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Per l’Onu è la politica il maggior ostacolo alla lotta contro il riscaldamento globale

Il principale ostacolo per affrontare il cambiamento climatico? La politica. Meglio, l’insensibilità e gli interessi trasversali che la politica preferisce mantenere piuttosto che mettere in campo azioni concrete al di là della solita retorica acchiappa voti. C’è scritto nero su bianco nel rapporto del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite (Ipcc) sui cambiamenti climatici: ben 3mila pagine che contengono l’analisi più completa su ciò che si può fare per scongiurare pericolosi livelli di riscaldamento da quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi sul clima nel 2015. La buona notizia è che molto di ciò che è necessario è in corso. Lo studio mostra che i prezzi delle alternative verdi ai combustibili fossili non solo sono diminuiti, ma sono precipitati. Tra il 2010 e il 2019, i costi dell’energia solare e delle batterie agli ioni di litio sono diminuiti dell’85%, mentre l’energia eolica è diminuita del 55%.
I pannelli solari e le turbine eoliche possono ora competere con la produzione di energia da combustibili fossili in molti luoghi e lo sviluppo delle tecnologie verdi è aumentato vertiginosamente. La cosa più incoraggiante è che la crescita delle emissioni di gas serra è rallentata, da una media annuale del 2,1% all’inizio di questo secolo all’1,3% tra il 2010 e il 2019. Ma questo non è abbastanza. I progressi in alcuni Paesi sono stati controbilanciati dall’aumento vertiginoso delle emissioni altrove. Per avere la possibilità di raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi, le emissioni devono raggiungere il picco al più tardi entro il 2025 e diminuire di un 43% senza precedenti entro il 2030. Il problema più grande – si legge nel rapporto – è la politica. Quella stessa politica che con le sue dispute tra i 195 Paesi del Gruppo ha ostacolato la stesura del rapporto. Alcuni Stati dipendono fortemente dai combustibili fossili oppure non hanno risorse da investire nell’energia verde e avrebbero voluto delle conclusioni “più morbide”. La politica che si occupa di come narrare i problemi invece di risolverli. Siamo sempre lì.

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Borghese e i giovani fannulloni, tormentone e miopia dell’Italia

Esce il primo sole e insieme ai consigli di bere molta acqua e di non uscire nelle ore più calde arrivano i ruspanti imprenditori italiani (meglio se stellati o televisivi) che lanciano l’allarme perché non riescono a trovare giovani virgulti per le loro cambuse. La sceneggiatura in fondo è sempre la stessa dal 2012, quando a margine di un convegno l’allora ministra Elsa Fornero disse che «i giovani non devono essere troppo choosy», inaugurando di fatto un genere letterario.

Salvini e Renzi fuoriclasse del paternalismo

L’anno scorso, manco a dirlo, tra i fuoriclasse del paternalismo fuori luogo ci siamo sorbiti Salvini che ammoniva i giovani di voler «stare sul divano a guardare gli Europei» piuttosto che lavorare. Manco a dirlo a ruota si ritrovano ogni volta tutti i liberali che si definiscono liberali ma non sono altro che agenti infiltrati della parte peggiore di Confindustria con una sola semplice regola d’ingaggio: demolire il mondo del lavoro per poter lavorare più selvaggiamente, fottendosene dei diritti. Indimenticabile, va detto, anche Matteo Renzi che giusto un anno fa ci informava che la “sofferenza” è un irrinunciabile elemento di crescita, cultore di un’educazione siberiana in salsa italica che consiste nell’ingagliardirsi facendo per un po’ lo schiavo.

il tormentone dei giovani fannulloni torna puntuale anche quest'anno
Alessandro Borghese (da Facebook).

