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Un Governo senza visione. Nuoce gravemente all’ambiente

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La crisi climatica morde ma il governo non trova il coraggio per la riforma dei sussidi ambientalmente dannosi che è ferma al palo. È un atto d’accusa forte e chiaro quello del gruppo scientifico “Energia per l’Italia”, coordinato dal professore Vincenzo Balzani e che riunisce scienziati, docenti e ricercatori.

La crisi climatica morde ma il governo non trova il coraggio per la riforma dei sussidi ambientalmente dannosi

Proprio nel momento in cui Lombardia, Emilia Romagna, Lazio, Piemonte, Friuli Venezia-Giulia e Veneto chiedono al Governo il via libera allo stato di emergenza a causa della siccità e quando quasi un terzo del ghiacciaio della Marmolada si stacca e scivola a valle a causa delle elevate temperature accompagnate da un alto grado di scopertura del ghiaccio, e causa 11 morti, il gruppo scientifico sottolinea come il Presidente del Consiglio non ritenga una priorità il taglio progressivo dei 35,49 miliardi di euro di Sussidi Ambientalmente Dannosi destinati ogni anno alle fonti fossili e la loro destinazione a misure ambientalmente favorevoli e a difesa del Welfare.

In occasione della pubblicazione del quarto catalogo dei Sussidi Ambientalmente Dannosi il Ministero della transizione ecologica aveva ricordato che “… il Comitato interministeriale per la transizione ecologica (Cite) ha già deciso che il Mite presenterà un piano di uscita dai sussidi ambientalmente dannosi, in linea con il pacchetto europeo Fit for 55, entro la metà del 2022”.

Invece il 6 luglio scorso il Mite si è limitato a proporre l’eliminazione di soli due Sad (Sussidi Ambientalmente Dannosi) relativi alla gestione dei rifiuti mentre del Piano non si ha ancora alcuna notizia. Il comitato Energia per l’Italia ricorda che secondo uno studio Ocse del 2017 cofinanziato dal Governo italiano, sono innumerevoli le ragioni che dovrebbero indurre Draghi e Cingolani a non tergiversare e, come si legge nel documento Global Fossil Fuel Subsidies Remain Large: An Update Based on Country-Level Estimates, 2019 International Monetary Fund: i sussidi possono essere utili strumenti economici, ma molti sono stati identificati come economicamente inefficienti e distorsivi del mercato; le sovvenzioni possono anche provocare danni ambientali, sia direttamente incentivando un’attività che danneggia direttamente l’ambiente, sia indirettamente riducendo il costo di un’attività che utilizza input che impongono un pesante onere per l’ambiente; alcuni dei danni ambientali sono limitati al paese che fornisce il sussidio, ma alcuni hanno effetti transfrontalieri; i sussidi impongono ai bilanci pubblici e ai contribuenti un onere discutibile quando sono dannosi per l’ambiente, socialmente iniqui o inefficienti; l’onere fiscale delle sovvenzioni comporta che meno risorse possono essere potenzialmente destinate ad altri finanziamenti pubblici, siano essi per la ricerca sull’energia pulita, l’innovazione o la sicurezza sociale. Secondo il gruppo scientifico lo stesso Mite, utilizzando il modello Ermes, stima che impiegando i fondi dei Sad in parti uguali per incrementare gli attuali risparmi di bilancio, sovvenzionare le fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale, Pil ed occupazione crescerebbero rispettivamente dello 0,82% e del 2,3% mentre le emissioni diminuirebbero del 2,68%.

Le conclusioni a cui giunge il Mite – ricorda Energia per l’Italia – sono confortate da ciò che anche l’Agenzia Internazionale dell’Energia sostiene da tempo immemore: le energie pulite hanno costi più bassi rispetto a quelle fossili; l’efficientamento energetico riduce gli sprechi e libera risorse sia per le imprese sia per le famiglie; il costo delle nuove tecnologie “green” è ampiamente compensato dai risparmi conseguibili grazie al minor costo dell’energia ed ai minori sprechi. Quindi, chiede Energia per l’Italia, “perché non liberare progressivamente queste risorse e destinarle ad impieghi più efficienti e sostenibili?

Il Governo – scrivono – invece si attarda sulla conversione dei Sad e risponde alla crisi energetica e climatica con provvedimenti connotati, come scrive Confindustria in una sua nota sul Decreto Aiuti “da una logica d’intervento prevalentemente congiunturale e, dunque, dall’assenza di misure di portata strutturale, che possano sostenere le imprese in una prospettiva di medio periodo”. Quali misure sono più strutturali se non quelle che contribuiscono a modificare radicalmente il mix energetico composto per più dell’80% da fonti fossili e a ridurre selettivamente i consumi energetici?”.

Le agevolazioni alle imprese “energivore”, ad esempio, rafforzate dal Governo per consentire al sistema industriale di far fronte agli extra-costi dovuti agli aumenti dei prezzi di energia elettrica e gas verificatisi a partire dall’ultimo trimestre 2021, “sono concesse in assenza di alcuna correlazione con un uso efficiente dell’energia. L’attuale meccanismo di agevolazione disincentiva gli investimenti in efficienza energetica e autoconsumo” (fonte: Audizione E. ON Italia S.p.A. presso la Commissione X Attività produttive della Camera, del 9 aprile 2019), iscrivendosi così di diritto nella categoria dei Sad.

Al contempo, per effetto del DL Sostegni-ter, convertito dalla legge 25/2022, non sono stati minimamente scalfiti gli extra profitti ottenuti dai produttori di energia elettrica ottenuta da fonti fossili né dalle grandi compagnie Oil & Gas che hanno beneficiato del caro energia (Eni su tutte). In estrema sintesi, per Energia per l’Italia per far fronte al caro energia il Governo utilizza fondi pubblici e concede agevolazioni che disincentivano ciò di cui avremmo maggiormente bisogno (investimenti in efficienza energetica e autoconsumo) avvantaggiando quindi i produttori di energia da fonte fossile e le compagnie che estraggono gas e petrolio i cui superprofitti, ottenuti grazie al caro energia, non vengono neppure tassati.

