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Se la Regione Veneto ha bisogno di una condanna per capire che non si possono discriminare gli stranieri

La Corte d’appello di Venezia ha accolto un ricorso per discriminazione collettiva proposto da Asgi (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), dichiarando discriminatoria la prassi adottata dalla Regione con la delibera della Giunta n.753/2019, che nega l’iscrizione obbligatoria al Servizio Sanitario Nazionale ai familiari extracomunitari a carico di cittadini italiani, imponendo viceversa la cosiddetta “iscrizione volontaria” che comporta mediamente il pagamento di 1.500-2.000 euro annui pro capite. Ancora una volta, a qualche leghista serve un tribunale per capire che la discriminazione è una prassi non consentita dalla legge (oltre che dall’etica, ma questo è un altro discorso). E, ancora una volta, gli elettori leghisti (in questo caso di Zaia) devono fare i conti con promesse che non hanno nulla a che vedere con le nostre leggi e la nostra Costituzione.

La Corte d’Appello di Venezia è intervenuta smentendo completamente l’Amministrazione regionale e affermando il diritto di iscrizione al Sistema sanitario dei genitori extracomunitari a carico di cittadini italiani e di cittadini comunitari a parità di trattamento con i cittadini italiani come imposto dalla direttiva europea 38/2004. I giudici hanno così ricordato a Zaia che le disposizioni contenute nell’Accordo Stato-Regioni hanno carattere vincolante e che “l’autonomia” del Veneto è roba buona solo per la propaganda. E hanno chiarito che l’assistenza sanitaria ai familiari a carico del soggetto economicamente attivo che versa i contributi al Servizio Sanitario Nazionale è prevista dall’articolo 63 della legge 833/78, e che quindi negarla ai familiari stranieri di cittadini italiani costituirebbe addirittura discriminazione verso il contribuente di cittadinanza italiana. Ovviamente la notizia di Zaia che negava le cure agli stranieri è rimbalzata su tutti i giornali (con gli urrà di alcuni giornalisti tifosi) mentre la sua goffa bocciatura difficilmente la leggerete in giro. La propaganda del resto attira i voti e i clic, la realtà molto meno.

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Prigioni incivili: Paese incivile

Come tutti gli anni il XVIII Rapporto annuale dell’associazione Antigone sulle condizioni di detenzione in Italia dipinge un quadro desolante.

In Italia il tasso ufficiale di affollamento delle carceri risulta del 107,4% ma il dato reale racconta di una Puglia al 134,5%, la Lombardia al 129,9%, il carcere di Canton Mombello al 185%, Varese al 164%, e Bergamo e  Busto Arsizio al 165%.

I detenuti con condanne in via definitiva erano il 69,6% dei presenti al 31 dicembre 2021, mentre 10 anni prima erano il 56,9%. Una crescita di 10 punti percentuali in 10 anni. Da tempo infatti si registra una costante tendenza alla riduzione del ricorso alla custodia cautelare e dunque in proporzione alla crescita tra i presenti di persone con una condanna definitiva. Ancora però i numeri sono altissimi.

Sono 1.810 gli ergastolani, di cui 119 stranieri. Nel 2012 erano 1.581, nel 2002 erano 990, nel 1992 erano 408. Sono cresciuti di 1.402 unità in trent’anni.

Dei detenuti in carcere alla fine del 2021, il 3% stava scontando una pena inflitta fino ad un anno, il 19% fino a 3 anni, il 18% da 10 a 20 anni, il 7% oltre 20 anni, il 5% l’ergastolo. Quanto alla pena residua, il 18% aveva un residuo pena fino ad un anno, il 52% fino a 3 anni, il 6% da 10 a 20 anni, l’1% oltre 20 anni (cui si aggiunge il 5% che scontava l’ergastolo). Un numero enorme di detenuti dunque, per la precisione 19.478, deve scontare una pena residua pari o inferiore a 3 anni. Una gran parte di loro potrebbe usufruire di misure alternative.

Per quanto riguarda i servizi sanitari e igienici, dei 24 istituti con donne detenute visitati da Antigone nel 2021 il 62,5% disponeva di un servizio di ginecologia e il 21,7% di un servizio di ostetricia. Solo nel 58,3% degli istituti visitati le celle erano dotate di bidet, come richiesto dal regolamento di esecuzione da più di vent’anni.

