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“Il Pd deve dire se c’è spazio per idee più radicali delle loro”

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Giuseppe Civati (per tutti Pippo) ora la politica la fa anche attraverso i libri. Dopo essere uscito dal Pd ha fondato Possibile (di cui è oggi segretaria Beatrice Brignone) e la sua casa editrice, People, oltre ai romanzi pubblica saggi politici e una rivista (Ossigeno).

Civati, quindi tutti in sella sull’agenda Draghi?
“Io ho ancora l’agenda Monti, sono un ripetente. E quello era esattamente lo stesso schema: si fa un governo di emergenza e poi lo si trasforma in un’opzione politica di lungo periodo. Almeno in quel caso c’era Monti in campo, qui non c’è nemmeno Draghi. Mi pare un’operazione difficile e che prescinde dal fatto che la politica si basa sul consenso. Le cose di cui parlare vanno molto più in là di un mandato di governo. Tra l’altro non dobbiamo nemmeno costringerci ad avere un giudizio così immediato su quello che è successo. È stato tutto così emotivo, non si può giudicare una coperta dall’ultimo lembo”.

Ma poi se Draghi era un “governo tecnico”, come può essere riusato per un’agenda politica
“I governi tecnici non esistono. E infatti il problema del governo Draghi è stato il confronto con la sua maggioranza. È questa abitudine curiosa della politica italiana di voler sospendere la politica, che poi torna sotto vesti peggiori. Dopodiché va fatta salva un’idea che sicuramente aleggiava nella premiership di Draghi che è quella di un riferimento europeo senza distinguo (sappiamo che alcuni negano la Ue come Salvini e Meloni) di un riferimento a un’autorevolezza di cui la politica ha bisogno e anche a un certo rigore dal punto di vista dei conti poiché siamo messi malissimo. Se le prime pagine di un progetto sono quelle allora vanno bene a tutti i democratici ma il resto ce lo deve mettere la politica. È un momento di ritorno a un’elaborazione, a scelte di fondo. Ricordo che prima dell’agenda Draghi andava di moda l’agenda sociale, che è durata molto meno e forse sarebbe da aggiungere, no? Mi pare un tema su cui la sinistra si potrebbe esercitare in questa fase convulsa, ben oltre quello che diceva Draghi”.

Il campo largo non sembra più largo. E si parla già di “voto utile”. Cosa ne pensa
“La situazione è disperata. Abbiamo un sistema elettorale osceno che fa vincere quegli altri, confonde le acque. È una coalizione o un’alleanza elettorale? È chiaro che se c’è la volontà di costruire una coalizione granitica evidentemente non ci si riesce. Il Pd si è trovato senza coalizione, non solo per il rapporto con il Movimento 5 Stelle: sono in acque molto tormentate, rispetto alla serenità rivendicata da Letta. Al massimo può essere un’alleanza elettorale, non è l’Ulivo. Poi bisogna capire cosa vuole dire il Partito democratico. Apre davvero una discussione con gli altri o si sommano i voti? Bisogna immaginare altro. La destra ha già cominciato, Berlusconi ha sostituito i posti di lavoro con gli alberi. Il Pd ha grandi responsabilità. Ora deve dire quali sono le condizioni, non sono solo il voto utile, la somma, l’agenda Draghi: c’è posto per quelli che hanno idee più radicali e progressiste? Questa è la domanda da fare. Siamo costretti alla fretta ma conviene ragionare”.

Il M5S è sacrificabile?
“Non lo sarebbe stato se avesse voluto evitarlo, ora è tutto molto difficile. Quello che nessuno dice è che a far cadere Draghi nel Movimento 5 Stelle c’è anche un’insofferenza di alcuni di loro per l’alleanza con il Pd. Evidentemente Conte sa che se fai cadere un governo in cui c’è il tuo principale alleato poi ne paga le conseguenze. Anche perché Letta si era preso una responsabilità che gli era stata rimproverata. Secondo me non ci sono i modi, più dei tempi. Sarà difficile”.

Ma nel “campo largo” c’è chi ha idee opposte, come ad esempio Calenda sul nucleare…
“Se lo vivi come semplice alleanza è un campionato interno in cui si vede chi vincerà con le sue istanze. La destra l’altra volta ha avuto Salvini e Berlusconi che si erano menati per capire chi prendesse più voti”.

E sul reddito di cittadinanza
“A parte Renzi non lo vuole togliere nessuno. Adesso è uno strumento necessario. Io parlavo di reddito minimo garantito anni fa. Ovviamente va fatto nel modo migliore possibile. Sarebbe una follia toglierlo. Anzi, il problema vero è come fare più giustizia sociale, cosa aggiungergli”.

Qualcuno vorrebbe il salario minimo senza il minimo deciso dalla politica…
“L’unico salario minimo che può esistere è quello in Germania e Spagna, calcolato in modo mediano sui redditi. Ne parliamo noi in Possibile da tempo. È come per i cambiamenti climatici: bisogna prendere di petto la situazione oppure non la si prende. Capisco che bisogna convincere anche i più centristi ma è un momento di scelte radicali. Le mezze misure non servono a niente. Bisogna avere coraggio. Per noi cha abbiamo figli bisogna pensare cosa consegniamo a loro. Servirebbe uno sguardo lungo, più che una coalizione in larghezza”.

Salvini ha già cominciato con la questione sicurezza e gli immigrati, intanto…
“A me vengono in mente due sicurezze più presenti: sociale e ambientale. Se tutto il resto del mondo parlerà di queste cose sono molti più convincenti di lucrare sull’immigrazione. Siamo in un Paese spaventato per il futuro e impoverito. Queste sono le priorità. Poi penso alla legge sulla cittadinanza, anche questo va fatto”.

