Vai al contenuto

Campioni del mondo (di sfruttamento)

Tra i Rinascimenti di cui ci dobbiamo vergognare in giro per il mondo un capitolo se lo merita il prossimo Mondiale di calcio che si terrà in Qatar. Prima ancora che inizino le partite si è già riusciti a quantificare almeno 440 milioni di dollari che la Fifa (secondo i calcoli contenuti nell’ultimo rapporto di Amnesty International) dovrebbe dare ai lavoratori migranti che hanno subito “violazioni dei diritti umani in Qatar” prima della Coppa del Mondo del 2022.

La richiesta di Amnesty, sostenuta da altre organizzazioni per i diritti umani, è stata avanzata dopo le ripetute critiche per il ritardo della Fifa nel reagire alle precarie condizioni dei lavoratori impiegati nei cantieri collegati ai Mondiali nel ricco Stato del Golfo. Secondo Amnesty, questa somma, che sarà divisa tra le 32 squadre partecipanti al torneo, è il “minimo necessario” per risarcire i lavoratori e proteggerli da futuri abusi. L’organizzazione ha citato in particolare «i salari non pagati, le estorsive tasse di assunzione pagate da centinaia di migliaia di lavoratori e il risarcimento per infortuni e morti». Amnesty aveva accolto con favore le riforme sociali decise dal Qatar nel 2018 e il miglioramento delle condizioni sui siti ufficiali dei Mondiali inaugurati nel 2014. Tuttavia, secondo la Ong, queste regole non sono sempre rispettate e gli abusi persistono.

«Secondo i Principi guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani, la Fifa deve garantire il rispetto dei diritti umani nell’organizzazione e nell’organizzazione della Coppa del Mondo, anche effettuando il proprio monitoraggio indipendente e regolare dei progetti e delle sedi della Coppa del Mondo e conducendo la diligenza dovuta per identificare e prevenire qualsiasi violazione dei diritti umani associata al torneo» ha scritto Amnesty International. «Fondamentalmente, la Fifa ha anche la responsabilità di garantire che tutti i danni subiti dai lavoratori nei progetti relativi alla Coppa del Mondo fino ad oggi siano adeguatamente risolti, in collaborazione con le autorità del Qatar e altre parti interessate». «Questa Coppa del Mondo semplicemente non sarebbe possibile senza i lavoratori migranti, che costituiscono il 95% della forza lavoro del Qatar. Ma troppo spesso questi lavoratori scoprono ancora che il loro tempo in Qatar è caratterizzato da abusi e sfruttamento», ha affermato Steve Cockburn, Head of economic and social justice di Amnesty International.

La Coppa del Mondo della sfruttamento è già assegnata. Ora non resta che godersi le partite sul divano ringraziando il cielo perché anche questa volta non è toccato a noi.

Buon martedì.

Nella foto: un cantiere a Doha, 1 aprile 2022

L’articolo proviene da Left.it qui

L’antimafia di plastica

Per la trentesima volta questo disgraziato Paese commemora Giovanni Falcone con la postura di chi si apparecchia al ballo di fine anno, quella cerimoniosa affettazione in cui la mafia diventa un uomo sporco e cattivo (Salvatore Riina che ordina l’attentato, Giovanni Brusca che innesca il tritolo) e l’antimafia diventa un movimento senza facce, buono solo per qualche simbolo (Falcone e Borsellino in primis) facendola diventare un insieme senza personalità.

Accade in ogni anniversario che i giornali si riempiano di sfumature umane, a volte perfino pelose, e di testimonianze che ogni volta dimenticano il sistema. Sì, sistema: Giovanni Falcone non è stato ucciso dalla violenza omicida di un singolo uomo. Giovanni Falcone è stato ucciso da chi ha schiacciato quel maledetto pulsante del tritolo sotto la strada di Capaci, Giovanni Falcone è stato ucciso dall’ordine di Riina ma soprattutto Giovanni Falcone è stato ucciso dai boss di Stato, coloro che hanno convenuto per quella strage e che, a differenza di Cosa nostra, sono sempre stato impermeabili a qualsiasi occasione di pentitismo o perfino di etica collaborazione.

