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Profughi Ucraina, l’accoglienza è a carico degli italiani. Il Governo se ne lava le mani. Draghi aveva promesso sostegno a chi ospita. Ma le famiglie non vedranno un euro

Sono già più di 99mila gli ucraini scappati dalla guerra che hanno trovato rifugio in Italia (qui l’ultimo censimento del Viminale). L’ondata di solidarietà da parte di singoli cittadini, di associazioni e delle amministrazioni locali ha garantito un accoglienza massiccia e veloce. Ma chi aiuta coloro che aiutano gli ucraini?

Il governo aveva annunciato fondi per sostenere le famiglie che ospitano profughi in arrivo dall’Ucraina

Il governo fin dall’inizio della guerra aveva annunciato fondi per sostenere le famiglie che ospitano rifugiati ucraini ma quei soldi finora non li ha visti nessuno. Il governo Draghi ha annunciato di avere a disposizione 300 euro mensili per ogni profugo accolto ma i finanziamenti finora sono finiti tutti alle Prefetture e ai Cas)Centri di accoglienza straordinaria). Peccato che i numeri ci dicano che il 90% degli ucraini sia stato invece accolto presso famiglie.

Valentina Laterza dell’associazione Refugees Welcome Italia sottolinea come “le famiglia che da due mesi stanno rispondendo all’emergenza” non abbiano visto un solo centesimo. Di quei famosi 300 euro non c’è traccia da nessuna parte e nelle Faq della Protezione Civile è scritto chiaramente che le famiglia che già ospitano rifugiati non potranno beneficiare di nessun contributo. Chi per settimane ha sostenuto l’emergenza confidando in un decreto del governo in questi giorni ha scoperto che solo i contributi che arriveranno (quando arriveranno) saranno destinate solo alle nuove convivenze realizzate a partire dalla firma della convenzione.

Così accade che si moltiplichino le storie di persone che ora non riescono a fare fronte ai costi e i profughi vengono rimessi nei circuiti diffusi che lo Stato invece vorrebbe svuotare. Un cortocircuito che mortifica chi si è messo a disposizione. Nel circuito di associazioni e enti no profit sono previsti 33 euro al giorno. Restano validi gli 8mila posti messi a disposizione da prefetture e Comuni.

Il Dpcm varato dal Governo recepisce il provvedimento europeo del 4 marzo e fissa la cornice normativa, stabilendo che saranno le questure a concedere il permesso di soggiorno temporaneo, ma è l’ordinanza firmata dal capo del Dipartimento della Protezione Civile Fabrizio Curcio a definirne i dettagli ed è proprio contro la Protezione Civile che le associazioni sollevano il problema.

“Io trovo sia una situazione assurda e spero che qualcuno possa metterci mano perché non può funzionare che questa accoglienza si basi solo sulle lodevoli donazioni come se fosse un fatto privato e non una questione di interesse generale. Chi sta ospitando, oltre a mettere a disposizione stanze o case intere, si occupa del vitto, delle tante necessità di chi a volte è arrivato con solo uno zainetto, allaccia percorsi scolastici e attività per i più piccoli, supporta percorsi medici spesso molto complessi, davvero va escluso esplicitamente dai contributi pubblici? Grazie a queste reti il 95% dell’ospitalità non ha sovraccaricato la rete statale, fantastico, pensare di finanziare solo l’altro 5% non è quanto ci si aspetta dallo Stato”, scrive l’assessore al Comune di Milano Pierfrancesco Maran.

Per sostenere l’accoglienza dei profughi in arrivo dall’Ucraina servono soldi e serve un modo intelligente per distribuirli

La solidarietà non va declamata, la solidarietà va praticata. E nel Paese dei bonus perfino per cambiare i rubinetti per sostenere l’accoglienza dei profughi ucraini servono soldi e serve un modo intelligente per distribuirli. Poiché a quanto pare i soldi per le armi non mancano (e saranno sempre di più) resta da capire cosa si aspetti ad aggiustare il tiro per i fondi del sostegno e dell’accoglienza. Altrimenti rimane l’atroce dubbio che per la guerra (per procura) si è perfettamente organizzati mentre per la pace e la solidarietà no.

(da La Notizia)

Armi a Kiev senza controlli. Il nuovo business delle mafie. Da Gratteri ai Servizi è allarme rosso. Era già successo dopo la guerra nell’ex Iugoslavia

In Italia lo sta ripetendo fin dall’inizio della guerra il procuratore Nicola Gratteri: “Il rischio delle armi in Ucraina è alto. È successo – spiega intervenendo al TG3 – che subito dopo la guerra nella ex Iugoslavia, le mafie, le organizzazioni criminali, andavano in Bosnia, in Montenegro, e un kalashnikov costava 750 euro. Subito dopo la guerra, ogni famiglia aveva 4/5 kalashnikov, due bazooka, dieci chili di plastico C3 e C4.

La ‘ndrangheta ha comprato tante volte armi provenienti dalla ex Iugoslavia

La ‘ndrangheta ha comprato tante volte armi provenienti dalla ex Iugoslavia, e molte volte ci sono stati scambi con la Sacra Corona Unita che la ‘Ndrangheta barattava con la cocaina. Niente di più facile che questo possa accadere subito dopo la fine di questa guerra perché è ovvio che, a prezzi stracciati, a prezzi bassi questa volta potrebbero andare a comprare armi molto più pericolose rispetto a un kalashnikov o rispetto a un bazooka”.

