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La Meloni vuole multare i disoccupati. Così la destra è diventata stalinista. La proposta è nel programma di FdI. Giovani obbligati ad accettare ogni offerta di lavoro

Non c’è solo la solita malcelata nostalgia al fascismo all’ultimo raduno di Fratelli d’Italia che prova a incoronare Giorgia Meloni leader della coalizione di centrodestra in vista delle prossime elezioni politiche, con un applauditissimo Vittorio Feltri che celebra Milano come “città in cui è nato il fascismo” e citazioni sparse dai discorsi di Benito Mussolini(come l’“essere continuati” che Meloni ripesca da una prefazione del Duce nel 1928): a fare paura è ciò che sta scritto, nero su bianco, nel programma di FdI in tema di lavoro.

Il partito della Meloni inserisce nel suo programma una proposta per combattere il Reddito di cittadinanza

Dice Fratelli d’Italia di voler “attivare un sistema di intelligenza artificiale per la collocazione e la formazione attiva” per combattere il Reddito di cittadinanza che, secondo Meloni e compagni, avrebbe ingenerato “nelle persone un sistema assistenziale che disincentiva il lavoro e incrementa anche il lavoro nero”.

Questa presunta “intelligenza artificiale” (a cui si ricorre per evidente carenza di intelligenza umana) dovrebbe “a regime” rintracciare “l’elenco dei giovani che terminano ogni anno le scuole superiori e l’università e li agganci a imprese del settore, agenzie per il lavoro e centri per l’impiego, attivando un sistema concorrenziale tra gli operatori che avranno una dote finanziaria ingente per la loro collocazione”.

In pratica un cervello elettronico si dovrebbe occupare, nei sogni della Meloni, di associare con un algoritmo qualsiasi studente italiano al lavoro che dovrebbe fare. Qualcosa di simile ad Amazon solo che in questo caso il pacco è un giovanotto bello fresco pronto per essere prestante forza lavoro da consegnare a un’azienda per contribuire al suo fatturato appena aperto il pacco.

Ma non finisce qui. Si legge nel programma di FdI che “il giovane non potrà più scegliere se lavorare o meno, ma è vincolato ad accettare l’offerta di lavoro per sé, per la sua famiglia e per il Paese (c’è scritto proprio così, come in un cinegiornale dell’Istituto Luce, nda) “pena la perdita di ogni beneficio con l’applicazione anche di un sistema sanzionatorio”.

Se non lavori Meloni ti multa. Non male come idea da colei che lamenta da anni uno “Stato che ci controlla e che ci obbliga a vaccinarci”. Per le donne invece, questi modernissimi pensatori meloniani, hanno pensato al diritto allo smart working “solo se hanno figli con meno di 16 anni per 3 giorni alla settimana”. Possono lavorare da casa ma solo per potersi dedicare più alacremente alla prole. Del resto è lo stesso partito che ha votato contro la parità salariale al Parlamento Ue senza battere ciglio. Bastava quello per capire il mondo femminile che sognano.

Per quanto riguarda invece la leva fiscale scrive FdI che “passo ineludibile è la riduzione del costo fiscale del lavoro sostenuto dal mondo produttivo, un costo tra i più elevati d’Europa che mina la competitività delle imprese italiane spingendole spesso alla delocalizzazione produttiva. Al contrario è necessario puntare su azioni che creino le basi per il rientro in Italia di chi è stato costretto, per garantire la competitività e continuità aziendale, a spostare all’estero linee e siti di produzioni, incentivando il fenomeno di reshoring già in atto”.

Detta in parole semplici è: “Cuneo fiscale sì ma solo alle imprese”, secondo i desiderata di Bonomi e Confindustria. Mentre un pezzo di stampa liscia la leader di Fratelli d’Italia “pronta a governare” basterebbe leggere il suo programma per intuire che questa destra potrebbe fare concorrenza a Stalin per il terrificante mondo del lavoro che hanno in testa.

