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Con la crisi di governo tornano le promesse di Pulcinella

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Comunque la si pensi, al di là delle sensibilità politiche di ognuno, bisognerebbe attenersi a un livello minimo di decenza della serietà. Sono ore in cui si ascolta di tutto. Sembrano profonde analisi politiche, accigliati editoriali ma è solo la solita idiosincrasia per il voto.

Sono ore in cui si ascolta di tutto. Sembrano profonde analisi politiche, accigliati editoriali ma è solo la solita idiosincrasia per il voto

Gli toccherebbe aprire la porta e affrontare la realtà lì fuori, che hanno sempre derubricato a semplice brusio. Il M5S, come spesso accade, prova a rompere nel momento più difficilmente comprensibile. Si sono ingoiati di tutto e ora puntano su una “goccia” che dovrebbe fare traboccare il vaso.

Solo che la “goccia” da fuori è difficile da comprendere e far comprendere. Politicamente non funziona, come non hanno funzionato molte scelte di Conte. Il Pd dice che nei prossimi due mesi faranno quello non hanno fatto in due anni. Se ci credono davvero sono di un’ingenuità pericolosa. Se è retorica di maniera beh, non vale nulla.

Il grande centro (che ha più commentatori che elettori) fino a ieri ripeteva percentuali utopistiche e invece, come sempre, teme il voto come candeggina sugli occhi. Del resto il loro programma è “non toccare nulla”. Facile così. Anche Salvini e Meloni sono terrorizzati. Speravano di avere il tempo per decidere chi sarebbe stato in porta e ora riusciranno a dissanguarsi perdendo voti oppure si rimetteranno a cuccia ai piedi di Berlusconi.

Fantastici quelli che si stupiscono che un governo politicamente fragilissimo sia fragile. Sono gli stessi che vorrebbero convincerci che esista una sfiducia eroica e una sfiducia irresponsabile: dipende tutto da chi la provoca. In tutto questo ci sono le pensioni che maturano il 24 settembre per i parlamentari al primo mandato (che non sono pochi, circa il 70%). I piccoli interessi personali peseranno più dei finti ideali, vedrete.

Ma l’ipocrisia più sfacciata e pericolosa è quella che si è messa in moto – in questa crisi/non crisi – per raccontare il governo Draghi come qualcosa che non è mai stato. Dalle parti del Partito democratico alcuni si sono immolati per dirci che proprio nei prossimi mesi, la prossima settimana, nelle prossime ore sarebbero arrivate le riforme che il governo dei migliori non ha avuto il tempo di fare in questi due anni.

Ci hanno messo dentro di tutto, dal salario minimo (su cui ballano da mesi), alla lotta al carovita (che è arrivato ben prima della guerra), alla transizione ecologica (un altro fallimento disperante dell’esecutivo), alla lotta alla povertà (dopo due anni di lotta contro i poveri) e chi più ne ha più ne metta. Per qualche ora tra i politici sembrava una rincorsa a vendere la batteria di pentole aggiungendoci televisori e mountain bike in omaggio, un riscrittura della realtà con il sottofondo di una goffa televendita.

Credere che il governo Draghi possa improvvisamente spillare giustizia sociale negli ultimi mesi, con un colpo di coda umanista dopo mesi di finanza, è una sciocchezza indegna per chi la racconta. “Ma così arriva la destra”, dicono. Anche questa è una bugia: la destra è arrivata proprio con Draghi, con tanto di ministri che erano politicamente finiti e che sono stati resuscitati. Almeno la serietà, almeno questo.

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La morte di Scalfari tra cordoglio e ipocrisia

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A 98 anni è morto Eugenio Scalfari, il primo direttore e manager dell’editoria italiana. Le sue due creature, L’Espresso e Repubblica, hanno segnato un’epoca e un modo di fare giornalismo. Era l’epoca dei quotidiani piegati nella tasca che indicavano anche la fiera appartenenza a un’area politica e Scalfari, primo anche in questo, ha inteso il giornalismo come “pungolo” e suggeritori anche per la sua area di appartenenza. 

Eugenio Scalfari ha fondato Repubblica e L’Espresso

Nei primi anni ’50 inizia con il Mondo di Pannunzio e l’Europeo di Arrigo Benedetti. Nel ’55 con quest’ultimo fonda L’Espresso, primo settimanale italiano d’inchiesta. Scalfari vi lavora nella doppia veste di direttore amministrativo e collaboratore per l’economia. E quando Benedetti gli lascia il timone nel ’62, diventa il primo direttore-manager italiano, una figura all’epoca assolutamente inedita per l’Italia. Questo doppio ruolo sarà poi anche uno dei fattori del successo di Repubblica.

