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Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte

C’è qualcosa di tragicamente istruttivo intorno all’omicidio della giornalista di Al Jazeera, Shireen Abu Akleh, colpita in faccia da un proiettile che ha centrato l’unico lembo di pelle scoperto dalle protezioni della sua divisa in cui la scritta Press che la identificava chiaramente come cronista era ben visibile. C’è innanzitutto la difesa immediata di Israele che ha raccontato di «spari palestinesi» pubblicando un video che nulla c’entrava con il luogo in cui Abu Akleh è deceduta. Da lì a poco è stato però reso pubblico un altro video in cui l’omicidio viene ripreso in tutta la sua chiarezza e infatti già poche ore dopo le autorità israeliane hanno dovuto riposizionarsi parlando di «legittimo dubbio» che fosse stata uccisa da un militare israeliano. In casi come questo non c’è niente di meglio della Corte Penale Internazionale che questi crimini li conosce benissimo, li sa analizzare e ha tutta l’autorevolezza per poter emettere un verdetto.  Nel frattempo in Italia si assiste a un tilt dell’informazione e della politica in cui si nota un’incredibile fatica perfino a pronunciare la parola Palestina, disonorando Shireen Abu Akleh anche da morta visto che la sua è stata una delle voci più importanti in questi anni sui diritti negati ai palestinesi.

Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte
Candele davanti alla foto di Shireen Abu Akleh in Cisgiordania (Getty Images).

La Federazione internazionale dei giornalisti ha denunciato Israele alla Corte penale internazionale

Ma molti si sono dimenticati che lo schema dell’omicidio della giornalista di Al Jazeera non è una novità: nel 2018, i giornalisti Ahmed Abu Hussein e Yasser Mortaja sono stati uccisi da cecchini israeliani mentre seguivano la Grande Marcia del Ritorno. Muath Amarneh e Nedal Eshtayeh sono stati mutilati dal fuoco dei cecchini israeliani rispettivamente nel 2019 e nel 2015. Basil Faraj, Fadel Shana, Hussam Salama, Imad Abu Zahra, Issam Tillawi, Khaled Reyadh Hamad, Mahmoud al-Kumi, Mohamed Abu Halima e molti altri giornalisti hanno sofferto per mano delle forze israeliane nel corso degli anni. L’anno scorso i raid aerei israeliani hanno bombardato sedi di media nella Striscia di Gaza tra cui l’edificio di al-Jalaa di 11 piani, che ospitava Al Jazeera e gli uffici dell’Associated Press. Lo scorso 25 aprile la Corte penale internazionale (CPI) ha formalmente confermato di aver ricevuto una denuncia presentata all’inizio di aprile dalla Federazione internazionale dei giornalisti contro lo Stato di Israele: nella denuncia si legge di un vero e proprio “sistema” per colpire i giornalisti che lavorano in Palestina. Ora alla lista si può aggiungere il nome di Abu Akleh. Il materiale per l’inchiesta è già tutto lì e l’ultimo omicidio (di cui si è parlato molto di più degli altri anche per il passaporto Usa della giornalista) è solo un ulteriore tassello.

Così la giornalista Shireen Abu Akleh è stata uccisa due volte
Scontri al funerale della giornalista Shireen Abu Akleh a Gerusalemme (Getty Images).

Per provare a costruire la pace bisognerebbe iniziare a essere intellettualmente onesti

Poi si potrebbe trovare il coraggio di raccontare che i familiari della vittima si sono ritrovati accerchiati dalla polizia israeliana poche ore dopo l’omicidio perché accusati di “assembramento non autorizzato”. Si potrebbero anche rivedere le immagini dei soldati israeliani che pestano le persone che trasportano la bara di Shireen Abu Akleh. L’accusa Avere esposto la bandiera palestinese. A proposito di cancel culture che qui dalle nostre parti va così di moda. Si potrebbe anche parlare di un telegiornale di una rete pubblica che è riuscito a presentare la violenza dei militari contro un corteo per una bara con il sottotitolo “forze in campo per sedare le sommosse”. Qual è il limite di tutto questo? Quando si recupera un po’ di dignità nel raccontare i fatti? Per provare a costruire la pace bisognerebbe almeno cominciare a essere seri e intellettualmente onesti.

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Lavoratori eppure poveri

Prima del 2020 un lavoratore su 8 era in povertà lavorativa. Nel 2019 l’11,8% dei lavoratori italiani era a rischio di povertà, oltre 2,5 punti percentuali sopra la media europea. I working poor sono passati dal 10,3% al 13,2% della forza lavoro di riferimento tra il 2006 e il 2017. Sono questi alcuni dati contenuti nel rapporto “Disuguitalia: ridare valore, potere e dignità al lavoro”.

