionato dei numeri nei Paesi dell’Europa meridionale come l’Italia, la Grecia e la Spagna. «Si prevede che molte altre morti legate al calore si verificheranno man mano che il clima si riscalda e le popolazioni invecchiano, mentre le morti per freddo diminuiscono solo leggermente», ha spiegato David García-León del Centro comune di ricerca della Commissione europea, coautore dello studio.

Risultati che sfidano le tesi dei negazionisti del clima

I decessi per clima caldo potrebbero colpire circa 129 mila persone all’anno se le temperature salissero di 3 gradi al di sopra dei livelli preindustriali. Oggi le morti legate al calore in Europa si attestano poco sotto i 44 mila. Ma il bilancio annuale delle vittime del freddo e del caldo in Europa potrebbe aumentare da 407 mila persone oggi (di cui 363 mila legate al freddo,  soprattutto nell’Europa orientale e negli Stati baltici, e poco meno di 44 mila per il caldo, come detto) a 450 mila nel 2100 anche se i leader mondiali dovessero raggiungere il loro obiettivo di riscaldamento globale di massimo 1,5 gradi, si legge nello studio. La ricerca analizza la scia di una serie di ondate di calore che hanno devastato tutto il continente. I suoi risultati sfidano le argomentazioni dei negazionisti del clima secondo cui il riscaldamento globale è un bene per la società perché meno persone moriranno di freddo.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Gli effetti del caldo asfissiante in Europa, in particolare qui in Polonia (Getty).

Un promemoria sul numero di vite che stiamo mettendo a rischio

Anche in Europa, il continente abitato più fresco, le vite perse a causa di un caldo più forte compenseranno quelle salvate dal freddo più lieve, spiegano i ricercatori. Intanto i Paesi di Asia, Africa, Oceania e Americhe stanno cuocendo a temperature ancora più mortali. «Questa ricerca è un forte promemoria del numero di vite che stiamo mettendo a rischio se non riusciamo ad agire abbastanza rapidamente contro il cambiamento climatico», ha detto Madeleine Thomson, responsabile degli impatti climatici e dell’adattamento presso l’ente di beneficenza per la ricerca sanitaria Wellcome.

Impatti indiretti: guasti alle colture, incendi boschivi e non solo

La prevista triplicazione delle morti per calore diretto in Europa «non era nemmeno il quadro completo», ha aggiunto, «poi ci sono gli impatti indiretti. Abbiamo già visto come gli eventi di calore estremo possano causare guasti alle colture, devastazioni da incendi boschivi, danneggiare le infrastrutture critiche e colpire l’economia, il che avrà tutti effetti a catena sulle nostre vite». I ricercatori hanno modellato i dati su 854 città per stimare i decessi per temperature calde e fredde in tutto il continente. Hanno previsto che il bilancio delle vittime a causa delle temperature aumenterebbe del 13,5 per cento se il Pianeta riscaldasse di 3 gradi, portando a 55 mila morti in più. La maggior parte di coloro che morirebbero avranno più di 85 anni.

Ultima generazione, gli attivisti derisi mentre i dati sul collasso climatico sono sotto i nostri occhi
Quelli di Ultima generazione fuori dalla sede del Pd (Getty).

Per la scienza dobbiamo ridurre drasticamente i gas serra

I ricercatori invitano i governi alla costituzione di un fondo per azioni politiche mirate, come per esempio investire di più nella sanità, preparare piani d’azione per l’emergenza caldo, isolare più e meglio gli edifici. Per quanto riguarda le cause la valutazione è sempre la stessa: bisogna ridurre drasticamente i gas serra. Pensandoci bene, sono le stesse conclusioni degli attivisti di Ultima generazione, quelli che «non studiano» e che irritano una parte della popolazione. Come Cassandra, quelli di Ultima generazioni non hanno bisogno di essere combattuti: basta deriderli. Si sa già che verranno ignorati.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/ultima-generazione-riscaldamento-globale-collasso-climatico-morti-caldo-europa/

Lo chiamano “controllo dei confini” ma è la concimazione dei dittatori

«Smettetela di dare soldi alla Tunisia. Smettetela di fare affari sui nostri corpi. Noi lottiamo per la giustizia. Per la libertà. Tutti devono vedere quello che accade, la guerra che fanno contro gente innocente e disarmata. Solo sofferenza. Solo sofferenza. Smettetela di dare soldi alla Tunisia. Qui non possiamo fare niente. Non possiamo affittare una casa. Non possiamo lavorare. Non possiamo chiedere asilo. Nessuno ci fa fare niente. Siamo spinti ai margini dove ci sta solo persecuzione. Persecuzione. Che i leader del West Africa aprano gli occhi. Fate qualcosa. La donna italiana (Meloni) sta pagando la nostra persecuzione. Deve finire. basta». 