Scalfari, il primo direttore manager nel giornalismo italiano

Era un intellettuale fiero delle sue amicizie e delle sue inimicizie, maestro di una schiera di giornalisti che oggi lo ricordano con orgoglio. Il Presidente della Repubblica Mattarella l’ha ricordato come «assoluto protagonista della storia del giornalismo nell’Italia del dopoguerra. La chiarezza della sua prosa – scrive nel suo messaggio il Capo dello Stato -, la profondità delle sue analisi, il coraggio delle sue idee hanno accompagnato gli italiani per oltre settant’anni e hanno reso i suoi editoriali una lettura fondamentale per chiunque volesse comprendere la politica, l’economia». Anche Papa Francesco ha ricordato Scalfari: «Conserva con affetto la memoria degli incontri – e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell’uomo – avute con lui nel corso degli anni e affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini», ha detto all’ANSA il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni.

Tra i messaggi di cordoglio sono arrivati anche quelli di Salvini e di Berlusconi, gli stessi che l’hanno infangato per anni. Funziona così: nemmeno la morte spegne l’ipocrisia. E anche Repubblica e L’Espresso hanno un’anima ben diversa da quella fondativa.

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Soldi sepolti in giardino: la ‘Ndrangheta non è in crisi

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Mentre il Paese sprofonda nella crisi energetica, si brucia nella crisi climatica e si affama nella povertà che dilaga la ‘Ndrangheta non sa più dove mettere i soldi e decide di sotterrarli in giardino.

Pentoloni carichi di denaro sepolti dalla ‘Ndrangheta in giardino

Come nelle favole ma questa è una favola nera: le perquisizioni degli uomini della Polizia nell’ambito di una vasta operazione contro la criminalità organizzata nel torinese e in altre parti del paese hanno rivenuto pentoloni carichi di denaro che una volta riportati in superficie hanno svelato un vero e proprio patrimonio di banconote e monete.

Il tribunale di Torino ha emesso venti custodie cautelari in carcere, sei arresti domiciliari e due obblighi di dimora, emesse per diversi reati: associazione per delinquere finalizzata al traffico internazionale di sostanze stupefacenti, plurime cessioni di ingenti quantitativi di droga (hashish, marijuana e cocaina), violazione della normativa in materia di armi, riciclaggio, reimpiego di denaro provento delittuoso, rapina e ricettazione.

Al vertice del gruppo, secondo gli investigatori, c’è il 43enne boss Vittorio Raso, arrestato lo scorso 22 giugno nei dintorni di Barcellona dopo un periodo di latitanza. Gli agenti di polizia nel corso dell’indagine hanno sequestrati circa 800 chili di droga di vari tipi, due pistole, tre fucili, 12 chili di esplosivo, centinaia di munizioni e un milione di euro in banconote di vario taglio. Come il gatto e la volpe i soldi erano seminati nel giardino. 

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Nicola Gratteri candidato al Csm? Ecco perché le correnti tremano

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Nicola Gratteri candidato al Csm? Il 24 settembre non è lontano e il Consiglio superiore della magistratura si prepara al rinnovo dei suoi membri nella fase più delicata della politica (che traballa in un governo sostenuto con accanimento terapeutico) e della magistratura ancora provata dallo scandalo Palamara (che, non è un caso, si prepara per scendere in politica). 

Il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, sta pensando a una candidatura al Csm

Dovrebbe essere l’elezione della rigenerazione di una magistratura sfibrata dalle correnti e minata nella credibilità. Era febbraio quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella disse “nell’inviare un saluto alle nostre Magistrature – elemento fondamentale del sistema costituzionale e della vita della nostra società – mi preme sottolineare che un profondo processo riformatore deve interessare anche il versante della giustizia”.

“Per troppo tempo è divenuta un terreno di scontro che ha sovente fatto perdere di vista gli interessi della collettività”. Il capo dello Stato parlò di «principi, irrinunziabili, di autonomia e di indipendenza della Magistratura» che devono «corrispondere alle pressanti esigenze di efficienza e di credibilità, come richiesto a buon titolo dai cittadini». 

C’è da scegliere  tra i sette collegi definiti dalla riforma Cartabia ma come anticipato dal Fatto Quotidiano ad agitare le acque c’è la possibile discesa in campo del procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri, simbolo della lotta alla ‘Ndrangheta ma soprattutto simbolo di una magistratura, piaccia o no, scollegata dai poteri e dalle correnti. Gratteri è fresco di bocciatura come procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo (gli è stato preferito Gianni Melillo) ma soprattuto si trova di fronte alla scelta di tentare la sfida elettorale per Palazzo dei Marescialli o concentrarsi sulla corsa alla procura di Napoli (lasciata vacante proprio da Melilla) o attendere che si liberi il posto di procuratore capo a Bologna, là dove la ‘Ndrangheta è sempre più presente.

Di certo la discesa in campo darebbe fastidio, eccome, alle correnti più storiche come Unicost, che nel collegio 2, quello riservato ai pm, punta su Marco Bisogni, pm della Direzione Distrettuale Antimafia di Catania. Magistratura indipendente, la corrente di ispirazione moderata e liberale della magistratura italiana, dovrebbe puntare sulla presidente del tribunale di Crotone Maria Vittoria Marchianò, ex giudice della Corte d’Assise d’Appello di Catanzaro, e il giudice Tiziana Drago in servizio presso il tribunale di Reggio Calabria.