Quest’anno la stagione l’ha inaugurata Alessandro Borghese

Quest’anno il primo gol lo mette a segno Alessandro Borghese, noto chef e conduttore di diversi programmi televisivi, che intervistato dal Corriere (sempre così appassionato delle analisi sociologiche di gente che fa tutt’altro nella vita) ci racconta l’ultimo tragico evento a cui dover far fronte: «Sa cosa è successo lo scorso weekend?», esordisce il cuoco nella sua intervista, «quattro defezioni tra i ragazzi della brigata, da gestire all’ultimo minuto, e nessuno disposto a sostituire. Così a cucinare siamo rimasti io e il mio braccio destro: 45 anni io, 47 lui». Un episodio che capita a molti tra quelli che lavorano (chiedere a aziende e uffici in questi due anni di pandemia) ma che spinge Borghese a tirare le somme: secondo lo chef i ragazzi «preferiscono tenersi stretto il fine settimana per divertirsi con gli amici. E quando decidono di provarci (a lavorare, nda) lo fanno con l’arroganza di chi si sente arrivato». Così, netto come un taglio di una cipolla, ecco il manifesto della gioventù italica, l’etichetta pronta e servita. Come se non bastasse il cuoco dice che essere pagati è un accessorio a cui si può rinunciare («Sarò impopolare ma non ho alcun problema nel dire che lavorare per imparare non significa essere per forza pagati», spiega al giornalista) e che lui è diventato Borghese perché ha «lavorato sodo» e fatto »sacrifici». Insomma, siamo alle solite: i “vincenti” (incuranti della loro provenienza) chiedono ai “falliti” di inseguire il sogno americano e mettersi proni a servire.

Il mantra è accettare qualsiasi mestiere a qualsiasi stipendio 

Insuperabile, a ruota, la stellata Michelin Viviana Varese, del ristorante Viva di Milano, che spiega di incontrare «gente che ha bisogno di lavorare, ma non ha la voglia né l’umiltà per farlo. E quindi cosa propone la chef? «Proprio per questo», spiega, «sono fermamente convinta che si debba in qualche modo generare fame». Sì ad aiuti statali alle donne e agli over 40. No agli under 35. Ovvero a quella fascia di età, per quel che noto io, senza mordente, senza maturità, senza un obiettivo nella vita perché iper tutelata e accudita in famiglia. Non si tratta di voler punire, ma di cercare di creare una classe lavoratrice strutturata. Il lavoro c’è, bisogna solo avere fame. Se uno non l’ha dentro, allora la si induce». Creare povertà per fare accettare qualsiasi mestiere con qualsiasi stipendio è la strategia di parecchia industria italiana: Viviana Varese ha il coraggio (o l’ingenuità) di dirlo chiaro e tondo.

Borghese e i giovani fannulloni
Il rapporto di Migrantes sugli italiani all’estero rileva che dai 3,1 milioni del 2006 si è passati ai 5,5 milioni attuali.

Quei cervelli in fuga in cerca di qualsiasi lavoro che nessuno vuole vedere

Ora, statene certi, arriveranno a ruota tutti gli altri, ripartiranno anche le cannonate sul Reddito di cittadinanza e sui giovani “mammoni”. Come ogni estate assisteremo alle lagne di imprenditori turistici che accuseranno i giovani di “rovinare la stagione” pronti per essere smentiti dai dati ufficiali come è accaduto l’anno scorso (anche se nessuno dei lamentosi ha avuto modo di chiedere scusa). E nessuno si interroga sui dati Istat del 2019 che dicono che il numero di giovani italiani trasferitisi all’estero in cerca di opportunità è in continuo aumento (+4.5 per cento, 122 mila unità nel 2019), mentre il rapporto di Migrantes sugli italiani all’estero rileva che dai 3,1 milioni del 2006 si è passati ai 5,5 milioni attuali (+76.6 per cento). E la maggior parte di essi è composta da diplomati «in cerca di un qualsiasi lavoro».

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Per l’Onu è la politica il maggior ostacolo alla lotta contro il riscaldamento globale

Il principale ostacolo per affrontare il cambiamento climatico? La politica. Meglio, l’insensibilità e gli interessi trasversali che la politica preferisce mantenere piuttosto che mettere in campo azioni concrete al di là della solita retorica acchiappa voti. C’è scritto nero su bianco nel rapporto del Gruppo intergovernativo delle Nazioni Unite (Ipcc) sui cambiamenti climatici: ben 3mila pagine che contengono l’analisi più completa su ciò che si può fare per scongiurare pericolosi livelli di riscaldamento da quando è stato raggiunto l’Accordo di Parigi sul clima nel 2015. La buona notizia è che molto di ciò che è necessario è in corso.