Ne consegue che il danaro pubblico, una volta uscito dalle casse dell’Erario, per effetto delle politiche governative si trasforma in superprofitti “fossili” lasciando in eredità alle collettività un aggravio del deficit di bilancio. Per questo, secondo il gruppo di docenti e ricercatori, si può classificare il Governo Draghi come G. A. D. (Governo Ambientalmente Dannoso).

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Lo dice anche l’Inps: il problema sono i salari, altro che il reddito di cittadinanza

Dopo l’Istat lo dice anche l’Inps: il 23% dei lavoratori italiani guadagna meno di quanto sarebbe loro assicurato dal Reddito di cittadinanza (780 euro al mese). La quota include lavoratori assunti con contratti part time: sono circa 5 milioni di lavoratori. La retribuzione media lorda pro capite nel 2021 risulta pari a 24.097 euro, compresi i contributi a carico del dipendente, un valore ancora inferiore a quello del 2019 (-0,2%). Per le donne la retribuzione è più bassa in media del 25% rispetto a quella degli uomini: 20.415 euro. Se si considerano solo le occupazioni a tempo pieno e indeterminato il salario lordo annuo è di 39.973 euro per i maschi e 35.477 euro per le donne.

Nei primi 36 mesi di applicazione del Reddito di cittadinanza (aprile 2019-aprile 2022) la misura ha raggiunto 2,2 milioni di nuclei familiari per 4,8 milioni di persone, per un’erogazione totale di quasi 23 miliardi di euro. L’Inps nel suo report annuale scrive che l’importo medio mensile di reddito di cittadinanza risulta per il mese di marzo 2022 pari a 548 euro per nucleo familiare. La scorsa settimana l’Istat aveva calcolato che grazie al sussidio siano state salvate dalla povertà un milione di persone.

«Se il quadro occupazionale appare promettente, segnali più preoccupanti vengono dalla dinamica retributiva», si legge nel rapporto che spiega anche come questa dipenda fortemente dalla attività e dalla copertura contrattuale. Se la retribuzione media giornaliera per i dipendenti a full-time è pari a 98 euro, in sei tra i principali Contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) è inferiore a 70 euro mentre nell’industria chimica è pari a 123 euro. Sempre superiori a 100 euro giornalieri risultano anche i valori medi nei gruppi di Ccnl con meno dipendenti. Per i dipendenti a part-time la retribuzione media giornaliera è pari a 45 euro, ma risulta inferiore a 40 euro al giorno per i dipendenti di alcuni comparti artigiani (metalmeccanico, sistema moda, acconciatura/estetica). I lavoratori dipendenti che percepiscono meno di 9 euro lordi l’ora in Italia sono 3,3 milioni, il 23,3% del totale. È il calcolo dell’Inps che sottolinea anche come il reddito reale sia inferiore rispetto a due anni fa a causa dell’inflazione.

«La crisi – scrive l’Inps – ha lasciato strappi vistosi nella distribuzione dei redditi lavorativi. Se si considerano i valori soglia del primo e dell’ultimo decile nella distribuzione delle retribuzioni dei dipendenti a tempo pieno e pienamente occupati, per operai e impiegati (escludendo dirigenti, quadri e apprendisti), emerge che il 10% dei dipendenti a tempo pieno di tale insieme guadagna meno di 1.495 euro, il 50% meno di 2.058 euro e solo il 10% ha livelli retributivi superiori a 3.399 euro lordi. La retribuzione media delle donne nel 2021 risulta pari a 20.415 euro, sostanzialmente invariata rispetto agli anni precedenti e inferiore del 25% rispetto alla corrispondente media maschile».

Il problema non è il reddito di cittadinanza: sono i salari da fame. Ora notate chi punta il dito sui salari e chi invece continua a bastonare la povertà. Non è difficile.

Buon martedì.

Nella foto: protesta degli studenti e lavoratori contro lo sfruttamento, Università statale di Milano, 8 febbraio 2018

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L’Italia tra salari in calo, lavoratori vulnerabili, inflazione e povertà

Maledetta questa povertà che tutti i giorni dei prodi giornalisti e politici si ingegnano per nasconderla e poi rispunta da qualche fessura lasciata aperta. L’ultimo spiffero è il rapporto annuale dell’Istat. Qualcuno si immagina che sia difficile abusare dei numeri e contraddirli ma vedrete che i truccatori della realtà riusciranno a smentire anche i numeri a forza di scrivere editoriali nei prossimi giorni.

La crociata contro i ‘maledetti’ sussidi che però hanno arginato la povertà

Nel rapporto si legge che i maledetti sussidi (che per qualcuno sono l’unica vera pandemia del nostro Paese) hanno permesso di galleggiare a un bel numero di persone se è vero che l’intensità della povertà, senza sussidi, sarebbe stata almeno di 10 punti percentuali più elevata. Ma c’è poco da stare sereni se è vero che il numero di italiani in povertà assoluta è quasi triplicato dal 2005 al 2021, passando da 1,9 milioni a 5,6 milioni (il 9,4 per cento degli italiani è povero da far schifo) mentre le famiglia sono passate da 800 mila a 1,96 milioni (il 7,5 per cento). Va male, eccome, anche per i minori passati dal 3,8 per cento del 2005 al 14,2 per cento del 2021, mentre i giovani tra i 18 e i 34 anni (quelli che dai giornali sembrano una masnada si scansafatiche che attentano alla produttività nostrana) sono quattro volte di più rispetto al 2005 passando dal 3,1 all’11,1 per cento.