La memoria è un muscolo che va allenato per rimanere lunga e performante. Assistere oggi a tutte queste prime pagine in cui campeggia Giovanni Falcone è la fotografia di un tema, quello della mafia, che torna utile per le commemorazioni e poi viene rimesso nel cassetto fino all’anniversario successivo. Nel trentennale della morte di Giovanni Falcone ci siamo fatti sfuggire l’occasione di discutere dell’operazione Crimine infinito che ha svelato la ‘ndrangheta in Lombardia e che ha lasciato indenne la classe politica che brigava con quegli uomini di mafia e oggi continua a essere classe dirigente. Chissà che ne avrebbe detto Falcone di un’operazione con centinaia di condanne senza nemmeno un’ombra di un qualche colletto bianco. Nel trentennale siamo riusciti a non dibattere dell’operazione Aemilia che fotografa la criminalità organizzata in Emilia Romagna e che sembra interessare solo “gli specialisti del settore” (e pensare che essere antimafiosi dovrebbe essere un prerequisito, mica un’inclinazione). Ci stiamo facendo passare il processo che in Calabria ha numeri record, roba da maxi processo, e che invece finisce sui giornali solo per randellare un magistrato.

Ormai Falcone e Borsellino sono come le mimose: vengono esposti il giorno prima e vengono tolti dalle bancarelle nel giorno successivo. Non è un gran vedere.

Buon lunedì.

</a

L’articolo proviene da Left.it qui

Il governo Draghi ostaggio di se stesso e la rarefazione dei partiti

Forse sarebbe il caso di dirci, di appuntarlo da qualche parte, che al di là delle preferenze politiche di ciascuno non è normale e non è una buona notizia che il governo Draghi abbia usato per 50 volte il voto di fiducia in soli 15 mesi. Mario Draghi è ricorso alla fiducia per l’ultima volta lo scorso mercoledì (due volte, sul dl Ucraina bis alla Camera e sul dl Riaperture al Senato) e si appresta a utilizzare il 51esimo voto di fiducia sul ddl Concorrenza. Siamo, per dire, a livello del governo Monti (che usò 51 fiduce però in 17 mesi, due mesi in più dell’attuale esecutivo), e forse ricorderete lo sdegno generale su televisioni e giornali quando il governo Renzi usò il voto di fiducia per 66 volte o quando Berlusconi ricorse al voto di fiducia per 45 volte (ma in tre anni e cinque mesi).

Un governo ostaggio di se stesso 

Ciò che stupisce è questa abitudine di usare il Parlamento come mero luogo di ratifica delle decisioni nonostante Draghi possa godere, di fatto, di una maggioranza quasi bulgara nelle Camere (o, se preferite, russa) con un solo partito all’opposizione (Fratelli d’Italia, con Giorgia Meloni) che ha dimostrato più volte la propria morbidezza. Il tema è squisitamente politico: temere il Parlamento con un maggioranza così ampia significa guidare un governo il cui filo rosso è quello di perdere la poltrona. Significa avere un governo che finge di esistere sui giornali e nelle dichiarazioni (di dubbio o di contrarietà) ma che alla prova dei fatti rimane ostaggio di se stesso e della sua smania di autopreservazione.

Draghi e il governo ostaggio di se stesso
Il governo Draghi (Getty Images).