L’enorme quantità di armi inviata in Ucraina pone problemi di sicurezza internazionale

L’enorme quantità di armi che arriva in Ucraina pone problemi di sicurezza internazionale al di là dello scenario bellico e le intelligence di tutto il mondo non nascondo la loro preoccupazione. Gli Usa hanno ammesso di avere pochi modi per tracciare la fornitura consistente di armi anticarro, contraeree e delle altre armi che hanno inviato oltre il confine in Ucraina.

Secondo la Cnn si tratta di “una rischio consapevole che l’amministrazione è disposta a correre” ma fonti dell’intelligence Usa confermano di avere “fiducia per il breve periodo” ma “quasi zero quando le armi entrano nella nebbia della guerra”. Poiché le forze Usa e Nato non sono sul campo tutto dipende dalle informazioni che arrivano dal governo ucraino ma non è difficile immaginare che Zelensky sia incentivato a fornire solo i dati che rafforzano la sua tesi di avere sempre più armi e sempre più aiuto.

“È una guerra: tutto ciò che fanno e dicono pubblicamente è progettato per aiutarli a vincere la guerra. Ogni dichiarazione pubblica è un’operazione di informazione, ogni intervista, ogni apparizione trasmessa da Zelensky è un’operazione di informazione. Non significa che abbia torto ma dobbiamo tenerne conto”, dice una fonte interna alla Cnn.

Anche l’intelligence italiana esprime preoccupazione. Una fonte interna ci spiega che “noi mutuiamo l’esperienza dei Balcani” e esprime “preoccupazione” per il “ricorso della politica adottata dall’Ucraina in emergenza che consente una maggiore circolazione delle armi per incentivare la difesa civile”. “Tutti i cittadini – ci spiega una fonte interna – sono dotati di armi. Questo flusso si è enormemente nutrito di questi arrivi: armi corte, leggere, trasportabili. C’è una massa di materiale che viaggia e può oltrepassare confini dell’ambito bellico.

Tutto questo necessita di monitoraggio da parte delle strutture investigative di tutti i Paesi Ue. Per evitare di alimentare il business delle organizzazioni criminali dobbiamo intensificare i controlli ai confini. È una situazione in continua evoluzione che richiede molta attenzione. Anche perché non sappiamo dove finiscono le armi date ai civili quando questi se ne liberano”.

Jordan Cohen, analista della difesa e della politica estera presso l’istituto Cato negli Usa che si ha affermato che il pericolo più grande che circonda l’inondazione di armi consegnate in Ucraina è ciò che accadrà loro quando la guerra finirà o si trasformerà in una sorta di stallo prolungato. Le armi arrivate in Afghanistan, prima per armare i mujaheddin nella loro lotta contro l’esercito sovietico, poi per armare le forze afghane nella loro lotta contro i talebani sono una lezione sotto gli occhi di tutti.

(per La Notizia)

Altro che temperatura minima dei condizionatori: il problema degli italiani è pagare le bollette

“Preferite l’aria condizionata o la guerra?”, aveva detto Mario Draghi qualche giorno fa. Mentre qualcuno faceva notare che la semplificazione era paternalistica e sfortunata i difensori più sfegatati del governo dei migliori ci avevano spiegato che era solo un esempio, solo per farsi capire. E invece eccoci qua, con una bella “svolta” (la chiamano così) che prende il fantasioso nome di “operazione termostato” decisa dalla commissione Ambiente della Camera nel decreto Bollette che impone la temperatura minima dei condizionatori negli edifici pubblici, scuole comprese, ospedali e case di cura esclusi

Imposta la temperatura minima dei condizionatori

Secondo la nuova norma, proposta dal M5S, la media ponderata della temperatura dell’aria, misurata nei singoli ambienti di ciascuna unità immobiliare, non dovrà essere superiore ai 19 gradi in inverno e minore di 27 gradi in estate, con un margine comunque di tolleranza di due gradi. Significa che il riscaldamento potrà arrivare ad un massimo di 21 gradi e l’aria condizionata potrà partire da un minimo di 25.

Applausi da tutte le parti. Del resto il Governo italiano ha arruolato l’aria condizionata nella guerra ucraina. Per non farci mancare anche un po’ di paternalismo è intervenuto di corsa il ministro Renato Brunetta che in un’intervista al Corriere dice testualmente: “Mi ricorda mia madre che mi diceva: quando esci dalla stanza spegni la luce. Io intendo fare ben di più, mettendo i pannelli solari sul tetto di un milione di edifici pubblici, con particolare riferimento alle scuole. Non risolverebbe la dipendenza dal gas russo, ma avrebbe un valore educativo enorme”.

L’infantilizzazione dei cittadini del resto è una strategia che fin dai tempi della pandemia sembra funzionare benissimo. Era inevitabile che passasse anche ai condizionatori. Così siamo alle legge educative, i governanti si propongono addirittura come “maestri” e suggerire le buone maniere climatiche sembra bastargli.