Ora è editore. Rientra in politica
“L’editore continuo a farlo perché non è stato un ripiego ma una scelta di vita. Dopodiché se ci sono le condizioni di cui ho detto, la piccola comunità che ho fondato (Possibile, nda) non può girarsi dall’altra parte. Non ho nessuna ambizione personale. Io ho continuato a fare politica, anche senza stare in Parlamento”.

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Letta chiude ai 5 Stelle per Di Maio e Calenda ma perde Bersani. Se torna Di Battista e arriva De Magistris, Conte può essere il nuovo Mélenchon

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Le manovre vere iniziano domani, dopo avere assorbito la botta per la caduta del governo che nessuno immaginava. A rendere ancora più difficile la costruzione di quello che Enrico Letta fino pochi giorni fa chiamava “campo largo” e che ora sembra un sentiero stretto e impervio, c’è l’estate di mezzo, le liste da fare in agosto e una campagna elettorale che, con tempi così compressi, richiede messaggi comprensibili e veloci.

Da Fratoianni a Calenda ma senza Conte

L’intervista con cui Dario Franceschini ha dichiarato finita qualsiasi alleanza con il Movimento 5 Stelle non è stata presa bene al Nazareno. Letta, fino a ieri sera, continuava a ripetere che la decisione spetta agli organi di partito dopo una discussione franca tra iscritti, amministratori locali e parlamentari.

La sensazione di tutti comunque è che non ci siano le basi per poter ricomporre con Giuseppe Conte, soprattutto in tempi così brevi: “Loro faranno il gioco degli abbandonati, come fanno da un po’ tempo”, dice un deputato democratico.

Ma il punto centrale è definire i limiti della coalizione, anche se il gioco della politica ovviamente vedrà Letta essere aperto a tutti senza porre veti a nessuno. Fratoianni e Bonelli hanno già preso accordi con Letta da qualche settimana e quindi i Verdi e Sinistra Italiana saranno della partita.

Ci sarà anche Carlo Calenda anche se oggi (spinto soprattutto da +Europa) prova a porre il veto a quelle che lui chiama “frattaglie di sinistra” (sempre a proposito di antipopulismo e serietà del dibattito, che Calenda professa ma non è capace di praticare): Letta e i suoi sono convinti che siano solo schermaglie elettorali che si affievoliranno con l’avvicinarsi delle elezioni.

Piuttosto preoccupa la differenza di vedute tra i programmi dei calendiani e il Pd, “su questo – dicono dal Nazareno – ci sarà da lavorare ma troveremo una sintesi”.

I nodi Di Maio (a bordo) e Renzi (a terra)

Per quanto riguarda l’apertura al centro è sicuro il posto promesso a Luigi Di Maio da un suo collega ministro del Pd. Restano da vedere le modalità ma Di Maio potrebbe essere per il Pd ciò che è stato Casini nelle scorse elezioni: una candidatura “esterna” senza prendersi il rischio di candidarsi con il suo movimento Insieme per il futuro.

Anche Di Maio, appena verrà ufficializzato, sarà un nodo da sciogliere con Calenda. Sembra sempre più difficile invece che Italia Viva possa rientrare nel progetto.

Negli uffici del Pd circolano sondaggi che indicano che l’ingresso di Matteo Renzi in coalizione farebbe perdere più voti di quanti ne porterebbe. Renzi tra l’altro sarebbe un ostacolo non da poco per un bel pezzo del Pd stesso, ovviamente per Fratoianni e Verdi e anche Calenda non lo vedrebbe di buon occhio.

Non è un caso che alcune voci lo indicano in trattativa con il centrodestra. Se si fa notare che una coalizione del genere significherebbe avere nelle liste comunque Brunetta e Gelmini qualcuno scrolla la testa: “Ciò che è accaduto con Draghi ha cambiato lo scenario”, spiegano.

I 5S (via Dibba) guardano a De Magistris

In coalizione dovrebbe esserci anche Articolo 1 anche se circola una voce (velenosa) che vedrebbe Pierluigi Bersani, Vasco Errani e altri uscire per fare “altro” insieme a Conte e il M5S. Tra i bersaniani per ora negano.

Di certo i 5S stanno guardando a sinistra dove Luigi De Magistris è indaffarato a mettere insieme una coalizione puntando su un nome eccellente della magistratura (a fine mandato nel suo ruolo) per sparigliare le carte.

Da quelle parti si aspetta anche che torni Alessandro Di Battista per capire se sarà della partita. Ci si immagina un movimento popolare alla Mélenchon che rifiuti nettamente l’agenda Draghi. Nei prossimi giorni sono previsti gli incontri che contano.

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“L’agenda Draghi” è fuffa

Ci si accorge che è iniziata la campagna elettorale perché con molta scioltezza si possono pronunciare mastodontiche sciocchezze riuscendo a restare seri e ambendo a essere riconosciuti come i più seri del gruppo. Dalle parti del centrosinistra qualche astuto stratega deve avere pensato che visto il tempo ridotto di campagna elettorale da qui al 25 settembre convenga impostare come leitmotiv di queste settimane il lutto per la caduta di Draghi e il suo logo come mantello di credibilità. Così già nella giornata di ieri abbiamo potuto ascoltare “l’agenda Draghi” come bussola dell’agire politico, questa è la promessa buttata come amo agli elettori ancora storditi dagli ultimi eventi.

Di “agenda Draghi” parla da sempre Carlo Calenda – che con il suo partito Azione ha già spiattellato una ventina di punti programmatici riassumibili in uno solo: smantellamento dello Stato sociale – e “agenda Draghi” ripete pappagallescamente Luigi Di Maio, abituato a pochi concetti da ripetere con furore nella speranza che prima o poi arrivino. Inutile dire che “l’agenda Draghi” sia la bussola anche di Gelmini e Brunetta – incoronati nuovi leader per la profondissima teoria “del nemico del mio nemico che quindi diventa mio amico” – e, sarà un caso, di tutti quelli che hanno avuto un ruolo di governo all’ultimo giro.