Questo è uno dei messaggi arrivati il 19 agosto da alcuni cittadini gambiani in Tunisia alla rete LasciateCIEntrare. In Tunisia, nei pressi di Sfax, la guerra contro i migranti si trascina dal 2015 e ha avuto una significativa accelerazione con la legittimazione europea degli accordi firmati tra la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente tunisino Kaïs Saïed. 

«In molti casi dopo aver distrutto tutto, caricano le persone sugli autobus e le portano nel deserto. Coloro che si salvano dai rastrellamenti vanno in giro in cerca di cibo ed acqua, ma la popolazione ha paura e chiude loro le porte, soprattutto perché sono tante le persone della società civile che, dopo aver fornito aiuto, sono state incarcerate».

Dal 2011 a oggi il governo tunisino ha ricevuto dall’Ue più di 500 milioni di euro. Denaro utilizzato per fortificare la deriva sicuritaria di un governo che ha sciolto il consiglio della magistratura e che ha stravolto la Costituzione. Lo chiamano “controllo dei confini” ma è la concimazione dei dittatori. 

Buon venerdì. 

Nella foto: frame del video pubblicato da LasciateCIEntrare

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Incartati a destra

Il governo Meloni è in una situazione di stallo sulla questione dello ius scholae, rivelando le profonde divisioni all’interno della coalizione di centrodestra.

La proposta di Antonio Tajani di includere lo ius scholae nel programma di governo ha scatenato una reazione furiosa da parte della premier Meloni. La proposta, apparentemente in linea con le posizioni espresse dalla stessa Meloni nel 2022, ha messo in luce l’incoerenza della sua attuale posizione.

Meloni si trova ora in una situazione paradossale: opporsi a un’idea che ha precedentemente sostenuto. La sua giustificazione, basata sul fatto che lo ius scholae non sia nel programma di governo, appare debole e opportunistica.

Matteo Salvini, nel frattempo, rimane ancorato alla sua opposizione, temendo probabilmente la concorrenza elettorale del generale Vannacci. Ad aprire è invece il suo ministro dell’Interno Piantedosi, creando ulteriori tensioni all’interno del governo.

Forza Italia, cercando di posizionarsi “tra Meloni e Schlein”, rischia di alienarsi sia gli alleati di governo che l’opposizione. 

Il risultato è chre il governo appare più preoccupato di gestire i conflitti interni che di affrontare le sfide concrete del Paese.

Mentre la coalizione di centrodestra si dibatte in queste contraddizioni le opposizioni osservano, pronte a sfruttare queste divisioni. Il rischio per il governo è di apparire paralizzato, incapace di agire su una questione cruciale per il futuro dell’Italia.

La vicenda dello ius scholae però mette in luce le debolezze strutturali di questa maggioranza: l’incapacità di conciliare le diverse anime della coalizione, la tendenza a privilegiare il calcolo elettorale sulla coerenza politica e la difficoltà nel mantenere una linea comune su temi fondamentali.

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Salvataggi da ricchi e salvataggi da poveri

Per un giornalista de Il Foglio il naufragio dello yacht a Porticello e i naufragi dei migranti sarebbero «fattispecie totalmente diverse». La differenziazione ovviamente non stupisce: i primi sono poveri naufragi, i secondi sono semplicemente dei migranti. I primi vengono identificati con la tragedia subita i secondi invece con la provenienza.

Dice il collega che i primi sono naufraghi “veri”, quindi hanno ogni diritto a essere soccorsi immediatamente e condotti nel porto più vicino, ai sensi delle convenzioni internazionali. I secondi invece no, perché non sempre stanno per affondare, quindi non sarebbero naufraghi, e comunque le disposizioni normative sono diverse.

Il giornalista di Radio radicale Sergio Scandura ricorda che «qualsiasi imbarcazione stracarica, che lascia la costa di partenza, viene automaticamente classificata in Distress, viene considerata automaticamente in Pericolo anche quando non è “in avaria”. Lo dice il regolamento Europeo Frontex 656/2014, lo dicono le linee guida IMO (authority marittima ONU), quelle di EUnavForMed e via andare: tutte fonti peraltro contemplate nel decreto del Piano SAR nazionale per assorbimento da fonti superiori».