In pochi ricordano però che al giorno d’oggi, nelle abitazioni private, esiste un limite di 20 gradi in inverno con fasce di accensione specifiche dei termosifoni in base alle zone. Si va dal 15 ottobre a Milano e Bologna fino al 1° dicembre a Palermo e Catania. Chi non rispetta il calendario rischia una multa fino a 3mila euro: multe ovviamente rarissime visto che mancano i controllori.

Intanto il salario minimo aspetta

È notevole però che il nostro Governo inventi in velocità una norma per vietare i condizionatori sotto i 25 gradi e non sia riuscito a trovare invece il tempo e l’occasione per vietare un salario sotto i 10 euro all’ora. Perché il problema degli italiani non è la temperatura da impostare per condizionatori e riscaldamento ma dove trovare i soldi per poterseli permettere.

Al 30 marzo scorso secondo un’indagine di Arte – associazione dei reseller e trader di energia italiani che forniscono 1,3 milioni di contatori – il valore delle forniture non pagate in Italia è passato dai circa 17 milioni di euro di dicembre, pari al 10% del totale mensile, ai 21,5 milioni di gennaio (13% del totale) fino ai circa 26 milioni di insoluto di febbraio, appunto una quota del 15,44%.

Un italiano su 7 non riusciva a pagare le bollette ben prima che il conflitto ucraino si inasprisse e le rateizzazioni spesso non fanno altro che incancrenire la situazione. I bonus sociali e i ristori del governo hanno avuto un impatto minimo e la situazione, anche nelle aziende, è insostenibile. Preferiremmo poter sopravvivere dignitosamente, qualcuno avvisi Draghi e compagnia.

(da La Notizia)

Julian Assange estradato negli Usa: i “difensori del giornalismo” restano zitti

Cosa aveva detto Lilli Gruber riferendosi all’Occidente? “Da noi i giornalisti non vengono messi in carcere”. Eppure la corte di Londra ha deciso che Julian Assange sarà estradato negli USA dove rischia qualcosa come 175 anni di detenzione per avere detto la verità e avere fatto il suo lavoro, come dovrebbe farlo chiunque si occupi di giornalismo, ovvero dire le verità soprattutto se sono scomode al potere. 

Anche questa volta, vedrete, i seguaci di Voltaire non troveranno le parole per esprimere la loro contrita solidarietà che non negano quasi a nessuno per non dover ficcare il naso negli orridi affari degli USA (e di sguincio anche della NATO) che in nome dell’esportazione di democrazia hanno finito per fare dei civili carne da macello e dei suoi prigionieri di guerra vere e proprie cavie di tortura. 

Julian Assange verrà estradato negli USA dal Regno Unito

Dentro ci sono gli USA ma c’è anche Londra che con la sua ministra degli Interni Primi Patel è pronta per dare il via libera finale all’estradizione di Wikileaks, tra l’altro in un momento in cui il rapporto tra i due alleati è rinsaldato dalla guerra in Ucraina.

La storia di Assange, scavandola con l’unghia, mostra anche una Svezia che è molto diversa dalla patina della patria del Nobelma che si è distinta negli anni per una detenzione che nel 42% dei casi utilizza l’isolamento (come scritto nelle critiche ufficiali dell’ONU) e che con Assange si è mostrata velocissima il 20 agosto 2010 nell’emettere un mandato di arresto per stupro che poi è stato derubricato dalla stessa procura svedese in fretta e furia come molestia. Quella denuncia è stata utilissima al Regno Unito per incarcerare l’11 aprile del 2019 Assange presso la Prigione Belmarsh e servirlo caldo agli USA. 

Ora la Westminster Magistrates’ Court di Londra ha emesso l’ordine formale di estradizione negli Usa per Julian Assange, durante l’udienza a cui l’attivista australiano ha assistito in videocollegamento. L’ordine è stato emesso dopo un’udienza durata sette minuti: “in parole povere, ho il dovere di inviare il caso al ministro per una decisione”, ha dichiarato il giudice Paul Goldspring.

Resta la possibilità da parte dei legali di Assange di un ricorso all’Alta corte di Londra ma le probabilità di successo sono però ridotte al minimo dopo il lungo iter legale della magistratura britannica e soprattutto il fatto che il mese scorso la Corte suprema si era rifiutata di riesaminare il caso.

Regno Unito, Svezia e USA uniti nell’accerchiamento di Assange

Come giustamente ricorda il presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti “la cosa scandalosa è che Assange rischia il carcere per aver rivelato gli imbrogli e i dossier falsificati che hanno provocato l’invasione dell’Afghanistan e dell’Iraq. Ma i governanti che hanno prodotto quei dossier girano per il mondo lautamente retribuiti”

Eppure proprio in quest’epoca in cui la guerra così vicina ci propone spaventose forme di propaganda, proprio mentre il mondo discute della veridicità delle narrazioni del potere e delle ricostruzioni giornalistiche al servizio del potere il più grande “informatore non allineato” di questi decenni, colui che ha smascherato la bugia come miccia per le guerre viene dimenticato. Non solo non si vuole imparare dalla sua lezione ma si accetta che la libertà delle sue parole (riscontrate nei fatti) gli costi la privazione della sua libertà personale. E i cantori delle libertà nostra i tacciono quasi tutti. Curioso, vero?