Ieri sera ospite a La7 il segretario del Partito democratico Enrico Letta ha ripetuto con forza il concetto: «Ci proporremo agli italiani per proseguire il lavoro politico del governo Draghi irresponsabilmente fatto cadere da forze populiste contro il volere degli italiani». La frase è interessante per diversi motivi. C’è dentro, ad esempio, il consapevole svilimento del Parlamento con la solita formula del “gli italiani sono con noi” – la stessa che giustamente abbiamo contestato a Salvini e Berlusconi per anni – che punta su una legittimazione che non passi dalle urne (questo Parlamento, nonostante sia orribile, è l’unica espressione degli italiani, secondo la Costituzione) e che risulta sempre pericolosa, soprattutto in mano agli altri. C’è dentro soprattutto “l’agenda Draghi” come se fosse un progetto politico.

Qui sorge il dubbio. Ma come? Ma non si era detto che il governo Draghi fosse un governo “tecnico” di “unità nazionale”? Come può essere faro politico un governo che – giustamente – non prendeva mai nessuna posizione sui diritti perché non era compito suo? Se Draghi era stato chiamato per mettere a terra i conti del Pnrr e uscire dalla pandemia – compiti importantissimi ma non politici – significa che questo è il timone per i prossimi 5 anni? L’aspirazione politica è quella di mettere in piedi un governo che sappia far di conto?

Ma il cortocircuito più evidente è che un pezzo del centrosinistra ripetendo allo stremo questa favola (che è fuffa) dell’agenda Draghi sta confessando che per i prossimi 5 anni ha come slancio politico l’amministrazione da banchiere centrale dello Stato. Sicuri che funzioni? Oppure l’agenda Draghi non è un modo ma è un luogo e allora diventa tutto più chiaro. Dire “agenda Draghi” è la scorciatoia per non essere troppo impudichi e parlare di “area Draghi” ovvero mettere insieme tutti i partiti che hanno sostenuto quel governo tranne – come ripetono Letta e Di Maio – quelli che l’hanno fatto cadere. Allora diventa facilissimo interpretare le contorte dichiarazioni: un governo con dentro il Pd, con Calenda, con Renzi, con Fratoianni e Bersani (ma davvero?), con Di Maio e immancabilmente con Brunetta, Gelmini e berlusconiani e leghisti pentiti e contriti.

Vedete, basta mettere in fila i nomi per immaginare il sapore che avrebbe. Sicuri di voler apparecchiare una roba del genere?

Buon venerdì.

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Psicodramma al Centro. Da Renzi a Calenda tante sigle e pochi voti

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I più spaventati ieri mattina, dopo la caduta del governo Draghi, erano i renziani, nei corridoi del Parlamento. Da fuori esibiscono la loro solita sicumera, con gli account social del partito che menano sberle al Pd, a Forza Italia, alla Lega e al M5S, ma la loro situazione per andare al voto è nera.

Matteo Renzi è riuscito a rendersi indesiderato perfino da Carlo Calenda (che pesca nella stessa area)

Matteo Renzi in questa legislatura è riuscito nell’ordine: ad abbandonare il Pd di cui era segretario dopo avere accusato gli altri di non dimettersi per farsi il proprio partitino facendosi il suo partitino; è riuscito a urlare al “capolavoro politico” per avere fatto cadere Salvini per poi ripetersi con un altro “capolavoro politico” facendo rientrare nel governo successivo Salvini; è riuscito a rendersi indesiderato da Carlo Calenda (che pesca nella stessa area) e infine a promettere che il Governo Draghi non sarebbe caduto e che gli altri avrebbero perso la faccia.

Ma il problema più grave di Renzi e del suo partito personale Italia Viva è sempre quello di non avere voti, essere pieno di ceto politico ma magrissimo negli elettori, come confermano i sondaggi e i risultati delle ultime elezioni amministrative. Chissà che incubo dover uscire da Twitter, dal Parlamento, a scoprire con mano il mondo là fuori.

Carlo Calenda lancia subito il suo programma elettorale

Calenda invece lancia subito il suo partito scrivendo agli azionisti un programma elettorale a poche ore dalla caduta del governo: 1) rigassificatori e termovalorizzatori; 2) profonda modifica Rdc (Reddito di cittadinanza) con agenzie private e perdita dopo un rifiuto; 3) basta bonus 110% e sussidiopoli; 4) valutazione dei magistrati; 5) tempo pieno in tutte le scuole; 6) no scostamenti di bilancio per finanziare tagli di tasse in deficit; 7) salario minimo, ma non stabilito nell’entità dalla politica; 8) chiusura false cooperative; 9) impresa 4.0; 10) formazione permanente ma non irrigidimento mercato lavoro; 11) accordo di libero scambio Usa.

E ancora: 12) centralizzazione della spesa Pnrr in caso di mancata risposta dei comuni e delle regioni; 13) spese per la difesa in linea con obblighi Nato; 14) transizione ecologica ma evitando furori ideologici antindustriali. 15) si alla concorrenza; 16) limitazione della possibilità di ricorso ai Tar e del potere interdittivo di Anac e authority varie. 17) apertura di un cantiere costituzionale per arrivare al monocameralismo e revisione del federalismo. 18) legge elettorale proporzionale con sbarramento alto; 19) cessione Alitalia e Ilva; 20) liberalizzazione servizi pubblici locali e gare per gestione sistema idrico basate su investimenti sulla rete.