Al 31 marzo 2022, erano 19 i bambini di età inferiore ai tre anni che vivevano insieme alle loro 16 madri all’interno di un istituto penitenziario. Di questi, il gruppo più consistente è composto da 8 bambini ospitati nell’Istituto a custodia attenuata per madri detenute di Lauro, unico Icam autonomo e non dipendente da un istituto penitenziario. A questo segue un gruppo di 4 bambini all’interno della sezione nido della Casa Circondariale di Rebibbia Femminile. Ospitano poi due bambini ognuno gli Icam interni alla Casa Circondariale di Milano San Vittore e di Torino e la Casa Circondariale di Benevento. Un solo bambino si trova invece all’interno dell’Icam della Casa di Reclusione Femminile di Venezia. A fine 2021 i bambini in carcere erano 18, il numero più basso registrato negli ultimi decenni. Dopo i picchi raggiunti nei primi anni 2000, quando si sono arrivati a contare anche più di 70 bambini in carcere, negli ultimi dieci anni i numeri sono complessivamente diminuiti seppur con un andamento piuttosto altalenante.

Gli stranieri, nonostante la narrazione, non sono i “più pericolosi delinquenti”: la pena residua dei detenuti stranieri (dati al 31 dicembre 2021) è generalmente più bassa rispetto alla media: il 24,3% degli stranieri sconta infatti un residuo di pena tra 0 e 1 anno, a fronte di una percentuale generale del 18%. Il 42,2% degli stranieri sconta tra 0 e 5 anni di residuo pena, a fronte del 37,6% del totale della popolazione detenuta che sconta lo stesso residuo. Solo il 2,6% dei detenuti stranieri ha una pena inflitta a più di 20 anni di carcere, a fronte del 6,6% della popolazione totale detenuta. l’1% dei detenuti stranieri sconta la pena dell’ergastolo, a fronte del 4,8% del totale della popolazione detenuta.

Nel 2020 il tasso di suicidi era pari a 11.4, ben superiore alla media europea annuale attestatasi a 7.2 casi ogni 10.000 persone detenute. Il Paese con il tasso più alto è la Francia (27,9), seguita da Lettonia (19,7), Portogallo (18,4) e Lussemburgo (18). Importante notare inoltre come l’Italia sia tra i Paesi europei con il più alto tasso di suicidi.

«A proposito del regolamento di esecuzione del 2000, di cui sarebbe urgente un aggiornamento, questo prescriveva che le “camere detentive” fossero dotate di doccia, riscaldamento adeguato ed acqua calda. In molti degli istituti da noi visitati – si legge nel rapporto di Antigone – ci sono ancora celle che non rispettano queste condizioni. Nel 5% degli istituti visitati ci sono ancora celle in cui il wc non è in un ambiente separato, isolato da una porta, ma in un angolo della cella. A Carinola ad esempio, nel reparto destinato ai protetti, manca qualsivoglia divisorio tra il water, il lavabo ed il letto. A San Severo in Puglia il bagno è separato dal resto della stanza esclusivamente tramite un pannello dell’altezza di circa 3 metri».

Sono quasi 17.000 i detenuti che lavorano per l’amministrazione penitenziaria in attività domestiche. Molti lavorano per poche ore al giorno o pochi giorni al mese. Il budget non consente la piena occupazione e si cerca di distribuire il benefit. I detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2022 erano 2.305, rappresentando il 4,3% sul totale dei detenuti. Tra questi i semiliberi erano 799 e le persone in articolo 21 erano 551. Lavoravano in istituto per imprese 242 detenuti e 713 detenuti lavoravano per cooperative. Scrive Antigone: «Secondo la nostra rilevazione, in media nei 96 istituti visitati il 33% dei detenuti presenti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria; di questi buona parte è impiegato sempre in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti era invece in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Il dato è peraltro molto disomogeneo. In Emilia-Romagna questa percentuale era del 4%, in Campania dello 0,3%. In 37 istituti visitati, più di un terzo del totale, non abbiamo trovato alcun detenuto impiegato per un datore di lavoro diverso dal carcere stesso. In un istituto importante come Poggioreale lavorano solo 280 detenuti sui 2.190 presenti, meno del 13%».