(da La Notizia)

Orsini riabilita il fascismo pur di salvare Putin?

Orsini e il fascismo: la dura legge dei talk show, soprattutto in tempi di guerra, impone di alzare il livello dello scontro per non fare perdere l’appetito ai telespettatori a casa. Così accade che il sociologo professore della Luiss Alessandro Orsini alla fine si sia innamorato talmente tanto di se stesso che la guerra venga buona solo come sfondo di un’interminabile autocelebrazione. 

Orsini e il fascismo: trash talk

La regola dei talk televisivi, del resto, pretende che il dibattito sia una continua polarizzazione, massimizzando i personaggi (e quindi a ricaduta i contenuti) perché il duello risulti facile e digeribile nelle ore del dopo cena.

Cartabianca, in collegamento con Bianca Berlinguer, il professore Orsini, in preda a un picco di narcisismo, per giustificare la sua contrarietà all’invio di armi (tesi legittima che meriterebbe almeno il rispetto di chi decide di abbracciarla, tanto per cominciare) racconta di essere “in contatto con famiglia a Mariupol” che gli scrivono tutti i giorni: “Mi dicono ‘Professore, parli – spiega Orsini -. Voi italiani siete impazziti a dare armi’. Queste donne che mi scrivono con bambini morti non hanno voce, la propaganda della Nato ci fa credere che tutte queste persone vogliano la guerra. Ci sono migliaia di mamme, bambini e genitori che non vogliono la guerra”. Eccola la regola dei talk show: non si sostiene la propria idea portando elementi e dati ma ci si riduce a offrire la propria testimonianza personale, mettendo davanti l’io perfino alla guerra e alle sue vittime. 

Paragoni arditi

Se possiamo almeno dubitare sul fatto che le madri dei figli di Mariupol abbiano eletto a proprio portavoce un professore italiano praticamente sconosciuto fino a qualche settimana scrivendogli appassionatamente dai bunker pochi dubbi ci sono sulla frase in cui Orsini ci fa sapere che “prima del 1945 in Italia non c’era una democrazia liberale – ha detto – eppure mio nonno ha avuto comunque una vita felice”. Orsini ha poi aggiunto: “Sono un ricercatore sul campo e vi posso garantire che in Paesi mediorientali, come l’Oman, c’è un sultanato ma con una società fondata sulla famiglia”.

Gli crediamo sulla parola, suo nonno avrà avuto l’avventura di poter vivere un fascismo felice perché evidentemente non apparteneva a nessuna delle minoranze discriminate e vessate dal regime di Benito Mussolini. Ma Orsini, che è un “ricercatore sul campo”, potrebbe alzare il telefono e chiedere a Liliana Segre cosa abbia significato il fascismo. Siamo certi che abbia anche tutti gli elementi storici per capire che la felicità del nonno sia costata parecchio agli italiani che di Mussolini si sono liberati rendendo l’Italia una democrazia finalmente libera.

Colpo ad affetto

Il colpo ad effetto ha comunque funzionato, accendendo gli animi e scaldando il dibattito di cui il personaggio “Orsini” (che ormai ha poco a che vedere con l’accademico) si nutre per aumentare la sua popolarità (o impopolarità, che in fondo di questi tempi è la stessa cosa). Orsini non può non sapere che Mussolini ha represso in Italia diverse libertà come quella di stampa, la possibilità di sciopero, di assembrarsi e di creare partiti politici. Se il nonno è scampato a tutto questo buon per lui ma per ogni bambino felice quanti padri sono passati dalle purghe di via Tasso? La regola dei talk show impone (da tutte le parti) di proporre esperienze personali e testimonianze dirette come paradigma per una lettura analitica e complessiva di enormi fasi storiche: il copione funziona ma l’etica dell’operazione è quantomeno discutibile.

Normalizzazione

Infine c’è il punto cruciale: se per difendere Putin serve addirittura normalizzare il fascismo (peraltro in prima serata, su una rete della televisione pubblica, in prossimità del 25 aprile) significa che nemmeno i putiniani più accesi possono negare che il regime instaurato dal presidente russo sia qualcosa che non ha niente a che vedere con le democrazie liberali che l’Occidente, seppur a fatica, prova a costruire e a tenere in piedi. Del resto anche in Russia ci sono futuri nonni che sono felici: sono i nipoti e i figli degli oligarchi a cui Putin ha regalato pezzi di Stato per arricchire loro e se stesso. Sono quelli che hanno il fegato di chiamare ciò che accade in Ucraina “operazione speciale”. Anche in questo caso tanto a pagare sono gli altri.

(da La Notizia)

Disabili fatti scendere dal treno: così deraglia il “treno” della dignità

Disabili fatti scendere dal treno: ventisette ragazzi sono stati costretti a scendere da un treno regionale diretto a Milano da Genova perché i loro posti regolarmente prenotati erano occupati da altri passeggeri che si sono rifiutati di farli scendere. La scena si è svolta di fronte al personale di Trenitalia e a agenti della Polfer. Prevedibile l’indignazione della politica con il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti (che ha reso pubblica la vicenda) che parla di episodio “vergognoso” e “da stigmatizzare” che “segna la totale mancanza di rispetto e sensibilità verso le persone disabili”.