In Italia si lavora e si rimane poveri, anche da lavoratori. Quasi un lavoratore su 5 percepiva nel 2017 una retribuzione bassa con il rischio più elevato per gli occupati in regime di part-time. Si conferma la maggiore vulnerabilità delle donne: il lavoro povero è più diffuso nel segmento femminile della forza lavoro con la quota delle lavoratrici con bassa retribuzione attestatasi al 27,8% nel 2017 a fronte del 16,5% tra i lavoratori uomini. Un lavoratore su otto vive in una famiglia con un reddito disponibile insufficiente a coprire i propri fabbisogni di base.

Il report scritto da Mikhail Maslennikov, policy advisor di Oxfam Italia, racconta che nel Paese esiste un serio problema di dignità del lavoro. Se un impiego non basta per sopravvivere significa che il mercato serve a una parte sola. È qualcosa che dovrebbe sollevare un dibattito politico enorme e invece rimarrà incagliato tra le pagine dei giornali e nella desolazione delle famiglie.

Oxfam critica anche il Pnrr, che «assomiglia più a una sommatoria di interventi che a un’organica agenda di sviluppo» e manca di una solida visione di politica industriale. I comparti su cui si punta sono costruzioni, edilizia, commercio: quelli in cui i posti di lavoro tendono ad essere poco qualificati, precari e scarsamente pagati. La maggior parte delle risorse in capo al ministero dello Sviluppo è destinata a incentivi alle imprese senza condizionalità in termini di innovazione, sostenibilità, tenuta dei livelli occupazionali e qualità del lavoro.

L’articolo 36 della Costituzione dice che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a se’ e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa». L’articolo 36 dovrebbe campeggiare sui programmi elettorali dei partiti per le prossime elezioni.

Come ci si salva da un lavoro che non fa uscire dalla povertà? Oxfam propone di:

  • limitare l’uso di deroghe – da parte delle stazioni appaltanti che struttureranno i bandi del Pnrr e del Piano nazionale degli investimenti complementari (Pnc) – al vincolo imposto agli operatori economici aggiudicatari di destinare ai giovani sotto i 36 anni di età e alle donne almeno il 30% dell’occupazione aggiuntiva creata in esecuzione del contratto, per evitare il rischio di veder perpetuate vulnerabilità esistenti, soprattutto con riferimento alla nuova occupazione femminile;
  • garantire un robusto monitoraggio del rispetto della clausola occupazionale prevedendo flag specifici per le nuove assunzioni da parte degli aggiudicatori dei bandi del Pnrr e del Pnc all’interno del sistema delle comunicazioni obbligatorie;
  • ampliare le condizionalità alla qualità del nuovo lavoro creato -grazie ai bandi del Pnrr e del Pnc e agli incentivi pubblici alle imprese – per garantire una più equa condivisione, tra i fattori produttivi, dei benefici ricavati dalle nuove attività finanziate o supportate dall’operatore pubblico;
  • disincentivare l’utilizzo dei contratti a termine, con previsione di causali stringenti e circoscritte e introdurre limitazioni all’esternalizzazione del lavoro mediante appalti a imprese multiservizi;
  • previo accordo tra le parti sociali, sui criteri di misurazione della rappresentatività sindacale e datoriale, estendere per via legislativa l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati tra soggetti maggiormente rappresentativi;
  • introdurre un salario minimo legale, per colmare gli ambiti di attività non coperti dai contratti collettivi e rafforzare il potere negoziale dei lavoratori autonomi che condividono alcune caratteristiche con i lavoratori subordinati. Per stabilire la definizione della retribuzione da assumere come soglia e l’ammontare della soglia stessa, è necessaria l’istituzione di un organo collegiale (con rappresentanza paritetica delle parti sociali), titolare anche della verifica e della definizione di criteri di aggiornamento periodico dell’ammontare della misura da attuare tenendo conto della congiuntura economica, dell’andamento dei salari contrattuali e dell’evoluzione del sistema tax-benefit.

Buon venerdì.

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In Palestina i giornalisti cadono dalle scale

La giornalista palestinese Shireen Abu Akleh di Al Jazeera è stata uccisa giovedì 11 aprile durante un’operazione dell’esercito israeliano nel campo profughi di Jenin, nei territori occupati della Cisgiordania. Indossava il giubbotto con la scritta “Press”: era difficile non riconoscerla.