Un filotto di proposte che mischiano un po’ di bile contro i nemici di cortile e un po’ di liberismo (agenzie private a gestire i disoccupati, questa è un capolavoro) che in sostanza dicono una cosa sola: Calenda sa perfettamente da chi vuole essere votato e anche in questo caso, come per Renzi anche se per motivi diversi, lo scopo è quello di diventare la filiale parlamentare della Confindustria più spinta, anche se con pochi voti.

Nella mischia moderata pure Luigi Di Maio

Poi al centro c’è Luigi Di Maio, dopo il suo capolavoro politico: scindersi e formare il suo partito per fare da stampella a un governo caduto subito dopo. Ma non preoccupatevi, dalle parti del centro basta essere utili e si diventa subito competenti, quasi statisti.

Gelmini e Brunetta del resto sono già stati incoronati come figlioli prodighi che sono tornati a casa dal padre. Ci sono insomma tutti gli ingredienti per essere di destra tirando la giacchetta al Pd per fare il centro-sinistra-destra che spiani la strada alla destra. Con un ultimo piccolo particolare: sono piccoli, sono in tre, senza voti e non vanno d’accordo tra loro. Questa, bisogna ammetterlo, è l’unica caratteristica veramente di sinistra.

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Giornaloni listati a lutto. Il necrologio del Migliore a rotative unificate

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“L’Italia tradita” titolava ieri Repubblica. Il direttore Maurizio Molinari ha vergato un editoriale dal titolo “L’Aula vittima del populismo” in cui ci fa sapere che la caduta del governo Draghi ci catapulta in una “tempesta perfetta”. Anche Massimo Franco non ha dubbi sul Corriere della Sera: “La nemesi di un populismo in declino sta portando alla caduta del governo di Mario Draghi”, scrive, avvisando che è colpa anche dell’altro “populismo quello di destra”. In prima pagina, sempre del Corriere, si scrive di un’Europa “incredula” che guarda con “sconcerto” quanto accade.

La grande stampa in ginocchio per Mario Draghi

Andiamo avanti. La Stampa apre in prima pagina con il titolo a caratteri cubitali “Vergogna” e poi cuce un sottotitolo furbissimo: “Conte e Salvini affossano il governo”. Si sono dimenticati Berlusconi, sarà sicuramente un errore di distrazione. Marcello Sorgi scrive un editoriale in cui ci comunica che “i partiti giocano” e “il Paese affonda” parlando di un’ultima “scorribanda di due partiti populisti”.

Anche lui dimentica Berlusconi. Sarà una curiosa coincidenza che accada per due volte, in prima pagina, sullo stesso giornale. Sempre su La Stampa, Lucia Annunziata non si trattiene e scrive un editoriale dal titolo “Quei vigliacchi del draghicidio” in cui si dice di coccodrilli che “festeggiano” sui “resti di una legislatura” e si duole perché “nemmeno essere Draghi è stato sufficiente”.

Tra le analisi del Corriere, sempre in prima pagina, si richiama un pezzo che si intitola “Matteo, Giuseppi e l’asse populista”. Salvini è Matteo, Conte è “Giuseppi”, tanto per far capire che anche solo dal titolo si può evidenziare preferenze tra i traditori. Poi c’è il box dell’economia con due titoli sobri: “La crisi peserà sulla scelte della Bce” e “i tassi e il debito pubblico ora il Paese è senza scudo”.

Ugo Magri invece ha un sussulto religioso e attacca il suo pezzo, sempre in prima pagina de La Stampa, con “il miracolo non c’è stato”, poi una virgola che non serve, una congiunzione “e andremo a votare”.

Il Sole 24 Ore invece si trattiene e titola “M5s e centrodestra non votano la fiducia. Oggi Draghi chiude la partita alla Camera”. Avrebbero potuto scrivere “M5S Lega e Forza Italia”. Il titolo ci sarebbe stato lo stesso. Ma è dai particolari che si giudica un giocatore. Chi riesce a citare tutti i partiti che hanno fatto cadere il Governo è Metro: “Lega, FI e M5S si sfilano”. Il titolo? “Follia politica”.

Il Quotidiano del Sud non ha mezzi termini “Chi affossa il Paese non verrà perdonato”, scrivono. E poi: “L’irresponsabilità politica collettiva di una classe politica populista screditata”. Ma non finisce qui: “Draghi con il suo linguaggio della verità ha spaccato i partiti”, “non l’Italia anche l’Europa avrebbe bisogno di Supermario”, e poi “un leader con la stoffa da statista per un periodo di crisi” e poi “Male Piazza Affari la Grecia dà più fiducia”.

Di “Italia senza paracadute” scrive Milano Finanza. “Follia al Senato” anche per L’Eco di Bergamo. Massimiliano Panarari sul Giornale di Brescia scrive “la Caporetto del buonsenso per una politica irresponsabile”. “Povera Italia” titola Roma. “Immaturi” è il titolo de La Sicilia. Il Giorno scrive “L’ora più buia”. La Gazzetta di Parma parla de “L’Italia fa autogol”, e sempre di autogol si scrive sulla Provincia. “Draghi cade, imprese sconcertate” titola il Corriere del Trentino. Devono avere telefonato a tutte le imprese della zona prima di andare in stampa.

Deve essere andata così anche in Veneto se è vero che il titolo è “Le imprese: Atto irresponsabile»”, con la frase messa tra virgolette, come se fosse una dichiarazione di tutte le imprese, riportata letteralmente. Stessa cosa per il Corriere di Verona. Il tema è sempre lo stesso. L’amore per l’uomo solo al comando.

L’ossessione per la speranza che arrivi un taumaturgo che renda la politica e il Parlamento solo un rumore di fondo sono anche nel giorno della sua cauta i peggiori nemici di Draghi. L’aria che si è condensata intorno a lui, da parte di media che hanno raggiunto livelli di servilismo inimmaginabili in questo Paese, è la spinta perché i cosiddetti “populismi” (in queste ore sono populisti tutti coloro che per motivi diversi non erano d’accordo con le politiche del governo Draghi) si infiammino ancora di più, si induriscano e trovino sfogo ovviamente nei peggiori interpreti che ci troveremo alle prossime elezioni.

