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Da chi ha preso i soldi Le Pen?

L’oppositore russo Alexey Navalny ieri su Twitter ha raccontato in una serie di tweet una storia che merita di essere letta:

«Mi rendo conto dell’ironia della situazione», dice  Navalny, «un prigioniero politico russo si rivolge agli elettori francesi. Tecnicamente sono in prigione a causa di una denuncia di una società francese. Ho studiato francese all’università, e quando vengo a Parigi, indosso un foulard con qualsiasi tempo. Quindi questo Paese è vicino a me e ci proverò». Poi si è rivolto agli elettori francesi: «È senza alcuna esitazione che invito il popolo francese a votare per Macron il 24 aprile, ma vorrei rivolgermi a coloro che non escludono il voto per Le Pen. Vorrei parlarvi della corruzione e del conservatorismo. Prima di tutto, io e i miei colleghi indaghiamo sulla corruzione in Russia e ne so più di altri. E, come se non bastasse, ho passato molti anni a costruire una coalizione politica anti-Putin composta non solo da liberali, ma anche da conservatori di destra che lo vedevano come Marine Le Pen come esempio da seguire. Sono stato molto criticato per questo, ma penso che la mia capacità di parlare con persone con diverse opinioni politiche sia il mio vantaggio e non penso che tutti quelli con cui sono in disaccordo debbano essere cancellati dall’arena politica».

Continua Navalny: «Sono rimasto scioccato nell’apprendere che il partito di Le Pen ha ottenuto un prestito di 9 milioni di euro dalla First Czech-Russian Bank. Credetemi, questo non è solo un ‘affare losco’. Questa banca è una nota agenzia di riciclaggio di denaro che è stata creata su istigazione di Putin. Che ne direste se un politico francese ricevesse un prestito da Cosa Nostra Beh, è lo stesso. Non dubito per un momento che i loro negoziati con queste persone e le loro transazioni con loro comportino un accordo politico segreto. Questa è corruzione. Ed è una vendita di influenza politica a Putin».

Poi Navalny parla di Putin: «Ogni volta che la destra europea mostra simpatia per il ‘conservatorismo’ di Putin, mi lascia perplesso. Putin e la sua élite politica sono completamente immorali, disprezzano i valori della famiglia: avere una seconda e anche una terza famiglia, amanti e yacht è la norma per loro. Sono ipocriti. Poco tempo fa imprigionavano la gente che possedeva la Bibbia, e ora benedicono se stessi nelle chiese. Odiano la classe media e trattano i lavoratori con disprezzo. In Russia, quelli che lavorano sono molto poveri. Putin ha attuato una politica migratoria completamente insensata in cui il libero ingresso di migranti dall’Asia centrale coincide con la trasformazione di questi migranti in schiavi senza diritti. Putin ha creato e sta sostenendo e traendo profitto da un vero e proprio stato terroristico in Cecenia dove l’omicidio, il rapimento e l’intimidazione sono diventati la norma. Ecco perché tutti coloro che si definiscono ‘conservatori’ e simpatizzano con Putin sono solo degli ipocriti senza scrupoli. Le elezioni sono sempre difficili. Ma devi andare, almeno per votare contro».

Buon giovedì

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Ma le avete lette bene le parole del presidente dell’Anpi Pagliarulo?

Prima di qualsiasi polemica. Avete letto bene cosa ha detto il presidente dell’Associazione nazionale partigiani dl’Italia Gianfranco Pagliarulo? Prima di qualsiasi giudizio, prima di qualsiasi commento. Ecco qui l’intervento video in cui risponde agli attacchi:

«Di questi tempi – spiega Pagliarulo – non c’è giorno che l’Anpi e la mia persona non siano attaccate da qualcuno. Sostengono che si va divisi al 25 aprile in particolare per quello che ho detto lo scorso 15 aprile, quando ho affermato testualmente “Oggi rilanciamo la nostra proposta di dialogo e di unità. Sappiamo bene che la guerra tra i tanti disastri divide. Noi vogliamo contrastare questa deriva, pur nelle opinioni diverse, perché sono convinto che in ultima analisi l’obiettivo comune è quello della pace”, e ho aggiunto “Da ciò l’urgenza di un rafforzamento dell’unità di tutte le forze di pace del nostro Paese e del dialogo fra tutte le forze antifasciste per abbassare la tensione e ricercare la via del negoziato. La diversità di opinioni su singoli punti non deve impedire questo dialogo e la ricerca dell’unità a cominciare dalle più grandi forze democratiche presenti nel governo”. Ecco la tecnica: far dire al bersaglio della polemica, cioè io, esattamente il contrario di quello che ho detto. Ho parlato di unità, e scopro che le mie parole sono di divisione».