Della sua morte circolano dei video che mostrano chiaramente che non era in corso nessun «conflitto a fuoco». Il proiettile chirurgicamente piantato nell’unico posto non protetto dal giubbotto e dall’elmetto indica una precisa volontà.

Le forze israeliane hanno occupato l’abitazione di Shireen Abu Akleh parlando di «assembramento non autorizzato». Perfino piangere i morti è vietato, se si è palestinesi. Israele dal canto suo ha prima parlato di un «proiettile vagante sparato da palestinesi» (che ricorda molto il sasso che avrebbe ucciso Carlo Giuliani a Genova durante il G8). Poi, resosi conto dell’assurdità degna di un Putin qualsiasi, il tenente generale Aviv Kochavi ha detto che ora non è chiaro chi abbia sparato il colpo che ha ucciso Abu Akleh. Omar Shakir, direttore israeliano e palestinese di Human rights watch, ha detto che l’organizzazione sta esaminando l’uccisione di Abu Akleh, ma ha denunciato le indagini israeliane come «tentativi di despistaggio».

Uccidere una giornalista è un crimine di guerra, si sa, soprattutto di questi tempi. Eppure la notizia in Italia è stata data con una timidezza immorale, con una sconvolgente ritrosia a chiamare Palestina la Palestina, a raccontare di un invaso e un invasore, un aggressore e un aggredito. La boria bellicista che in questi mesi inonda i cuori di molti nostri giornalisti ieri è stata insolitamente fiacca. I nemici dell’equidistanza ieri sono stati tutti talmente equidistanti da avere sorvolato un assassinio.

Peccato solo che ci siano i video dell’accaduto altrimenti sono sicuro che qualcuno avrebbe raccontato in scioltezza che Shireen Abu Akleh fosse semplicemente caduta dalle scale.

Buon giovedì.

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La sindaca di Lodi, le minacce inventate e la mediocrità di provincia

Sono culturalmente e politicamente la persona più lontana da Sara Casanova, sindaca leghista di Lodi che è comparsa nelle cronache nazionali per avere provato a togliere il pane ai bambini stranieri, secondo i desiderata salviniani che godono nel punire i deboli perché non si ha la stazza e la sostanza per affrontare i potenti.

Sara Casanova però in questa campagna elettorale è vittima di una sequela di attacchi sessisti sui manifesti elettorali, dove si è passati dal ventaglio di organi maschili disegnati sui cartelloni alle ultime minacce gravi (questa è la definizione giuridica di “vi scuoio”) disegnate sulla faccia della candidata.

Fin qui nulla di interessante a livello nazionale, nulla di meritevole di diventare una notizia degna di occupare questo spazio. C’è un particolare, laterale ma sostanziale, in tutta questa storia che mi prendo la briga di commentare. Lo faccio con un uso sfacciatamente personalistico di questa rubrica e lo scrivo perché al di là delle antipatie politiche ci sono momenti cruciali della mia vita che hanno a che vedere con l’impianto valoriale che mi propongo di preservare.

In una campagna elettorale di una città ininfluente nel panorama nazionale (Lodi politicamente conta se ne arrestano il sindaco o se un mediocre ex sindaco diventa ministro della guerra) la voce che corre per la città è che la sindaca (ricandidata) Sara Casanova si sia disegnata i cazzi sui manifesti e si sia auto minacciata per vincere le elezioni. Voi direte, e quindi? Ora mi spiego. Quella città è la stessa città che molti anni fa rispose nello stesso modo (vigliacco e immorale) quando finii sotto scorta per minacce mafiose. Dissero che le minacce me le ero inventate alcuni politici democratici che nel frattempo inauguravano i bar della piazza frutto di riciclaggio, gli artisti di provincia che sono artisti al massimo nelle pagine locali, i giornalisti che abbassano lo sguardo se li incontri di persona, le malelingue benpensanti che si sbriciolerebbero ogni volta che si inginocchiano se esistesse il loro dio, gli imprenditori famosi nella via dello struscio che si sentono internazionali, i soggetti culturali che si distinguono per la qualità del buffet e qualche dirigente democratico che sgomita per diventare lo zerbino del ministro lodigiano.

La provincia che sculetta calunniando le persone è quanto di più odioso io possa immaginare, culturalmente e politicamente, per l’evidente incapacità di affrontare le questioni nel merito. Del resto i mandanti calunniatori della sindaca leghista sono gli stessi, dieci anni dopo, che vennero irrisi nel mio caso dalla politica nazionale. Non solo non hanno imparato la lezione ma addirittura si sono sclerotizzati in un’infamia senza lode che li fa sentire vivi.