Draghi, più amministratore delegato che riferimento politico

Qui non si tratta di dipingere Mario Draghi come lo sporco e cattivo che abusa del suo potere. Draghi fa il Draghi, dirige il governo secondo la sua formazione e inclinazione (più da amministratore delegato che da riferimento politico) e legittimamente ricorre alle forzature perché funzionano. A uscirne scornati sono i partiti che si agitano fuori dal Parlamento per sembrare vivi e vitali, ognuno rincorrendo i propri distinguo, mentre silenziosamente si allineano agli eventi senza mai prendersi la responsabilità di compiere un decimo di quello che promettono. Si passa dal Movimento 5 stelle che si dice “fuori” dal governo un giorno sì e l’altro pure mentre i suoi ministri silenziosamente alzano la manina in Consiglio dei ministri, si passa al solito Matteo Salvini che tuona e minaccia per mantenere il profilo dell’oppositore interno fino al Partito Democratico che ventila un’alleanza progressista che sembra esistere solo nei desiderata.

Draghi e il governo ostaggio di se stesso
Matteo Salvini (Getty Images).

Partiti rarefatti che sognano una nuova emergenza

Comunque la si pensi questo governo Draghi rimarrà nella memoria non tanto per le mirabili gesta del suo presidente del Consiglio ma per la rarefazione dei suoi partiti. Non è un caso infatti che molti di loro sognino un’emergenza, un’emergenza qualsiasi, per tornare presto a questi bei governi tecnici di unità nazionale che non li costringano a fare i partiti.

L’articolo Il governo Draghi ostaggio di se stesso e la rarefazione dei partiti proviene da Tag43.it.

Da noi non serve nemmeno abolire l’aborto: basta boicottarlo

Sono 31 (24 ospedali e 7 consultori) le strutture sanitarie in Italia con il 100% di obiettori di coscienza per medici ginecologi, anestesisti, infermieri o Oss. Quasi 50 quelli con una percentuale superiore al 90% e oltre 80 quelli con un tasso di obiezione superiore all’80%. È quanto emerge dall’indagine aggiornata “Mai Dati!” di Chiara Lalli, docente di Storia della Medicina, e di Sonia Montegiove, informatica e giornalista.

44 anni dopo l’approvazione della legge 194 il primo dato che salta all’occhio è la difficoltà di ottenere dati. «La ricerca – spiega l’Associazione Luca Coscioni – , tramite accesso civico generalizzato, ha evidenziato ciò che la Relazione ministeriale non fa emergere, pubblicando i dati chiusi e aggregati per Regione».

Come ha spiegato Filomena Gallo, avvocato e Segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni: «Una cosa è però molto chiara: la legge 194 è ancora mal applicata o addirittura ignorata in molte aree del nostro paese. Con Anna Pompili e Mirella Parachini, ginecologhe, e con l’Associazione Luca Coscioni abbiamo spesso evidenziato le criticità reali dell’applicazione e dell’accesso alla interruzione volontaria della gravidanza. Oggi chiediamo con urgenza al ministro della Salute Roberto Speranza e al ministro della Giustizia Marta Cartabia che i dati sull’applicazione della legge 194 siano in formato aperto, di qualità, aggiornati e non aggregati; che si sappia quanti sono i non obiettori che eseguono le Ivg e gli operatori che le eseguono dopo il primo trimestre; che tutte le regioni offrano realmente  la possibilità di eseguire le Ivg farmacologiche in regime ambulatoriale; che venga inserito nei Lea un indicatore rappresentativo della effettiva possibilità di accedere alla Ivg in ciascuna regione; e che la relazione ministeriale venga presentata ogni anno nel rispetto dell’articolo 16 della stessa 194».

«L’indagine Mai dati ci dice che la valutazione del numero degli obiettori e dei non obiettori è troppo spesso molto lontana dalla realtà», aggiungono Chiara Lalli e Sonia Montegiove, autrici della indagine Mai Dati. «Dobbiamo infatti sapere, tra i non obiettori, chi esegue realmente le Ivg (in alcuni ospedali alcuni non obiettori eseguono solo ecografie, oppure ci sono non obiettori che lavorano in ospedali nei quali non esiste il servizio Ivg, e quindi non ne eseguono). La percentuale nazionale di ginecologi non obiettori di coscienza (che secondo la Relazione è del 33%) deve, dunque, essere ulteriormente ridotta perché non tutti i non obiettori eseguono Ivg. Non basta conoscere la percentuale media degli obiettori per regione per sapere se l’accesso all’Ivg è davvero garantito in una determinata struttura sanitaria. Perché ottenere un aborto è un servizio medico e non può essere una caccia al tesoro».