Poi il presidente aggiunge: «Ma questo è stato solo l’antipasto. Si è andati a frugare in qualche post su facebook e in qualche articolo che ho scritto nel 2014 e nel 2015 per dimostrare che sono… un seguace di Putin! In quei post, in sostanza, mi riferivo al cambio di regime avvenuto in Ucraina a cavallo fra il 2013 e il 2014 ed all’avvio della guerra civile fra il Donbass autonomista, e le armate ucraine che lo hanno attaccato militarmente. Fin dai tempi del cambio di regime di Maidan erano avvenute cose sconvolgenti: violenze spesso omicide da parte di formazioni paramilitari e politiche esplicitamente ispirate al nazismo, come Settore destro e Svoboda, la creazione di un vero e proprio battaglione combattente, il battaglione Azov, fondato e diretto da Andrij Biletsky, che affermò che la missione dell’Ucraina è quella di “guidare le razze bianche del mondo in una crociata finale contro i subumani, i sottouomini, capeggiati dai semiti”. Il simbolo del battaglione Azov è un simbolo simile alla svastica ed è lo stesso logo utilizzato da varie unità SS, sullo sfondo del sole nero, simbolo della mistica nazista; è lo stesso simbolo di un gruppo neofascista italiano e viene spesso usato da Forza nuova. Negli Stati Uniti l’anno scorso la commissione parlamentare per la lotta al terrorismo ha definito Azov “organizzazione terrorista straniera”. L’Alto commissariato per i diritti umani dell’Onu ha denunciato i crimini di guerra del battaglione Azov nel 2015 e nel 2016».

Dopodiché, Pagliarulo chiarisce: «Io non sono antifascista a giorni alterni. Davanti all’offensiva paranazista di quegli anni pensavo e continuo a pensare che fosse giusto contestare la spirale di violenza innescata da un oscuro cambio di regime e sostenuta da forze esplicitamente neonaziste. Essere antifascista non vuol dire affatto sostenere Putin. Tantomeno oggi dopo un’invasione criminale che sta mettendo a repentaglio la pace nel pianeta. Si dirà: ma il precedente governo ucraino prima di Maidan, quello di Viktor Yanukovych, era corrotto. Credo che sia verissimo. Ma anche il successivo governo di Petro Poroshenko, quello del rinnovamento dopo Maidan, era corrotto. Quando nelle elezioni ucraine dell’aprile 2019 Zelenskiy vinse contro Poroshenko, mi sembrò francamente un fatto positivo. Pensai che forse si sarebbero finalmente realizzati gli accordi di Minsk in merito al Donbass e che ritornasse la pace. Non è avvenuto».

Il presidente Anpi invita poi ad andare a rileggersi alcuni suoi vecchi articoli, su cui in questi giorni la stampa non si è soffermata: «Sembra che chiunque stia fuori dal coro dei vari Mentana diventa in automatico un pericoloso putiniano, agente del nemico, quinta colonna. Suggerisco la lettura di un mio articolo sullo scandalo Metropol, una oscura storia di rapporti fra l’uomo di Salvini, tale Gianluca Savoini, presidente dell’Associazione Lombardia Russia. Nell’incontro fra tre russi e tre italiani, fra cui Savoini, si sarebbe parlato di un finanziamento illegale alla Lega tramite una tangente di 65 milioni di euro in ragione di una triangolazione commerciale di una gigantesca quantità di gasolio. Cito questo episodio fra i tanti, perché si scoprirà che il putiniano Pagliarulo denunciava e approfondiva la vicenda il 26 luglio 2019 sul periodico nazionale dell’Anpi. Di eventi in cui Salvini si è dichiarato putiniano ce ne sono tanti. Ma cito questa storia perché mi pongo e pongo a tutti voi una domanda. Perché le autorevoli testate di orientamento liberaldemocratico non indagano a fondo sui rapporti della destra sovranista col nazionalista imperiale Putin e invece insistono a dipingere l’Anpi per ciò che non è e a descrivere Pagliarulo per ciò che non pensa e non dice?».

Infine, chiosa il capo dell’Anpi: «Stiano tranquilli tutti coloro che si stanno accanendo contro l’Anpi e contro me stesso: continueremo a condannare senza se e senza ma un’invasione sanguinosa di cui Putin ha tutte le responsabilità; continueremo a sostenere l’urgenza dell’immediato cessate il fuoco e del ritiro delle truppe russe dall’Ucraina. Continueremo a sostenere che l’unica via per far cessare questa catastrofe è una trattativa seria e una continua de-escalation. Continueremo a sostenere che l’invio di armi che si sta incrementando è benzina sul fuoco di una guerra che può deflagrare su scala europea e mondiale e di cui le prime vittime sono gli ucraini. Continueremo a sostenere che nel dibattito pubblico in Italia bisogna unirsi, dialogare, confrontarsi e non insultarsi, senza demonizzare nessuno. Continueremo a sostenere che il primo urgentissimo obiettivo è la pace e con questa parola d’ordine manifesteremo unitariamente il 25 aprile. Continueremo a sostenere che nel nostro tempo in una guerra non ci sono vinti né vincitori ma solo superstiti. Sappiamo di essere tanti. Condividiamo gli appelli del papa. Eravamo, siamo e saremo sempre antifascisti».