Questi sono solo alcuni dei punti critici del rapporto. «Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione», recita la frase attribuita a Voltaire. A voi il giudizio.

Buon venerdì.

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Sulla base militare di Coltano Guerini deve battere la ritirata

Quindi alla fine sapevano. Il governo fa una parziale retromarcia sulla costruzione di una base da 70 ettari per accorpare reparti specializzati dei Carabinieri a Coltano, nel Parco di San Rossore. Tramonta la brillante idea di usare i soldi del Pnrr per costruire una base militare nel cuore di un parco protetto, a san Rossore Migliarino Massaciuccoli in Toscana, che con i suoi 23mila ettari è importantissimo per la biodiversità, per il turismo che porta al territorio e per la sua storia che passa dagli etruschi agli antichi romani.

Nella foga bellica il ministro della guerra Guerini aveva pensato che non ci fosse nulla di più simile a una “ripresa” di un piano da oltre 440mila metri cubi di nuove edificazioni da costruire dentro il territorio protetto del parco, su una area complessiva di 730mila metri quadrati dove dovrebbero sorgere villette a schiera, poligoni di tiro, edifici, infrastrutture di addestramento, magazzini, uffici e autolavaggi.

Con un ordine del giorno del Movimento 5 Stelle ora il governo ci ripensa. Del resto il Pd toscano era sobbalzato sulla sedia e perfino Letta aveva ritenuto l’idea sbagliata. Ora si valuterà un altro luogo (sempre lì in provincia di Pisa) dove costruire comunque questa bella colata di cemento militare.

Rimangono però almeno due dubbi. Innanzitutto sarebbe bello conoscere il motivo per cui il Pd non sa cosa fa la sua mano destra (il ministro Guerini) mentre parla di ambientalismo con la mano sinistra. Come racconta Riccardo Ricciardi del M5S (che ha presentato l’ordine del giorno): «Il governo ha chiarito che il Pd, tramite il presidente Parco, sapeva da molti mesi di Coltano». Il secondo dubbio sta nell’esultanza generale per uno “spostamento” di un progetto che si ritiene sbagliato. Se è sbagliato perché farlo?

Buon giovedì.

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A proposito degli immigrati come risorse

Afana Bella Dieudonne è arrivato dal Camerun il 5 ottobre del 2014, sbarcato da una nave della guarda costiera, dopo essere stato salvato da una imbarcazione della ong Migrant Offshore Aid Station (Moas). È riuscito a vivere nei primi anni grazie a 5.200 euro annui di una borsa di studio per i migranti (in servizi di biblioteca, mensa e alloggio) tra Pistoia e Cerignola. Ad aprile 2019 è finito sui giornali per aver soccorso una ragazza di origini nigeriane picchiata da un suo connazionale risiedente al Cara. C’erano tante persone durante l’aggressione ma solo Afana l’ha aiutata e poi ha convinto la giovane a sporgere denuncia scortandola fino in Questura. Sognava di  finire le scuole magistrali e prendere un dottorato in cooperazione internazionale.

Il 22 aprile si è laureato per la terza volta con il massimo dei voti a Bari. Afana è anche l’amministratore delegato della Società Cooperativa Terra Nostra. La sua terza laurea magistrale è in Relazioni internazionali e studi europei. Titolo ottenuto dopo la laurea triennale in Comunicazione linguistica e interculturale all’Università di Bari e dopo aver anche conseguito in master in Risorse umane e organizzazione all’Università Cattolica sacro cuore di Milano.

Nella foto pubblicata su Facebook scrive: «110 e Lode… 3 volte dottore in Italia ma di questo non parleranno i media. Se invece un immigrato sbaglia c’è il mainstream». «Posso essere considerato come un immigrato integrato?», chiede Afana. La domanda sembra una provocazione e invece è il sintomo di un Paese che cambia nonostante i razzisti, i conservatori sconnessi dalla realtà e una politica che guarda il mondo con gli occhi di decenni fa.

Buon mercoledì.