Ciò che si ricorderà del governo Draghi, al di là di tutto, è il tentativo di vietare non solo la dissidenza (dissentire è già un atto che prevede una certa dose di coraggio) ma perfino criticare Draghi e il suo governo.

I necrologi del giorno dopo dimostrano che oltre al Parlamento anche la stampa non ha imparato la lezione

Così, di colpo, Luigi Di Maio è diventato uno statista perché unto dalla carezza di Draghi, Renato Brunetta avrebbe dovuto andarci bene perché tanto c’era Draghi e perfino la ministra Mariastella Gelmini (che dà il nome alla peggiore riforma della scuola in questo Paese) è ora una lunare della politica italiana. I necrologi del giorno dopo dimostrano che oltre al Parlamento anche la stampa non ha imparato la lezione: indicare un eroe è il modo migliore per distruggerlo. Pronti per il prossimo.

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Il popolo di Mario Draghi è soltanto immaginario

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Erano già pronti a dirci che era arrabbiato, che non andava preso alla lettera e che il momento era di intenso nervosismo e invece Mario Draghi l’ha anche ripetuto: “La mobilitazione di questi giorni da parte di cittadini, associazioni, territori a favore della prosecuzione del Governo è senza precedenti e impossibile da ignorare”, ha detto il Presidente del Consiglio durante il suo discorso in Senato.

Lo chiedono gli italiani. La più grande balla di Mario Draghi. Che ha finito per ritorcerglisi contro

L’ha ripetuto anche nella sua replica, difendendosi dall’accusa di avere chiesto “pieni poteri”, ancora una volta più preoccupato di puntualizzare questioni personali che la crisi generale. La “mobilitazione senza precedenti” è nei fatti un appello di qualche ordine professionale, di 2mila sindaci toscani e emiliani, il fedele supporto di Bonomi e Confindustria (e ci mancherebbe, non avrebbero mai potuto osare di sperare un Draghi al governo), una serie di corpi intermedi e pochi – pochissimi – cittadini che si dicono autoconvocati ma erano organizzati (male).

Nulla a che vedere con “gli italiani”. Ma il punto istituzionale l’ha colto Pierferdinando Casini: “Lei è qui – ha detto a Draghi – non solo perché glielo hanno chiesto gli italiani, ma perché il Parlamento non le ha mancato la fiducia. Attenzione a invocare gli italiani: vorrebbe dire andare al voto”. In effetti il capo del governo dei migliori (che ieri hanno dato il peggio di sé) sembra non capire – o non voler capire – che la nostra Costituzione “chiede” agli italiani attraverso il voto.

Sventolare altri modi di raccolta del consenso significa, di fatto, aprire la strada all’uso spregiudicato di quello stesso metodo (come spiega Tomaso Montanari in un’intervista su La Notizia) da parte di politici meno edulcorati di Mario Draghi. Il tilt accade quando Giorgia Meloni – una che insieme a Matteo Salvini parla di “buon senso” e di “lo chiedono gli italiani” proprio per scavalcare i risultati delle elezioni – fa notare che non c’è differenza tra Salvini accusato di volere “pieni poteri” e Draghi che sostanzialmente dice la stessa cosa. Se tocca dare ragione a Giorgia Meloni significa che il populismo sovranista nei contenuti non è differente dal populismo delle élite di cui Draghi è un impareggiabile interprete.

Pensare che esista “un popolo” immaginario non certificato da un risultato elettorale che possa mettere in disparte il Parlamento significa fiaccare in un colpo solo la credibilità istituzionale. A ben vedere però una differenza c’è: molti di quelli che hanno strepitato contro Salvini (o contro Berlusconi quando ci disse di essere “unto” dal Signore) ieri sono stati zitti. Non c’entra nulla l’ammirare o meno Draghi (è legittimo) e crederlo unica soluzione per l’Italia: qui si parla di consapevolezza della Costituzione.

Poi nelle parole di Mario Draghi, ancora una volta, viene svelato il bluff che era chiaro fin dall’inizio: Draghi ha recitato un discorso da politico, quasi da politicante. Il governo dei migliori finge di essere “tecnico” quando non ha il coraggio di prendere posizione sui diritti – lo ha rivendicato anche ieri Draghi – ma decide di lottare nel fango quando si occupa della sua autopreservazione. Disdegna la politica ma non per incontrare Letta come avvenuto martedì – una gaffe che Draghi ha dovuto recuperare incontrando il centrodestra martedì sera -, si astiene da giudizi squisitamente politici ma poi in Senato sa benissimo quali sono i suoi nemici da impallinare.

Draghi che dice “bisogna ridurre gli effetti negativi del reddito di cittadinanza sul mercato del lavoro” sta prendendo una posizione politica: proteggere gli imprenditori che non trovano più schiavi disposti ad accettare salari da fame. Cosa c’è di più politico del decidere che parte prendere in una guerra tra classi?

La conclusione è quella che ha twittato ieri Alessandro Robecchi: “Gli appelli per Draghi servivano a permettere a Draghi di dire che il Paese è con lui. La ConfCocomeri, le madamine, gli eroi della pandemia che van sempre bene finché non devi aumentargli lo stipendio. Farsi un popolo immaginario e dire che sta con te, cosa può andare storto?”.

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No, ora non arriverà il diluvio

La peggiore legislatura di sempre ci regala un’altra giornata di schianti e di schiantati, preparando il terreno – per fortuna – per rinnovare un Parlamento che in cinque anni raramente si è dimostrato all’altezza del proprio compito, fuori e dentro dall’Aula.