Tra l’altro l’indagine di Lalli e Montegiove tramite accesso civico generalizzato evidenzia come l’ultima Relazione sulla stessa legge del Ministero della salute e i dati in essa contenuti, relativi al 2019, restituiscono una fotografia poco utile, sfocata, parziale di quanto avviene realmente nelle strutture ospedaliere del nostro Paese. La relazione dovrebbe restituire un quadro il più possibile realistico sullo stato di applicazione della legge, al fine di avviare tutte le manovre correttive, per superare le diseguaglianze tra le regioni e per assicurare a tutte le donne l’accesso all’Ivg. Di fatto, sia il ritardo nella presentazione, sia gli indicatori e le modalità di pubblicazione dei dati (chiusi e aggregati), rendono la relazione un’osservazione passiva e neanche tanto veritiera della realtà. Questo rende impossibile qualunque miglioramento. L’indagine rende evidente come sia necessario aprire i dati, non solo sulla obiezione di coscienza, al fine di consentire la lettura, l’analisi e la rielaborazione di queste informazioni da parte di chiunque.

Le richieste sono chiare e precise:

«Chiediamo al ministero – scrivono le autrici dell’indagine – di aprire i dati e di proseguire nella raccolta: tutti i dati devono essere aperti, pubblici, aggiornati e per singola struttura (e non in pdf e in ritardo di anni, diversamente da come previsto e come succede ora).

I dati non riguardano ovviamente solo l’obiezione di coscienza, ma tutte le informazioni già presenti nella Relazione, come l’aborto medico (RU486) e l’aborto dopo il primo trimestre.

Chiediamo di sapere quanti non obiettori effettuano le Ivg, qual è il numero medio settimanale di Ivg per non obiettore e se ogni struttura in cui non c’è il servizio assicura alle donne il percorso di Ivg.

Ricordiamo che i dati aperti non sono una concessione ma un nostro diritto.

Chiediamo di sapere quale “indicazione [è stata data] alle Regioni e alle strutture di organizzarsi per proseguire a fornire la prestazione” e quale ricaduta ha avuto la pandemia “sull’organizzazione dei servizi e sullo svolgimento dell’intervento” (pagina 13 della Relazione).

Chiediamo di aprire i dati sulla tabella “IVG nel contesto dell’emergenza COVID-19-maggio-giugno 2020” (pagina 14), soprattutto per le seguenti voci:

  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di interrompere il servizio Ivg (2)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di ridurre il numero di interventi settimanali (4)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di sospendere le procedure di Ivg farmacologica (4)
  • Una o più strutture hanno deciso in autonomia di sospendere le procedure di Ivg chirurgica (2)

E chiediamo quali Regioni hanno segnalato problemi e quali no (12 non hanno segnalato problemi).

Chiediamo alle Regioni di fare la stessa cosa e di uniformare le modalità di presentazione dei dati. Se il Lazio è fermo al 2018 con un bel pdf chiuso, la Regione Toscana, seppure ferma al 2020, è un ottimo esempio.

I dati che abbiamo raccolto scadranno presto. Anzi, forse sono già scaduti quelli che abbiamo ricevuto ad agosto dai più bravi che ci hanno risposto subito, come il Policlinico Casilino e l’ospedale Sant’Eugenio di Roma.

Questo lavoro richiede un osservatorio permanente.

Solo con questi dati aperti e aggiornati continuamente si può fare una mappa utile.