La ministra per le Disabilità Erika Stefani in un post su Facebook scrive: “L’inclusione è una battaglia che ci vede tutti uniti ed episodi del genere vanno stigmatizzati all’unanimità, altrimenti avremo perso tutti. Per fortuna ci sono tante persone nel nostro Paese che rispettano i diritti delle persone con disabilità: a loro sembrerà assurdo quanto accaduto sul treno Genova-Milano”. 

Disabili fatti scendere dal treno: brutta pagina

Quando c’è da prendere posto di fianco ai disabili i politici e i benpensanti sono sempre in prima fila. È veloce, facile e non costa niente. Uscendo però dalla narrazione forse conviene fare alcune riflessioni. Sì, è vero che non credere il posto a persone con disabilità è qualcosa di sconcio e riprovevole ma sorge il dubbio che sia fin troppo facile personalizzare con un pizzico di moralismo un problema che probabilmente più ampio. Lo pensa anche Giulia Boniardi, la presidente dell’associazione Haccade, che accompagnava i ragazzi che infatti scrive: “Non ha senso la pretesa di far scendere dal treno delle persone che avevano un biglietto con prenotazione come lo avevamo noi, prescindendo dalle loro esigenze: era una competenza che non spettava ai passeggeri, non era un problema risolvibile da noi clienti ma da Trenitalia”. Il viaggio infatti, racconta Boniardi, “era fisicamente impossibile perché erano tutti ammassati. A quel punto c’è stata un’escalation di nervosismo, con manifestazioni di disappunto ma nei confronti della situazione e non dei disabili”. “Quello che vogliamo fare notare – dice la presidente dell’associazione – è come non sia stato tutelato il diritto di spostamento per tutti nelle stesse condizioni: la verità è che non si è stati in grado di garantire un servizio a tutti i clienti.”

Un cattivo servizio

Non sarebbe il caso di interrogarsi su un servizio che (non solo in Lombardia e Liguria) rende impossibile usufruirne senza enormi disagi, ovviamente ancor più difficili per chi ha problemi di deambulazione? Il sospetto è che indignarsi, ancora una volta, sia la vita più facile, fin troppo facile, per rendere patologico una situazione che invece è fisiologica in tutta Italia.

Per questo mentre l’associazione per la tutela dei consumatori Assoutenti annuncia un esposto in Procura per violenza privata contro i passeggeri che si sono rifiutati di cedere il loro posto (proponendo un inesistente ‘daspo’ a vita su tutti i treni italiani) sarebbe interessante chiedere ai politici che fomentano l’odio seriale come arma di propaganda se davvero sono stupiti che quelle persone che sui social negano le stragi di Bucha o augurano la morte ai migranti e agli avversari politici poi esistano anche nella vita reale, frequentino treni e bar e uffici e riversino quella stessa sprezzante maleducazione nella quotidianità. A furia di premiarli e adorarli i prepotenti sono diventati un paradigma. Davvero ci stupisce?

(da La Notizia)

Attaccare i Måneskin per difendere Putin? Fuck!

I Måneskin si esibiscono sul palco di Coachella, in California. È l’ennesimo appuntamento di prestigio e di successo della giovane band rock italiana, dopo avere vinto l’Eurovision I gusti musicali sono soggettivi, discutibilissimi, e prevedono fan e detrattori. È il gioco delle parti, si sa. Quello che non si può non riconoscere alla band è la voglia di esporsi anche per temi che spesso infiammano il dibattito politico (è accaduto ad esempio per il Ddl Zan) e proprio per questo non stupisce che nella loro ultima esibizione abbiano espresso sostegno all’Ucraina con il cantante Damiano che dal palco ha urlato ‘Ucraina libera, fuck Putin’.

I Måneskin prendono posizione: ‘Ucraina libera, fuck Putin’.

Apriti cielo. Dopo la presa di posizione del cantante dei Måneskin è partita una raffica di insulti. Si va dal più tenero “chi è Damiano dei Måneskin?”, al paternalistico “So ragazzi, plagiabili, ricattabili, non sanno che c…  dicono!!si fanno trasportare dall’onda!” passando per il complottismo no vax (“Il governo ha stanziato milioni perché la stampa (tutta) facesse propaganda per i vaccini. Anche il mondo artistico (???) si è adeguato nel ripetere la cantilena (Gassman). Damiano è ottimo medium per influenzare gli stessi giovani che si sono punti solo per tornare a bere spritz”) fino a chi li paragona ai “servitori di Satana” lanciando un appello a Putin per liberarcene.

Difendere Putin? Reclamare la complessità della guerra non ha nulla a che vedere con la normalizzazione di un tiranno.