Ma non arriverà il diluvio, no. Questo Paese, nonostante molti ce l’abbiano messa tutta per convincerci, non si salva per una persona sola e non dipende in tutto e per tutto dal “salvatore della patria” eletto davanti al caminetto di questa o quella corporazione. Rendere Draghi il testimonial dell’autorevolezza italiana è stato il primo errore dei presunti “amici” di Draghi che hanno contribuito non poco al suo declino. Il trucco di fare passare per “tecnico” un uomo in un apicale ruolo politico ha contribuito ancora di più allo scollamento tra il presidente del Consiglio e il Parlamento. Questa distanza è un difetto, non una virtù. I vari Calenda e Renzi, solo per citarne alcuni, che nei giorni scorsi invitavano Draghi a presentarsi in Senato per prendere a sberle il Parlamento devono capirne poco di come funziona la politica: «o così o ciccia!», sbraitava Calenda. Quelli hanno scelto Ciccia. Del resto un presidente del Consiglio rimane in carica perché ha la fiducia del Parlamento, perché siamo una repubblica parlamentare e perché i partiti reggono il gioco.

Ma il disastro di ieri ha molti padri e molte madri. Da oggi partirà il gioco di scaricare il barile sul partito avversario, additandosi come l’un l’altro per provare a uscire più puliti. C’è la responsabilità di chi ha creduto che questo centrodestra fosse un centrodestra potabile solo perché gli serve per fare pressione sul centrosinistra. Non c’era bisogno del voto di ieri per conoscere la natura della Lega e di Forza Italia. Se stanno insieme ci sarà un perché, recitava quella famosa canzone, e abboccare agli Zaia o ai Giorgetti per ammantare di serietà la Lega è una stolta strategia che è arrivata al capolinea. A proposito, complimenti anche a quelli che hanno riabilitato Silvio Berlusconi.

Come fa notare Nicola Carella su twitter «stando ai sondaggi elettorali, comunque, a ottobre, esattamente 100 anni dopo la marcia su Roma gli eredi politici del partito fascista potrebbero essere il primo partito italiano (peraltro con una percentuale più alta di quella che prese l’anno prima lo stesso Mussolini)…». Si badi bene: qualche mese in più di governo Draghi non avrebbe cambiato le cose. Mentre la politica appariva “sospesa” con questo governo e mentre il centrosinistra si preoccupava di “dover proteggere Draghi” (cit. Enrico Letta) le istanze del Paese sono diventate terribilmente più urgenti. Sentire che “con la caduta di Draghi sfuma l’agenda sociale” significa non avere nessuna contezza della realtà qui fuori. Non è un caso che le prime reazioni siano scomposte e sfortunate: Letta dice che il Parlamento “ha votato contro gli italiani” (frase molto pericolosa), Calenda se la prende con i populisti e poi da consumato populista dice che vanno “cancellati”, e via così, in una catena di insulti che solleticano solo gli amichetti su Twitter.

No, non arriverà il diluvio. Com’è sempre accaduto in questa martoriata Repubblica si voterà ancora – le elezioni non sono mai una cattiva notizia – e ancora una volta, l’ennesima, i numeri delle elezioni mostreranno chiaramente che l’apnea di questa legislatura ci ha fatto scambiare per statisti degli inetti, ha nascosto bisogni reali del Paese e ha escluso una fetta di gente che, ahiloro, vota come tutti gli altri.

Adesso aspettiamoci il solito peggio: il voto utile, l’arrivo delle destre (con cui questi hanno governato e che hanno leccato), l’autorevolezza (con cui non si pagano le bollette) e tutta la solita retorica. Preparandosi ancora a dover scegliere tra una destra che ha intrattenuto relazioni con formazioni neofasciste e una destra liberista che vorrebbe fingere di essere centrosinistra.

Buon giovedì.

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“Un discorso peronista Draghi è l’emblema del populismo delle élite”

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Nel pieno svolgimento della crisi, mentre i partiti si affannano e faticano a controllare le loro truppe, per provare a fare un po’ di ordine in quello che accade abbiamo intervistato Tomaso Montanari, storico dell’arte, accademico e saggista italiano, rettore dell’Università per stranieri di Siena.

Montanari, partiamo dall’inizio: che pensa del discorso di Draghi in Senato?
“Ne penso tutto il male possibile. Non pensavo, sono addirittura sorpreso in negativo. È stato un discorso arrogante, senza cultura costituzionale, senza cultura istituzionale e senza nessun rispetto per il Parlamento. Si potrebbe definire un discorso peronista, con tratti di Sudamerica, un vero e proprio populismo presidenziale. In sostanza Draghi ci dice che il popolo lo vuole, lo acclama e il Parlamento non deve mettersi di traverso. Tutto questo non è altro che il populismo delle élite, populismo dei padroni, populismo dei signori. Un potere senza nessuna giustificazione dal basso senza nessuna aspirazione democratica. Abbiamo assistito al peggio dell’oligarchia. E mi pare che in Draghi negli ultimi tempi ci sia un’involuzione in tutto, nella mimica, nella voce, oltre che nei contenuti. È una deriva. Siamo di fronte alla peggiore politica che finge di dover rispondere a un’appello del popolo mentre parliamo di manifestazioni raccontate come spontanee e che invece sono state convocate, con una partecipazione minima”.