Lo studio mostra che i prezzi delle alternative verdi ai combustibili fossili non solo sono diminuiti, ma sono precipitati. Tra il 2010 e il 2019, i costi dell’energia solare e delle batterie agli ioni di litio sono diminuiti dell’85%, mentre l’energia eolica è diminuita del 55%. I pannelli solari e le turbine eoliche possono ora competere con la produzione di energia da combustibili fossili in molti luoghi e lo sviluppo delle tecnologie verdi è aumentato vertiginosamente. La cosa più incoraggiante è che la crescita delle emissioni di gas serra è rallentata, da una media annuale del 2,1% all’inizio di questo secolo all’1,3% tra il 2010 e il 2019. Ma questo non è abbastanza. I progressi in alcuni Paesi sono stati controbilanciati dall’aumento vertiginoso delle emissioni altrove. Per avere la possibilità di raggiungere l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media globale entro 1,5 gradi, le emissioni devono raggiungere il picco al più tardi entro il 2025 e diminuire di un 43% senza precedenti entro il 2030. Il problema più grande – si legge nel rapporto – è la politica. Quella stessa politica che con le sue dispute tra i 195 Paesi del Gruppo ha ostacolato la stesura del rapporto. Alcuni Stati dipendono fortemente dai combustibili fossili oppure non hanno risorse da investire nell’energia verde e avrebbero voluto delle conclusioni “più morbide”. La politica che si occupa di come narrare i problemi invece di risolverli. Siamo sempre lì.
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In Russia inizia la repressione del movimento femminista contro la guerra

Il 13 aprile un tribunale di San Pietroburgo ha ordinato la detenzione preventiva, almeno fino all’1 giugno, di Aleksandra Skochilenko, attivista del movimento Resistenza femminista contro la guerra.

Skochilenko, arrestata l’11 aprile, è accusata del nuovo reato di «discredito delle forze armate russe» per avere, il 31 marzo, sostituito i cartellini dei prezzi sugli scaffali di un supermercato con scritte contro la guerra. L’artista avrebbe inoltre lasciato sugli scaffali dei prodotti alcuni pezzetti di carta sull’attacco aereo dello scorso 16 marzo al teatro di Mariupol, violando così la legge contro le fake news imposta da Mosca. Secondo il suo avvocato, a chiamare la polizia era stato un cliente del supermercato. La 31enne non è nuova alle autorità, che anche lo scorso 24 febbraio l’avevano multata per aver preso parte alle proteste in piazza a seguito dell’invasione delle truppe di Putin nel territorio ucraino. A seguito delle sue azioni era stata sanzionata con una multa di 10 mila rubli (110 euro) e aveva trascorso una notte in cella. «Sono stata appena rilasciata», aveva scritto su Instagram, lamentando il trattamento dei secondini. «Ci hanno svegliato continuamente di notte, le celle erano sporche e imbrattate di escrementi, inoltre non avevamo biancheria o coperte».

La Resistenza femminista contro la guerra ha assunto la guida del movimento di protesta in Russia. Il gruppo, costituitosi il 25 febbraio, utilizza volantini e graffiti, distribuisce copie di articoli di portali indipendenti messi al bando dal governo e stampa slogan contro la guerra su banconote e su altri oggetti. Ha aperto un numero telefonico di emergenza per fornire sostegno psicologico alle attiviste e ha istituito la Fondazione contro la guerra, che assiste le persone multate o espulse dalle università per essersi opposte alla guerra.

«La guerra è contraria a tutti gli obiettivi del movimento femminista», ha dichiarato ad Amnesty International Ella Rossman, una delle fondatrici della Resistenza femminista contro la guerra.

Il movimento ha installato 500 croci di legno in 41 città per commemorare le vittime civili della guerra. Almeno 3000 attiviste hanno preso parte ai cosiddetti “picchetti silenziosi”, indossando vestiti che riportavano scritte contro la guerra.