Mi piacerebbe sapere quale guadagno potrebbe avere una sindaca (ripeto: lontanissima da me) nel disegnare membri sopra alla sua faccia o nel minacciarsi da sola. Mi piacerebbe vedere la faccia di calunniatori messi di fronte alla bassezza dei loro comportamenti, esattamente come si promette di fare quest’articolo.

Anche perché, ricordiamolo, questi democratici sono gli stessi che rivendicano una superiorità morale che gli si slaccia al secondo giro di aperitivo, come tutte le simulazioni che cadono appena si allenta il controllo.

È una vicenda locale, lo so, ma è la cifra di molte campagne elettorali locali che si svolgono in questi giorni. Una schiera di mediocri che aspirano ai loro 5 minuti di celebrità e che hanno le radici così unte da sbriciolarsi in un secondo.

Volete vincere le elezioni? Fate politica, politica vera, con il coraggio di uscire dal chiacchiericcio. Qui da fuori è uno spettacolo indecente.

Buon mercoledì.

Nella foto le scritte minacciose sul manifesto elettorale di Sara Casanova con Pietro Foroni

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Il raduno nazionale degli stupiti dalle molestie

Anche quest’anno, come ogni anno, durante il raduno nazionale degli Alpini si sono registrati casi di molestie nei confronti di donne, quest’anno siamo a Rimini, che misurano l’ottimo stato di salute del patriarcato giornalistico italiano.

Ogni anno si comincia con qualche donna che testimonia episodi avvenuti nei bar, per strada, e poi il fiume si ingrossa con altre voci che raccontano tutte la stessa storia: quando un branco di uomini con un tasso alcolico elevato che si sentono protetti dall’essere un gruppo (in questo caso perfino parte di un corpo in piena celebrazione) non riesce a trattenere gli istinti primordiali che vengono riversati sulla malcapitata di turno.

Dalle palpate, alle leccate sul collo, all’offerta del proprio membro come opportunità, anche quest’anno l’Italia scopre che il branco fa danni. Non è’ questione di Alpini, elettricisti o commercialisti: la fallocrazia come governo dei sogni appartiene a tutte le classi professionali e sociali. Semplicemente nel caso dell’annuale raduno degli Alpini questa dinamica finisce sotto gli occhi di tutti perché le città che ospitano l’evento sono inevitabilmente sotto gli occhi della stampa.

Quella che interessa è la dinamica che ogni anno si ripete: le prime che raccontano di molestie e abusi vengono trattate con sufficienza e fastidio, quando le testimonianze si moltiplicano si interviene dicendo subito «non sono tutti così» e infine quando la notizia non si può più ignorare i giornali si ritrovano loro malgrado costretti a dare la notizia.

Le notizie di oggi sono un esempio lampante di malafede. Si sottolinea il fatto che non ci siano denunce (eppure basterebbe leggere le testimonianze per rendersi conto che i titolari invitano le “ragazze” a non mostrarsi ostili, ovvero fingere di essere “a disposizione”). Si immagina un complotto mondiale contro gli Alpini (come se le donne che devono difendersi dagli uomini non abbiano problemi ben più larghi di una singola categoria) e infine arriva il cretino che esprime solidarietà al contrario.

Matteo Salvini (eccallà) scrive: «Viva gli Alpini, più forti di tutto e di tutti!». Forse sta intendendo viva gli Alpini che hanno sconfitto le donne. Direi che il quadro è completo. Ora si può aspettare serenamente la prossima adunata.

Buon martedì.

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La fabbrica delle Fake News. Nella guerra delle bugie la Russia di Putin non ha rivali. La propaganda di Mosca non dorme mai. Da 72 giorni è un bombardamento continuo

La bugia originale è “l’operazione speciale”. I media russi, fin dal primo giorno dell’invasione dell’Ucraina, hanno seguito pedissequamente l’ordine di Putin di non chiamare guerra la guerra, illudendosi così che potesse fare meno orrore e meno paura. Con il nome di “operazione speciale” la propaganda russa sperava di disinfettare i massacri.

A Mosca le televisione per i primi giorni di guerra hanno rivenduto l’invasione del’Ucraina come una veloce pratica da sbrigare che si sarebbe risolta nel giro di qualche giorno. Alcuni soldati di Vladimir Putinhanno raccontato di aspettarsi addirittura di essere accolti come eroi o “liberatori”. Infine il capolavoro: la “denazificazione”. Che una potenza militare rada al suolo un’intera nazione per liberarla da appartenenti a gruppi di estrema destra è la cosa più nazista che possa venire in mente.