Se leggete bene le sue dichiarazioni vi stupirete, ne sono certo, di non trovarci dentro nulla del fango che si trova in giro. Chiaro, no?

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L’accoglienza per gli ucraini: sfruttati in una fabbrica di sigarette contraffatte

La guerra fa schifo ma anche dalle nostre parti qualcuno ce la mette tutta per riuscire a scivolare ancora più in basso.

Giovedì la Guardia di finanza del Comando provinciale di Roma ha effettuato un’irruzione in un presunto impianto di sigarette contraffatte nella zona industriale di Pomezia, cittadina a sud della capitale Roma.

All’interno hanno trovato dieci lavoratori provenienti da Russia, Moldova e Ucraina. Durante la produzione delle sigarette, i lavoratori erano stati «sottoposti a turni di lavoro massacranti e costretti a lavorare in un ambiente malsano, con le finestre murate e senza prese d’aria per i fumi di lavorazione», secondo la Guardia di finanza. Secondo quanto riferito, le istituzioni locali hanno messo a disposizione dei lavoratori alcune strutture di prima accoglienza, tra cui diversi rifugiati dall’Ucraina.

Il capo della società che gestisce la fabbrica è stato arrestato e condotto nel carcere di Velletri con l’accusa di contraffazione, contrabbando, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

All’interno del capannone che ospitava la fabbrica, la polizia avrebbe scoperto oltre 82 tonnellate di tabacco e pacchetti di sigarette contraffatti con etichette di marchi famosi.

Il sequestro è il più grande del genere degli ultimi anni in Italia.

La vendita di questi prodotti – che saranno distrutti – avrebbe portato a un’evasione fiscale per un totale di oltre 19 milioni di euro, affermano gli inquirenti.

L’Unhcr ha avvertito che i rifugiati dall’Ucraina sono a rischio di tratta e sfruttamento e che donne e bambini, che rappresentano il 90% delle persone in fuga dall’invasione russa, sono particolarmente a rischio.

«È impossibile valutare quante donne e bambini rifugiati ucraini potrebbero essere stati preda dei trafficanti. Finora i casi noti sono fortunatamente pochi», ha affermato Gillian Triggs, capo della protezione dei rifugiati delle Nazioni Unite.

Buon martedì.

 

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Spesa militare italiana, Enrico Letta bara sui numeri Nato per spingere la corsa al riarmo

Il 14 aprile Enrico Letta, segretario del Partito Democratico, ospite della trasmissione Forrest su Rai Radio 1, ha dichiarato che l’Italia è il “ventiduesimo Paese” della Nato per spesa militare, aggiungendo: “Se non mi sbaglio, magari poi verrò corretto”. Si parlava ovviamente dell’aumento delle spese militari (votato da quasi tutto l’arco parlamentare) e della guerra in Ucraina. Essere il “ventiduesimo Paese” della Nato per spesa militare ovviamente è un ottimo modo per dire che siamo stati bravi fin qui, che non c’è nulla di esagerato e che dobbiamo perfino essere contenti di esserci potuti permettere di spendere meno degli altri.

Spesa militare italiana, cifre a caso

I numeri però vanno usati, vanno letti e non vanno osati. Letta saprà sicuramente che l’anno scorso la spesa militare italiana ha raggiunto un valore pari all’1,54% del Pil (e in questo siamo la diciottesima nazione nella classifica Nato, insieme alla Macedonia del Nord) ma in valori assoluti l’Italia ha speso qualcosa come 28,5 miliardi di dollari. 28,5 miliardi di dollari ci vedono al quinto posto nella Nato dietro agli Usa (con 725,7 miliardi di dollari), Regno Unito (69,3 miliardi di dollari), Germania e Francia.

Non male per un Paese che Letta vorrebbe dipingere come quasi disarmato. E forse Letta dovrebbe sapere che il suo ministro della Difesa Lorenzo Guerini già nell’ottobre dell’anno scorso, quando ancora non imperversava questo furore bellico in cui si sono arruolati quasi tutti, aveva chiesto al Parlamento di poter spendere oltre 6 miliardi di euro per comprare nuove armi. E in quel periodo non c’era nessun flusso sentimentale da dover accarezzare.

Il fatto è che Letta, non essendone capace, vorrebbe normalizzare un dibattito che all’interno del suo partito è vivissimo poiché, per fortuna, esiste ancora una vasta parte tra gli elettori e gli eletti del Pd che non riesce proprio a esultare per l’acquisto bulimico di armi e per questo segretario che ha indossato l’elmetto come un capo popolo di destra qualsiasi.