Foto dalla pagina facebook di Afana Bella Dieudonne

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Intanto gli altri morti continuano a morire

Le autorità tunisine hanno dichiarato domenica (24 aprile) che 17 corpi sono stati recuperati dopo che quattro barche si sono capovolte nel Mar Mediterraneo vicino alla costa tunisina. Mourad Turki, un portavoce a Sfax, ha affermato che le barche erano in cattive condizioni e che erano partite dalla città portuale durante la notte da venerdì a sabato (22-23 aprile).

Le vittime includevano una donna e “almeno un bambino”, ha detto Turki, ma il bilancio potrebbe aumentare. I sopravvissuti hanno detto che “c’erano tra le 30 e le 32 persone a bordo di ogni barca”. La maggior parte proveniva da Paesi dell’Africa subsahariana, tra cui Costa d’Avorio, Mali e Somalia.

La marina tunisina ha dichiarato di aver salvato 98 sopravvissuti dalle quattro piccole imbarcazioni. Un portavoce della Guardia nazionale tunisina a Sfax, Ali Ayari, ha confermato che le barche erano dirette in Italia.

Domenica scorsa, l’agenzia delle Nazioni Unite per l’immigrazione Iom in Tunisia ha twittato che erano stati recuperati 12 corpi.

L’agenzia di stampa Reuters ha riferito domenica che i corpi di tre persone sono stati recuperati in Tunisia e altre 155 persone sono state detenute, secondo l’agenzia di stampa statale tunisina. Lo stesso rapporto afferma anche che 76 migranti sono stati soccorsi al largo della costa tunisina a Mahdia, a circa 100 chilometri a nord di Sfax. Non sono disponibili ulteriori dettagli.

Muoiono così tante persone nel mare che non c’è più spazio nei cimiteri, ha detto Mourad Turki all’agenzia di stampa dpa domenica.

I corpi vengono distribuiti tra vari cimiteri in altre regioni, secondo Turki. Fonti dell’ospedale locale di Sfax hanno detto che circa 50 corpi di coloro che erano morti in passati naufragi sono rimasti negli obitori in attesa di sepoltura.

Al largo della costa libica, secondo quanto riferito, almeno sei persone sono morte quando la loro barca è affondata nel fine settimana. Nel frattempo, domenica le autorità libiche hanno arrestato e detenuto più di 540 persone, per lo più cittadini del Bangladesh, mentre provavano a partire per l’Europa.

L’Oim afferma che il Mediterraneo centrale, dalla Libia e dai Paesi del Maghreb all’Italia e a Malta, è la rotta migratoria più pericolosa al mondo. L’agenzia delle Nazioni Unite stima che più di 1.500 persone siano morte o scomparse nel Mediterraneo centrale nel 2021, e oltre 500 finora nel 2022.

Buon lunedì.

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25 aprile: non solo Ucraina, perché dal 2003 la Resistenza divide l’Italia

L’Ucraina non c’entra nulla. Non è la guerra il motivo del contendere contro l’Anpi e a cascata contro il 25 aprile. Si tratta di un ulteriore passaggio del solito percorso di delegittimazione (che i più moderati chiamano normalizzazione) della Liberazione e della Resistenza. Lasciate perdere le parole del presidente dell’Anpi Pagliarulo, quelle non le ha lette nessuno, sono state semplicemente tagliate per le righe che bastano a innescare la polemica. Questo Paese festeggia la Resistenza e il 25 aprile con grande difficoltà dall’avvento di Silvio Berlusconi in poi, quando lo sdoganamento di una destra che fino a prima non aveva mai trovato terreno per certe aberranti riletture della ricorrenza, è riuscita a mettere fuori la testa.

Da Berlusconi a Renzi, fino alla recente polemica sull'Ucraina: perché il 25 aprile continua a dividere l'Italia
Il manifesto dell’Anpi per la festa del 25 aprile