AreaDg, espressione della sinistra giudiziaria come Magistratura democratica, ha deciso di candidare nel collegio 2 (requirenti) Maurizio Carbone, procuratore aggiunto di Taranto, mentre nel collegio 4 (giudicanti) ci sarà Genantonio Chiarelli, giudice del tribunale di Brindisi. Gratteri avrà tempo per decidere fino al prossimo 21 luglio, data di scadenza dei termini per la presentazione.

Le correnti della magistratura e la politica sperano che Gratteri ci ripensi

Di certo la candidatura di Gratteri romperebbe la logica di equilibri nel suo collegio che comprende Sicilia, Campania, Calabria, Puglia, Abruzzo, Basilicata e Marche. Accadrebbe che i due favoriti (Maurizio Carbone, procuratore aggiunto di Taranto, per i progressisti di Area e Dario Scaletta, pm a Palermo, per i conservatori di Magistratura indipendente) si vedrebbero probabilmente si ritroverebbero a dover rinunciare a un seggio che a oggi tutti davano come già conquistato. Per questo i capi delle correnti tifano per un dietrofront del procuratore di Catanzaro e proprio per questo – com’è nell’indole di Gratteri – lui sta prendendo seriamente in considerazione l’ipotesi di “rompere”.

Tra i laici invece bisognerà seguire con attenzione l’evoluzione in casa del M5S: se saranno ancora al governo difficilmente potranno puntare ad avere tre tecnici come accadde 4 anni fa. La tentazione potrebbe essere di puntare su un nome fortemente “politico” come l’ex ministro Alfonso Bonafede. Le variabili in questo caso però sono moltissime: il governo traballa e gli equilibri dei gruppi parlamentari sono in veloce evoluzione. La speranza è sempre la stessa: fingere di cambiare perché nulla cambi. O almeno il meno possibile.

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Ius Scholae rimandato, ma la politica è da bocciare

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C’è di tutto. Si va dalla riforma degli Istituti tecnici superiori (che la Lega tira per le lunghe per guadagnare tempo), poi c’è la legge per lo spettacolo, poi Terzo settore, poi Roma capitale, c’è Cingolani che riferisce sulla siccità, poi il Ddl Concorrenza, poi quello Semplificazioni e in più c’è anche una crisi di governo paventata, ritirata, riavventata e ritirata di nuovo: i diritti spariscono dall’agenda di governo e vengono rinviati a settembre, esattamente come volevano Salvini e Meloni.

Lo Ius scholae e la legge sulla cannabis sono rimandate

Lo Ius scholae, la legge che prevede la cittadinanza per chi ha completato il ciclo scolastico in Italia (molti sono perfino nati qui) e la legge sulla cannabis (si parla di tre piantine da poter coltivare in casa per essere strappate alla criminalità organizzata) sono rimandate. Solo che in politica rimandare una legge significa affossarla senza nemmeno prendersi la responsabilità di farlo.

Come scrive Carlo Verdelli, direttore di Oggi, “anche cannabis e Ius Scholae si aggiungono mogi alla lunga fila dei diritti promessi e traditi. Rimandati a settembre, cioè a mai, futuro finto. Come quel cartello furbastro nei negozi: oggi non si fanno sconti. E se entri domani c’è lo stesso cartello di ieri”. Mica per niente la Lega esulta. “No droga libera e cittadinanza facile agli immigrati”, ripetono fieri i parlamentari leghisti che come tutti quelli che non riescono a immaginare nuovi diritti possono darsi notare solo affogando quelli degli altri.

Del resto sulla cannabis sarà difficile trovare una mediazione anche con il centrodestra più moderato – troppo complicato approfondire – mentre sullo Ius scholae il Vaticano risulta più progressista di Salvini e Meloni: secondo monsignor Gian Carlo Perego, presidente della Commissione episcopale per le migrazioni della Cei “lo Ius scholae va incontro alla realtà di un Paese che sta cambiando”.

Il sacerdote, intervistato dall’Ansa si è augurato che “le ragioni e la realtà prevalgano rispetto ai dibattiti ideologici per il bene non solo di chi aspetta questa legge ma anche dell’Italia che è uno dei Paesi più vecchi”. Ma vedrete che coloro che si professano ferventi cristiani ora preferiranno rimanere nel cassetto degli stolti razzisti. Soluzioni ce ne sarebbero, eccome.

Basterebbe ad esempio costringere i nostri affaticatissimi parlamentari a lavorare anche di giovedì (con la calura in Parlamento è arrivata la settimana “corta” e il mercoledì sera si chiude la valigia) oppure basterebbe che il centrosinistra facesse ciò per cui è stato eletto ormai 4 anni fa (anche se sembra un’altra era) ovvero battersi per i diritti trattandoli non solo come buoni propositi da sventolare in campagna elettorale ma come veri e propri punti di programma da inseguire con tenacia.