(per La Notizia)

«Vantarsi di uccidere i generali russi e innamorarsi dell’Ucraina è una follia» secondo il NY Times

Vale la pena rileggere l’editoriale di Thomas L. Friedman, editorialista del NY Times vincitore di due premi Pulitzer. Parole che qui da noi varrebbero l’accusa di filo-putinismo nel tempo di un amen ma che rendono perfettamente l’idea. Anche perché qui da noi nel cassetto dei filo-putiniani ci sono finiti De Benedetti, Delrio, Bersani, Conte, Canfora, Sergio Romano, Michele Santoro, Nico Piro, Cecilia Sala, l’Anpi e Papa Francesco. Tanto per dire come siamo messi. Scrive Thomas L. Friedman:

«… Ma sono cittadino americano e voglio che stiamo attenti. L’Ucraina era, ed è tuttora, un paese coperto di corruzione. Ciò non significa che non dovremmo aiutarlo. Sono contento che lo stiamo facendo. Insisto che lo facciamo. Ma la mia sensazione è che la squadra di Biden stia camminando molto più sul filo del rasoio con Zelensky di quanto sembrerebbe ad occhio, volendo fare tutto il possibile per assicurarsi che vinca questa guerra, ma facendolo in un modo che mantenga ancora una certa distanza tra noi e la leadership ucraina. È così che Kiev non sta prendendo l’iniziativa e quindi non saremo imbarazzati dalla politica ucraina disordinata all’indomani della guerra.

[…]

Allora, dove siamo adesso? Il Piano A di Putin – prendere Kiev e insediare il proprio leader – è fallito. E il suo Piano B, che cerca solo di prendere il pieno controllo del vecchio cuore industriale dell’Ucraina, noto come Donbas, che è in gran parte di lingua russa, è ancora in dubbio. Le forze di terra appena rinforzate di Putin hanno fatto qualche progresso, ma sono ancora limitate. È primavera nel Donbas, il che significa che il terreno a volte è ancora fangoso e umido, quindi le forze armate russe devono ancora rimanere su strade e autostrade in molte aree, rendendole vulnerabili.

Mentre l’America naviga tra Ucraina e Russia e cerca di evitare di essere intrappolata, un punto luminoso nello sforzo di evitare una guerra più ampia è il successo dell’amministrazione nell’impedire alla Cina di fornire aiuti militari alla Russia. Questo è stato enorme.

Dopotutto, era solo il 4 febbraio quando il presidente cinese, Xi Jinping, ha ospitato Putin all’apertura dei Giochi Olimpici invernali del 2022, dove hanno svelato tutti i tipi di accordi commerciali ed energetici, e poi hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando che l’amicizia tra Russia e Cina “ non ha limiti.

Quello è successo allora. Dopo l’inizio della guerra, Biden ha spiegato personalmente a Xi in una lunga telefonata che il futuro economico della Cina si basa sull’accesso ai mercati americano ed europeo – i suoi due maggiori partner commerciali – e se la Cina fornisse aiuti militari a Putin, avrebbe avuto conseguenze molto negative per il commercio della Cina con entrambi i mercati. Xi ha fatto i conti ed è stato dissuaso dall’aiutare la Russia in qualsiasi modo militare, il che ha anche reso Putin più debole. Le restrizioni occidentali sulla spedizione di microchip in Russia hanno iniziato a far arrancare davvero alcune delle sue fabbriche e la Cina non è intervenuta, finora.

La mia linea di fondo riecheggia la mia linea superiore – e non posso sottolinearlo abbastanza: dobbiamo attenerci il più strettamente possibile al nostro obiettivo originale, limitato e chiaramente definito di aiutare l’Ucraina a espellere il più possibile le forze russe o negoziare per il loro ritiro ogni volta che i leader dell’Ucraina sentono che è il momento giusto.

Ma abbiamo a che fare con alcuni elementi incredibilmente instabili, in particolare un Putin politicamente ferito. Vantarsi di aver ucciso i suoi generali e di affondare le sue navi, o innamorarsi dell’Ucraina in modi che ci invischieranno lì per sempre, è il culmine della follia».

Nella foto: il presidente ucraino Zelensky in collegamento con il Congresso Usa, 16 marzo 2022

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Lavoro, perché la Spagna dovrebbe essere un modello per l’Italia

Per cassare sul comandamento del “non c’è alternativa” per riformare il mondo del lavoro si potrebbe fare un giro nella vicina Spagna che, guarda caso, è scomparsa dalla stampa nazionale. Si troverebbe, ad esempio, una seria legge sui rider (che qui da noi sono serviti solo in pandemia per eroicizzare gli stipendi bassi e precari) senza occuparsi di disciplinare il lavoro del rider e senza costituire una specifica fattispecie giuridica ma inserendola nella forma contrattuale del lavoro subordinato (che da quelle parti è ancora una cosa seria), riconoscendo che la capacità di controllo, organizzazione, valutazione e profilazione (anche se attraverso un algoritmo) rientra in un rapporto dipendente.