Colpita e affondata. Altro che incendio a bordo. La Moskva centrata da un missile

Quando l’incrociatore missilistico russo Moskva è stato colpito da due missile antinave Neptune i canali di Stato russi hanno subito ripreso la dichiarazione del ministero della Difesa che parlava di un danneggiamento dovuto a un incendio a bordo causato dall’esplosione di munizioni a bordo. Poi, sempre le stesse televisioni, sono riuscite a compiere il capolavoro di smentirsi raccontando di un affondamento mentre la nave fenica rimorchiata da una tempesta. “Tutto l’equipaggio è vivo e vegeto”, hanno tuonato i giornalisti russi. Peccato ce poche ore dopo siano sbucate le madri che piangevano la scomparsa dei propri figli.

Sul set di Bucha. La strage dei civili ucraini spacciata per una montatura

Per la strage di Bucha i giornalisti che spalleggiano il Cremlino si sono inventati addirittura esperti cinematografici: si va da chi notava che i vestiti dei civili morti fossero «troppo puliti per essere in strada da giorni» (peccato che i corpi mostrassero chiari segni di decomposizione) e chi vedeva “corpi in movimento” che in realtà erano distorsioni dovute all’effetto specchio e alla bassa qualità delle immagini proposte. Il Ministero russo, manco a dirlo, ha rilanciato entusiasta la tesi del complotto. Poi sono arrivate le immagini ad alta definizione e quelli si sono ammutoliti. La prova della propaganda? La versione della Russia ha virato su omicidi compiuti dagli ucraini. Avete capito bene: prima erano vivi, poi era colpa degli ucraini.

Bombe sugli ospedali. Le donne incinte di Mariupol per Mosca sono modelle

A Mariupol il reparto di maternità dell’ospedale viene colpito dalle bombe. Le immagini di donne in gravidanza ferite attraverso i pezzi carbonizzati dell’ospedale fanno il giro del mondo. Le televisioni russe, non potendole nascondere, liquidano tutto come bufala. Poi, come al solito, ci dicono che sono stati gli ucraini. Poi cambiano idea e ci dicono che l’ospedale sarebbe stato il rifugio del battaglione Azov (che per la propaganda russa dovrebbe essere composto da un milione di soldati, visto che lo infilano un po’ dappertutto) e infine le televisioni hanno giocato sul fraintendimento di due donne diverse (una che ha partorito e una che è deceduta) raccontate come una stessa persona. Anche in questo caso versioni completamente diverse in pochi giorni.

Incendio alla centrale. I russi appiccano le fiamme. Ma scaricano la colpa su Kiev

Le forze russe a inizio marzo si sono avvicinate alla centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande d’Europa. In uno scontro con le forze ucraine un incendio è divampato nel complesso. Zelensky ha addirittura ventilato (esagerando) la “fine dell’Europa” mentre al pubblico televisivo russo è stato raccontato che i soldati ucraini avessero incendiato l’edificio prima di fuggire. Un sabotaggio, in sostanza. La propaganda del Cremlino ha mostrato la centrale alcuni giorni dopo funzionare normalmente dicendo che “dipendenti di questo stabilimento mostrano un certo rispetto” e che i lavoratori “mantengono l’ordine e la disciplina nel loro lavoro”, rafforzando la dubbia argomentazione avanzata da Putin secondo cui le truppe russe sono state inviate per proteggere i cittadini ucraini.

Hitler ebreo. Il revisionismo sul Führer per attaccare Zelensky

Del ministro degli Esteri russo Lavrov ospite della televisione italiana abbiamo letto dappertutto. Per giustificare l’antisemitismo di Zelensky ha raccontato al mondo che “anche Hitler era ebreo”. La stampa russa ha accusato l’Occidente di avere «strumentalizzato le parole del ministro». E poi? Poi è successo che il governo israeliano (ovviamente risentito per quella bufala che macchiava la memoria dell’Olocausto) scrive un comunicato in cui si legge “il primo ministro ha accettato le scuse del presidente Putin per le osservazioni di Lavrov e lo ha ringraziato per aver chiarito il suo atteggiamento nei confronti del popolo ebraico e della memoria dell’Olocausto”. Non si era mai visto qualcuno chiedere scusa per avere avuto ragione. La propaganda russa ci è riuscita. Ora a Lavrov conviene stare attento, visti i troppi russi che sono stati suicidati negli ultimi mesi.