L'Italia tra salari in calo, lavoratori vulnerabili, inflazione e povertà
Aiuti alimentari (Getty Images).

Salari in calo e quasi 5 milioni di lavoratori vulnerabili

Se si dovesse raccontare l’Italia a un marziano, uno che atterra domattina, gli si potrebbe dire che non è mica un problema di disoccupazione, no. Quasi un milione di lavoratori nel settore privato percepisce una retribuzione inferiore ai 12 mila euro in un anno e nei numeri non sono considerati i lavoratori di agricoltura e lavoro domestico, settori che sicuramente trascinerebbero i dati verso il basso. In 1 milione e 900 mila famiglie lavora un solo componente con un contratto a tempo determinato, di collaborazione o part-time (involontario). Sono quasi 5 milioni di lavoratori “vulnerabili”, secondo l’Istat, ovvero il 21,7 per cento del totale. I salari? In discesa, manco a dirlo. Secondo l’Istat «senza rinovi o meccanismo di adeguamento» si tornerebbe «sotto i valori del 2009». Abbiamo di fatto già perso la timida crescita del 2020. «La forte accelerazione dell’inflazione negli ultimi mesi rischia di aumentare le disuguaglianze poiché la riduzione del potere d’acquisto è particolarmente marcata proprio tra le famiglie con forti vincoli di bilancio», osserva sempre l’Istat. I dipendenti pubblici? Pochi e anziani. «Tra le economie europee per le quali sono disponibili dati comparativi, sia pure con le cautele di un simile confronto, i dipendenti pubblici in Italia sono i meno numerosi in rapporto alla popolazione (5,6 ogni 100 abitanti) e i più anziani», scrive l’istituto di statistica.

L'Italia tra salari in calo, lavoratori vulnerabili, inflazione e povertà
Pacchi di pasta lasciati a Roma (Getty Images).

Quando l’eredità diventa l’unico welfare

Non serve certo un genio della politica o della sociologia per capire come tutto questo comporti un crollo delle nascite e dei matrimoni. Viene difficile organizzare una vita, un progetto “per tutta la vita”, quando il contrato che si ha tra le mani prevede un futuro lungo al massimo fino a fine mese sperando poi di meritarsene un altro per qualche spicciolo di mesi ancora. Il problema non è solo economico: questo è un Paese che non ha nessuna sensazione diffusa di possibilità di riscatto. È un Paese in cui la ricchezza, o anche solo la tranquillità economica, può arrivare da ciò che lasciano i genitori, gli zii e i nonni. L’eredita del lontano parente di Brooklyn che fino a qualche decennio fa era un barzelletta oggi è l’unico welfare che potrebbe spingere una giovane coppia a immaginare un futuro insieme.

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I “taxi del mare” li gestiscono gli italiani (e non le Ong)

Lo scrive l’Ansa. Una sospetta organizzazione criminale avrebbe organizzato “viaggi di lusso” utilizzando gommoni veloci partiti dalla Tunisia per raggiungere le coste di Agrigento e Trapani, in Sicilia, garantendo la sicurezza e la riservatezza delle persone in fuga dalle autorità nordafricane, ha affermato mercoledì la Guardia di Finanza di Agrigento.

L’organizzazione transnazionale avrebbe incluso due fazioni: una formata da tunisini e un’altra da siciliani delle città di Canicattì e Marsala, riferiscono fonti investigative.

I 10 presunti membri del gruppo sono accusati di favorire l’immigrazione clandestina. Un numero imprecisato di membri è anche sospettato di stretti legami con organizzazioni terroristiche internazionali, hanno rivelato fonti investigative.

L’associazione sarebbe guidata da un uomo di 46 anni di Canicattì e da due tunisini, di 51 anni, sospettati di aver finanziato e organizzato le attività del gruppo, riferiscono fonti investigative.

Nel gruppo un altro nativo di Canicattì, 62 anni, sarebbe stato in contatto con associati tunisini mentre un altro membro dell’organizzazione, 39 anni, guidava le barche e si occupava della loro manutenzione e sicurezza.

Gli investigatori hanno affermato che l’indagine ha rivelato la capacità dell’organizzazione criminale transnazionale di offrire nuovi “servizi” nel traffico di migranti volti a rendere più sicuri gli attraversamenti, in cambio di tariffe più elevate.

L’organizzazione avrebbe anche garantito che i migranti non sarebbero stati identificati una volta giunti in Italia.

I collegamenti marittimi tra la Tunisia e la costa siciliana intorno a Trapani e Agrigento furono offerti a gruppi di nordafricani che potevano permettersi l’alto costo dell’esclusivo viaggio a bordo di barche veloci.

Secondo fonti investigative, il servizio offerto non si sarebbe concluso con lo sbarco ma prevedeva forme di assistenza volte a garantire la permanenza dei migranti sul territorio italiano.

La polizia ha documentato i continui contatti telefonici tra i presunti membri della banda indagati, l’acquisto di schede telefoniche, il noleggio di costose barche, automobili, telefoni, appartamenti per ospitare migranti e magazzini per riporre le barche. Secondo fonti investigative, i membri avrebbero anche utilizzato regolarmente messaggi crittografati e avevano una rete di contatti stabili con organizzazioni tunisine.

Chissà se Salvini e Meloni ora riusciranno a capire che come al solito hanno sbagliato mira, prendendosela con i poveri e tacendo vigliaccamente con i ricchi e potenti.

Buon lunedì.