Qui siamo al punto: in Italia i tifosi di Putin – coloro che ancora lo sostengono dopo i morti ammazzati che riempiono le fosse comuni, dopo la tragedia umanitaria che è in corso in Ucraina con milioni di persone che nel giro di qualche ora hanno dovuto mettere tutta la propria vita dentro una valigia per sperare di salvarsi, dopo le centinaia di testimonianza- sono un folto gruppo. Attenzione, non parliamo di chi legittimamente espone le proprie tesi su una storia che non è certo iniziata il 20 febbraio, si tratta in questo caso di gente che di Putin condivide la mortifera visione del mondo, di gente che crede che qualsiasi motivazione geopolitica possa giustificare uno scenario di morte come quello che si è abbattuto a Mariupol o Kharkiv. Ci sono, anche nel nostro Paese, persone che non mettono in dubbio l’inevitabile propaganda di guerra (e in guerra, si sa, la prima vittima è la verità) ma addirittura si prendono la briga di credere che tutto sia finto, tutto una montatura, che i bambini ucraini si ammazzino da soli oppure che le città sventrate visibili su tuti i giornali e da tutti i satelliti siano delle sofisticatissime rielaborazioni cinematografiche. Come è già avvenuto in pandemia la negazione della realtà (che non ha niente a che vedere con il rivendicarne la sua complessità) sfocia in in un’adorazione per il male. Per questo dobbiamo avere il coraggio di ribadire che Putin (che era Putin ben prima dell’Ucraina, mentre molti nostri leader lo leccavano) ha in testa un mondo fatto di oligarchi straricchi per amichevoli privatizzazioni, crede in un mondo in cui la politica si fa con le armi e usa il terrore come arma di governo. Allora lo scriviamo forte che Putin sarà un criminale giudicato dalla storia, come avvenne per Stalin, che cadrà miseramente in disgrazia appena perderà il controllo di un gioco da cui non riuscirà a uscirne. E non solo rivendichiamo il diritto di dirlo ma difendiamo anche il diritto di ascoltarlo, perfino dai Måneskin. Reclamare la complessità della guerra non ha nulla a che vedere con la normalizzazione di un tiranno. Fuck Putin, bello forte.

(da La Notizia)

A proposito di interviste a Hitler: Indro Montanelli

Mentre tutti danno lezioni di giornalismo non si può non ricordare che un valente giornalista (qui da noi venerato come un idolo) intervistò un dittatore, proprio Hitler in persona, con un solo piccolo particolare: l’intervista se l’è completamente inventata. Che Indro Montanelli fosse un giornalista (e un uomo) più bravo a raccontarsi che a raccontare è cosa nota ma l’intervista a Hitler è un episodio imperdibile.

Lo racconta su Twitter Dark: «Un cazzaro compulsivo, Montanelli, di quelli che infestano molte compagnie di amici, generalmente tollerati quando il loro aneddoto è divertente e presi per il culo quando la sparano troppo grossa. I più bravi e istrionici riescono talvolta persino a declinare questo “difetto” in ambito professionale, diventando dei veri e propri artisti della cazzata. Tra i casi più emblematici vi è quello di Richard Benson, poliedrico personaggio dotato di una comicità travolgente che da anni sbarca il lunario con i suoi racconti clamorosi.

Sfortunatamente, con Montanelli la sorte è stata beffarda, preferendo ricompensarlo per il sopravvalutato (e spesso servile) contributo al giornalismo anziché farlo assurgere agli allori per quella che indubbiamente fu la sua dote migliore: la stronzata epistemologica. (parlo ovviamente della nostra, di sorte, visto che a lui è andata ovviamente meglio così). Un vero peccato, personalmente avrei preferito che nei vari corsi ed esami che mi è toccato dare all’università Montanelli venisse presentato e descritto come il precursore del gossip, delle fake news e dei titoli click-bait, oltre che ovviamente come il pedofilo razzista che ben sappiamo essere stato, anziché come uno dei padri del giornalismo italiano. Sfortunatamente (per noi, ribadisco) non è andata così, motivo per cui negli atenei si tende a non menzionare la rilevantissima sequela di bugie ed esagerazioni raccontate dal nostro mitomane preferito durante tutta la sua ricca e fin troppo lunga vita, tra cui:

  • la presenza in piazza Venezia nel giorno in cui Mussolo annunciò l’entrata in guerra dell’Italia.
  • – la presenza, che in taluni casi tende a sfiorare l’ubiquità, in tutti i più importanti teatri di invasione del fronte orientale durante la WW2: Polonia, Estonia, Finlandia, Norvegia. Per carità, che ci sia stato è (quasi) fuor di dubbio, ma il presenzialismo sistematico che il nostro riesce a manifestare in tutti i POI dove si sono consumati gli episodi chiave del conflitto più che un cronista di guerra ricorda un antesignano di Forrest Gump.
  • la presenza a P.le Loreto, per sua fortuna da astante, durante i fatidici giorni della Liberazione.