Un rider a Madrid (Getty Images)

In Italia non esiste ancora il salario minimo

Non è un caso che la Commissione europea di regolazione del settore sia partita proprio dall’iniziativa spagnola. Quando si dice “le buone prassi”. Ci potremmo accorgere che in Spagna già dal 2020 è stato introdotto di un reddito minimo vitale, con buona pace dei terrorizzati dall’avvento della dittatura del Sussidistan, e poco tempo fa il governo di Madrid e i due principali sindacati del Paese, Ugt e Comisiones Obreras, hanno stretto un patto per fissare il salario minimo di quest’anno a 1.000 euro al mese (per 14 mensilità), con un aumento di 35 euro rispetto a quello del 2021. Anche lì le due principali associazioni degli imprenditori spagnoli, Ceoe e Cepyme, avevano urlato «non è il momento!» e avevano lamentato «il contesto economico di incertezza». Del resto in Ue sono 21 i Paesi che hanno un salario minimo nazionale con il Lussemburgo che è il primo Stato Ue per importo mensile (oltre 2 mila euro), seguito da Irlanda, Paesi Bassi, Belgio, Germania e Francia. L’Italia invece è uno dei sei Paesi Ue a essere sprovvisto. Per dire.

Un gruppo di lavoratori agricoli a Lepe, in Spagna (Getty Images)

In Spagna il 3,4% del Pnrr utilizzato per limitare le esternalizzazioni

Ma soprattutto in Spagna, dopo lo Statuto dei lavoratori del 1980, per la prima volta si assiste a una riforma che non spinge verso una maggiore liberalizzazione (come avevano fatto sia socialisti sia conservatori) ma cerca una configurazione del mercato del lavoro recuperando spazi di maggiore rigidità. In Spagna avviene ciò che i liberali e liberisti di casa nostra definiscono “vecchio” e “impossibile”. Così si torna a parlare di contratti collettivi che non sono un manuale di buone intenzioni ma che rivendicano il proprio primato di settore sui singoli accordi aziendali (che possono comunque distinguersi offrendo condizioni più favorevoli). In Spagna il 3,4% del Pnrr viene utilizzato per limitare le forme di esternalizzazione del lavoro con contratti interinali, per adeguare i salari dei lavoratori e per ridurre le forme di contratti a tempo determinato. E poiché gli spagnoli prendono tremendamente sul serio le scelte del governo è stato introdotto un inasprimento delle sanzioni per le irregolarità dei contratti. Lì non attacca la favola degli imprenditori “vessati dai controlli”, evidentemente. Mesi e mesi ascoltando il dibattito sul lavoro in Italia e poi basta prendere il primo treno per Madrid per accorgersi che la propaganda è un castello di carta. Non male, davvero.

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Il tribunale israeliano sfratta (altri) 1000 palestinesi

Dopo una battaglia legale di due decenni, l’alta corte israeliana ha stabilito che circa 1000 palestinesi possono essere sfrattati da un’area della Cisgiordania: si tratta di una delle più grandi decisioni di espulsione dall’inizio dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi nel 1967.

Circa 3mila ettari di Masafer Yatta, un’area rurale delle colline meridionali di Hebron sotto il pieno controllo israeliano e sede di diversi piccoli villaggi palestinesi, è stata designata come “zona di tiro” dallo Stato israeliano negli anni 80, da utilizzare per esercitazioni militari, in cui la presenza di civili è vietata.

Secondo le convenzioni di Ginevra relative al trattamento umanitario in guerra, è illegale espropriare la terra occupata per scopi che non vanno a beneficio delle persone che vivono lì o trasferire con la forza la popolazione locale ma Israele ha sostenuto, tuttavia, che gli abitanti del villaggio di Masafer Yatta che vivono nella zona di tiro 918, allevando animali, non erano residenti permanenti dell’area quando è stata dichiarata la zona di tiro, e quindi non hanno diritti sulla terra. Poiché la decisione dei giudici è stata unanime, non è chiaro se vi siano disponibili ulteriori canali legali israeliani per i residenti degli otto villaggi di Masafer Yatta per appellarsi.

«Abbiamo combattuto con Israele nei tribunali negli ultimi 22 anni e questo giudice ha impiegato cinque minuti per distruggere la vita di 12 villaggi e delle persone che dipendono dalla terra», ha commentato Nidal Younes, capo del consiglio del villaggio di Masafar Yatta.