La giurista Vitalba Azzollini ricorda che le norme, cioè le convenzioni internazionali sono esattamente le stesse. Quelle norme – come ricorda Azzollini – dicono anche che la regola del porto più vicino, sempre prevista da regole internazionali, vale per tutti (altro che porto di Ravenna o Livorno o Genova).

Il nostro giornalista ospite di una nota rassegna stampa del servizio pubblico ha ripetuto quindi una bestialità. Non esistono naufragi da ricchi e naufragi da poveri. Esistono, purtroppo, salvataggi per i ricchi e salvataggi per i poveri. 

Buon mercoledì. 

Immagine dal sito dei Vigili del fuoco: le operazioni a Porticello (Pa)

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La favola della “generosità italiana” sulla cittadinanza

Meloni e Salvini ci raccontano una bella favola: l’Italia sarebbe il Paese più generoso d’Europa nel concedere la cittadinanza. Una narrazione che fa comodo alla destra per opporsi a qualsiasi riforma. Peccato che sia una bugia bella e buona.

Certo, i numeri assoluti sembrano dar loro ragione: nel 2022 abbiamo concesso 214mila cittadinanze, più di tutti in Europa. Ma fermarsi qui sarebbe come dire che siamo il Paese più ricco perché abbiamo più soldi in circolazione, ignorando quanti siamo.

Se rapportiamo le cittadinanze concesse alla popolazione, l’Italia precipita al quinto posto. E questo è solo l’inizio dello smascheramento.

La vera generosità di un Paese si misura dalle sue leggi, non dai numeri. E qui casca l’asino della propaganda meloniana. La nostra legge sulla cittadinanza è del 1992, un’era geologica fa. Siamo ancorati allo ius sanguinis, mentre il resto d’Europa si è evoluto.

In Francia un bambino nato da genitori stranieri può ottenere la cittadinanza a 13 anni. In Germania bastano 5 anni di residenza dei genitori. In Spagna addirittura un solo anno. Da noi? 18 anni di attesa, sempre che tu sia nato qui e non abbia mai messo piede fuori.

Il Migrant integration policy index ci piazza al 14° posto su 27 Paesi Ue per politiche di cittadinanza favorevoli all’integrazione. Tradotto: 13 Paesi europei sono più “generosi” di noi.

A questo punto all’allegra coppia non resta che una via d’uscita: dichiarare apertamente che una nuova legge sulla cittadinanza semplicemente non possono permettersela. Rimestare la xenofobia per prendere voti del resto comporta dei costi politici. 

Buon martedì. 

Nella foto: immagine dalla pagina fb di Italiani senza cittadinanza

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La famiglia Meloni quando serve non parlare di politica

Vale la pena riprendere i fili del fumo che le premiate sorelle Meloni hanno deciso di alzare in pieno agosto per coprire i buchi di una maggioranza che non riesce a mettersi d’accordo nemmeno all’ombra degli ulivi secolari.

Nel buen retiro della Valle d’Itria il clan (politico) delle Meloni ha avuto l’impellente bisogno di forgiare una prima pagina per accendere l’ennesimo dibattito sul niente. Nelle materie che contano del resto Meloni, Salvini e Tajani non sono mai stati così distanti come negli ultimi giorni, impelagati nei differenti desideri per la Rai, per i balneari e sulla guerra in Ucraina. 

L’articolo necessario l’ha servito in tavola il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti ripercorrendo teoremi di berlusconiana memoria: i “poteri forti” della magistratura in combutta con la “sinistra” (ah, vederla) vorrebbero colpire Arianna Meloni per affondare Giorgia. 

La collazione dei retroscena svela il sotto vuoto spinto. Al Corriere Sallusti dice di non avere parlato della sua prima pagina con la premier, su La Stampa si racconta che i vertici di Fratelli d’Italia conoscevano il contenuto del pezzo con largo anticipo. 

“Vogliono indagare Arianna”, strilla Il Giornale, e il teorema diventa l’assist perfetto per il gnegneismo del 19 agosto. La presidente del Consiglio non accetta che “si metta in mezzo la famiglia” ma usa la famiglia con molta disinvoltura quando deve evitare di mettere in mezzo la politica. Il resto è tutto piagnisteo. 

Anche oggi passerà parlando di niente. 

Buon lunedì. 