Finora almeno 100 attiviste di Resistenza femminista contro la guerra sono state arrestate, perquisite o minacciate. Il 30 marzo Yevgenia Isaeva, un’artista di San Pietroburgo, è stata multata di 45.000 rubli (circa 500 euro) e in seguito posta in stato di detenzione per otto giorni per “vandalismo” a causa delle sue performances artistiche.

Un’altra artista, Yulia Kaburkina, è stata arrestata il 2 aprile a Cheboksary per «discredito nei confronti delle forze armate russe» per avere, come Aleksandra Skochilenko, tolto i cartellini dei prezzi dagli scaffali di un supermercato sostituendoli con immagini di persone che manifestavano contro la guerra.

Buon venerdì.

Nella foto da Amnesty (Arseny Vesnin / Twitter): Aleksandra Skochilenko

Per approfondimenti sulla Resistenza femminista vedi Left del 18-24 marzo 2022

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SOMMARIO

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Come stiamo messi

Scorrendo solo un po’ di notizie, al di là di quelle terribili sulla guerra. Cosa è accaduto negli ultimi giorni?

Il segretario del Pd Enrico Letta ha scelto Il Foglio (giornale con più bonifici dallo Stato che lettori) per farci dono del suo manifesto politico. L’ha fatto sul giornale dei liberali che sono dalla parte delle libertà delle imprese e intanto mantengono la loro con i sussidi, l’ha fatto sul giornale che nega il cambiamento climatico e che concima l’aporofobia. Il Foglio, per ringraziarlo, il giorno successivo (cioè ieri), ha pubblicato un pubblico elogio del battaglione nazista ucraino Azov.

Quindi, in sostanza, mentre si massacra l’Anpi si normalizzano i nazisti. Lo so, è un copione già visto.

A proposito: ieri Giorgia Meloni ha detto di avere “punti in comune” con Enrico Letta. Avanti così.

Nel frattempo si scopre che con i soldi del Pnrr si costruisce una base militare in un’area protetta. Pd e Lega si sono svegliati e dicono che non sono d’accordo. Troppo tardi. Che sbadataggine curiosa.

Nel frattempo aumentano le spese militari ma chi si oppone è considerato un disertore. Roba già vista, basterebbe studiare un poco:«Tutto quello che c’è da fare è dire alla gente che sta per essere attaccata, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo e perché mettono in pericolo il Paese. Funziona allo stesso modo in ogni Paese», disse il “maresciallo del Reich” Hermann Göring al processo di Norimberga.

In Francia la sinistra di Melenchon viene dipinta come pittoresco populismo. Esattamente come accade da noi.

Stiamo messi così. Buon giovedì.

 

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Per Renzi i “migliori” sono diventati “inutili”

Renzi ci ha ripensato. La riforma Cartabia non gli piace e come al solito decide di comunicarlo con un tweet (a proposito della “politica che non si fa su twitter”) in cui scrive testualmente: «Non voteremo la riforma della giustizia perché non è una riforma. L’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia inutile. Meglio così ma ancora non ci siamo».

Poi con la sua newsletter si spiega più largamente (senza aggiungere molto): «Sulla riforma del Csm – scrive nella sua ultima E-news – siamo gli unici che non voteranno a favore. Lega e Pd, grillini e Forza Italia hanno trovato un compromesso con la riforma Cartabia. Voglio essere molto chiaro: l’azione di Bonafede era dannosa, quella della Cartabia semplicemente inutile. Dunque, un grande passo in avanti. Ma il vero problema dello strapotere delle correnti e del fatto che chi sbaglia non paga mai, con la riforma Cartabia non si risolve. Le correnti continueranno a fare il bello e il cattivo tempo nel Csm. Peccato, una occasione persa. La riforma arriverà, se arriverà, nella prossima legislatura. Questo è un pannicello caldo, anzi tiepido».