Vi risponderanno – vedrete – che il governo Draghi “tiene insieme troppe anime” che significa fondamentalmente avere partecipato alla costruzione e alla funzione di un governo che si limita a far di conto, senza nemmeno troppo occhio per le minoranze e per la povertà. Se ne parla a settembre, quindi, come per i progetti che in ufficio e sul lavoro vengono sacrificati sull’altare delle vacanze.

Se ne parla a settembre come se fossero dei lavoretti da fare in casa che non richiedono troppa urgenza. Solo che in questo caso lì, dentro in quelle leggi, ci sono le persone che aspettano da una vita di esistere. E anche loro sanno benissimo che il prossimo governo che verrà non promette nulla di buono. Se ne parla tra 6 anni, se tutto va bene.

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Le violenze sulle donne aumentano, anche se non se ne parla

13 luglio 2022.  L’Associazione nazionale D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza ha pubblicato il nuovo report sui dati riferiti al 2021. Da 15 anni, D.i.Re realizza la raccolta dati sulle attività delle organizzazioni socie, che consente di raggiungere tre obiettivi: illustrare le caratteristiche delle organizzazioni che ne fanno parte, dei servizi e delle risorse che offrono; raccogliere dati sulle donne accolte e sulle violenze subite; raccogliere informazioni sull’autore della violenza.

Attraverso questo lavoro di monitoraggio e analisi dei dati raccolti, è anche possibile mettere in evidenza le caratteristiche della violenza nelle sue diverse forme, anche decostruendo gli stereotipi che ancora caratterizzano l’idea di violenza di gran parte dell’opinione pubblica.

Nell’anno 2021 sono state accolte complessivamente 20.711 donne, con un incremento – rispetto al 2020 – del 3,5%. Le caratteristiche della donna che si rivolge a un Centro antiviolenza D.i.Re sono consolidate negli anni: per quanto riguarda l’età, anche nel 2021 quasi la metà (46%) delle donne accolte ha un’età compresa tra i 30 e i 49 anni.

I Centri della Rete accolgono prevalentemente donne italiane (solo il 26% hanno una diversa provenienza), un dato costante negli ultimi anni (26% nel 2020 e 26,5% nel 2019) e allineato con il dato nazionale Istat del 2020 (27,7%) e del 2019 (28%) (https://www.istat.it/it/violenza-sulle-donne)

L’autore della violenza è prevalentemente italiano (soltanto il 27% ha provenienza straniera) e questo dato, oramai consolidato negli anni (con scostamenti non significativi), mette in discussione lo stereotipo diffuso che vede il fenomeno della violenza maschile sulle donne ridotto a retaggio di universi culturali situati nell’“altrove” dei Paesi extraeuropei.

I Centri della Rete sono presenti in tutte le regioni italiane, tranne che nella Regione Molise, ma sono distribuiti non omogeneamente: nell’area del nord si trovano oltre la metà dei centri (58 pari al 55%) divisi non equamente tra Nord-Est e Nord-Ovest; in quella del centro 24 centri (pari al 23%) e tra sud (16) e isole (8) si arriva a 24 centri (pari al 23%).

Insieme al numero delle donne accolte, è aumentata anche la risposta che i Centri antiviolenza danno sul territorio. Le organizzazioni della Rete che hanno partecipato all’indagine (81 su 82), attraverso i loro 106 Centri antiviolenza, gestiscono 182 Sportelli antiviolenza con un incremento del 25% rispetto al 2020.

Oltre la metà dei Centri (58,5% dei casi) può contare su almeno una struttura di ospitalità (62 in totale), con un’offerta di 185 appartamenti e 1.023 posti letto

Le attività che i Centri garantiscono alle donne sono sempre varie: accoglienza e possibilità di consulenza legale nella quasi totalità dei casi, consulenza psicologica e percorsi di orientamento al lavoro in circa il 90% dei casi. Nella comparazione con il 2020 emerge un incremento per il servizio di orientamento al lavoro, che passa dall’88% al 94% dei Centri. Questo dato è particolarmente significativo se si pensa che una donna su tre (31,9% tra disoccupate, casalinghe e studentesse) è a reddito zero, in linea con il 2020 (32,9%) e il 2019 (33,8%). Solo il 37% (tra occupate e pensionate) può contare su un reddito sicuro.

Soltanto il 28% delle donne accolte decide di denunciare, percentuale che rimane sostanzialmente costante negli anni. Questo dato non stupisce: la vittimizzazione secondaria da parte delle istituzioni che entrano in contatto con le donne (servizi sociali, forze dell’ordine, tribunali ecc.) continua a frenare l’avvio di un rapporto di fiducia con le donne che intendono rivolgersi alla giustizia.

L’attività dei centri si sostiene per gran parte sul lavoro volontario delle attiviste, di cui solo il 33, 3% è retribuito, anche a causa della scarsità e non strutturalità dei fondi.