Corsa al riarmo, c’è chi dice no

Da Bruxelles arrivano da settimane i distinguo dell’eurodeputato Pierfrancesco Majorino che ritiene “sbagliato aumentare le spese militari” e che considera “il 2% di Pil un regalo all’industria della armi”“le sfide che abbiamo davanti sono di tale rilievo – dal sostegno all’economia e agli investimenti per il welfare – che non capisco come possiamo pensare di spostare 13 miliardi sulle spese per la difesa”, ha detto qualche giorno fa Majorino in un’intervista chiarendo che “l’aumento al 2% del Pil viene messo in correlazione con la guerra in Ucraina, ma non c’entra niente. 

Majorino, si badi bene, non è una voce isolata e ininfluente: della sua stessa idea sono un’importante fetta tra gli iscritti. Proprio per questo la Presidente del Pd, Valentina Cuppi, che è anche sindaca di Marzabotto, ha tuonato contro Letta in un’intervista a Repubblica“Non possiamo di certo avere toni trionfalistici nel dire che siamo tutti d’accordo per il sostegno in termini di armamenti”, ha detto Cuppi chiedendo a Letta un confronto aperto.

“Io sono la presidente dell’assemblea nazionale del Pd, non abbiamo ancora avuto una riunione dell’assemblea sul tema della guerra. Siamo un partito plurale, di fronte a una situazione complessa bisogna ascoltare le persone che si stanno interrogando su come fermare il conflitto”, spiega Cuppi.

Per Letta insomma non funzionerà ancora a lungo nascondersi dietro numeri (sbagliati) usati per redimere una questione politica che nel suo partito si ingrossa.

(il mio pezzo per La Notizia)

Per conoscere Putin in Ucraina basta ricordarselo in Cecenia

Se fossimo capaci di tenere allenata la memoria oggi non saremmo sopraffatti dallo stupore di ciò che accade in Ucraina. La Russia che ama la violenza e che la sfoga anche con la guerra non è un’inattesa svolta della storia che inizia 50 giorni fa, con un comodo “prima” e un “dopo” che torna utile a chi vorrebbe risultare assolto. Se volete sapere come sarà l’Ucraina del futuro vi basta sfogliare la Cecenia del passato: i bombardamenti, i saccheggi, gli stupri, le torture, le esecuzioni e soprattutto lo spaventoso entusiasmo con cui l’esercito russo compie i suoi delitti mentre la propaganda interna li celebra condendoli di eroismo sono ancora lì, tra le cicatrici di una Cecenia che non ha dimenticato, che non può dimenticare.

Le due guerre che la Russia ha combattuto contro la Cecenia (mentre il mondo intorno, chissà perché, era così distratto rispetto all’attenzione furiosa sull’Ucraina) tra il 1994. Il 1996 e poi tra il 1999 e il 2009 hanno devastato il Paese causando qualcosa come 300.000 morti oltre ai circa 5.000 scomparsi. Ci sarebbero tutti i numeri per una condanna per crimini di guerra già comminata a Putin qualche decennio fa se gli Stati che oggi orripilano non avessero preferito continuare i propri affari tralasciando la barbarie. 

Le due guerre in Cecenia di Putin hanno lo stesso copione della guerra in Ucraina: i bombardamenti, i saccheggi, gli stupri, le torture, le esecuzioni

La Cecenia è il libretto delle istruzioni di come Putin immagina l’Ucraina: disarticolata, terrorizzata, distrutta e incapace di non sottomettersi al regime russo. Sarebbe bastato leggere con attenzione Anna Politkovskaja (celebrandola meno e studiandola di più) per rendersi conto che Ramzan Kadyrov, capo della Repubblica Cecena, incarna perfettamente il tipo che il leader del Cremlino vorrebbe mettere al posto di Zelensky: prono a Putin esegue i suoi ordini accettando di mettere in pericolo il proprio popolo, spedisce i suoi ragazzi in Ucraina a combattere e come Putin elimina i suoi oppositori politici per mantenere saldo il regime.

Se avessimo buona memoria potremmo intravedere dietro la distruzione del reparto maternità dell’ospedale a Mariupol la stessa mano dell’attentato russo contro l’ospedale di maternità di Grozny quando l’esercito di Putin, era il 21 ottobre 1999, bombardò il reparto maternità con un missile provocando 27 morti, quasi tutti donne e neonati, che si aggiunsero alle vittime di un mercato affollato lì vicino in cui morirono 120 persone. Erano civili rimasti cadaveri allineati per terra, proprio come le immagini che ci arrivano dall’Ucraina.