Poiché la politica è una cosa seria la sua ministra nel governo, Elena Bonetti, assicura la fiducia al governo. Un capolavoro portato avanti dal deputato di Italia Viva Cosimo Ferri (magistrato sotto procedimento disciplinare per avere brigato le nomine insieme a Palamara) che si correnti nella magistratura ne sa parecchio. E infatti Calenda non le manda a dire e critica la scelta di Renzi che definisce una posizione «sbagliata e anche paradossale», «visto che a prenderla è Cosimo Ferri, una persona di qualità, ma non propriamente estranea alle correnti del Csm e al sistema Palamara. Fate le persone serie. Tutta la magistratura sta cercando di affossare la riforma», dichiara rivolto al leader di Iv.

Del resto quando si fa politica con un occhio ai sondaggi e uno alle amministrative basta poco per smentirsi. Alla fine anche i “migliori” diventano “inutili” nel giro di poco.

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A proposito di sanzioni alla Russia e di aziende italiane

Come va con le sanzioni alla Russia Lo spiega bene l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) che prova a fare chiarezza in mezzo a molta retorica. Partendo dal presupposto che le sanzioni sono una delle vie alternative al conflitto armato, si può registrare che, come spiega Ispi, «dopo 7 settimane di guerra, invece, solo il 19% degli Stati del mondo ha deciso di rispondere all’invasione dell’Ucraina imponendo sanzioni economiche alla Russia. Certo, questi Paesi rappresentano una grande fetta dell’economia mondiale (il 59%), e molti di loro costituiscono partner economici imprescindibili per Mosca. Tuttavia l’assenza di una condanna unanime lascia alla Russia la possibilità di espandere le proprie relazioni commerciali con i Paesi che non hanno aderito alle sanzioni». Quando vi capita di sentire “tutto il mondo condanna” ecco no, le cose non stanno proprio così.

Come si legge nell’articolo di Ispi «in mancanza di sanzioni secondarie (cioè quelle sanzioni che colpirebbero proprio i Paesi che, non sanzionando la Russia, decidessero di fare affari con essa nei settori colpiti da sanzioni altrui), al Cremlino rimane infatti un margine di manovra considerevole, che rappresenta il restante 41% dell’economia mondiale. E così i prodotti russi, pur colpiti, talvolta cambiano semplicemente acquirente. Ad esempio il greggio, che fino all’anno scorso era per circa la metà acquistato dall’Occidente (49% Ue, 3% Stati Uniti), viene oggi almeno parzialmente dirottato verso India e Cina».

E le aziende italiane? Scrive Ispi che «per quanto riguarda la presenza di imprese private estere in Russia, nessun Paese al mondo ha posto divieti stringenti. Un’impresa che lascia la Russia lo fa dunque per motivi politici o morali, e non legali. Malgrado ciò, il clima di indignazione per l’invasione russa ha già spinto quasi 500 imprese straniere a ritirarsi, annunciare il proprio ritiro o a sospendere le proprie operazioni in Russia. Si tratta di circa due terzi (il 63%) del totale delle 773 imprese censite a oggi dalla Yale School of Management. Va tuttavia notato che oltre un terzo di loro ha deciso di rimanere (17%), prendere tempo prima di una decisione (12%) o di ridurre soltanto la propria attività (8%). Inoltre, tra le imprese che hanno preso provvedimenti drastici circa la metà ha solo sospeso la produzione, tenendo dunque un piede in Russia in attesa di tempi migliori per riprendere le stesse attività a oggi messe in standby. Colpisce in particolare la scomposizione geografica delle aziende che decidono di restare. Dal grafico si nota infatti come le imprese cinesi abbiano deciso in tre casi su quattro di rimanere in Russia, magari anche allo scopo di approfittare della dipartita delle imprese occidentali (si pensi per esempio al ritiro di Apple ma alla mancata uscita di Huawei). Dall’altra parte dello spettro ci sono invece le imprese di quei Paesi che più di tutti hanno deciso di mandare un segnale netto a Mosca, come quelle canadesi, britanniche o americane. Sorprende che, in questa classifica “negativa”, la Francia (68%) e l’Italia (64%) si trovino sul podio con percentuali di “non disimpegno” dalla Russia molto vicine a quelle cinesi, e nettamente più elevate rispetto a quelle tedesche (46%)».