«20.711 donne nel 2021, il 3,5% di contatti in più rispetto al 2020, l’8,8% in più le donne che non avevano mai chiamato il Centro antiviolenza, sono numeri che confermano l’importanza dei centri della nostra Rete. Dietro ogni numero che leggete c’è una storia, la storia di ogni singola donna, che crede nella possibilità di uscire dalla violenza, dà fiducia ai nostri centri: l’aumento di donne che a noi si rivolgono lo leggiamo in questa luce» dichiara Antonella Veltri, Presidente D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza. «Sono numeri che danno la misura del lavoro che le 2.793 attiviste, di cui solo poco più del 30% retribuite, svolgono per dare forza alle donne. Non basta approvare un Piano antiviolenza se mancano le linee guida attuative: siamo in attesa di questo, dell’impegno concreto del governo sul tema della violenza maschile alle donne, per il 2021-2023» continua Veltri. «La fotografia annuale che presentiamo ci conferma che i nostri presidi territoriali sono baluardi imprescindibili nella prevenzione e nel contrasto della violenza alle donne. Lavoriamo per le donne e con le donne. Continueremo a farlo perché crediamo nel valore e nel potere che abbiamo di trasformare il modello culturale patriarcale da cui prende origine ogni forma di violenza alle donne» conclude la presidente.

Tutto bene, insomma.

Buon giovedì.

Nella foto: le mani e le braccia di una donna segnate dall’acido gettato da un ex partner

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Siamo in emergenza energetica. “Ma la colpa non è di Putin”

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Nicola Armaroli, dirigente di ricerca del Cnr, membro dell’Accademia Nazionale delle Scienze e direttore della rivista scientifica Sapere, che ne pensa del discorso del ministro Cingolani sul futuro che ci attende a causa delle crisi energetica
“Noi siamo chiaramente in una situazione di emergenza destinata a peggiorare perché la Russia diminuirà ancora le forniture. Ci troviamo qui perché per anni abbiamo deriso chi diceva di svincolarsi dal gas e dal petrolio. Non l’abbiamo fatto e oggi ci troviamo a cercare soluzioni che non ci sono a breve termine. Ora abbiamo un Governo che pensa addirittura al carbone. In emergenza tutto è comprensibile ma noi ci troviamo a questo punto per incapacità di visione nel corso degli ultimi 10-20 anni”.

E ora
“L’unica soluzione è il risparmio. Non possiamo pensare di avere più gas via mare con la domanda in crescita tutto il mondo e non ci sono le infrastrutture tanto agognate che cerchiamo di recuperare. Con coraggio bisogna dire ai cittadini che non si può diminuire la dipendenza senza diminuire i consumi. Sarà un evento naturale visti i prezzi: i cittadini si stanno già autoregolamentando, lo dicono i dati. La riduzione potrebbe arrivare in a 10 miliardi di metri cubi di gas. Ma sono tutte misure emergenziali che peggioreranno il nostro contributo alla crisi climatica. La vera grande crisi è questa: un mondo senza stabilità climatica su cui abbiamo contato per decenni creerà problemi sociali ed economici. Non ho parole per l’insipienza che ci ha portati fin qui”.

Ma la transizione ecologica è stata bloccata solo dalla guerra
“Non proprio. L’andamento delle emissioni continuava a aumentare. In Italia e in Europa abbiamo avuto un progressivo calo dal 1995 del 19% e dovremo raggiungere il 55% entro il 2030. Noi in pratica dovremo correre nei prossimi 8 anni 10 volte più veloce degli ultimi 32. Correre a queste velocità è una sfida pazzesca. Con questo tipo di azione non siamo nelle condizioni di poter rispettare gli impegni”.

Rispuntano addirittura i negazionisti climatici…
“Un dibattito surreale di alcuni quotidiani nazionali, quando la comunità scientifica ha già dato risposte da decenni: è l’uso indiscriminato e abnorme di combustibili fossili che ha provocato questa crisi. Ormai a me non resta che pensare che un risata – purtroppo amarissima – li seppellirà. È inutile cercare di discutere con coloro che negano una monumentale letteratura scientifica”.

Le sanzioni stanno indebolendo Putin o noi?
“Noi non ci rendiamo conto di una cosa. La Russia ha una quantità enorme di risorse naturali, è sterminata – 50-60 volte l’Italia -, è il primo esportatore di gas e il terzo di carbone, esporta grano, produce acciaio, hanno ferro, minerali. È una nazione troppo grande per poter pensare di fargli la guerra. Poi è chiaro che questa guerra l’anno scatenata loro, ma noi come Europa (che è la più povera di risorse) non possiamo (e abbiamo tute le ragioni per non volerlo) fare a meno della Russia. Io temo che purtroppo il primo sacrificato sarà il povero popolo ucraino, che sarà la prima vittima della guerra per le risorse. E la Russia sta sbattendo i pugni perché sa che il mondo senza le sue risorse non può far nulla. Quando il 4 febbraio ha sferrato il suo ignobile attacco Putin aveva ben presente questo. Pensiamo di poterci salvare con vecchi schemi da guerra fredda, invece è una guerra di risorse”.