Fermata della morte. Raid alla stazione dei bus. La balla dell’autoattacco ucraino

A Kramatorsk 50 civili muoiono per due missili che cadono in mezzo agli sfollati che tentavano di salire su un treno. In un canale filorusso si viene a sapere della strage ma la notizia sparisce nel giro di qualche minuto. Il Cremlino prova a buttarla sul tipo di missile che non “è prodotto da Mosca”, dicono, e che sarebbe stato lanciato dagli ucraini come “provocazione”. I missili SS21 (classifica Nato) sono assolutamente in uso tra le forze filorusse del Donbass, lo sanno tutti. Ma intanto la propaganda in Russia sembra funzionare.

A Mariupol viene bombardato il “Mariupol Drama Theater”. Ovviamente la propaganda parla di un’azione deliberata dell’esercito ucraino. Solo che l’esercito ucraino non ha i mezzi per bombardare da quell’altezza. Delle immagini satellitari mostrano tra l’altro delle enormi scritte in cirillico in cui viene segnalata la presenza di bambini nei rifiuti antiaerei all’interno del teatro. Maria Ponomarenko, giornalista di Rosnews (un networdk indipendente russo) viene arrestata per avere dato la notizia.

Cacciatore di bufale. Sfida alla disinformazione. La verità terrorizza il Cremlino

E a chi smonta le bufale cosa succede? Kostantin Ryzhenko è un giornalista ucraino molto noto che ogni giorno smonta sistematicamente gli annunci e le notizie diffuse dai russi. Loro dicono una cosa e lui replica con fact-checking che immancabilmente dimostrano il contrario, con prove inconfutabili a disposizione. E infatti Kostantin Ryzhenko, 28 anni, è in fuga permanente dalle parti di Kherson. I suoi famigliari sono stati minacciati dai russi e hanno la sua faccia a ogni ceck-point russo. L’equazione è molto semplice: a chi fa paura la verità? A chi non riesce a sostenerla.

(da La Notizia)

Il New York Times inguaia Biden. Lo scoop sui raid anti-russi di Kiev guidati dagli Usa è una lezione per l’informazione. In Italia lo avrebbero accusato di essere filo-putiniano

Il New York Times lancia la bomba (mediatica) e scrive nero su bianco (leggi l’articolo) che gli Usa hanno fornito all’Ucraina informazioni sulle unità russe che hanno permesso di uccidere molti dei generali russi morti un questi due mesi di guerra. A rivelarlo sono alti funzionari americani che raccontano come l’aiuto mirato sia parte di uno sforzo bellico ritenuto riservito dall’amministrazione Biden.

Il New York Times ha svelato i retroscena dei raid compiuti da Kiev grazie alle informazioni fornite dagli Usa

Le informazioni passate dagli Usa all’Ucraina includono la posizione e altri dettagli del quartier generale mobile dell’esercito russo, che si trasferisce frequentemente per non essere individuabile. Funzionari ucraini hanno combinato queste informazioni geografiche con la propria intelligence – comprese le comunicazioni intercettate che avvisano l’esercito ucraino della presenza di alti ufficiali russi – per condurre attacchi di artiglieria e altri attacchi che hanno ucciso ufficiali russi.

L’amministrazione Biden ha cercato di mantenere segreta gran parte dell’intelligence sul campo di battaglia, per timore che venga vista come un’escalation e provochi il presidente russo Vladimir Putin in una guerra più ampia. Del resto il mese scorso il segretario alla Difesa Usa Lloyd J. Austin III si era spinto a dire “vogliamo vedere la Russia indebolita abbastanza da non poter più pensare a un’invasione come quella in Ucraina”.

Una volontà ben diversa dal semplice supporto al popolo ucraino che Usa (e Ue) hanno ripetuto ostinatamente. A seguito delle informazioni del New York Times il portavoce del Pentagono ha risposto di “non voler parlare dei dettagli” riconoscendo comunque che gli Stati Uniti forniscono “all’Ucraina informazioni e intelligence che possono usare per difendersi”.

Ma l’imbarazzo è innegabile se è vero che la portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale Adrienne Watson ha provato a parare il colpo dicendo che la collaborazione non è stata fornita agli ucraini “con l’intento di uccidere i generali russi” (fingendo di non sapere che in guerra le informazioni servono proprio per quello) e la Casa Bianca si è scagliata contro il quotidiano definendolo “irresponsabile”.

Quello che non è successo, a differenza della dinamica strabica tutta italiana, è che qualche leader di partito o qualche arguto commentatore americano si sia sognato di accusare un quotidiano nazionale (e il suo giornalista) di essere filoputiniano o di voler aiutare la Russia o di essere un traditore. L’informazione semplicemente svolge il suo ruolo, è cane da guardia dei poteri senza distinzioni tra poteri utili o inutili, giusti o sbagliati, scapicollandosi per ottenere le notizie che il potere non vorrebbe che fossero pubbliche.