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La fabbrica dei reati: in sei anni 28 nuovi articoli del Codice penale, otto i nuovi crimini introdotti dal governo Meloni

C’era una volta un codice penale snello, comprensibile, che puniva i reati più gravi e lasciava il resto alla sfera civile o amministrativa. Oggi quel codice è un lontano ricordo, sommerso da una valanga di nuovi articoli, commi e sotto-commi che sembrano moltiplicarsi come funghi dopo la pioggia. Un labirinto normativo in cui è facile perdersi e dove comportamenti un tempo ai margini della legalità rischiano ora pene severe.

La fabbrica dei reati: un’inflazione normativa senza freni

Come riporta un’analisi di Pagella Politica, negli ultimi sei anni il nostro codice penale ha visto l’introduzione di ben 28 nuovi articoli, mentre altri 45 sono stati ampliati. Un’inflazione normativa che sembra non conoscere freni, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.

Il governo Meloni, in particolare, si è distinto per il suo attivismo in materia penale. Otto nuovi reati introdotti in poco più di un anno, tra cui spiccano l’organizzazione dei rave party (pudicamente ribattezzata “invasione di terreni o edifici con pericolo per la salute pubblica”) e la “pubblica intimidazione con uso di armi”, meglio nota come “stesa” nel gergo camorristico. Persino i genitori che non mandano i figli a scuola rischiano ora fino a due anni di carcere, un salto quantico rispetto alla precedente multa di 30 euro.

Ma non è solo questione di numeri. È il paradigma stesso della giustizia penale a sembrare in mutamento. Da strumento di ultima istanza, il diritto penale sembra diventare sempre più la panacea per ogni male sociale. Un approccio che il ministro Nordio, all’inizio del suo mandato, aveva promesso di contrastare, parlando di “depenalizzazione” e criticando la “panpenalizzazione”. Parole che, alla prova dei fatti, sembrano essere rimaste lettera morta.

Non che i governi precedenti si siano comportati diversamente. Il governo Draghi ha introdotto ben 14 nuovi reati contro il patrimonio culturale, mentre il “Codice rosso” del primo governo Conte ha portato quattro nuovi reati nel campo della violenza di genere. Una tendenza trasversale che sembra unire destra e sinistra in un abbraccio “law and order”.

Più reati, più giustizia Il paradosso della penalizzazione

C’è da chiedersi se questa proliferazione di fattispecie penali sia davvero la risposta ai problemi della società italiana. O se, piuttosto, non rischi di ingolfare ulteriormente una macchina della giustizia già oberata. Senza contare il rischio di creare un sistema normativo talmente intricato da risultare incomprensibile ai più, in aperta contraddizione con il principio di certezza del diritto.

A fronte di questa espansione, i reati abrogati si contano sulle dita di una mano: sei in tutto. Ma anche qui, la realtà è più complessa di quanto sembri. In molti casi, infatti, i comportamenti “depenalizzati” sono stati semplicemente spostati sotto altre norme, in un gioco di scatole cinesi che poco ha a che fare con una vera semplificazione.

Il caso emblematico è quello dell’abuso d’ufficio, recentemente abrogato. Una mossa salutata da alcuni come una necessaria sforbiciata burocratica, ma che lascia aperto il problema di come perseguire efficacemente i comportamenti scorretti dei pubblici ufficiali.

In questo scenario, emerge chiara la necessità di un ripensamento complessivo del nostro sistema penale. Un sistema che, nato nel 1930 e più volte rimaneggiato, mostra sempre più i segni del tempo e delle stratificazioni normative. Serve una riforma organica, che sappia bilanciare l’esigenza di tutela della società con quella di un diritto penale minimo ed efficace.

In conclusione, l’espansione del codice penale italiano sembra procedere inarrestabile, come un fiume in piena che travolge ogni argine. Ma è lecito chiedersi se questa corsa all’inasprimento penale sia la strada giusta per una società più sicura e giusta. O se, paradossalmente, non rischi di produrre l’effetto opposto, creando un sistema sempre più farraginoso e meno efficace.

In un Paese dove le carceri scoppiano e i processi si trascinano per anni, forse è il caso di fermarsi un attimo e chiedersi: abbiamo davvero bisogno di tutti questi reati? O non sarebbe meglio concentrarsi sull’applicazione efficace di quelli esistenti? Domande che, nel furore legislativo degli ultimi anni, sembrano essere passate in secondo piano. Eppure, dalle risposte a queste domande dipende il futuro della giustizia in Italia.