Ma la fandonia più clamorosa che il nostro abbia mai raccontato, quella che più di ogni altre merita di farlo salire nel palmarès dei fantacazzari, è quel capolavoro dell’intervista a Adolf Hitler, da lui narrata innumerevoli volte e che adesso non mancherò di ricordare. Il racconto è ambientato l’1 settembre del 1939, giorno in cui la Wehrmacht invase la Polonia: il nostro, neanche a dirlo, era lì, forte del suo carnet di biglietti per un posto in prima fila agli Appuntamenti con la Storia stagione 1939-1945. Secondo alcune (sue) testimonianze si trovava “semplicemente” nel pubblico, presumibilmente appena fuori dal campo della celeberrima foto dei soldati tedeschi che sollevano la sbarra del confine. Secondo altre (sue) versioni, invece, stava orinando in un cespuglio nei pressi. La variante del “cespuglietto” è quella che preferisco perché consente di mettere a fuoco le doti da fanfaluchiere del nostro, che era solito aggiungere curiosi e talvolta imbarazzanti aneddoti ancillari per conferire maggiore verosimiglianza ai suoi mirabolanti racconti. Ma non divaghiamo: Montanelli era proprio lì, a un passo dalla sbarra, intento a curiosare (o a compiere atti osceni) sul luogo del misfatto, quando a un certo punto viene avvicinato da un soldato tedesco che, comprensibilmente, gli chiede a quale titolo si trovasse lì. “Sono un giornalista!” tuona il nostro a quel punto in perfetto italiano, dimostrando notevole acume: praticamente una condanna a morte. In un attimo si trova con la schiena rivolta contro un albero, presumibilmente lo stesso che aveva inopinatamente battezzato poco prima. Ma proprio in quel momento, un attimo prima che il soldato potesse risolvere sul nascere un problema di maschilismo tossico che sarebbe durato 60+ anni, avviene il miracolo: il portello di un Panzer che stava nei pressi si apre di scatto ed esce nientemeno che lui, baffetto. Come in ogni buon racconto revisionista che si rispetti, il bad guy per antonomasia è in realtà un personaggio positivo: non soltanto Adolf grazia Indro ma, saputo che trattasi nientemeno che un giornalista, decide di cogliere la palla al balzo e lo apostrofa così: “Prendi il taccuino, Indro, che ti spiego come mai la Germania sta entrando in guerra”. E così Montanelli, senza neanche aver avuto il tempo di lavarsi le mani, si ritrova a realizzare la prima intervista rilasciata da Hitler in assoluto. E che intervista! “Parlò a lungo e sempre lui, non mi lasciò il tempo di fargli domande, sembrava invasato. Poi, girò i tacchi e se ne tornò nel Panzer, riprendendo l’avanzata”. Il racconto, sfortunatamente, termina con un fine non troppo lieto: Montanelli riesce a telegrafare l’intervista al Corriere, ma gli allora poteri forti (il MinCulPop di Alessandro Pavolini, futuro fondatore delle Brigate Nere) ne bloccarono la pubblicazione. “Mussolini in persona intervenne per porre il veto”, dichiarerà in seguito Montanelli, giusto per aggiungere l’ennesima iperbole. Termina così quello che, a mio modesto parere, è senza ombra di dubbio il lascito più grande di Indro Montanelli: una fiaba breve ma ben costruita, forte di una morale populista e revisionista che ne sussume efficacemente l’esistenza e l’apporto che ha dato alla professione».

Buon martedì.

Nella foto: la statua di Indro Montanelli ricoperta di vernice rossa durante una manifestazione di Black Lives Matter, Milano, 13 giugno 2020

L’articolo proviene da Left.it qui

Perché l’invio di armi italiane in Ucraina non può essere un affare segreto

Ci deve essere stata una trattativa da qualche parte in cui i partiti in Parlamento hanno deciso di affidare a Mario Draghi, insieme alle chiavi della presidenza del Consiglio, anche i comandi del pilota automatico per non essere troppo infastidito da Camera e Senato. Non c’è altra spiegazione per leggere i fatti di queste ultime settimane con decisioni fondamentali per il posizionamento geopolitico del nostro Paese che sono passate direttamente dalle indiscrezioni giornalistiche ai decreti, senza nemmeno prendersi la briga di fingere di rispettare la natura stessa della democrazia.

Perché è un errore il segreto sull'invio di armi italiane in Ucraina
Armi italiane in mano russa (da Twitter).

Così Draghi ha bloccato il dibattito parlamentare sull’invio di armi all’Ucraina

La Camera ha approvato l’invio delle armi all’Ucraina il 18 marzo, basandosi su un decreto ovviamente urgente del 28 febbraio. Le armi quindi, lo sappiamo e abbiamo visto tutti con i nostri occhi i pacchi con il loro contrassegno, sono state spedite una settimana prima del dibattito. Qualcuno farà notare, con qualche ragione, che la guerra richiede una velocità di risposta che ogni tanto non collima con i tempi dei meccanismi della nostra democrazia. Solo che il dibattito che ci si aspetterebbe viene immediatamente bloccato dal Presidente del Consiglio che secreta il tutto e annuncia serafico che per i prossimi invii non ci sarà più bisogno del sì del Parlamento. Se qualcuno prova a far notare che una democrazia sana, quella stessa che giustamente si contrappone a Putin e a tutti i suoi sgherri amici sparsi in giro per il mondo e in Europa, dovrebbe prendersi la briga di discutere di un invio delle armi per consentire una valutazione a tutto tondo viene subito tacciato come collaborazionista filorusso. Eppure qui non si tratta solo della lista della spesa, che comunque sarebbe interessante sapere perché se è così segreta compare poi spifferata su alcuni quotidiani più vicini al governo, ma si tratta di coinvolgere il Paese (attraverso i partiti, quello è il loro compito) in una decisione che inevitabilmente ha a che fare con le risorse pubbliche e che coinvolge tutti i cittadini. La trasparenza che si chiede su una decisione del genere è sugli effetti previsti o desiderati, sui limiti che ci si impone, sulla strategia che l’Italia ha intenzione di adottare. Sento già le critiche di chi dice che la guerra è imprevedibile e non si può immaginare come andrà: benissimo, qualche esponente del governo che lo dica di fronte ai parlamentari sarebbe già un passo in avanti.