In Italia si torna a parlare di nucleare…
“L’asse Calenda-Salvini sul nucleare non si può prendere sul serio. Proporre 7 centrali nel 2022 è una roba che fa spanciare dal ridere. Il nucleare non lo abbiamo fatto nei decenni d’oro e vogliamo farlo oggi che non vuole farlo nessuno? Abbiamo una classe dirigente totalmente impreparata per questa situazione. La complessità dei problemi che abbiamo davanti non si confà alla preparazione di molti apparati dello Stato. Il problema energetico è un problema enorme e il fatto stesso di lanciare programmi nucleari dà l’idea dello spessore di chi si candida”.

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Fontana bis in Lombardia. Meloni tenta Salvini per far fuori la Moratti

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Il silenzio che regna sulle prossime elezioni regionali in Lombardia è l’impercettibile indaffararsi delle formiche: nessuno pubblicamente ne parla ma nei corridoi del palazzo e nelle segreterie dei partiti non passa un giorno senza un rilancio, uno sgambetto, qualche goccia di veleno e idee nate entusiastiche e spente già prima della sera.

Elezioni regionali, Lombardia e Sicilia sono diventate merce di scambio

Come spesso gli capita sull’altare del furibondi ci sta il centrodestra, o quello che ne rimane, ormai pronto a usare qualsiasi elezione, sia anche quella di un amministratore condominiale, per pesare gli equilibri interni e per rivendicare posizioni. Fa niente che poi, come nelle ultime elezioni amministrative, a farci le spese sia quel comune o questa regione (la Lombardia, nel nostro caso): Salvini e Meloni hanno già deciso di non lesinare sugli agnelli sacrificali pur di prendersi la guida del prossimo centrodestra e quindi – secondo i loro calcoli, approssimativamente sbagliati – la guida del prossimo governo.

Così la Lombardia e la Sicilia che fino a poco tempo fa venivano rivendute come regioni chiave a cui non poter rinunciare nello scacchiere politico nazionale oggi sono merce di scambio – o meglio, sono carne da cannone – usabili come semplici pedine per costringere il re e la regina a muoversi. Per questo la regione Lombardia, quella regione che sogna da sempre di farsi Stato, ora è solo un filo che parte da Milano e arriva a Palermo.

Questo è il primo vero fallimento politico di Salvini e soci: anni a promettere “autonomia lombarda” (consapevoli di non poterla mai ottenere come la paventano) e ora la Lombardia è una semplice figurina sul tavolo dei caminetti romani. Gli eventi lombardi, conviene dirlo, non facilitano il quadro. L’autocandidatura di Letizia Moratti è un grottesco passaggio politico che racconta come anche in Lombardia il centrodestra sia una sterile sigla che tiene insieme bande senza nessuna unità e senza nessuna reciprocità.

Se si fosse candidato l’assessore di qualsiasi presidente uscente – che per il centrodestra finora era il candidato naturale per la rielezione – in un’altra regione oggi sentiremmo gli strepiti e le ironie di tutti i maggiori quotidiani nazionali. In Lombardia – per fortuna di Moratti, Fontana e il centrodestra – vige ancora un finto perbenismo rispettoso che tenta di rendere edibile un boccone rancido e quindi si lascia passare il tutto come una compita querelle tra classe dirigente. Di certo l’attuale presidente Fontana, lo confermano i corridoi più vicini a lui, ha preso malissimo l’iniziativa dell’ex sindaca mai sazia. Ma non bisogna immaginare uno scontro di idealismi, no.

A Fontana hanno offerto una via d’uscita economicamente interessante e dignitosa: prendersi in mano l’organizzazione delle Olimpiadi di Milano e Cortina (sempre che il sindaco di Milano Beppe Sala sia d’accordo) e apparire come il “padre nobile” del rilancio internazionale. Proposta che per ora Fontana ha seccamente rifiutato, con l’appoggio del suo segretario Salvini che non può certo permettersi di farsi disarmare in un momento come questo.

Letizia Moratti da canto suo parla con la lingua che conosce meglio: i soldi. E una campagna elettorale prepagata non è roba da poco. Ma soprattutto Letizia Moratti è la “pedina di scambio” che Giorgia Meloni ha deciso di sostenere. Agli osservatori più attenti non è sfuggito che l’endorsement di Fratelli d’Italia per Moratti sia arrivato proprio da La Russa, il colonnello che giù in Sicilia continua a ripetere che Musumeci “è intoccabile”. Ecco i destini siciliani e lombardi che si incrociano: Giorgia Meloni potrebbe ripiegare su Fontana in Lombardia solo se Salvini svoltasse Musumeci in Sicilia. E la politica Per quello si vedrà.