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Ponte sullo Stretto, il ring della propaganda: la pugile Carini testimonial della grande opera

C’è qualcosa di grottesco nel vedere Angela Carini, la pugile italiana protagonista di una delle pagine più discutibili delle recenti Olimpiadi di Parigi, diventare testimonial dell’azienda che si occuperà della costruzione del Ponte sullo Stretto. Un’opera faraonica, contestata e probabilmente irrealizzabile che trova il suo volto in un’atleta che ha abbandonato il ring dopo appena 46 secondi di combattimento. La metafora è servita su un piatto d’argento.

Webuild, l’azienda incaricata di realizzare il sogno berlusconiano per eccellenza, ha pensato bene di lanciare una campagna pubblicitaria intitolata “Costruire un sogno: storie di campionesse”. Peccato che tra queste “campionesse” ci sia proprio Carini, fresca reduce da una figuraccia olimpica che ha fatto il giro del mondo. La boxeur italiana, ricordiamolo, si è ritirata dopo pochi secondi dall’inizio del match contro l’algerina Imane Khelif, in un turbine di polemiche e accuse reciproche che hanno oscurato lo sport e esaltato il lato peggiore del nazionalismo da bar.

La campagna pubblicitaria di Webuild: un boomerang di ironia e sarcasmo

La scelta di Carini come testimonial, effettuata prima delle Olimpiadi ma resa pubblica solo dopo, si è rivelata un boomerang per Webuild. Sui social network è partita la prevedibile ondata di ironia, con commenti che paragonano la resistenza della pugile a quella del futuro ponte: “Speriamo che duri più di lei”, scrivono gli utenti. Altri si chiedono se anche il Ponte crollerà dopo 46 secondi, in un crescendo di sarcasmo che mette in ridicolo sia l’atleta che l’azienda.

Ma c’è un aspetto ancora più inquietante in questa vicenda. La scelta di Carini sembra premiare non tanto i meriti sportivi, quanto l’adesione a una certa retorica nazionalista. L’abbandono del ring contro Khelif, infatti, è stato salutato da una parte della politica e dell’opinione pubblica come un atto di orgoglio patriottico, in risposta alle presunte “scorrettezze” dell’avversaria algerina. Una narrazione tossica che ha trasformato una sconfitta sportiva in una sorta di crociata identitaria.

Retorica nazionalista e paradossi: la scelta di Carini tra propaganda e reazioni controverse

Webuild, consapevolmente o meno, si inserisce in questo filone propagandistico. La campagna pubblicitaria, con il suo messaggio di “audacia, perseveranza, resilienza, tenacia e passione”, suona come una giustificazione postuma del gesto di Carini. Come se abbandonare un incontro dopo pochi secondi fosse un atto di coraggio e non di debolezza.

Il paradosso è che mentre si esalta la “passione” di un’atleta che ha gettato la spugna, si pretende di costruire un’opera titanica come il Ponte sullo Stretto. Un’opera che richiederà ben altra tenacia e resistenza di quella mostrata sul ring parigino.

In tutto questo, c’è da chiedersi cosa ne pensi Imane Khelif, l’avversaria algerina trasformata suo malgrado in capro espiatorio di frustrazioni nazionali. Khelif, che ha poi vinto la medaglia d’oro, è stata oggetto di una campagna diffamatoria vergognosa, con accuse infondate sulla sua identità di genere. Una vicenda che ha portato persino all’apertura di un’indagine da parte della procura di Parigi per cyberbullismo.

La scelta di Webuild, dunque, appare quanto meno inopportuna. Premia un gesto antisportivo, alimenta una retorica nazionalista fuori luogo e rischia di associare un’opera già contestata a una delle pagine più buie dello sport italiano recente.

Il messaggio che passa è che l’importante non è vincere, ma abbandonare al momento giusto gridando al complotto. Una filosofia che mal si adatta alla costruzione di ponti, reali o metaforici che siano. Ma forse, in fondo, è proprio questo lo spirito con cui si vuole affrontare l’impresa del Ponte sullo Stretto: più propaganda che sostanza, più slogan che ingegneria.

In questo senso, Angela Carini è davvero la testimonial perfetta. Rappresenta alla perfezione l’Italia dei grandi annunci e delle piccole rinunce, dei sogni faraonici e delle meschinità quotidiane. Un Paese che sogna di unire le sponde dello Stretto, ma non riesce a tendere la mano all’avversario sul ring.

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