Nella foto: frame di un video della Guardia di Finanza di Agrigento, 6 luglio 2022

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“Basta furore bellicista. Chi è contro la guerra non sta con il dittatore”

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Da poco, per le edizioni People, è uscito il suo libro Maledetti pacifisti che prova a rimettere un po’ di ordine nell’assurdo dibattito che si è acceso in Italia: Nico Piro è un inviato speciale del Tg3 e della Rai, specializzato in aree di crisi e di conflitto. È uno dei massimi esperti di Afghanistan in Italia e nel mondo. Per il suo lavoro ha ricevuto il Premio Ilaria Alpi, il Premiolino, il Premio Luchetta, il Premio Alberto Jacoviello, il Premio Paolo Frajese e il Premio Giancarlo Siani.

Nico Piro, come va la guerra in Ucraina?
“Sta andando nella maniera in cui era prevedibile, se si fossero fatte delle previsioni in buona fede. Chi si è basato su fonti interessate (dal ministero alla difesa britannico alle fonti mai nominate dell’intelligence Usa) si aspettava il collasso militare russo, lo scontro tra oligarchi, la rivolta popolare per il collasso dell’economia. Ma io a metà marzo ho scritto che sarebbe andata in stallo, che sarebbe durata anni. Se ci sono arrivato io poteva farlo anche la Nato, che l’ha detto solo 2 settimane fa. Ha sbagliato previsione o ha dilazionato concetti che aveva ben chiari?”.

Intanto questa guerra fa sempre meno notizia…
“L’Occidente ha dimostrato più volte che usa l’oblio per risolvere i problemi. È lo strumento che siamo destinati a utilizzare anche questa volta”.

Si aspettava questo furore bellicista in Italia
“Da un mondo politico anestetizzato e senza passione per temi importanti (come le morti sul lavoro) non mi sarei mai aspettato che trovassero tutta questa passione trasformando la guerra come idolo. Ormai la guerra è una rigenerazione morale della nostra società o quanto meno un terreno di prova: se sei per la guerra sei una persona retta, se hai dubbi sei amico del dittatore. Per questo ho sentito il bisogno di scrivere il mio libro”.

Che opinione ha sulla reazione della politica
“Mi ha lasciato di sasso l’incapacità della politica di guardare in prospettiva. È evidente che dopo il 24 febbraio ci dovesse essere una risposta, questo è fuori discussione, ma ai militari che io per lavoro frequento si insegna che quando attacchi devi crearti una via di fuga. La politica italiana ha attaccato senza via di fuga, senza considerare la complessità delle relazioni. Senza considerare quello che sta accadendo. I pacifisti sanno che non c’è una soluzione militare: si troverà un compromesso ma più passa il tempo e più il prezzo è alto in termini di vite umane. E soprattutto ora la Russia ha un vantaggio di territori che prima non aveva”.

So già l’obiezione che le faranno: bisognava regalare a Putin un pezzo dell’Ucraina
“Esistono apparati ben pagati, ben costosi e formati che si occupano di diplomazia. La risposta la devono dare loro. Se il mandato politico è quello di Borrel (ovvero che la soluzione è il campo di battaglia) il vero problema è non volere la pace. Non c’è un mandato politico per la pace. Noi abbiamo dato 20 anni alla guerra in Afghanistan per dimostrare di poter essere una soluzione. Mi pare non abbia funzionato”.

Dicono che così si lascia campo aperto a Putin…
“È la teoria che ha portato al Vietnam (con il comunismo in tutta l’Asia) e i conflitti angloafghani nell’800 contro l’impero russo. Teoria smentita dalla storia”.

Che ne pensa di Svezia e Finlandia ammesse nella Nato sulla pelle dei curdi?
“Loro hanno legittimamente aderito alla Nato, soprattutto dopo la guerra Ucraina e una ragionevole paura. La vicenda dei curdi però è vergognosa perché dimostra come la parola dell’Occidente non abbia valore (abbiamo sconfitto l’ISIS grazie a loro) e come abbiamo perso qualsiasi dignità. E poi dimostra che abbiamo parametri morali a geometria variabile: non trattiamo con Putin ma trattiamo con chi manda in galera giudici, giornalisti, accademici, cioè Erdogan. Tra l’altro creando una situazione di dipendenza già nata con la Turchia sui rapporti con i migranti. Non solo legittimiamo una dittatura ma ce ne stiamo rendendo dipendenti. Cosa accadrà prossimamente con i giacimenti di gas al largo di Cipro?”.

Come resiste alle provocazioni e agli attacchi?
“Dietro a queste provocazioni non ci sono solo singoli. È evidente che ci sono delle batterie organizzate. Io sono contrario a tutte le manipolazioni della conversazione pubblica, non sopporto né i filo-russi né i filo-guerra. Resisto perché cadere nelle provocazioni significherebbe solo fare il loro gioco”.

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La ricetta spagnola funziona. Da noi i diritti restano un tabù

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“Abbiamo cambiato paradigma, aumentando diritti e salari per tutti e sanando una disfunzione. L’altra cosa bella sa qual è? Che a livello economico funziona”. In Italia se qualcuno pronunciasse una frase del genere sarebbe ritenuto idealista, sognatore e nel peggiore dei casi un nemico dello Stato e delle imprese. Eppure sono le parole della vicepresidente del governo spagnolo Yolanda Diaz, espressione di Unidas Podemos e ministro del Lavoro in Spagna dove all’inizio di quest’anno è stata varata una riforma del lavoro con il dichiarato intento di ridurre la precarietà.