Affacciato alla finestra per osservare le baruffe del centrodestra, il centrosinistra ha il sorriso di chi pensa che stavolta ce la potrebbe fare davvero a vincere. Peccato che si il sorriso ciclico che ogni 5 anni spunta e che ciclicamente finisce in farsa e tragedia. Dopo un quinquennio in cui l’opposizione migliore a Fontana l’ha fatta il Covid e la sua squinternata squadra di governo il centrosinistra (che ovviamente ancora non si sa che perimetro avrà) ha provato a convincere il sindaco Sala per la scalata in Regione.

Risposta respinta al mittente: “Sono stato eletto 8 mesi fa, non sarebbe serio” ha detto il primo cittadino. Da lì in poi un arruffato panico compunto travestito da meditabonda strategia che è riuscito a partorire l’ipotesi Tabacci (un brivido lungo la schiena), poi l’ex sindaco di Brescia Del Bono (che potrebbe fare addirittura peggio del misero 29% che fu di Gori) e ora punta dritto su Carlo Cottarelli, economista buono per tutte le stagioni e per tutte le regioni (dal Lazio alla Lombardia).

Fonti del Pd dicono che “manca solo l’ok di Cottarelli per iniziare a lavorare” e che anche l’ammaccato M5S lombardo accetterebbe il candidato (altro brivido lungo la schiena). Finora l’unico dato inconfutabile è che dopo cinque anni da quelle parti sono riusciti a non avere un nome per anticipare il centrodestra in panne. E anche questa in Lombardia è una storia ormai vecchissima.

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Se il clima fosse una banca l’avrebbero già salvato

Il titolo sembra una battuta ma non lo è. La situazione è grave ma non è seria, la crisi energetica e la crisi ambientale sono argomenti buoni per accigliarsi. Se pensate che si stia facendo tutto quello che si può fare allora si potrebbe fare un salto per l’ennesima volta in Spagna dove, dopo avere fatto una riforma del lavoro per tutelare i diritti dei lavoratori e per ridurre sensibilmente la precarietà (e la legge funziona, anche) hanno deciso di muoversi per aiutare famiglie e imprese strozzati dalla crisi.

La Spagna imporrà una tassa straordinaria sulle banche come strumento per contribuire agli sforzi del paese di fronte all’inflazione e gli impatti economici della guerra in Ucraina. La tassa rimarrà in vigore per due anni e mira a raccogliere 1,5 miliardi di euro all’anno. Lo ha spiegato ieri il primo ministro Pedro Sanchez. Sanchez ha spiegato anche che l’imposta sugli extra profitti delle compagnie energetiche garantirà introiti per 2 miliardi l’anno per 10 anni. Inoltre saranno totalmente detraibili le spese per i trasporti.

«So che sta diventando sempre più difficile arrivare alla fine del mese. Capisco l’angoscia, la frustrazione e anche la rabbia di tutti perché è anche la mia», ha detto Sanchez presentando le misure. «Dobbiamo adottare misure di risparmio energetico», ha aggiunto, citando il telelavoro, la limitazione nell’uso di riscaldamento e dei condizionatori. «Possiamo farlo e lo faremo», ha assicurato. «Chiediamo alle grandi aziende di garantire che tutti i benefici eccezionali ottenuti grazie alle circostanze attuali vengano ritrasmessi ai lavoratori».

«Non tollereremo che qualcuno approfitti della situazione», ha detto lanciando poi una una frecciata alle società elettriche: «Quelli che vengono chiamati profitti altissimi non cadono dal cielo: escono dalle tasche dei cittadini».

Tra le misure in favore delle famiglie anche 100 euro mensili per i giovani dai 16 anni in su che stanno già ricevendo borse di studio, nell’ambito di misure tese a diminuire l’abbandono scolastico per motivi economici, una delle misure più applaudite in Aula durante il discorso durato ben un’ora e 25 minuti.

Non è difficile fare cose di sinistra.

Buon mercoledì.

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La Lobby sfreccia con Uber. Dalle carte spunta Renzi

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Il Guardian dà lezioni di giornalismo, soprattutto dalle nostre parti dove ogni tanto lo si scambia come megafono del potere, e riesce ad entrare in possesso dei un tesoro di 124mila documenti riservati della società Uber. I dati rivelano come l’azienda di servizio taxi privata, abbia violato la legge, ingannato le forze dell’ordine, sfruttato la violenza contro i conducenti e fatto pressioni segrete sui governi di tutto il mondo.

Il Guardian rivela gli “Uber Files”. Favori e leggi su misura. Dalle carte spuntano Biden, Macron e anche Renzi

I file coprono 40 Paesi e vanno dal 2013 al 2017, il periodo in cui Uber è passata da una coraggiosa startup a un colosso globale, con la forza bruta che si è fatta strada nelle città di tutto il mondo con scarso rispetto per le normative sui taxi. Per facilitare un’indagine globale, il Guardian ha condiviso i dati con 180 giornalisti di oltre 40 organizzazioni dei media tramite l’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ).