La miccia sulla rilettura del 25 aprile venne innescata da Silvio Berlusconi

Questa volta si è buttata in mezzo la questione dell’Anpi che sarebbe filoputiniano ma il 25 aprile del 2003 la miccia fu la tendinite del Cavaliere, che usò una malattia presunta per spaccare l’unità sulla Liberazione. «Speriamo che Berlusconi non si debba tagliare la mano, visto che quella slogata è la sinistra», disse scherzando, ma non troppo, Dario Fo durante il corteo della manifestazione. Da lì in poi ogni anno, ogni volta, fu un tentativo continuo di annacquare la memoria. Ci toccò vedere i giovani di Alleanza Nazionale protestare contro il loro segretario Gianfranco Fini accusato di essere troppo morbido verso il 25 aprile e i partigiani. Ma se gli attacchi da destra contro la Liberazione e il 25 aprile sono perfino scontati in un Paese che non ha mai fatto i conti con la propria storia (del resto siamo lo stesso Paese in cui Pansa ha potuto lucrare per anni offrendo una rilettura che avrebbe voluto parificare fascisti e partigiani) gli attacchi dal centrosinistra sarebbero stati inimmaginabili prima dell’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del Pd.

Da Berlusconi a Renzi, fino alla recente polemica sull'Ucraina: perché il 25 aprile continua a dividere l'Italia
Manifestazione per il 25 aprile a Roma (Facebook)

L’attacco al 25 aprile dalla sinistra renziana

Era il 2017 (anche se in molti sembrano essersene già dimenticati) e i renziani si inventarono l’orripilante slogan #tuttoblue per riverniciare il 25 aprile (o più semplicemente per sottrarlo alla memoria partigiana) invocando una marcia per l’Europa. Fu uno spettacolo indecoroso, che vide nelle piazze adoratori del renzismo agghindati con gadget preparati per l’evento e abbiamo dovuto sorbirci perfino Coco Chanel rivenduta come icona del patriottismo europeo (perché chi cerca di intossicare il 25 aprile manca sempre dei fondamenti di storia). Al posto dei partigiani, Renzi ebbe la brillante idea di celebrare John Lennon, Jane Austen (?), Marie Curie o Leonardo Da Vinci. Tutti grandi cittadini del Continente europeo ma che poco o nulla  hanno avuto a che fare con l’idea di un Europa unita. E che avevano anche il considerevole pregio di essere morti e non poter dire nulla. Cosa c’entravano I’m Blue da ba dee da ba da e Nel blu dipinto di blu con il 25 aprile? Niente. Era solo un modo vigliacco per riabilitare le idee che la Resistenza ci consegna come monito. Cosa c’entra la guerra in Ucraina Niente. Dal tutto blu siamo passati al gialloblu ma se ci fate caso gli ideologi sono più o meno sempre gli stessi.

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« A l’autre bout de la mer », ou l’invasion de cadavres !

Titre : A l’autre bout de la mer
Auteur : Giulio Cavalli
Editions : 10/18
Date de parution : 6 janvier 2022
Genre : Roman

Nous sommes ravis de pouvoir vous conseiller ce livre tellement étonnant ! A l’autre bout de la mer est un véritable ovni littéraire, tant pour la forme que pour le sujet.

Commençons par ce dernier : l’histoire se passe dans la petite ville côtière de DF. De bon matin, un pêcheur retrouve le cadavre d’un homme jeune à la peau sombre flottant dans l’eau. Avant que l’on ait pu l’identifier ou commencer une enquête, un second corps est découvert. Et tout à coup, dans ce village paisible, les choses dégénèrent : un amas d’une centaine de morts arrive de la mer. Fait étonnant, ce ne sont que des hommes du même âge, de la même carnation et du même gabarit. Les spéculations vont bon train : résidus d’expériences génétiques ratées, esclaves ou encore aliens !

Tandis que les autorités de la ville s’interrogent pour trouver le fin mot de l’histoire afin d’apaiser tant les anxieux que les hystériques, la première vague s’abat sur DF. On ne parle pas de covid ici mais bien de 25 000 corps qui sont à dénombrer dans ce reflux maritime. Un tsunami de cadavres qui encombrent les jardins, de poids morts qui défoncent tout ce qui se trouve sur leur chemin et de globes oculaires qui s’agglutinent de façon écœurante contre les baies vitrées. Bref, les dégâts en tous genres sont gigantesques. Face à ce phénomène aussi incroyable que répétitif, les autorités de DF sont contraintes de trouver une solution des plus étranges…

On ne vous en dira pas plus, ce serait déflorer l’idée géniale de l’auteur. Imaginez un peu une vague de cadavres déferlant sur les plages du Zoute à l’heure du Gin-to. Que ferait le gouvernement ? A l’autre bout de la mer est le premier roman de Giulio Cavalli traduit en français, espérons qu’il y en ait d’autres ! Des sujets originaux qui dépotent et qui portent à la réflexion sont devenus trop rares.