Quali sono le imprese? Restano in Russia: Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Delonghi, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group. Stanno prendendo tempo Barilla e Maire Tecnimont. Riducono operazioni Enel, Ferrero, Pirelli. Sospendono l’attività: Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler, Prada. Si ritirano Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo e Yoox.

Buon martedì.

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Embargo Ue al gas russo. No di Calenda per farsi notare. Preso d’assalto sui Social il leader di Azione si barcamena per giustificare il suo voto

Ogni mattina Carlo Calenda si alza dal letto e sa che nella giungla della politica deve trovare un pertugio per farsi notare. Ieri in Plenaria a Strasburgo, mentre si votava per l’embargo immediato al gas russo, il leader di Azione ha pensato bene che l’occasione fosse ghiottissima e così mentre tutti i partiti italiani (Lega, Pd, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Verdi) votavano a favore l’ex ministro leader di Azione ha pensato bene di sedersi di sedersi dalla parte di quei 93 contrari (di fronte a 413 a favore e 46 astensioni) per apparire più realista del re.

Embargo immediato al gas russo, Calenda si barcamena sui Social per giustificare il suo voto

“Ho votato contro per manifesta impossibilità di realizzarlo”, spiega Calenda sui suoi social, indossando come spesso gli accade la maschera del dietino alzato per dare lezioni di politica a tutto il resto del mondo. Certo vederlo dalla parte degli amici di Vladimir Putin (l’ex leghista Francesca Donato, tanto per rendere l’idea, si è limitata ad astenersi) non deve essere stato piacevole per i suoi (ex?) elettori se è vero che in poco tempo si è ritrovato sommerso dalle critiche interne.

A chi gli fa notare che la mozione avesse semplicemente un valore di auspicio, Calenda risponde piccato: “Ma sono giorni che sto spiegando che non è possibile tagliare subito il gas. Sarebbe stato assurdo e incoerente votare un emendamento in senso contrario”.

Avete capito il giochetto logico? Dice Calenda che poiché c’era una parola che non gli tornava (esattamente un “immediatamente” al posto di un “prima possibile”) allora tutto l’emendamento è da buttare via, nonostante sia tra l’altro qualcosa di poco più che simbolico. E poiché al leader di Azione piace moltissimo il ruolo del maestrino comincia a ribattere colpo su colpo sul suo account twitter.

“In questi casi veramente ‘basita F4’ ci sta più che bene! Mah!”, scrive la sua probabile elettrice Valentina. E lui: “Basita è un bel sentimento. Ragionante è anche meglio. Guardati la nostra proposta su come diventare indipendenti sul gas. Il resto sono chiacchiere”. “Calenda, sei ridicolo”, gli fa notare un altro e lui, immediatamente, risponde: “No Gianfranco sei tu che sei un buffone. Quelli del no a tutto che la mattina si svegliano e vogliono tagliare 30 mld di metri cubi di gas senza sapere come sostituirli. Vi meritate Toninelli e compagni”.

Mentre i commenti (non proprio benevoli) si moltiplicano alla fine l’europarlamentare sbotta con un suo elettore che gli fa notare di non avere mai visto nessuno “impegnarsi così tanto per far morire il proprio partito”: “E io non ho mai visto tanti imbecilli – gli scrive Calenda – chiedere qualcosa senza prima leggersi mezzo numero per capire se è possibile e quali sono i costi. Non facciamo politica con la retorica. Anzi siamo nati per fare il contrario. Ma ti rimane un’ampia scelta di fuffa”.

E quando un certo Augusto gli dice che strapperà la tessera di Azione Calenda perde i freni: “Devi farlo Augusto. Io non voto risoluzioni per fare retorica”. Sfinito da un pomeriggio in cui la strategia di farsi notare ha fatto cilecca il leader di Azione rimarca di avere comunque votato la risoluzione finale (e ci mancherebbe) e poi ricorda di avere preparato con una squadra di “esperti” un piano per rinunciare al gas russo. Ed è a questo punto che si svela l’arcano: semplicemente ancora una volta Calenda avrebbe voluto votare per se stesso.