Fino a poco fa molti criticavano Salvini quando parlava in nome del popolo italiano, con Draghi sembra che la reazione sia stata molto diversa…
“Inimmaginabile. Siamo di fronte a un culto mai visto. Primo Levi scriveva: “Dal fascismo nasce un delirio che si estenderà: il culto dell’uomo provvidenziale, l’entusiasmo organizzato ed imposto, ogni decisione affidata all’arbitrio di un solo”. C’è qualcosa di quella tradizione, un’allergia alla democrazia, l’aspirazione della scorciatoia del mondo forte. Basta essere consacrato dalle élite e dai grandi giornali e, non dimentichiamolo. dal Presidente della Repubblica. Il Presidente della Repubblica dovrebbe stare più lontano possibile e invece ha telefonato a Salvini. Draghi, vale la pena ricordarlo, dice che bisogna fare le riforme “che ci ha chiesto Mattarella”. Ma non è Mattarella che deve chiedere riforme, è il Parlamento. Con orrore ti dico che ha ragione Giorgia Meloni quando dice che Draghi chiede pieni poteri”.

Come giudica l’azione di Conte e del M5S?
“Bisogna dare un giudizio alla fine. Finora apparentemente ha tenuto fede ai suoi propositi. Ha proposto 9 punti. Vediamo come la chiude. Se alla fine negasse la fiducia credo nel M5S il capitale sia il simbolo e il nome. Se i parlamentari se ne andassero tutti e Conte tiene duro con il marchio e con Grillo al suo fianco credo che il M5S potrebbe tenere consenso, che ci sia la possibilità di una rifondazione”.

Chi è stato sempre al fianco di Draghi è il Pd…
“Lo è sempre stato. Il Pd è il partito di Draghi. Durante l’elezione del Presidente della Repubblica Letta disse che il loro compito era quello di “proteggere Draghi”. Il Pd è il partito delle ztl, di chi non ha interessi a cambiare, il partito dei benestanti conservatore di centro. Draghi è l’espressione perfetta”.

Esisterà un’area Draghi alle prossime elezioni?
“Non lo so. Dipende molto dal centrodestra. Se si spaccano probabilmente Draghi sarà l’usato sicuro. Avremo scelta tra destra liberista e destra fascista. Se vincono le elezioni nel centrodestra non avranno nessun interesse a nessuna “area Draghi”. Ma qui sono saltate le logiche costituzionali. Del resto era inimmaginabile anche essere qui con un presidente calato dall’alto”.

Come giudica il comportamento dei giornali e delle televisioni in questi giorni?
“Un disastro. Oceani di bava. Una cosa imbarazzante. Non siamo al regime, siamo ai canti messianici, mi vengono in mente i canti della parrocchia: “Resta con noi, Mario, la sera: la notte mai più scenderà!”.

Viste le prese di posizioni sulla guerra, vista le prese di posizioni su Draghi, ha avuto delusioni da giornalisti, intellettuali, collegi?
“Ce ne sono tantissime, ed è una cosa molto dolorosa. C’è un blocco politico ormai sparpagliato. Ora bisogna avere qualcosa di nuovo, anche dal punto di vista generazionale. Siamo un Paese che si affida a un 75enne come salvatore della Patria. Per questo ritengo molto grave l’appello per Draghi dei rettori: l’università è il luogo del futuro e invece mostra omologazione”.

Che ne pensa del negazionismo, sui media, anche sul clima
“Il cambiamento climatico è il vero problema di questo tempo. Non puoi pensare a una crescita infinita senza pensare che anche il pianeta sia infinito, per questo negano l’evidenza. Qualche settimana fa Sorgi ha irriso un mio libro in cui dicevo che Roma nel 2050 avrebbe avuto la temperatura di Marrakech. Ero stato fin troppo ottimista visto che ci siamo già. Ma il negazionismo è strumentale alla crescita. Draghi dice che l’imperativo è la crescita e questo non è compatibile con il clima”.

Con l’avanzata di Meloni rischiamo un rigurgito di fascismo?
“Lo temo perché purtroppo dal peronismo al fascismo il passaggio è morbido. L’alternativa al fascismo delle camicie nere e dei saluti romani (che vive dentro FdI basta leggere Berizzi) non è l’uomo forte. L’uomo forte non è un antidoto, è un passaggio lento. Vuol dire combattere il fascismo con l’omeopatia. Ora i pieni poteri chiesti da Draghi vanno bene, poi con Meloni faranno meno effetto. Temo lo scivolamento complessivo”.

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Giorgia Meloni ha un problema. Una classe dirigente travolta dal malaffare

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Chi le sta vicino racconta che Giorgia Meloni stia già giocando alle figurine per il prossimo giro, ipotizzando un fantagoverno con ministri, sottosegretari e occupandosi con largo anticipo anche delle aziende di Stato dove poter far sedere i suoi fedelissimi.

Chi le sta vicino racconta che Giorgia Meloni stia già giocando alle figurine per il prossimo giro

Dalle parti di Fratelli d’Italia, forti dei sondaggi sul centrodestra e della debilitazione del concorrente interno Matteo Salvini, quasi tutti sono convinti che la prossima classe dirigente del Paese sia una cucciolata meloniana e Giorgia Meloni, che non disdegna il potere come tutti i leader, è pronta a distribuire le prebende.

L’abilità di scelta della classe dirigente però per FdI continua a essere un problema non da poco se è vero che solo ieri nel Comune di Terracina hanno arrestata la sindaca Roberta Tintari (leggi l’articolo) insieme a due suoi assessori e al presidente del Consiglio comunale. Ma gli arresti che pesano sul partito della Meloni sono sopratutto quelli in odore di mafia.

In Calabria, ad esempio, terra di conquista per FdI, il neo consigliere regionale di FdI Domenico Creazzo è stato arrestato nell’ambito di un’operazione antindrangheta della Dda di Reggio Calabria. Era febbraio. A luglio dell’anno scorso, dopo un altro filotto di arresti, il capogruppo di FdI alla Camera Francesco Lollobrigida aveva dichiarato che “gli anticorpi ci sono e funzionano”.