Quant à la forme stupéfiante susmentionnée, l’écriture correspond au phénomène : de grandes vagues ininterrompues de phrases. Si cela semble rebutant en début de lecture, on est rapidement happé par le récit brut et non édulcoré qui nous emporte dans son tourbillon infernal de mots sillonnant à travers les macchabées et l’eau salée. L’auteur a choisi de décrire l’histoire vue par différents personnages, allant notamment des simples citoyens en passant par le maire ou encore le médecin. Interpellant de voir jusqu’où les Hommes peuvent raisonner avant de mettre leurs limites…

Cette fable cynique d’un peu plus de 200 pages est assurément à mettre en toutes les mains !

(fonte)

L’Italia ripudia la guerra vendendo armi ai regimi (Putin compreso)

Putin a parole lo odiano tutti, perfino quelli che prima del 24 febbraio lo adoravano, ci stringevano accordi e ce lo proponevano come modello politico. Ma soprattutto a Putin abbiamo venduto armi nonostante l’embargo europeo: nel 2015 il Governo Renzi ha rilasciato un’autorizzazione per la vendita di 94 blindati Lince alla Russia per un valore di oltre 25 milioni di euro e analizzando i dati Istat si scopre che fra gennaio e novembre del 2021 c’è stata un’esportazione di 3 milioni di euro di merci militari sotto embargo verso la Russia. Dalla relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento – presentata dallo stesso premier Mario Draghi al Parlamento – si scopre che il business con Paesi sotto embargo è un vizio a cui non riusciamo proprio a rinunciare. La Cina è sotto embargo dal lontano 1989 ma il Governo italiano non si è fatto troppi problemi a vederle 230mila euro di software, oltre a comprare armi per 3,9 milioni di euro.

Poi c’è la Libia (con cui non riusciamo a smettere di andare a braccetto) per cui l’Italia ha dato l’autorizzazione all’esportazione di apparecchiature per un valore di 291.350 euro. L’Egitto di Al-Sisi, intanto, non risente di nessuna sanzione (nemmeno un lontano indurimento dei rapporti diplomatici) per la sua continua avversione alla ricerca di verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni. Mentre Al-Sisi fa di tutto per non rendere rintracciabili presunti autori dell’omicidio dello studente italiano, il Governo ha spedito qualcosa come 35 milioni di euro di armi automatiche, bombe, missili, veicoli terrestri e apparecchiature. Continua a gonfie vele il rapporto con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, dove il «Nuovo Rinascimento» ha l’odore e il colore delle bombe sganciate in Yemen. Ma su queste armi non si infiammano gli animi dei giornali e dei politici, non si dibatte in tv e non si litiga in Parlamento. Se non vi è capitato di leggerne, significa che fanno comodo a molti. Ed è una gran brutta notizia.

L’articolo originale scritto per TPI è qui

L’Italia ripudia la guerra vendendo armi ai regimi (Putin compreso)

Putin a parole lo odiano tutti, perfino quelli che prima del 24 febbraio lo adoravano, ci stringevano accordi e ce lo proponevano come modello politico. Ma soprattutto a Putin abbiamo venduto armi nonostante l’embargo europeo: nel 2015 il Governo Renzi ha rilasciato un’autorizzazione per la vendita di 94 blindati Lince alla Russia per un valore di oltre 25 milioni di euro e analizzando i dati Istat si scopre che fra gennaio e novembre del 2021 c’è stata un’esportazione di 3 milioni di euro di merci militari sotto embargo verso la Russia. Dalla relazione sulle operazioni autorizzate e svolte per il controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento – presentata dallo stesso premier Mario Draghi al Parlamento – si scopre che il business con Paesi sotto embargo è un vizio a cui non riusciamo proprio a rinunciare. La Cina è sotto embargo dal lontano 1989 ma il Governo italiano non si è fatto troppi problemi a vederle 230mila euro di software, oltre a comprare armi per 3,9 milioni di euro.