Il segreto sull'invio di armi in Ucraina è un errore
Mario Draghi parla alla stampa estera (Getty Images).

Il governo non è un consiglio di amministrazione e il premier non è un ad

Perché l’opinione pubblica italiana non può sapere quante e quali armi spediamo? Ragioni di sicurezza, risponde qualcuno, e a dimostrare quanto la giustificazione sia strumentale ci sono decine di articoli retroscenisti e addirittura la Russia che ci fa sapere di conoscere già tutto. Tra l’altro non si capisce perché in Usa sarebbero così sprovveduti da passare dal Congresso per illustrare tutte le informazioni. «Sa tutto il Copasir», ci dicono. La trasparenza per via indiretta non esiste, è una lapalissiana questione giuridica. Anche questa spiegazione non vale. Anche perché vedere i soldati russi che usano i mortai pesanti italiani dopo averli scippati agli ucraini riapre la delicata questione (di cui si discute apertamente in Usa e molti altri Paesi europei) delle misure adottate per evitare che le armi cadano nelle mani sbagliate. Da settimane sentiamo esperti (molto poco ascoltati) che esprimono le loro preoccupazioni su questa enorme disponibilità di armi che potrebbero tornare utili alla criminalità organizzata e a guerriglieri con cui potremmo avere a che fare tra qualche anno. Non è come potrebbe sembrare una questione di lana caprina. È rispetto per il ruolo che si ricopre. Perché nonostante la cosa non piaccia a qualcuno il governo non è un consiglio di amministrazione e il presidente del Consiglio non è l’amministratore delegato. Questa è altra roba.

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Patrick Zaki insultato sui social per un tweet sulla Juventus: per difendere ciò che tifiamo rimpiccioliamo i mali del mondo

È un caso minimo ma è emblematico. Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Università di Bologna che si ritrova ancora sotto il processo accusato dl regime di Al-sisi, dopo avere passato quasi due anni in carcerazione preventiva, ovviamente non avendo nemmeno la possibilità di difendersi come si conviene al regime egiziano, si è ritrovato sommerso in una discussione calcistica con alcuni tifosi di calcio.

Fin qui nulla di strano visto che in Italia il pallone è l’oppio dei popoli e visto che gli italiani, come disse Churchill, perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio. Zaki, tifoso del Bologna, ha contestato l’arbitraggio nella partita della sua squadra contro la Juventus e ha scritto (piuttosto incautamente) di una presunta corruzione da parte dei bianconeri.

Patrick Zaki sommerso da odio per un tweet sulla Juventus

Ma la vicenda calcistica ci interessa poco, in questo momento in cui questioni molto più importanti e orrori drammatici riempiono le cronache. Vale la pena notare però che tra i commenti di tifosi arrabbiati ci siano persone che augurano a Zaki di tornare in galera, di finire sotto le grinfie di Al-sisi, fino alle immancabili minacce di morte.

Vero e proprio odio verso una persona non ancora libera, dopo mesi in cui non ha avuto diritto di difesa e di parola, che improvvisamente si merita tutto ciò che gli è accaduto per una frase scritta su twitter, come se i diritti, la libertà e le sofferenze fossero valori negoziabili o addirittura negabili per antipatia personale. Accade che per difendere ciò che tifiamo siamo disposti persino a rendere universale un nostro minuscolo dissidio da cortile e rimpicciolire i mali del mondo.

Non solo non c’è misura (tenere il senso della misura nel dibattito pubblico ormai è una virtù che avvicina alla santità) ma addirittura si perdono di vista gli ideali per cui si è combattuto fino a qualche secondo prima, poiché sono sicuro che tra quegli juventini incazzati ci sia qualcuno che a Zaki ha espresso nei mesi scorsi la sua solidarietà.

Anche la guerra tra Russia e Ucraina viene usata come manganello contro i propri avversari

Questo è il veleno tossico di questo tempo, in cui assistiamo da più parti al piegare la realtà per compiere le proprie vendette personali: siamo nell’epoca in cui l’invasione dell’Ucraina non viene usata dibattere sulla soluzione migliore ma per manganellare il nostro minuscolo nemico. Accade così che i morti servano per sputare sul giornale concorrente, sul politico avversario oppure siano fruste da sbattere in faccia all’intellettuale che si aspettava ardentemente di punire

Solo che perdere il senso delle proporzioni è il cedimento più irresponsabile e immorale che possa accadere in un Paese sotto stress per la pandemia prima e una guerra dopo. So che viene difficile provare a rimanere alti mentre dai cunicoli arriva il frastuono delle sberle ma la lucidità è un dovere, ancor di più della classe dirigente di un Paese. Provate a filtrare le voci di questi giorni lasciando fuori i tifosi forsennati. Ne rimangono pochissime. E militarizzare un dibattito (per di più su una guerra) e quanto di più populista possa capitarci.

(per La Notizia)