La ministra del Lavoro spagnola Diaz parla di dati record. Ad aprile i lavoratori stabili sono saliti a 12,8 milioni

A Repubblica Diaz ha demolito con poche parole tutti gli interessati pregiudizi di un certo mondo delle imprese italiane e ha capovolto la narrazione italiana: “Stiamo dimostrando – dice Diaz intervistata dal quotidiano romano – che l’assunto di partenza del dibattito era falso, ovvero che non ci potessero essere maggiore stabilità e maggiori diritti, specie in due grandi settori per noi come turismo e agricoltura. Invece i dati ci dicono il contrario, i nuovi contratti aumentano e questo sta avvenendo anche nei mondi tipicamente stagionali, grazie ai contratti discontinui ma stabili (fijos-discontinuos, ndr). Un lavoro di qualità è un bene per le aziende stesse, il lavoro precario rende anche le imprese precarie”.

Chissà che ne pensano gli astuti editorialisti di casa nostra che ogni giorno si spremono per trovare qualche testimonial del lavoro precario come unica alternativa per salvare la stagione estiva. A parlare per la riforma del lavoro in Spagna sono i numeri: ad aprile secondo i dati dell’Istituto Nazionale di Statistica (Ine) erano 12,8 milioni i lavoratori spagnoli ad avere un contratto stabile, un record reso possibile anche da 1.450.093 contratti firmati solo nel mese di aprile di cui 698.646, ovvero il 48,2%, a tempo indeterminato. La riforma, frutto di un ampio consenso tra governo e sindacati, era passata lo scorso 3 febbraio con 175 sì e 174 no, curiosamente grazie a un errore nel voto del deputato popolare Alberto Casero.

È stata fortemente voluta anche dalla Commissione europea che l’ha inserita tra le condizioni per accedere ai fondi del NextGen EU per ridurre la precarietà e per correggere le storture della negoziazione collettiva. Vengono previsti solo due tipi di contratto a termine: quello strutturale, per ragioni legate alla produzione e quello di sostituzione di un altro lavoratore. In entrambi i casi il contratto può avere una durata massima di 6 mesi, estendibili a un anno solo per circostanze particolari previste nell’accordo collettivo.

Spariscono di fatto i contratti a termine di cui le imprese (in Spagna e anche da noi) hanno abusato per anni. Anche le sanzioni sono più severe: le multe colpiranno le imprese per ogni contratto irregolare. Per garantire invece la flessibilità nei settori con un alto numero di lavoratori stagionali i nuovi contratti restano a tempo determinato ma prevedono forme di tutela simili a quelle garantite dai contratti a tempo indeterminato sia in termini di salario sia in termini di scatti di anzianità.

La nuova legge prevede anche il ritorno alla centralità della contrattazione collettiva e dei sindacati. Viene impedita la possibilità, introdotta con la riforma del 2012, di sostituire tramite accordi d’azienda i contratti collettivi in scadenza. Quando un contratto collettivo arriverà alla data di scadenza, potrà comunque rimanere in vigore finché non verrà raggiunto un nuovo accordo con le parti sociali. Anche sulle assunzioni mediante l’utilizzo di società multiservizi viene imposta un giro di vite: i datori di lavoro dovranno garantire, infatti, salari e condizioni contrattuali stabilite dal contratto di collettivo di settore anche per i lavoratori interinali, cancellando di fatto la scorciatoia delle agenzie di lavoro come serbatoio di manodopera a basso costo e senza diritti.

Per evitare che il contratto di formazione fosse una furberia ne sono state previste due categorie: quello di alternanza studio-lavoro che è però retribuito e il tirocinio professionale. L’alternanza scuola lavoro può durare dai 3 mesi a due anni e la retribuzione è quella stabilita dal contratto collettivo.

Nel caso non sia previsto, la retribuzione comunque non può essere inferiore al 65% il primo anno, e al 75% il secondo anno, rispetto a quella fissata dal contratto del settore per l’attività svolta. Ma ad essere tutelate sono anche le imprese: la legge oltre a facilitare l’accesso agli Erte (una sorta di cassa integrazione) introduce il meccanismo Red di Flessibilità e Stabilizzazione dell’Impiego. Si tratta di una misura per permettere alle aziende in difficoltà di ridurre la giornata lavorativa o sospendere i contratti su iniziativa del Consiglio dei Ministri.

La misura può essere ciclica (quando la situazione macroeconomia generale lo richiede) e settoriale (quando in un settore è necessario un processo di riqualificazione e transizione professionale dei lavoratori). Temi che in Italia sono trattati come se fossero brigatismo sindacale, in Spagna sono già legge. È tutto scritto, basterebbe avere voglia di leggere e prendere esempio.

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Cambiamenti climatici, Draghi e Cingolani inadeguati alla sfida

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Stefano Caserini, ingegnere ambientale e dottore di ricerca, svolge da anni attività di ricerca e di consulenza per enti pubblici e privati sulle strategie di riduzione delle emissioni di inquinanti atmosferici e climalteranti. Titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano, è autore di numerose pubblicazioni scientifiche e divulgative. Il suo ultimo libro è “Sex and the climate. Quello che nessuno vi ha ancora spiegato sui cambiamenti climatici”, uscito a gennaio per People.

Caserini, si sono svegliati tutti improvvisamente sul cambiamento climatico?
“È una cosa ricorrente, accade d’estate. Anche in passato d’estate per una settimana s’è parlato, in più ora c’è stata la tragedia della Marmolada. Si sa che andiamo verso un aumento di attenzione. Poi magari l’anno prossimo sarà un incendio piuttosto che un ghiacciaio”.

Nel frattempo sono spuntati anche i negazionisti…
“Sì, ma sono sempre di meno, sono sempre quei quattro gatti che riciclano le solite cose, piuttosto patetiche. Sono casi umani che non contano più niente se pensiamo alle grandi scelte che vengono fatte a livello europeo. Le decisioni, per fortuna, non tengono conto degli articoli de Il Foglio o La Verità. Un pezzo di classe dirigente non si muove perché ha in testa queste sciocchezze ma i negazionisti che 10 o 15 anni fa occupavano Il Sole 24 Ore e Corriere ormai sono scomparsi, sono ignorati dai grandi media, salvo poche eccezioni. Forse sono diventato troppo ottimista ma credo che qualsiasi persona intelligente non potrebbe dare corda ai negazionisti. È vero però che inconsciamente tutti noi non vorremmo farei conti con la gravità della situazione. Molti studi dicono che questi atteggiamenti servono per non affrontare la condizione sistemica che ci angoscia”.