Non è un caso che gli Usa siano quel Paese che, senza Wikileaks e Julian Assange, oggi potrebbero rivendersi come esportatori di democrazia e rispettosi dei diritti in tempo di pace e delle regole internazionali in tempo di guerra. Per questo risulta risibile come qui.

Da noi la politica (e molti media al seguito) sembrano concentrati più a combattere il giornalismo di guerra che a spiegare la guerra che avrebbero in mente. Ore di trasmissioni e palinate di giornali che si interrogano sulla giustezza di intervistare il ministro russo Lavrov piuttosto che incalzare il Governo per riferire in Parlamento quale sia la strategia: far cessare la guerra o sconfiggere la Russia?

I due obiettivi sono profondamente diversi e inevitabilmente hanno ricadute differenti sul piano geopolitico. Nel polverone del dibattito italiano assistiamo all’amministratore delegato della Rai Carlo Fuortesche in Commissione di Vigilanza Rai che solo in tempo di guerra valuta una policy per regolare la presenza degli opinionisti sulla televisione pubblica (specificando di essere favorevole alla mancata remunerazione della partecipazione di un giornalista) e solo ora si accorge che nei suoi talk show non si fa informazione ma si insegue l’audience e lo spettacolo.

Si continua, insomma, a scambiare il ruolo dei giornalisti per quello dei portavoce della linea del Governo dimenticando che sono proprio i giornalisti quei professionisti pagati per sbugiardare la propaganda, smascherare le bugie e raccontare l’indicibile. E come il New York Timesla regola vale per la propaganda russa e vale allo stesso modo per la propaganda di casa nostra. Magari, vedrete, la gente tornerà anche a comprare i giornali e ad averne fiducia.

(da La Notizia)

Ormai l’antimafia non tira più. Ed è colpa della politica. Falcone e Borsellino dimenticati. Citati soltanto per fare polemiche

Nemmeno il trentennale dell’omicidio di Falcone e Borsellino è riuscito a rivitalizzare l’antimafia in Italia, un pensiero ormai dormiente sotto le ceneri di ciò che è stato e che si limita a essere pura commemorazione senza avere le energie per alzare gli occhi e guardare al futuro investigando senza sconti sul presente.

Nemmeno il trentennale dell’omicidio di Falcone e Borsellino è riuscito a rivitalizzare l’antimafia in Italia

La spinta antimafia di questo Paese, quell’energia che non molti anni fa riempiva i convegni, sfilava per le città, non aveva paura di stare al fianco di magistrati coraggiosi in pericolo (Nino Di Matteo e Nicola Gratteriper citarne alcuni) e costringeva la politica ad affrontare il tema addirittura inserendolo come priorità nei propri programmi elettorali ormai è diventata materia buona solo per gli studiosi (e ne abbiamo tanti e bravi) e per gli appassionati del genere (che sono tanti ma sempre più soli).

La maxi inchiesta che aveva travolto la Lombardia colonizzata dalla ‘Ndrangheta (Crimine-Infinito) e che aveva travolto la politica regionale si è diluita in qualche libro ma non ha minimamente cambiato gli equilibri e gli scenari, come se la vicinanza con i boss fosse solo un normale inciampo nell’attività politica da scrollarsi di dosso con un’alzata di spalle.

L’inchiesta Aemilia in Emilia Romagna ha farcito i giornali solo nei giorni degli arresti, sempre con i particolari piccanti di una mafia raccontata come fenomeno di costume da presentare come estraneo a quello che siamo, mentre il suo processo che ha mostrato un’aberrante collusione tra ‘Ndrangheta e politica e imprenditoria e giornalisti è diventato cronaca locale.

A Catanzaro il maxi processo Rinascita-Scott messo in piedi da Gratteri (il più imponente processo dopo il maxi-processo di Falcone e Borsellino) viene tirato in ballo da qualche politico o commentatore solo per delegittimare il lavoro della Procura o per alimentare la tesi secondo cui chi si occupa di magia oggi in Italia nel 2022 sia solo un allarmista in cerca di notorietà.

Lo scorso 8 aprile la presentazione della relazione semestrale della Dia (la Direzione Investigativa Antimafia) in Parlamento fatta dalla ministra Cartabia ha meritato solo qualche singhiozzo. Eppure là dentro si dice che solo nel primo semestre del 2021 sono stati effettuati sequestri per oltre 93 milioni di euro e confische per circa 130 milioni di euro. Ci sono state in 6 mesi 455 interdittive antimafia e 68.534 le segnalazioni per operazioni sospette.