La strategia militare russa in Ucraina non è una novità

Le stragi di Bucha e Irpin hanno lo stesso sapore mortifero di Samashki, dove tra il 7 e l’8 aprile del 1995 le truppe russe avevano eseguito una zachistka, quella che Putin chiamò “un’operazione di pulizia”, uccidendo oltre 100 persone, quasi tutti civili. I militari spararono deliberatamente e arbitrariamente contro i civili e le loro abitazioni, bruciando case con dei lanciafiamme. È scritto nero su bianco in un rapporto della Commozione delle Nazioni Unite per i diritti umani del marzo 1996: “la maggior parte dei testimoni – si legge in quel rapporto – ha riferito che molte truppe erano ubriache o sotto l’effetto di droghe. Hanno arbitrariamente aperto il fuoco o lanciato granate negli scantinati dove si erano nascosti i residenti, per lo più donne, anziani e bambini”. La lista sarebbe lunga: Novye Aldi, Katyr Yurt, Komsomolskoye. La strategia militare russa in Ucraina non è una novità. Come abbiamo permesso che tutto questo accadesse ancora è la domanda a cui prima o poi dovremo rispondere.

(il mio pezzo per La Notizia)

A che serve la guerriglia verbale? Accuse di genocidio alla Russia. Biden soffia ancora sul fuoco. Ma non è una gaffe: l’obiettivo è una guerra lunga

Se c’è qualcosa che manca in questo momento storico mentre il conflitto in Ucraina si incattivisce e Vladimir Putin continua ad alzare la posta è il doveroso principio di sobrietà che servirebbe in ogni guerra se davvero si vuole trovare una soluzione che non passi solo dalle armi. Rispondere agli eccidi di Putin con minacce verbali non sortisce nessun effetto pratico al di là di infiammare gli animi, incattivire i protagonisti e inevitabilmente affilare i soldati. Qualcuno prima o poi dovrebbe farlo presente al presidente USA Joe Biden che ieri, ancora una volta, è intervenuto senza freni come un tifoso qualsiasi di passaggio accusando Putin di “genocidio”, gettando ulteriore benzina sul fuoco.

L’uscita del capo della Casa Bianca fa il paio con le sue precedenti accuse di “macellaio” a “criminale di guerra“, passando per “quest’uomo non può rimanere al potere”, tutte pronunciate con un’evidente irresponsabilità per il ruolo che Biden ricopre non solo negli USA ma anche nella NATO e nello scacchiere internazionale. «Non si può dipendere da un dittatore che dall’altra parte del mondo commette un genocidio», ha detto Biden durante un evento pubblico per poi ribadire il concetto qualche ora dopo ai reporter in Iowa spiegando che «sta diventando sempre più chiaro che Putin cerca di cancellare persino l’idea di essere ucraini.

Lasceremo decidere agli avvocati come qualificarlo a livello internazionale, ma di sicuro è quello che sembra a me», ha detto. Tutto questo mentre l’amministrazione USA sta per annunciare altri aiuti militari all’Ucraina per 750 milioni  che secondo la Reuters – che cita una fonte del Congresso USA – consisterebbero in obici, sistemi di artiglieria pesante in grado di colpire un obiettivo fino a 70 chilometri di distanza.

Joe Biden getta benzina sul fuoco: “Putin colpevole di genocidio”

Inevitabile la reazione del Cremlino che attraverso il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, definisce «inaccettabili» le parole di Biden. Dall’altra parte il presidente ucraino Volodymyr Zelensky loda le parole del presidente USA definendole «parole vere di un leader vero». «Chiamare le cose col loro nome è essenziale per combattere il male. Siamo grati per l’aiuto che gli Usa ci hanno fornito finora e chiediamo con urgenza nuove armi pesanti per combattere le atrocità russe», scrive Zelensky.

Ma la guerriglia verbale non è piaciuta al presidente francese Emmanuel Macron: «È accertato che sono stati commessi crimini di guerra da parte dell’esercito russo – spiega il presidente impegnato nella volata finale della campagna elettorale per la sua conferma – ma genocidio, ha un significato» Macron ricorda che «il popolo ucraino, il popolo russo sono popoli fratelli», definisce «una follia quello che sta accadendo» ma precisa che «genocidio, ha un significato».

«Guardo i fatti e voglio cercare il più possibile di continuare a lavorare per fermare questa guerra e quindi non sono sicuro che l’escalation delle parole serva alla causa della pace». Per misurare la tensione (e l’inutilità della lotta verbale) basta leggere la reazione stizzita alle parole di Macron del portavoce del ministero degli Esteri ucraino Oleg Nikolenko quando dice che «la riluttanza del presidente francese a riconoscere il genocidio degli ucraini dopo tutte le dichiarazioni esplicite della leadership russa e le azioni criminali dell’esercito russo è deludente». 

Francia e Cina invitano Biden al senso di responsabilità

Le parole di Biden accendono la reazione anche del portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian, citato da Tass: «la Cina ha sempre sostenuto che sull’Ucraina la massima priorità per tutte le parti interessate è mantenere la calma e la sobrietà, cessare il fuoco e fermare la guerra il prima possibile, evitando una crisi umanitaria su larga scala», dice il funzionario cinese che avverte: «tutti gli sforzi della comunità internazionale dovrebbero mirare alla riduzione dell’escalation, non aggiungere benzina sul fuoco, e spingere per una soluzione diplomatica, non aggravare ulteriormente gli scenari».