Eppure alcuni sono gli stessi che decantavano la scienza e se la prendevano con i No Vax…
“Li vedo più come inattivisti che negazionisti. Il negazionismo nega la scienza del clima, dice che le cause sono altre. L’inattivismo – termine coniato dal climatologo Micheal Mann – è più subdolo e pericoloso perché non entra nel merito e ci dice che dobbiamo agire con calma. Non accetta l’urgenza dell’azione, i tempi della transizione. Se noi vogliamo rispettare l’accordo di Parigi che abbiamo ratificato la transizione deve essere fatta in 30 anni, non in 100. Non voler accettare le conseguenze della scienza del clima è tipico dell’inattivismo che mette in discussione non le cause causa ma il fatto che che dobbiamo agire. L’inattivista magnifica i problemi della transizione e non vede i benefici, non ascolta gli studi che invitano ad agire rapidamente sul cambiamento climatico”.

Ieri nucleare e gas sono entrati nella tassonomia verde europea, qualcuno dice che è un brutto colpo per la transizione ecologica. È d’accordo?
“Non dobbiamo esagerare. Certamente è un segnale negativo, ricordiamoci però che la politica europea è fatta di una quantità di pacchetti di azioni e interventi e con questa votazione non “crolla” tutto. L’impalcatura Ue è composta di tanti tasselli, al massimo ora si indebolisce dal punto di vista finanziario. Non la metterei giù così dura. La cosa preoccupante è che dovremo mettere in campo cambi pesanti e non lo stiamo facendo. Non stiamo mandando abbastanza segnali ai cittadini.

Come giudica l’operato di Draghi e Cingolani sulla transizione?
“Da osservatore li ritengo non adeguati alla sfida che abbiamo davanti. Sia dal punto di vista dei messaggi a livello comunicativo sia nelle scelte. Draghi e Cingolani certo non negano ma nella realtà non mi sembra che l’azione sul clima sia considerata una priorità all’interno del sistema di sviluppo socioeconomico che ci si vuole dare. Con questo tipo di approccio difficilmente così riusciremo a gestirla. Se poi diciamo che la transizione sarà un bagno di sangue che messaggio ne esce? È il legislatore che deve dimostrare di saper gestire gli impatti della transizione. Del resto ci sono più fondi e persone che lavorano per le Olimpiadi invernali di Milano-Cortina che per le politiche di adattamento ai cambiamenti climatici”.

Intanto è spuntato il nuovo asse Renzi-Calenda-Salvini sul nucleare…
“Non ci vorrei perdere troppo tempo. Il nucleare non ha nessuno possibilità di sviluppo qui da noi. Nei Paesi in cui già c’è si può discutere ma dove non c’è immaginarlo nei tempi della transizione energetica è praticamente infattibile. Non è nemmeno una questione politica o ideologica. Noi dobbiamo ridurre molto le emissioni in 10 anni, quindi è un dibattito che si basa sul nulla. Il cuore è il sole e il vento, lo si vede negli scenari dell’IPCC, e noi abbiamo sole e vento. L’energia solare è la leva centrale per lo sviluppo del Paese. E stiamo qui a parlare di nucleare? È un modo per perdere altro tempo. Facciamo fatica a mettere antenne 5G, impianti di compostaggio e inceneritori (che se bene gestiti inquinano meno della legna bruciata nelle case):  come possiamo pensare di mettere 20/30 centrali nucleari (perché questi sono gli impianti che servirebbero) in Italia Vorrei conoscere qualcuno che avvii un processo partecipativo”.

Conterà la questione ambientale alle prossime elezioni?
“Sicuramente nelle prossime elezioni sarà molto più presente. Cresce il tema perché la gente se ne accorge. Una volta erano un temi dei Verdi, ora è di tutto il centrosinistra. Quanto questo conterà nei rapporti di forza non lo so ma dipende molto dai mezzi di informazione. Da noi i mezzi di informazione tra l’altro di fatto non vogliono spingere verso la transizione decisa e per l’abbandono dei combustibili fossili. Sono certo che conterà di più, “quanto” lo vedremo”.

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I curdi svenduti al sultano. A Rampini & C. sta bene così

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Federico Rampini non riesce a trattenersi e ospite della trasmissione In Onda su La7 lo dice chiaro e tondo: “La vita di oltre 50.000 curdi, esuli in Svezia e Finlandia sono un costo accettabile per lo sblocco delle derrate di grano”, con un cinismo raggelante che smonta in un attimo tutta l’ipocrisia del Partito Unico Bellicista, il fronte che si finge “umanitario” per spingere e sostenere le guerre che interessano a loro e che contemporaneamente riesce a considerare altre guerre (poco convenienti) come l’ineludibile effetto collaterale degli accordi geopolitici.

Le bombe di Erdogan sui curdi hanno lo stesso rumore delle bombe che riempiono i giornali tutti i giorni

Eppure le bombe di Erdogan sui curdi hanno lo stesso rumore delle bombe che riempiono i giornali tutti i giorni, eppure anche Erdogan vuole negare ai curdi il diritto di esistere sognando di eliminarli non solo fisicamente ma cancellando anche la loro cultura, la loro lingua e la loro storia. Come accade in altri angoli del mondo anche qui Erdogan ha cominciato la sua personale guerra contro i curdi anni fa e il mondo non ha mosso un dito.