Poi c’è la Libia (con cui non riusciamo a smettere di andare a braccetto) per cui l’Italia ha dato l’autorizzazione all’esportazione di apparecchiature per un valore di 291.350 euro. L’Egitto di Al-Sisi, intanto, non risente di nessuna sanzione (nemmeno un lontano indurimento dei rapporti diplomatici) per la sua continua avversione alla ricerca di verità e giustizia per la morte di Giulio Regeni. Mentre Al-Sisi fa di tutto per non rendere rintracciabili presunti autori dell’omicidio dello studente italiano, il Governo ha spedito qualcosa come 35 milioni di euro di armi automatiche, bombe, missili, veicoli terrestri e apparecchiature. Continua a gonfie vele il rapporto con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, dove il «Nuovo Rinascimento» ha l’odore e il colore delle bombe sganciate in Yemen. Ma su queste armi non si infiammano gli animi dei giornali e dei politici, non si dibatte in tv e non si litiga in Parlamento. Se non vi è capitato di leggerne, significa che fanno comodo a molti. Ed è una gran brutta notizia.

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Chi ha paura dei pacifisti?

Giorgio Beretta, analista del commercio internazionale e nazionale di sistemi militari e di armi comuni per l’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia, lo scrive senza troppi giri di parole: «Fanno paura a tutti quelli che ritengono necessario inviare armi all’Ucraina perché ricordano che l’Italia non solo non manda armi ai popoli aggrediti ma continua a fornirle a Stati aggressori come Israele che reprime la popolazione palestinese, la Turchia che cannoneggia i curdi, il Marocco che rinchiude i saharawi, l’Arabia Saudita che bombarda gli yemeniti. Fanno paura a tutti quelli che pensano che è solo inviando armi che si può sconfiggere Putin perché ribadiscono che non c’è nessuna vittoria con migliaia di morti e città devastate. E l’unica soluzione alla guerra è fermarla portando le parti alle trattative anche con sanzioni dure».

Gli attacchi ai pacifisti (perfino ai pacifisti presunti) ormai sono una costante del dibattito pubblico come se fosse davvero i pacifisti fossero il punto focale di quest’epoca. Lo fanno, tra l’altro, fingendo di non vedere i sondaggi nazionali (che in questo caso non vengono sbandierati) che confermano ogni volta come la maggioranza dei cittadini lamenti poca voglia di trovare la pace. Questa guerra, ogni giorno che passa, sembra piacere tantissimo.

Ha ragione Beretta, i pacifisti «fanno paura a tutti quelli che per anni hanno corteggiato Putin perché hanno sempre denunciato la brutale repressione dei diritti umani e civili in Russia. Anche quando le aziende militari italiane, sostenute da vari governi, hanno fornito sistemi militari alla Russia di Putin ed hanno continuato a fornirle anche dopo il 2014 nonostante l’embargo di armamenti stabilito dall’Unione europea. Fanno paura perché ricordano a chi oggi teme – e giustamente – una escalation della violenza fino all’utilizzo delle bombe nucleari, che l’unico modo per prevenire l’olocausto atomico è mettere al bando gli ordigni nucleari come richiede il Trattato di proibizione delle armi nucleari (Tpnw). Trattato che però l’Italia continua a ignorare così come la gran parte delle potenze atomiche che non vogliono rinunciare ai propri arsenali nucleari. Fanno paura a chi li accusa di starsene comodamente in poltrona perché i pacifisti sono stati i primi a soccorrere i profughi ucraini così come da anni fanno con tutti i profughi. E per farlo hanno anche organizzato la grande Carovana della Pace per portare aiuti e medicinali in Ucraina e portare in Italia le persone più fragili e bisognose. In tutto questo i pacifisti sono stati isolati e ignorati dalla gran parte delle forze politiche e dei giornali che oggi si scoprono bellicisti e vogliono più armi e più fondi per aumentare ancora i bilanci militari di tutti i paesi d’Europa».

E poi, volendo vedere, ma davvero nel pieno di una guerra vale la pena prendersela con chi chiede la pace? Ma non vi sembra una tattica infame?

Buon venerdì

Nella foto: manifestazione per la pace e contro la guerra in Ucraina, Roma, 5 marzo 2022

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