Breaking the Silence, una Ong israeliana, ha dichiarato: «L’alta corte ha appena dato il via libera al più grande trasferimento di popolazione nella storia dell’occupazione dai primi anni 70. La deportazione di oltre 1.000 persone a favore dell’espansione degli insediamenti, degli avamposti e dell’addestramento dei soldati delle forze di difesa israeliane non è solo una catastrofe umanitaria che potrebbe costituire un precedente per altre comunità in tutta la Cisgiordania, ma anche un chiaro passo nell’annessione de facto dei territori palestinesi occupati e nel consolidamento del dominio militare a tempo indeterminato».

Nella foto la protesta dei residenti di Masafer Yatta (da Twitter Breaking the Silence)

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Siete a favore della guerra, benissimo, ma di quale guerra

Se il dibattito italiano non fosse incagliato nella risibile discussione sui pacifisti che qui da noi sono diventati uno dei punti principali della discussione, (come se non ci fosse una guerra alle porte, una crisi energetica per i prossimi mesi (anni?) e una crisi umanitaria in alcune zone del mondo a causa della levitazione dei prezzi del cibo) potremmo serenamente riconoscere che la maggiore distinzione politica tra coloro che dibattono (e votano) su questa guerra consiste tra chi la guerra la vuole fare smettere e chi la guerra la vuole “portare fino in fondo”.

Non è una differenza da poco. Chi vuole la fine della guerra sa benissimo, come in tutte le guerre, che bisogna parlare anche con l’invasore (quello che prova a fare Macron) per capire quali siano gli spazi di manovra, consapevole che lo spostamento del conflitto dal campo bellico a quello politico comporta l’inasprimento delle sanzioni per mettere all’angolo Putin e una cauta valutazione delle vie d’uscita: cosa è disposto a cedere l’uno, cosa è disposto a volere l’altro.

Chi invece vuole che la guerra “vada fino in fondo” dice senza avere il coraggio di dirlo che il conflitto in Ucraina deve essere l’occasione per sconfiggere totalmente Putin. Ovvero vuole l’eliminazione politica (ma anche fisica a molti andrebbe bene, c’è da scommetterci) del presidente russo. È sostanzialmente la posizione di Biden e dei più esagitati membri del Partito Unico Bellicista. Resta da capire quale sarebbe, secondo loro, la “vittoria” accettabile: avere i confini dell’Ucraina com’era prima dell’invasione? Ottenere i confini prima del 2014? Fare cadere il governo russo (e quindi intervenire con la forza nell’autodeterminazione di una nazione, come va di moda dire in queste settimane)?

Non è uno scarto da poco. Tutte e due le posizioni sono legittime ma bisognerebbe avere il coraggio (e il senso di responsabilità) di dichiararle pubblicamente. Anche perché nel primo caso il conflitto è da sostenere per evitare l’eccidio e la distruzione di un Paese mentre nel secondo è un incendio da alimentare per scardinare la Russia. Cambiano completamente le regole di ingaggio e le responsabilità politiche, oltreché belliche.

Resta il dubbio che prendersela con i pacifisti (tra l’altro con l’ignoranza di chi crede che la pace sia il contrario della guerra) serva anche a non dirimere questa differenza tra gli interventisti. La domanda è semplice: siete a favore della guerra, benissimo, ma di quale guerra

Buon giovedì.

 

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Andrea, Baobab e il fatto che non sussiste

Andrea Costa, il responsabile di “Baobab experience”, l’associazione che si occupa di assistere i migranti che transitano per la Capitale, rischiava la condanna per il reato di emigrazione clandestina. La sentenza, emessa dal gup in abbreviato, ha fatto cadere le accuse anche nei confronti di altre due attiviste della Onlus. La stessa Procura di Roma aveva sollecitato l’assoluzione per tutti gli imputati.

Andrea rischiava da 6 a 18 anni di reclusione perché con i volontari di Baobab prestarono e aiuto a otto sudanesi e un cittadino del Ciad per acquistare biglietti di pullman e treni così da arrivare in Francia. Il reato è sempre lo stesso, quello previsto dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione che tutti sdegnati commentano e che nessuno pensa di modificare (nonostante il “governo dei migliori”).

Andrea Costa è stato assolto “perché il fatto non sussiste” e perché insistiamo a credere che aiutare i bisognosi possa davvero configurare un reato, alla faccia dei cattolici compiti a messa tutte le domeniche e alla faccia della Patria del diritto che vorrebbe essere l’Occidente.

Quel reato che non esiste serve a ingrossare le fila dei partiti di destra e la cosiddetta sinistra non ha il coraggio di metterlo in discussione in Parlamento, limitandosi a contestarlo su Twitter.