Possiamo ispirarci alla Spagna o all’Inghilterra.

Rendere accessibili e aperti i dati analitici metterebbe in luce le difficoltà ancora presenti in Italia per accedere al servizio di Ivg. Queste difficoltà, secondo l’ONU, possono essere:

  1. restrictive laws
  2. poor availability of services
  3. high cost
  4. stigma
  5. the conscientious objection of health-care providers and
  6. unnecessary requirements, such as mandatory waiting periods, mandatory counselling, provision of misleading information, third-party authorization, and medically unnecessary tests that delay care»

Sarebbe ora di riconoscere che l’obiezione di coscienza non è una questione morale ma è una questione di accesso a un servizio.

Buon venerdì.

Nella foto: protesta di Non una di meno contro una mozione anti-aborto al Consiglio comunale di Milano, 21 novembre 2018

</a

L’articolo proviene da Left.it qui

Il dittatore coccolato

La Turchia ha bloccato la decisione iniziale della Nato di elaborare le richieste di Finlandia e Svezia di aderire all’alleanza militare, mettendo in dubbio le speranze di una rapida adesione dei due Paesi nordici. Gli ambasciatori della Nato si sono incontrati mercoledì con l’obiettivo di aprire i colloqui di adesione, lo stesso giorno in cui Finlandia e Svezia hanno presentato le loro domande, ma l’opposizione di Ankara ha interrotto qualsiasi voto, secondo una persona con conoscenza diretta della questione. La mossa solleva dubbi sul fatto che la Nato sarà in grado di approvare la prima fase delle domande di Finlandia e Svezia entro una o due settimane, come ha indicato il segretario generale Jens Stoltenberg.

Dalla Turchia giocano di sponda: un funzionario turco ha confermato che Ankara aveva frenato il processo, ma ha insistito sul fatto che la Turchia non escludeva la prospettiva che Svezia e Finlandia si unissero. «Non stiamo dicendo che non possono essere membri della Nato», ha detto il funzionario. «Solo che dobbiamo essere sulla stessa lunghezza d’onda, sulla stessa pagina, sulla minaccia che stiamo affrontando».

Tutte balle. Ancora una volta, com’è nella natura di Erdogan, la discussione non ha niente a che vedere con principi politici. Si tratta solo di decidere cosa chiedere in cambio. E in questo caso lo scambio consiste in 30 curdi accusati di terrorismo (e in Turchia è un’accusa che si leva fin troppo facilmente) che Erdogan vorrebbe ottenere. Questo è il livello della politica di Erdogan: dare per ottenere. Come avviene per le frontiere che l’Ue gli ha subappaltato in cambio di denaro sonante, come avviene per la violazione di diritti che viene volutamente non vista dai partner europei.

Erdogan è un dittatore, uno di quelli che, prima o poi, provocherà vergogna per averci avuto a che fare. In questo caos è un dittatore che chiede agli altri di essere come lui riguardo nei confronti dei curdi. Se la Svezia (e l’Ue) accettasse uno scambio del genere possiamo anche smetterla con tutte queste chiacchiere sulla “democrazia” e sulla superiorità. No?

Buon giovedì.

L’articolo proviene da Left.it qui

Il razzismo minorenne e violento è un sistema

A Pietrasanta, in provincia di Lucca, un 29enne rifugiato dal Gambia è stato accerchiato da sei ragazzini che la stampa italiana sta definendo “bulli” (e invece sono solo razzisti, cinque minorenni e tutti e sei razzisti) ed è stato pestato. I ragazzini mentre menano le mani urlano “buba” (uno dei tanti suoni onomatopeici che servono per indicare un nero come scimmia) mentre la vittima urla per il dolore dei colpi inferti e chiede di smettere.

Il video ovviamente è finito sui social perché, si sa, questo è il tempo in cui è di moda non solo essere razzisti ma perfino sventolarlo in giro. Già questo particolare dovrebbe chiarire quanto il fenomeno non sia solo criminale ma sia una cultura intrisa perfino nelle bande più giovani.