La scorsa settimana inoltre il consigliere Usa per la sicurezza Nazionale Jake Sullivan aveva affermato: “Abbiamo visto crimini di guerra, ma non abbiamo visto un livello di eliminazione sistematica degli ucraini che arrivi a livello di genocidio”.

Se la guerra fa già schifo di suo, con i suoi morti civili e con le città devastate dalla violenza funesta di Putin, non si capisce perché ci si debba aggiungere un masochista godimento nel provocare l’invasore con cui nel frattempo si tratta per canali diplomatici. A meno che, questo è il dubbio più spaventoso, a qualcuno questa guerra piaccia così tanto da non poterne fare a meno.

(il mio pezzo per La Notizia)

Buona fortuna ai francesi e anche a noi. La Francia trema di fronte a Le Pen. E l’Italia si prepara a una falcata vittoriosa di Meloni e Salvini

Definire ciò che sta accadendo in Francia una “sorpresa” significa essersi persi gli ultimi vent’anni di storia politica d’Oltralpe: per la terza volta negli ultimi 20 anni, domenica 24 aprile, l’estrema destra si gioca le elezioni presidenziali al secondo turno. Marine Le Pen e Emmanuel Macron dopo avere incassato al primo turno rispettivamente il 23,15% e il 27,84% (leggi l’articolo) sono già nel pieno delle due settimane di campagna conclusiva prima del ballottaggio.

E la candidata Le Pen potrà spingere ancora più forte sulla xenofobia, sull’antieuropeismo e su un conclamato sovranismo che nonostante i danni sotto gli occhi di tutti (l’invasione di Putin è solo lo zenit di una pandemia sovranista che da anni infetta il mondo) continua a godere di ottima salute. Il clan Le Pen (un partito familistico è solo uno dei tanti indizi) dall’inizio del secolo ha raggiunto gli stessi ballottaggi della destra moderata e uno in più della sinistra. Ogni volta le percentuali sono cresciute: dal 19% del 2002, si è passati al 26% del 2017 e poi al 32% di oggi, se si aggiungono i voti ottenuti dal candidato del Rally Nazionale e quelli di Eric Zemmour e Nicolas Dupont-Aignan.

E se nel 2017 le proiezioni elettorali immaginavano 20 punti di distacco per Macron, eletto poi con il 66% dei voti, le proiezioni odierne danno al presidente francese con al massimo un 8% di differenza, di fronte a un’avversaria che lui ha superato al primo turno (anche se non con la facilità che ci si immaginava fino a qualche giorno fa) ma che potrebbe avere una riserva di voti per il ballottaggio senza confronti con il passato. Sembrano lontani i tempi in cui al secondo turno vinceva Chirac sull’estrema destra con l’82% dei voti. Ora tutti gli analisti sono d’accordo con una sfida serrata, nonostante resti più probabile la conferma di Macron. I numeri sostanzialmente ci dicono che il risultato dell’estrema destra rientra quindi in una naturale crescita addirittura prevedibile e, per molti, pericolosa.

L’elezione di Marine Le Pen a Presidente della Repubblica sarebbe un attacco allo Stato di diritto, una regressione nella lotta al cambiamento climatico e un’inversione di visione nelle alleanze internazionali, tra l’altro in un momento storico delicato come questo, con la guerra alle porte. Macron ha 14 giorni per riuscire a concentrare su di sé i voti del terzo blocco che esce fortificato dal primo turno, quel Melenchon che con il 21,95% ha sfiorato il ballottaggio e che ancora dalle nostre parti viene visto come “estrema sinistra” senza rendersi conto (o senza volersi rendere conto) che raccoglie il voto di chi contesta il paradigma economico e sociale esistente senza scivolare verso autoritarismi.

Il gioco di continuare a dipingere Melenchon come l’effetto di una “radicalizzazione”, come se fosse un Zemmour all’opposto significa insistere nel banalizzare o addirittura infantilizzare le voci dei giovani (che mica per niente hanno votato molto più Melenchon di Macron) che chiedono una maggiore equità sociale e una maggiore attenzione alle persone, anche a scapito del profitto.

Ieri il segretario del Pd Enrico Letta (pronto a candidarsi subito come fulgido esempio del paternalismo tiepido che concima i fascismi di ritorno) in un’intervista è riuscito a paragonare i nostri amici di Putin (Salvini, Meloni e Berlusconi) a Le Pen (che dalla banca di Mosca ha attinto allegramente con un prestito milionario), Zemmour (candidato razzista che ha irritato perfino i razzisti francesi) e quello stesso Melenchon che diventa fondamentale per provare a vincere al secondo turno. “Sinistra-sinistra”, dice Letta rivolgendosi a quel 21,95% di francesi che sono stufi di un liberismo travestito da sinistra omeopatica interpretato da Macron come accade qui da noi con diversi personaggi politici, tra cui un’ex Presidente del Consiglio.