(scritto per La Notizia)

Francesca Donato nega la strage di Bucha per ottenere visibilità

A settembre dell’anno scorso l’eurodeputata Francesca Donato ha lasciato la Lega di Salvini dicendo di non potere «più stare in un partito che sostiene il governo Draghi»: «c’è una prevalenza della linea dei presidenti di Regione e dei ministri, capeggiati da Giorgetti, a favore delle scelte del governo Draghi», disse nel suo messaggio d’addio promettendo di diventare «punto di riferimento di tutti i no vax». Eppure Donato, eletta a Strasburgo nel 2019 alla sua seconda candidatura) non è certo famosa per la sua attività politica ma per le sue posizioni (espresse preferibilmente nel talk televisivi sempre alla ricerca di “fenomeni” da dare in pasto al pubblico) spesso al limite del buongusto.

Francesca Donato nega la strage di Bucha per ottenere visibilità

Per questo non stupisce che ieri in Aula abbia deciso di accarezzare come suo solito i negazionisti e complottisti mettendo in dubbio la veridicità della strage di Bucha sulla falsariga di quelli che in questi giorni hanno l’orribile sfrontatezza di parlare di una messinscena, persino cinematografica, accarezzando la propaganda russa. «Sulla veridicità dei fatti di Bucha riferiti dal governo ucraino – ha detto Donato – ci sono ancora molti dubbi. Oggi sento proporre addirittura un embargo totale del gas russo, nei fatti assolutamente insostenibile per la nostra economia, sulla base dei fatti di Bucha riferiti dal governo ucraino». Le parole di Donato hanno provocato la dura reazione dell’esponente del Pd Pina Picierno, per l’occasione presidente di turno del Parlamento europeo. «Il massacro di Bucha è sotto gli occhi di tutti e noi non possiamo accettare che venga messo in discussione. Quest’aula non è equidistante: c’è un aggressore, che è Putin, e c’è un aggredito, che sono i cittadini ucraini, che quest’aula e le sue istituzioni difendono».

Donato, come spesso accade ai negazionisti che vigliaccamente poi ritirano la mano, si è corretta dicendo di avere richiesto “un’inchiesta indipendente”, per provare a normalizzare.

Ma Francesca Donato è solo uno dei tanti sottoprodotti della politica diventata spettacolo in cui essere contro a prescindere, perfino negando la realtà, è la via più facile per non doversi prendere la briga di esprimere delle idee, limitandosi semplicemente ad andare contro corrente. Francesca Donato è una dei tanti che si preoccupa di “distinguersi dalla massa” senza voler assumere una posizione perché la si ritiene giusta ma semplicemente per il gusto di “distinguersi” ma in bassezza, mica una altezza. 

Franesca Donato ha cavalcato i complotti no-vax

Forse conviene ricordare che Francesca Donato è la stessa che ha cavalcato l’onda della pandemia (sulla pelle dei malati, dei morti e delle loro famiglie) insinuando che i vaccini uccidano più del Covid («secondo i dati del min. della salute Israeliano, i morti dopo il vaccino sono 40 volte maggiori di quelli che sarebbero morti da Covid (e loro usano Pfizer, quello buono» ritwittava allegramente sul suo profilo) e che a gennaio dell’anno scorso era arrivata a consigliare alle persone malate di Covid-19 di rivolgersi non al medico ma al sito ippocrateorg.org, riconducibile a Mauro Rango. Come ricostruito dai colleghi di Facta, Rango non ha alcuna qualifica medico-scientifica e le informazioni che diffonde si sono dimostrate in diversi casi non attendibili. Sul suo profilo Facebook Donato ha poi di diffuso diverse informazioni errate a proposito delle cure domiciliari e dell’idrossiclorochina, nonché dell’inutilità dei lockdown e delle misure restrittive secondo uno studio di Science (che in realtà aveva completamente frainteso, nella migliore delle ipotesi). Si è spinta perfino a scrivere: «poi quando sarà confermata la tesi ‘complottista’ per cui nei sieri obbligatori ci sono nanotecnologie che servono a raccogliere i nostri dati biometrici (e forse a condizionarli) tutti diranno ‘non ne avevamo idea!’».