Trent’anni dopo gli omicidi di Falcone e Borsellino la mafia sembra ben organizzata

Ma l’antimafia non “tira più”, come direbbero i valenti spin doctor che hanno trasformato la politica in un’interminabile flusso di emozioni senza contenuti. L’associazionismo si è spento sotto il peso di una sigla regina che sul territorio nazionale ha il monopolio delle iniziative. E così, 30 dopo Falcone e Borsellino, la mafia sembra ben organizzata (tanto da permettersi di essere silente) e l’antimafia molto meno.

(da La Notizia)

Petrocelli incollato alla poltrona. Con l’alibi dell’etica in politica. Il caso del presidente della Commissione Esteri. Ma è uno tra i tanti che squalificano chi ci rappresenta

In commissione Esteri iniziano ad arrivare le dimissioni in massa per provare a chiudere il caso Vito Petrocelli, il presidente senatore espulso dal Movimento 5 Stelle che è balzato agli orrori delle cronache per la sua vicinanza a Putin e per la sua aderenza a tesi negazioniste della guerra in Ucraina.

Vito Petrocelli è balzato agli orrori delle cronache per la sua vicinanza a Putin e per le tesi negazioniste sulla guerra in Ucraina.

Petrocelli dal canto suo fa spallucce e annuncia di voler fare ricorso alla Corte costituzionale: “Sentirò il mio legale di fiducia”, dice serafico ai giornalisti confondendo la politica con la giustizia. La tesi di Petrocelli sarebbe quella di essere stato “bollato” come filo-Putin solo per avere votato contro l’invio delle armi all’Ucraina, fingendo di non sapere (o di non capire) che qui non si tratta di “far decadere un esponente della maggioranza che non si riconosce più della maggioranza”, come ci dice, ma di avere contezza del proprio ruolo politico e della responsabilità che la politica, ahilui, comporta.

Non serve nemmeno andare troppo per il sottile sulle tesi di Petrocelli sulla guerra per capire che un ruolo come quello di presidente di una commissione (o qualsiasi altro ruolo in cui un parlamentare svolge un compito dirigenziale a nome di un partito) resta vincolato alla fiducia che quel partito gli riconosce.

L’autorevolezza delle presidenze di commissione, in un Paese normale, dovrebbe derivare proprio dal partito che si rappresenta. Ogni parlamentare risponde alla propria coscienza e al proprio mandato ma che un espulso dal proprio partito pretenda di presiedere una commissione rende perfettamente l’idea dello scriteriato narcisismo.

Davvero può pensare Petrocelli (e i tanti Petrocelli che affollano il nostro Parlamento) di avere la credibilità e la rappresentatività politica di guidare la commissione Esteri al Senato? Dai, non scherziamo. Sarebbe curioso seguire un processo in cui Petrocelli spiega alla corte di essere rappresentativo di un pezzo qualsiasi di Paese senza essere passato per le elezioni solo con il proprio cognome.

Il punto, bisogna avere il coraggio di dircelo, è che in un Parlamento di parvenu (di tutti i partiti, di tutti i parlamenti, di tutte le legislature) ci ritroviamo ciclicamente di fronte a gente che non avrebbe mai sognato di arrivare lì dov’è arrivata e mica per niente ha come prima e unica preoccupazione quella di mantenere intatte le proprie posizioni acquisite, completamente concentrata sull’autopreservazione fregandosene del ruolo pubblico e della funzione sociale. Immaginate Petrocelli senza la sedia da presidente, rinchiuso nel suo profilo Facebook a lanciare strali contro il suo ex partito o a concimare la sua fanbase.

Tornerebbe uno dei tanti appesi ai like senza nessuna rilevanza politica. Sbaglia Petrocelli quando definisce la sua situazione una “questione politica”. La politica se n’è andata nel momento in cui il capo del suo partito l’ha salutato invitandolo alla porta. Ora siamo nel campo dell’etica e della morale. Se non ci si sente più rappresentati dal proprio partito semplicemente si torna in una dimensione personale (il Gruppo Misto sta lì per quello) rimboccandosi le maniche per costruire una nuova comunità intorno alle proprie idee.

Petrocelli si dimetta da presidente e poi si ricandidi. Le elezioni sono vicine.

Tutto il resto è una risibile giustificazione che sfida la decenza. Immaginate domani un parlamentare che si autoproclami portatore dello spirito originario del Pci di Berlinguer e reclami una presidenza. Non lo prenderebbe sul serio nessuno, ci strapperebbe al massimo un triste sorriso. Esattamente come Petrocelli. Si dimetta da presidente e poi si ricandidi. Le elezioni sono vicine.

(da La Notizia)