Fingeranno di accorgersene quando Erdogan non sarà più dittatore utile e sarà più conveniente dipingerlo come un pericoloso tiranno che sovverte l’ordine occidentale. Non stupitevi se a farlo saranno gli stessi che oggi lo giustificano o lo tollerano (Rampini in testa): avere poca memoria e breve è il segreto del successo per l’ipocrisia del partito delle guerre giuste.

Ha ragione Alessandro Robecchi quando dice “leggo i giornali e non trovo liste di erdoganiani additati al pubblico ludibrio. Niente titolo “Ecco chi tifa Erdogan”, niente nomi, niente fotine segnaletiche, niente “Ecco chi sta con il dittatore”, niente Copasir, va tutto benissimo, no?”. Il segreto è riuscire a indossare la malafede con eleganza, intonandola alla cravatta e ai desiderata del proprio editore.

Altrimenti oggi provocherebbe il giusto scalpore che il ministro della giustizia turco Bekir Bozdag annunci trionfante di avere “inviato una lettera a Svezia e Finlandia per ricordare loro le nostre richieste relative all’estradizione dei terroristi del Pkk e della Feto”. Ci farebbe inorridire che nella lista di Erdogan compaia Bülent Kenes, per anni caporedattore di Today’s Zaman, un importante quotidiano in lingua inglese in Turchia.

Kenes risulta condannato per “avere insultato il presidente”, roba che ha ben poco a che vedere con le cosiddette democrazie liberali che l’Occidente si fregia di ospitare. Oppure oggi ci dovremmo indignare per il nome su quella lista infame di Erdogan di Aysen Furhoff che è arrivata in Svezia dopo avere scontato 5 anni di carcere in Turchia perché diciassettenne avrebbe tentato di “sovvertire l’ordine costituzionale” turco (quello stesso ordine costituzionale che Erdogan calpesta tutti i giorni) e che è stata torturata prima di ottenere protezione in Svezia. Furhoff in un’intervista alla Bbc racconta che da 20 anni non ha più nessun interesse e nessun ruolo nel dibattito politico turco ma denuncia che se verrà rimandata in Turchia “sarà tutto inutile”. “Tutti quelli che coi quali ho collaborato sono morti o in carcere” racconta Furhoff.

Quando Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, dice che “questo è veramente un momento storico per queste due nazioni, per la Nato e per la sicurezza condivisa” e che “le porte della Nato restano aperte per le democrazie europee che sono pronte e vogliono contribuire alla sicurezza condivisa. Con 32 Paesi intorno al tavolo, saremo ancora più forti e i nostri popoli saranno ancora più sicuri mentre affrontiamo la più grande crisi di sicurezza in decenni” si dimentica di aggiungere che il popolo curdo è l’agnello sacrificale di questo accordo e che Erdogan ha chiesto (e ottenuto) l’abbandono del sostegno – in ogni sua forma- al popolo curdo e la fine dell’embargo sulle armi imposto alla Turchia nel 2019 in risposta all’offensiva tua contro i curdi in Siria del Nord.

Eppure sono gli stessi curdi che sono serviti all’Occidente per raggiungere i suoi obiettivi di politica estera, quei curdi che poi regolarmente ogni volta vengono abbandonati quando gli obiettivi sono raggiunti. Sono gli stessi curdi traditi dopo la Prima guerra mondiale con la promessa di un Kurdistan per il popolo curdo che venne disattesa per volere della Turchia. Sono i curdi usati durante la Guerra fredda per destabilizzare i paesi mediorientali dagli Usa.

Sono i curdi armati all’inizio degli anni ’70 contro Saddam Hussein poi lasciati soli a subire la repressione. Sono gli stessi curdi che divennero, soprattutto in Siria, i soldati sul campo per la guerra contro l’ISIS, sostenuti con armi e bombardamenti americani. Quei curdi lasciati soli con l’ignobile ritiro delle truppe Usa (su decisione di Trump, spinto da Erdogan) dopo essere stati addirittura convinti a smantellare le proprie posizioni difensive.

Scriveva nell’ottobre 2019 Delil Souleiman, fotoreporter curdo per Afp: “Abbiamo sacrificato migliaia dei nostri figli per eliminare il terrorismo. E i nostri partner, gli Stati Uniti, ci hanno lasciati soli ad affrontare la Turchia. Trump ci ha tradito, come ci è successo per tutta la nostra storia. Siamo qui da secoli e sappiamo che le grandi potenze del Medio Oriente sono spietate nei confronti delle altre etnie, che saranno massacrate oppure arabizzate o turchizzate, come accaduto per gli antenati dei loro nemici.

Prima fotografavo battaglie che avvenivano altrove e tornavo a casa per riposarmi. Ma adesso, dopo aver assistito a battaglie e bombardamenti, torno a casa mia e ritrovo lo stesso destino, la stessa fatica, la stessa mancanza di sicurezza e certezze. La paura ci accompagna anche quando andiamo a letto”. Per sopravvivere a questa tragica ipocrisia bisogna essere come i tanti Rampini del Pub: essere cinicamente convinti di stare dalla parte giusta della storia. Continuate così.

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Colpa sua che si è fatta stuprare

A Torino un uomo condannato in primo grado per violenza sessuale è stato assolto dalla Corte d’Appello perché la vittima, si legge nella sentenza, avrebbe indotto l’imputato a «osare».

Eppure in tutta questa storia c’è una frase sostanziale della ragazza: «Gli dissi chiaramente: non voglio». Per questo ora la sentenza è stata impugnata dalla Corte di Cassazione.