A Donato (così come ai negazionisti che usano il complotto per ottenere un lembo di popolarità) della guerra, del Covid, della Russia e di qualsiasi altra cosa non interessa nulla. Donato, come gli altri, ha semplicemente bisogno di credere che su ogni tema “un complotto mondiale segreto” (che lei smaschera semplicemente andando su YouTube) governi il mondo per rivendersi come l’unica credibile. Ed è un doppio danno: per la credibilità della politica e per il dibattito sulla complessità che gente come Donato pialla per qualche voto e qualche clic in più.

(scritto per La Notizia)

Ucraina: colpire l’ANPI per educarne cento.

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La strategia è fin troppo prevedibile: dividere il mondo in buoni e cattivi, bianchi o neri e poi apparecchiare il discredito e la delegittimazione di chiunque non la pensi come loro. Roba vecchia, vecchissima, perfino noiosamente scontata se non fosse che i cantori del PUB (il Partito Unico Bellicista) sono rumorosissimi, nonostante i loro partiti prendano voti da prefisso telefonico e i loro giornali respirino appesi al finanziamento pubblico. 

Se la prendono con l’ANPI per attaccare chi chiede la pace

La vittima sacrificale in tempi di guerra è stata, fin dall’inizio, l’ANPI, quell’associazione così scomoda che a qualcuno tempo fa ha rovinato il referendum della carriera e che a qualcun altro ricorda tutti i giorni che no, che il fascismo (anche quello travestito da moderato) non è passato e non è mediabile. Con l’invasione dell’Ucraina l’ANPI è finita subito nel mirino: quando all’inizio del conflitto il presidente Pagliarulo si è permesso di dire di essere contro la guerra, qualsiasi guerra, i cantori del PUB l’hanno accusato di essere “equidistante”, hanno cianciato di nuova Resistenza (questi che la Resistenza non l’hanno nemmeno studiata) e qualcuno, come il quotidiano Il Tempo, ha avuto il coraggio di titolare a piena pagina “I partigiani dell’ANPI abbracciano Putin: legittime le bombe sull’Ucraina “. Tutto falso, ovviamente. Solo che attaccare l’ANPI era ed è il modo più immediato per attaccare chi si ostina a ripetere che nelle guerre accade sempre così: le decidono i potenti del mondo, ci guadagnano quelli già ricchi e ci mandano a morire i figli dei poveracci e i civili. 

Chi chiede la pace viene trattato come “amico di Putin”

Poi accade l’ANPI scriva un comunicato, dopo l’orrore della strage di Bucha, in cui chiede “una commissione per appurare le responsabilità” e un secondo dopo parte l’isteria. Non è un acceso contraddittorio, badate bene, è una vera e propria isteria che bersaglia chi ha opinioni appena discordanti o addirittura chi si suppone le abbia. Qui siamo tutti d’accordo che i russi (ma, ad esempio,  chi, su ordine di chi?) abbiano compiuto una strage ma se non si scrive che Putin dovrà morire giustiziato con un colpo alla nuca dopo essere stato torturato si diventa subito collaborazionisti. Siamo in mezzo a gente che crede di saperne di guerra dimenticandosi che non si vince con l’odio di Facebook: ci deve essere un’indagine, un processo e una condanna e una determinazione della pena, anche per il peggior criminale colto in flagranza di reato. Mica per niente il segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, ha detto esattamente la stessa cosa affermando che «è essenziale che un’indagine indipendente porti a una responsabilità effettiva» dopo la strage di Bucha. Mica per niente Amnesty international chiede un’indagine «su quelli che appaiono crimini di guerra commessi dalle forze russe contro i civili nella città ucraina di Bucha». Ma l’obiettivo è screditare l’ANPI per screditare tutti coloro che non ci stanno ad usare le vittime per aggiungere odio all’odio e quindi si gioca a mettere nello stesso cassetto gli svalvolati complottisti a chi non crede nella guerra. Si mostrano i morti non per instillare nell’opinione pubblica un desiderio di mediazione, umanità e pace ma per sdoganare il diritto alla vendetta violenta. In tutto questo ci guadagnano quelli che stanno sotto le bombe o quelli che le vedono? La risposta è facile facile.

(il mio pezzo per La Notizia)