La lezione è sempre la stessa: mentre la destra pericolosa e oscurantista continua a guadagnare posizioni (nonostante la passata amicizia con quel Putin criminale agli occhi del mondo) i cosiddetti progressisti sono tutti concentrati nel normalizzare il pericolo della destra al potere e nel demonizzare la cosiddetta “sinistra” in cui infilano tutti coloro che osano mettere in discussione lo status quo.

Sapete dove ci porterà questa miopia? Esattamente nel punto in cui siamo, con la Francia che trema di fronte a Le Pen e con l’Italia che si prepara a una falcata vittoriosa di Meloni e Salvini (ormai in quest’ordine) per spendere poi paginate di sorpresissimi commentatori e segretari di partito incapaci di leggere la realtà. Buona fortuna alla Francia e buona fortuna anche a noi.

(il mio pezzo per La Notizia)

Sarà un brutto 25 aprile


Il copione di questo 25 aprile è già scritto. Mancano alcune correzioni che arriveranno all’ultimo momento ma la struttura del soggetto è chiara. Sarà l’anno in cui tutto quello che si è detto nell’ultimo periodo non vale più. L’hanno deciso gli stessi che da tempo provano a convincerci che fascismo e antifascismo siano categorie del passato ormai superate dalla Storia. Dopo avere scritto quintali di articoli e scritto centinaia di comunicati stampa in cui ci spiegavano che essere antifascista e celebrare il 25 aprile significasse incagliarsi in malinconici tempi che furono ora quegli stessi ci dicono che il 25 aprile si dovrà scendere in piazza, tutti ma proprio tutti con la bandiera ucraina per non destare il sospetto di essere filo-Putin e hanno inventato un nuovo modello di Resistenza che gli torna utilissimo per sistemare le beghe interne. Un 25 aprile in cui gli annoiati dall’antifascismo scenderanno belli carichi in piazza per impartire lezioni di Resistenza agli antifascisti è un finale di un film dell’orrore che non avremmo mai osato immaginare. 

Ascolteremo lezioni di Liberazione da chi ci diceva fino a ieri che l’antifascismo non ha più senso

Quindi che Liberazione si festeggerà? Non c’è nemmeno bisogno di dirlo, sono belli pronti a utilizzare la Resistenza come roncola per inneggiare alla liberazione ucraina, la stessa su cui da giorni dibattono seri e preparati studiosi in un confronto che non ha nulla a che vedere con le ciance scalmanate a cui siamo condannati da una classe politica che riesce perfino a strumentalizzare la Storia. La Resistenza, quella nostra, fiaccata da un decennio di normalizzazione dei fascisti e di mostrificazione dei partigiani, rimarrà sullo sfondo, semplice scenografia di un dibattito interno in cui ciò che conta è fingere di parteggiare per Zelensky per rendere popolare l’amore per la guerra (nonostante tutti i sondaggi indichino una tendenza opposta tra gli italiani che, ahinoi, però non hanno un foglietto pagato con i contributi di Stato per poter dire la loro). 

Nessuno farà notare il rischio di Terza Guerra Mondiale

A nessuno verrà in mente di far notare quanto sia pericoloso leggere l’Alto rappresentante Ue per gli affari esteri mentre dice di tornare «da Kiev con la lista delle armi di cui c’è bisogno». Nessuno oserà far notare che mentre l’Ucraina doverosamente si difende dalla criminale invasione di Putin una soluzione militare del conflitto (che questi tronfi chiamano “vittoria”) sia praticamente irraggiungibile a meno che non si entri ufficialmente in una Terza guerra mondiale (che qualcuno sogna di festeggiare proprio il 25 aprile). A nessuno viene in mente che il presidente dell’Ucraina Zelensky, messo all’angolo dal conflitto e dal senso di responsabilità del proprio ruolo, interpreti un personaggio che è ben diverso dai modi e dai toni che l’Ue può permettersi di usare. Pochi sembrano essersi accorti che la Cina sta armando la Serbia con 6 aerei carichi di missili e che la Serbia nello scacchiere internazionale sta tra le braccia di Putin. 

Così il 25 aprile che dovrebbe essere la Liberazione dalla guerra rischia di trasformarsi nel suo inno, come se non avessimo imparato dopo 77 anni che la guerra non è bella anche se fa male e che tutte le energie dovrebbero essere concentrate nell’evitarla. Sempre che in questi 15 giorni non succeda che ci finiamo dentro più di quello che già siamo, anche se ci riteniamo assolti perché tifiamo per la parte giusta.

(il mio pezzo per La Notizia)

I soldi del PNRR per costruire una base militare a Pisa

Non basta l’aumento delle spese militari. Il governo dei migliori ha deciso di utilizzare i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (il famigerato PNRR che dovrebbe far ripartire il Paese) per costruire una cittadella militare che evidentemente in quest’epoca di furore bellico è un ottimo presepe per presentarsi all’Europa.