I sei denunciati ieri sono stati perquisiti nelle abitazioni dove vivono coi genitori. Sequestrati dai carabinieri gli indumenti utilizzati durante l’aggressione, i cellulari, alcuni grammi di hashish e marijuana, una mazza da baseball, manoscritti inneggianti alla violenza e contro i carabinieri. Teorizzare la violenza e scriverne è un indizio che riporta alle stragi peggiori, quelle che arrivano ad esempio dagli Usa (l’ultima qualche giorno fa a Buffalo) e che non sono figlie di un raptus ma rientrano in una teoria del razzismo e della violenza che dovrebbe invitare tutti a porre la giusta attenzione.

La notizia dei giovani razzisti, vedrete, verrà presto derubricata come “ragazzata” e non ce ne ricorderemo più. Come se davvero fosse possibile che dei minorenni possano, per gioco, mettersi a scrivere testi a favore della violenza e contro i carabinieri. Ma non si tratta di casi isolati. Come avverte la “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, recentemente inviata al Parlamento, «ancora alto è apparso l’indice di pericolosità promanante dalla diffusione online di ideologie neonaziste e suprematiste che istigano a porre in essere atti violenti e indiscriminati motivati dall’odio razziale o in linea con quella corrente ’accelerazionista’ globale che mira alla ’soluzione violenta’ come unica via per abbattere il ’sistema’».

«Il fenomeno – si legge nella Relazione – che segue negli ultimi anni un trend in costante ascesa sul panorama internazionale, ha trovato nel 2021 ulteriori conferme sul piano giudiziario, con diverse operazioni di polizia che hanno disvelato come nel nostro Paese tale propaganda virtuale pro-violence abbia contribuito ad alimentare insidiosi percorsi di radicalizzazione di singoli individui e di ristretti gruppi, facendo emergere segnali di un rischio di transizione della minaccia, anche sul piano reale». 

Buon mercoledì.

 

L’articolo proviene da Left.it qui

L’accusa per un padre di voler salvare suo figlio?

Un richiedente asilo afgano di 26 anni rischia fino a 10 anni di carcere in Grecia per la morte del figlio di cinque anni, annegato dopo essere salito a bordo di un gommone dalla Turchia alla Grecia con il padre a bordo l’8 novembre 2020. Hafez, lo pseudonimo di un imputato che ha parlato con Al Jazeera in condizione di anonimato, sarà processato mercoledì, accusato di aver messo in pericolo la vita di suo figlio.

Ha descritto di aver abbracciato forte suo figlio mentre la barca con 24 persone a bordo ha colpito le rocce al largo dell’isola greca di Samos nell’Egeo orientale e si è capovolta. Il ragazzo scomparve in acqua e fu poi ritrovato dalle autorità greche, incagliato sulle rive di Capo Prasso, una parte dell’isola ripida e perfidamente rocciosa, a volte indicata come “il Capo della Morte”. Hafez ha avuto difficoltà ad entrare nei dettagli di quella notte, ma ha detto di essere venuto in Europa, come hanno fatto centinaia di migliaia di altri, cercando una vita migliore per suo figlio.

La sua domanda di asilo era stata respinta due volte in Turchia e doveva essere espulso in Afghanistan. “Sono venuto qui solo per il futuro di mio figlio”, ha detto, ricordando le numerose volte che suo figlio gli ha chiesto quando poteva andare a scuola. Hafez non riesce a capire perché sta rischiando il carcere per questo tragico evento che ha visto morire suo figlio.