Il fatto sarebbe avvenuto nel bagno di un locale di Torino. La ricostruzione dei giudici è da brividi. Scrivono che la ragazza «alterata per un uso smodato di alcol (…) provocò l’avvicinamento del giovane che la stava attendendo dietro la porta», che «si trattenne in bagno, senza chiudere la porta, così da fare insorgere nell’uomo l’idea che questa fosse l’occasione propizia che la giovane gli stesse offrendo. Occasione che non si fece sfuggire». L’imputato «non ha negato di avere abbassato i pantaloni della giovane» rompendo addirittura la cerniera: secondo il giudice della Corte d’appello, tuttavia, «nulla può escludere che sull’esaltazione del momento, la cerniera, di modesta qualità, si sia deteriorata sotto forzatura».

Il sostituto procuratore generale Quaglino nel suo ricorso definisce la sentenza «illogica» confermando che il dissenso della ragazza è stato espresso ripetutamente con «parole e gesti».

La sentenza, ci permettiamo di dire, oltre che illogica è pericolosa perché è l’ennesima porcata nel Paese in cui ci si ostina a dire alle donne “denunciate” e poi si raccolgono i cocci di un sistema che le rivittimizza senza pietà.

Buon venerdì.

Nella foto: presidio di “Non una di meno” per denunciare l’inadeguatezza delle modalità processuali e la mancanza di preparazione di giudici nel tutelare le vittime dei reati di violenza, Milano, 11 aprile 2017

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Pure Pd e destre non ne possono più del governo Draghi

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La sintesi migliore, seppur cattiva, l’ha fatta Alessandro Di Battista: “E anche oggi il Movimento 5 Stelle esce domani – scrive sul suo account Facebook -. Esprime a Draghi il proprio disagio, come se uno dei peggiori presidenti del Consiglio della storia fosse un prete nel confessionale.

Il governo Draghi, checché ne dicano alcuni commentatori interessati, è sbriciolato da tempo

Chissà, magari il Movimento uscirà dal governo dopo l’estate, quando i parlamentari avranno maturato la pensione. Magari uscirà dopo la finanziaria, momento d’oro per chi è alla ricerca di denari da trasformare in markette elettorali. O forse non uscirà mai”. In realtà Giuseppe Conte chiarisce di “non aver dato rassicurazioni a Mario Draghi sulla permanenza nel governo” e lega il futuro dell’esecutivo dei migliori alle risposte che arriveranno dal presidente del Consiglio.

Di risposte non ne arriveranno o se arriverà qualcosa saranno mezze promesse impossibili da mantenere. Il governo Draghi, checché ne dicano alcuni commentatori interessati, è sbriciolato da tempo, resta in piedi un po’ per l’atavica paura della classe politica di fronte alla possibilità del voto, un po’ per la ciurma trasversale dei parlamentari terrorizzati dal doversi trovare un lavoro e un po’ perché la retorica dell’emergenza – anche se siamo in emergenza praticamente da tre anni – attecchisce ancora tra qualche leader di partito.

Il governo Draghi però non traballa “per l’irresponsabilità del M5S” come scrive qualcuno. Il M5S ha messo sul tavolo temi che ritiene identitari – come il reddito di cittadinanza, il salario minimo, la transizione ecologica, il superbonus 110% – ma soprattutto ha fatto presente (e questo lo sanno tutti) che un governo che si rivende come “apolitico” o “tecnico” logora i partiti e rinforza i portatori di interessi.

Dall’altra parte anche la Lega punta su “aumento di stipendio e pensioni, lavoro e taglio delle tasse” rilanciando anche “l’autonomia e la lotta all’immigrazione clandestina”. La linea della responsabilità in casa leghista si attenua giorno dopo giorno. Per ora Salvini punta il dito contro la “sinistra” ma è solo il trucco per avere a disposizione “provocazioni” da sventolare in caso di rottura con il governo.

La base del Carroccio è in subbuglio, le recenti sconfitte alle elezioni amministrative e sui referendum stanno mettendo all’angolo Salvini che infatti ha offerto un patto di cogestione del partito fino alle prossime elezioni ai “governisti” Zaia e Giorgetti con cui litigava fino a pochi giorni fa. Nel vertice milanese del partito è emerso come tema di dibattito lo scetticismo “di gran parte del partito” nei confronti del governo Draghi.

Il capogruppo della Lega in Senato Massimiliano Romeo continua a ripetere di “avere messo in conto qualche sacrificio in termini di consenso elettorale decidendo di sostenere il governo Draghi” ma che ora serve una svolta nei rapporti con il governo ben superiore a quella che traspare dalle dichiarazioni ufficiali.

Nel frattempo Enrico Letta – almeno a parole – conferma di “non voler arretrare di un millimetro sullo Ius Scholae” e di non essere disposto “a subire ricatti”. Il vice segretario del Pd Peppe Provenzano rilancia la battaglia sui “salari, diritti, lotta alla precarietà” e “un’agenda sociale per rispondere ala rabbia”.

La tragedia della Marmolada nelle ultime ore ha evidenziato anche la distanza tra le diverse forze politiche su come si intende attuare la transizione ecologica con l’asse Renzi-Salvini-Calenda che – sempre a proposito della “responsabilità” che tanto decantano – sta spingendo sul ritorno del nucleare. L’aspetto più curioso è che tutti questi governano insieme.

L’ipocrisia del governo Draghi. Si impallinano tutti i giorni ma siedono allo stesso tavolo

O almeno dovrebbero. Si impallinano tutti i giorni e siedono allo stesso tavolo del Consiglio dei ministri. Questa è la vera ipocrisia del governo dei migliori: starci fingendo di non esserci, come nella peggiore tradizione politica italiana. E forse il governo è già finito e semplicemente manca un matto che dica che il re è nudo.

Leggi anche: Sull’appoggio o meno al governo dei Migliori, il M5S è spaccato in due. Ecco chi vorrebbe affondare

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