Da Mosca a Johannesburg, finanziata con finanziamenti di capitale di rischio senza precedenti, Uber ha pesantemente sovvenzionato i viaggi, seducendo conducenti e passeggeri sull’app con incentivi e prezzi che non sarebbero sostenibili. Uber ha indebolito i mercati dei taxi e ha esercitato pressioni sui governi affinché riscrivano le leggi per contribuire a spianare la strada a un modello di lavoro basato su app e gig-economy che da allora è proliferato in tutto il mondo.

Nel tentativo di reprimere la feroce reazione contro l’azienda e ottenere modifiche alle leggi sui taxi e sul lavoro, Uber ha pianificato di spendere straordinari 90 milioni di dollari nel 2016 in lobbying e pubbliche relazioni, suggerisce un documento. La sua strategia prevedeva spesso di scavalcare i sindaci delle città e le autorità dei trasporti e arrivare direttamente alla sede del potere. I documenti indicano che Uber era abile nel trovare percorsi non ufficiali verso il potere, esercitare influenza tramite amici o intermediari o cercare incontri con politici in cui non erano presenti aiutanti e funzionari.

Quando invece si accendevano le proteste delle aziende di taxi “tradizionali”, secondo i documenti di cui The Guardian è entrato in possesso, Uber si impegnava ad alimentare la narrazione di un sistema di trasporto “antiquato” che voleva impedire il progresso. Tra scioperi dei taxi e rivolte a Parigi, ad esempio, l’ex dirigente Kalanick ha ordinato ai dirigenti francesi di vendicarsi incoraggiando i conducenti di Uber a organizzare una controprotesta con la disobbedienza civile di massa.

Avvertito che ciò rischiava di mettere i conducenti di Uber a rischio di attacchi da parte di “criminali di estrema destra” che si erano infiltrati nelle proteste dei taxi e stavano “creando disordini”, Kalanick sembrava esortare la sua squadra ad andare avanti a prescindere. “Penso che ne valga la pena”, ha detto. “La violenza garantisce il successo”.

Il Guardian ricorda che come fu Parigi nel 2014 il palcoscenico per il debutto europeo di Uber. Nei documenti analizzati ci sono messaggi tra Kalanick e Macron, che avrebbe aiutato segretamente l’azienda in Francia quando era ministro dell’Economia, consentendo a Uber un accesso frequente e diretto a lui e al suo staff. In particolare nonostante i tribunali e il parlamento francese avessero vietato Uber Emmanuel Macron – secondo il Guardian – si mise a disposizione dell’azienda per cambiare le leggi del settore.

Tra i politici compare anche il nome di Joe Biden, all’epoca vicepresidente degli Usa che arrivò in ritardo a un incontro con Uber al World Economic Forum di Davos e che dopo l’incontro con Kalanick modificò il suo discorso preparato a Davos elogiando pubblicamente l’azienda. Nell’anticipazione de L’Espresso compare anche l’Italia con Matteo Renzi. Italy – Operation Renzi – rivela il settimanale – è il nome in codice di una campagna di pressione, dal 2014 e il 2016, con l’obiettivo di agganciare e condizionare l’allora presidente del Consiglio e alcuni ministri e parlamentari del Pd.

Nelle mail dei manager del colosso l’ex premier Matteo Renzi viene definito “un entusiastico sostenitore”

Nelle mail dei manager di Uber Renzi viene definito “un entusiastico sostenitore”. Il leader di Italia Viva però precisa di “non avere mai seguito personalmente” la questione di taxi e trasporti. Tra l’altro non risulta nessun provvedimento del governo guidato da Renzi a favore del colosso californiano. Uber da parte sua ammette di avere compiuto “passi falsi” ma chiarisce di avere “cambiato rotta” con il suo attuale amministratore delegato, Dara Khosrowshahi.

In Italia i tassisti chiedono di sapere “da chi è stato ricevuto il capo di Uber a palazzo Chigi e di cosa si è parlato, in un momento così delicato nel quale, senza alcun apparente motivo, i tassisti sono stati inseriti nel Ddl Concorrenza nonostante la liberalizzazione del servizio non sia prevista dalla Direttiva Comunitaria Bolkestein e tale obiettivo, non è tra quelli necessari da raggiungere per ottenere i fondi europei del Pnrr.

La Lega dichiara che la richiesta “getta un’ulteriore ombra sull’articolo 10 del ddl Concorrenza che qualcuno si ostina a non voler stralciare” e chiedono di “sapere con chiarezza chi ha inserito la norma nel provvedimento e perché”. Per il deputato di LeU Stefano Fassina l’inchiesta “fa un’importante operazione verità sulle ragioni vere di tanta pressione da parte della Commissione europea e di sedicenti governi ‘riformisti’ per aprire il trasporto pubblico locale non di linea alla concorrenza delle multinazionali”. La Commissione Ue attraverso il suo portavoce dichiara che si stanno “raccogliendo informazioni” e “invierà una lettera di chiarimento” a Neelie Kroes, ex commissaria alla competizione”.

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