Un mese dopo Giorgia Meloni in Calabria aveva fatto una sorta di “campagna acquisti” e il gruppo di Fratelli d’Italia alla regione era diventato in poche settimane il secondo nel Consiglio regionale, subito dopo quello del Partito democratico. Tra questi spiccava, Alessandro Nicolò, ex berlusconiano, e detentore di un bel gruzzolo di voti nella provincia di Reggio Calabria. Meloni lo aveva sponsorizzato come capogruppo in regione ed era una sorta di fiore all’occhiello della campagna calabra di Fratelli d’Italia.

Ma ad agosto la polizia, su mandato della Dda di Reggio lo ha prelevato dalla sua abitazione e tradotto in carcere. Le accusa contestate a lui ed altri indagati sono a vario titolo di associazione mafiosa, concorso esterno e tentata corruzione. Ancora prima, a luglio, c’erano stati gli arresti nel giro di pochi giorni di altri esponenti di Fratelli d’Italia per inchieste legate alle infiltrazioni ndranghetiste nelle amministrazioni pubbliche. Erano finiti in carcere Giuseppe Caruso, presidente del consiglio comunale di Piacenza, e il consigliere comunale di Ferno (Varese) Enzo Misiano.

Il mese scorso è stato condannato Roberto Rosso, ex assessore regionale del Piemonte per Fratelli d’Italia, a 5 anni per voto di scambio politico-mafioso. Rosso è stato a lungo uno degli uomini più importanti di Forza Italia in Piemonte, nel suo curriculum compaiono anche esperienze da deputato e da sottosegretario nei governi Berlusconi. Poi è diventato classe dirigente nel partito della Meloni. Rosso intratteneva rapporti con Onofrio Garcea e Francesco Viterbo, ‘ndrnaghetisti della cosca Bonavota di Vibo Valentia, insediata nell’area di Carmagnola, in Piemonte.

Rosso aveva promesso 15mila euro a Garcea e Viterbo (a fronte di una loro richiesta di 50mila euro) in cambio del loro impegno a racimolare voti. E Rosso sapevo benissimo chi fossero visto che nel 2012, insieme ad altri deputati, aveva sottoscritto un’interrogazione parlamentare chiedendo di far luce su una vicenda di mafia in cui era coinvolto proprio Onofrio Garcea quale uomo al vertice della locale di ‘ndrangheta a Genova.

A Meno di 48 ore dal voto per la città di Palermo è stato arrestato Francesco Lombardo, 54 anni, inserito nella lista di Fratelli d’Italia, sempre per voto di scambio politico-mafioso. Poi c’è l’inchiesta a Milano sui legami del partito con ambienti neofascisti e sui contributi in nero per la campagna elettorale che vede coinvolto l’europarlamentare di FdI Carlo Fidanza, indagato anche per corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio in relazione alle dimissioni del consigliere comunale di Brescia di Fratelli d’Italia Giovanni Francesco Acri).

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Come si uscirà (male) da questa “crisi” di governo

Vediamo un po’. Oggi finalmente si decide e sarà un bene per tutti, al di là di quello che potrebbe accadere. Con Mario Draghi al Senato i partiti dovranno smettere di giocare di rimessa lasciando in giro dichiarazioni a televisioni e ai giornali. Ora tocca decidere e essere costretti a scegliere: per questa masnada di partiti che ha come obiettivo principale quello della propria preservazione è sempre un bene.

Potrebbe accadere che la maggioranza continui così. Se fosse così qualcuno dovrebbe spiegarci quindi cos’è stata questa crisi che non è una crisi. Mario Draghi dovrebbe giustificare queste dimissioni isteriche – sempre sulla linea del “Draghi che mette il Parlamento con le spalle al muro” che piace tanto ai liberisti di casa nostra – e Giuseppe Conte dovrebbe spiegare perché le promesse di una settimana fa non erano abbastanza convincenti e ora sì. Come sempre accade in questo Paese sarà soprattutto un esercizio dialettico, temo.

Se il governo andrà avanti con il M5s qualcuno dovrà comunque dare delle spiegazioni: se prima era impensabile cambiare le coordinate del governo, se era “impossibile proseguire senza il Movimento 5 stelle” perché ora invece sì? C’è da leggere con attenzione la risposta. Il punto più interessante della giornata politica è leggere le parole delle giustificazioni, molto più di quello che accadrà nelle geometrie parlamentari.

Se alla fine Mario Draghi deciderà di andarsene (appare difficile) allora conviene leggere Cassese: «La circostanza che si sia operata una scissione in una delle forze politiche che appoggiano il governo non costituisce un grave motivo. Troppi altri governi avrebbero dovuto cadere, nella storia repubblicana».

Oppure potrebbe accadere l’ennesimo episodio di cosmesi politica. Non so se avete notato che Luigi Di Maio da giorni non chiama Movimento 5 stelle il Movimento 5 stelle. «Il partito di Conte», dice il ministro. Il gioco è semplice: si rivende la scissione di Di Maio invertendola. Si insiste nella narrazione che sia Conte ad essersi scisso da Di Maio. Così sarà facile dire che sostanzialmente il governo continua come prima (ci sono esimi giornalisti che da giorni usano questo trucco) e così tutti amici come prima. E così, c’è da ammetterlo, farebbe abbastanza schifo. Rimarrebbe anche un dubbio: davvero Di Maio avrebbe potuto escogitare una roba del genere?

Poi ci sarebbe la politica. In questa crisi Conte ha presentato un documento di richieste. Il centro e il centrodestra hanno come massimo obiettivo politico l’abolizione del Reddito di cittadinanza, poi la pace fiscale (altro cosmetico retorico: è un condono). Gli altri chiedono sostanzialmente di “continuare così” anche se non si capisce “così” come. Gli ambientalisti, al solito, sono inascoltati.

Non benissimo.

Buon mercoledì.

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