Ma se già è ignobile pensare ai fondi per la “ripresa” utilizzati per armi e soldati risulta incredibile che l’opera sia stata pensata nel cuore di un parco protetto, a san Rossore Migliarino Massaciuccoli in Toscana, che con i suoi 23mila ettari è importantissimo per la biodiversità, per il turismo che porta al territorio e per la sua storia che passa dagli etruschi agli antichi romani.

Una base militare con i soldi del PNRR. Dove? In un parco protetto.

Come spesso accade per queste brillanti idee tutti erano all’oscuro del provvedimento (del resto la cultura del dibattito è caduta da un bel po’, in questo Paese): la notizia è diventata di dominio pubblico perché il consigliere comunale a Pisa di Diritti in comune, Ciccio Auletta, l’ha scoperta per caso scorrendo la Gazzetta ufficiale. Perfino il presidente del parco, Lorenzo Bani, racconta di non avere saputa nulla di più di un’ipotesi che gli era stato presentato nell’aprile del 2021 ma di cui non aveva avuto più notizia fino alla notizia ufficiale. 

Si tratta di un piano da oltre 440mila metri cubi di nuove edificazioni da costruire dentro il territorio protetto del parco, su una area complessiva di 730mila metri quadrati dove dovrebbero sorgere villette a schiera, poligoni di tiro, edifici, infrastrutture di addestramento, magazzini, uffici e autolavaggi.

Legambiente sulla base militare nel parco protetto: «I danni sarebbero gravissimi»

Legambiente attraverso Michele Imbrendà racconta l’oscenità: «Questa cittadella militare sorgerà nel centro di un’area agricola, già tenuta medicea e poi regia, bonificata dalle aree palustri ai primi del Novecento, con fasce boscate originarie e piccoli poderi che ne fanno un paesaggio unico e un’oasi di ripopolamento faunistico. Qui nidificano rapaci sulla lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn). I danni sarebbero gravissimi» spiega.

Mentre sembra ormai tardi per poter intervenire sul caso sarebbe però interessante chiedere a Draghi e ai suoi in che parte del PNRR siano previste strutture militari da costruire scavalcando gli enti locali interessati e ricordare che nel PNRR non sia menzionata da nessuna parte la possibilità di prevedere sussidi da destinare ai parchi naturali che sono evidentemente visti come semplici spazi da deturpare con nuovo cemento alla faccia del consumo di suolo.

E pensare che nela Costituzione hanno messo la tutela dell’ambiente. Sta funzionando, eccome.  

(il mio pezzo per La Notizia)

Per l’Onu è la politica il maggior ostacolo alla lotta contro il riscaldamento globale

Il principale ostacolo per affrontare il cambiamento climatico? La politica. Meglio, l’insensibilità e gli interessi trasversali che la politica preferisce mantenere piuttosto che mettere in campo azioni concrete al di là della solita retorica acchiappa voti. C’è scritto nero su bianco nel rapporto del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite (Ipcc) sui cambiamenti climatici: ben 3mila pagine che contengono l’analisi più completa su ciò che si può fare per scongiurare pericolosi livelli di riscaldamento da quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi sul clima nel 2015. La buona notizia è che molto di ciò che è necessario è in corso. Lo studio mostra che i prezzi delle alternative verdi ai combustibili fossili non solo sono diminuiti, ma sono precipitati. Tra il 2010 e il 2019, i costi dell’energia solare e delle batterie agli ioni di litio sono diminuiti dell’85%, mentre l’energia eolica è diminuita del 55%.
I pannelli solari e le turbine eoliche possono ora competere con la produzione di energia da combustibili fossili in molti luoghi e lo sviluppo delle tecnologie verdi è aumentato vertiginosamente. La cosa più incoraggiante è che la crescita delle emissioni di gas serra è rallentata, da una media annuale del 2,1% all’inizio di questo secolo all’1,3% tra il 2010 e il 2019. Ma questo non è abbastanza. I progressi in alcuni Paesi sono stati controbilanciati dall’aumento vertiginoso delle emissioni altrove. Per avere la possibilità di raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi, le emissioni devono raggiungere il picco al più tardi entro il 2025 e diminuire di un 43% senza precedenti entro il 2030. Il problema più grande – si legge nel rapporto – è la politica. Quella stessa politica che con le sue dispute tra i 195 Paesi del Gruppo ha ostacolato la stesura del rapporto. Alcuni Stati dipendono fortemente dai combustibili fossili oppure non hanno risorse da investire nell’energia verde e avrebbero voluto delle conclusioni “più morbide”. La politica che si occupa di come narrare i problemi invece di risolverli. Siamo sempre lì.

L’articolo originale scritto per TPI è qui