Andrea Costa giustamente dice «sono soddisfatto perché un giudice ha sancito quello che già sapevo: che il fatto non sussiste, ora c’è qualcuno che lo ha messo nero su bianco» eppure ne abbiamo viste di indagini (da quelle di Zuccaro in giù) che servono solo a stimolare gli intestini peggiori.

Notate un particolare: quelli che si lamentano dei “soldi buttati via per le indagini inutili” in questo caso sono tutti zitti. Si potrebbe sperare che sia un mutismo per vergogna e invece stanno aspettando semplicemente la prossima indagine.

Buon mercoledì.

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Lavrov trasforma la Tv italiana in un ventilatore. Ormai la propaganda del Cremlino sfida il ridicolo e in tanti ci cascano

Il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov è stato ospite a Zona Biancasu Rete 4 (leggi l’articolo – qui il video), nella sua prima intervista in Europa dall’inizio della guerra. Chiamarla intervista è più che un eufemismo: Lavrov ha potuto comodamente tenere un comizio in prima serata interrotto al massimo da qualche tiepida osservazione del giornalismo in studio. Del resto che certo giornalismo italiano sia specializzato in interviste sdraiate quando si tratta di ascoltare ricchi o potenti è una lezione che abbiamo imparato ben prima della venuta dei russi.

Lavrov ha potuto comodamente tenere un comizio in prima serata interrotto al massimo da qualche tiepida osservazione

Poiché dalle nostre parti la politica adora accapigliarsi sugli aspetti irrilevanti il segretario del Pd Enrico Letta parla di “onta per l’Italia” mentre Matteo Salvini invoca un “no alla censura” con un capovolgimento dei fronti in cui la forza che dovrebbe essere progressista si impunta nel ritenere gli elettori troppo cretini per non saper pesare la propaganda russa mentre la forza che dovrebbe essere conservatrice prova a rivendersi come tutrice delle libertà, dimenticando che la libertà di dire falsità per giustificare un massacro è qualcosa che si avvicina all’apologia di strage.

Del resto se Lavrov volesse davvero mettere in crisi il sistema dell’informazione italiana potrebbe rendere pubbliche le richieste di interviste che gli sono arrivate in questi ultimi due mesi. Chissà che sorprese. Ne frattempo il ministro di Putin ha tutto l’agio di poter comodamente dichiarare che l’esercito russo ha colpito “solo obiettivi militari”, come se non fossero sotto gli occhi del mondo le immagini di Mariupol rasa al suolo.

Poi, ovviamente, via con la solfa della “denazificazione” dell’Ucraina (usando il trucco di utilizzare le simpatie naziste di alcuni reparti militari ucraini come giustificazione valida per un massacro) e la bugia (anche questa già vecchia) che la strage di Bucha sia “un fake”.

La frase che ha fatto sobbalzare la comunità internazionale è quando Lavrov avrebbe affermato (secondo la traduzione simultanea) che “anche Hitler aveva origine ebraiche” per lasciare intendere che le origine ebraiche di Zelensky non cozzino con la propaganda della denazificazione di Putin.

La frase viene minimamente corretta sul sito del ministero degli Esteri russo che pubblica “potrei sbagliarmi, ma anche Hitler aveva sangue ebreo” ma ovviamente l’onda di indignazione ha già fatto il giro del mondo. Le presunte origani ebraiche di Hitler erano del resto già una leggenda nella Germania degli anni ’30, quando lo stesso Hitler incaricò il suo avvocato (futuro reggente della Polonia) Hans Frank di studiare con attenzione il suo albero genealogico per dissipare qualsiasi dubbio.

Nel corso degli anni autorevoli storici (come Richard Evans e Nikolaus von Preradovich) hanno negato qualsiasi possibilità. Nel 2010 una ricerca sul Dna di alcuni discendenti di Hitler ha riscontrato una percentuale di Dna berbero ed ebreo ashkenazita, senza però poter dimostrare la discendenza. Una cosa è certa: rilanciare la teoria cospiratoria insinua il dubbio, l’esagitazione generale del dibattito si alza e questo Lavrov, maestro di propaganda, lo sa benissimo. Israele intanto ha convocato l’ambasciatore russo per avere chiarimenti.

La miccia della propaganda comunque si è accesa, lo spazio pubblico si è ulteriormente inquinato e un nuovo elemento per confermare tesi errate adesso è a disposizione. Intanto il governo trascina il Paese in guerra e i politici discutono nei talk show, dimenticandosi Camera e Senato.

(da La Notizia)