Il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis ha costantemente difeso l’approccio del suo Paese alla migrazione, negando le notizie di respingimenti illegali di richiedenti asilo alle frontiere e insistendo affinché le autorità seguano la lettera della legge. Mitsotakis ha affermato che il Paese ha una politica di immigrazione “dura ma equa” in cui i diritti umani sono pienamente rispettati. Il ministro greco per la migrazione Notis Mitarachi, parlando del caso di Hafez ai media, ha affermato che era importante che le circostanze di eventuali decessi fossero indagate a fondo. “Se c’è la perdita di vite umane, bisogna indagare se alcune persone, per negligenza o deliberatamente, hanno agito al di fuori dei limiti della legge”, ha affermato.

Ha ragione il ministro greco: bisognerebbe indagare a fondo sui bambini che muoiono nei mari intorno all’Europa oppure nei boschi della rotta balcanica. Bisognerebbe avere il coraggio di risalire a tutti i mandanti. Ci si accorgerebbe che processare un padre per la morte di suo figlio è una vigliaccheria per non guardare in alto, dove la classe dirigente degli Stati di Europa ha le mani sporche di sangue.

Buon martedì.

Nella foto: un’operazione di salvataggio di migranti nel mar Egeo

</a

L’articolo proviene da Left.it qui

Il terrorismo bianco, il più coccolato del mondo

Il giovane appena diciottenne che a Buffalo, nello stato di New York, ha sparato a diverse persone imbracciando un fucile all’interno di un supermercato trasmettendo il tutto in diretta su Twitch non è un caso isolato, non è nemmeno da mettere nel cassetto degli eventi violenti che non hanno nessun filo rosso.

Ciò che è accaduto a Buffalo è terrorismo, proprio quel terrorismo su cui si spendono quintali di articoli e ore di trasmissioni nel caso in cui il terrorista abbia la pelle scura oppure parli arabo oppure sia musulmano. Solo che questo terrorismo, bianco e con le fattezze così simili alle nostre, non ci terrorizza per i danni che provoca (a Buffalo sono dieci morti) ma ci indispone perché non appartiene a “altri”, è tutta roba nostra. E poiché nel nazionalismo (o sovranismo, chiamatelo come vi pare, è sempre razzismo sotto altre vesti) i “nostri” sono tutti cari e buoni facciamo finta di nulla.

L’attentatore dichiara di essersi radicalizzato prima della pandemia inizialmente su 4chan e poi in spazi digitali ancora più estremisti. Ha letto i manifesti di altri attentatori (che ci ostiniamo a non voler mettere in fila, come i reati spia di mafia che rimangono sparsi sulle cronache locali per non prendersi la responsabilità di vedere un delitto sistemico): il terrorista si rifà soprattutto agli attentatori di Christchurch, di Poway, di El Paso e naturalmente a Anders Breivik (autore degli attentati del luglio 2011 in Norvegia), il cui nome compare anche sull’arma usata a Buffalo. Per non farci mancare nulla c’è anche il nostro Luca Traini, un altro caso su cui non c’è stato un centimetro di tutto il dibattito che avrebbe meritato.

Come già avvenuto nel caso di Christchurch l’evento è stato trasmesso live su una piattaforma streaming, come se fosse un videogioco. Come scrive Leonardo Bianchi in un importante articolo per Valigia blu: «Uno degli effetti più terribili del terrorismo bianco è quello di spaccare le comunità al proprio interno, erodendo quella zona grigia di tolleranza che rende possibile la convivenza pacifica tra persone di diversa estrazione sociale, religiosa, politica e culturale. È un equilibrio precario, sottoposto ad uno stress incredibile in condizioni normali; figuriamoci in un contesto inquinato da discorsi tossici e atti di violenza».

E sapete qual è la teoria alla base di tutto: la “sostituzione etnica” che tanta parte occupa nella propaganda di alcuni partiti. Insomma, questi sono gli esecutori ma non è difficile immaginare i mandanti. E a me pare una questione politica enorme su cui anche nel cosiddetto centrosinistra sembra regni la paura di parlare.

Buon lunedì.

</a

L’articolo proviene da Left.it qui