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“Il social media manager non può avere tutta la colpa”. L’Associazione di categoria contesta Sangiuliano: “Il post sulle dimissioni? Una gogna”

Lui scherzando dice di essere conosciuto solo come “il social media manager di Taffo”, l’azienda di servizi funebri diventata celebre sui social grazie alla sua comunicazione dissacrante, ma Riccardo Pirrone è molte cose, tra cui il presidente dell’Associazione Nazionale Social Media Manager. Proprio in quella veste ieri è intervenuto sulla comunicazione del ministro alla Cultura Sangiuliano che annunciava le dimissioni del suo social media manager per il marchiano errore dei 2.500 anni di Napoli che sono diventati 2 secoli e mezzo.

Pirrone, è ancora arrabbiato con il ministro?

Come presidente dell’Ansmm registra che ogni volta che succede qualcosa dalle parti di un ministro o personaggi pubblici o vip o aziende la colpa finisce sempre sul social media manager che ha pubblicato. Ma quello che molte persone non sanno è che la pubblicazione del post è solo l’ultima azione di una serie di procedure che vengono fatte in concerto con altre persone. Mi auguro che un ministero abbia diversi livelli di approvazione quando vengono pubblicati post sul suo canale ufficiale. Ad esempio il social media manager non è un grafico e quindi ci sarà stato un grafico che ha creato la card, ci sarà un piano editoriale che decide cosa pubblicare, un autore, un copy. Solo alla fine il social media manager pubblica, modera i commenti.

Quindi non è andata come l’ha raccontata il ministro che ha parlato di un errore “evidentemente” del social media manager?

Io dubito che il social media manager abbia un’autonomia tale da pubblicare un post senza che nessuno lo approvi. Funziona così in tutte le aziende. Anzi, ci sono diversi livelli di controllo. Al ministero l’approvazione non può essere solo di una persona.

Quindi non è d’accordo con le dimissioni?

A prescindere da tutto l’errore che è stato fatto è una svista, non può avere come conseguenza un licenziamento o le dimissioni. Le motivazioni spero siano altre: mi sembra strano che si arrivi a tanto. Detto questo aggiungerei una domanda: come è stato selezionato il social media manager? Sicuramente è una persona affine al mondo di questa parte politica. Come è stato selezionato? È un professionista Ha un curriculum con tutte le esperienze e le professionalità che servono? Dico questo perché spesso il social media manager non è considerato un professionista ma come uno che basta che pubblichi. Invece il social media manager studia comunicazione, fa corsi di aggiornamento, verifica le fonti. Se un social media manager ha questa expertise ok. Qual è stata la selezione?

Ora come Ansmm come vi muoverete?

Innanzitutto dobbiamo capire se è un professionista del social media management oppure no. Questo gioco delle parti danneggia il nostro lavoro in generale, questo io voglio difendere. Non voglio sindacare se quello è un bravo ministro oppure no ma la comunicazione che è stata fatta poteva risparmiarsela. Non ho mai visto pubblicare sui social le dimissioni di un dipendente. Non ha senso. Perché metterlo alla gogna

Ricorda un po’ quelle vecchie storie del “mi hanno hackerato l’account”…

Prima dell’avvento dei social era colpa dello stagista. In realtà sono scuse che non reggono. Chi lavora in questo settore sa come funziona. Sicuramente tutte le istituzioni non hanno compreso il potere e la responsabilità dietro un account social, parlo anche di sindaci. Servono una serie di pratiche dettate dalla professionalità e dall’esperienza. Il problema è anche la generazione, sono persone mature e quindi non hanno tutti una dimestichezza veloce. Per questo il social media manager non può farlo il cugino o l’amico, ma persone che hanno studiato per questo.

Eppure abbiamo avuto social media manager ritenuti quasi “magici” come Morisi…

Non è cambiato nulla rispetto alla pubblicità tradizionale. Prima i pubblicitari erano nascosti dietro al brand, qualcuno usciva allo scoperto come Oliviero Toscani perché faceva cose avanguardistiche. La vera star nel mondo politico è il candidato, il partito, che ha le stesse regole di un brand, con loghi, comunicazione e strutture molto similari a quella di un’azienda. Solo che la comunicazione politica non dovrebbe fare profitto, al contrario dell’azienda.

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Pnrr, tra crescita e illusione: l’Ufficio parlamentare di bilancio ridimensiona le previsioni del governo

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza, il famoso Pnrr, continua a essere al centro del dibattito politico ed economico italiano. Ma quanto realmente inciderà sulla crescita del nostro Paese? Le stime del governo contenute nel Documento di economia e finanza (Def) sono state recentemente messe in discussione dall’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), l’organismo indipendente che vigila sui conti pubblici.

Come riporta un’analisi di Pagella Politica, l’Upb ha pubblicato il 1° agosto una nota sulla congiuntura economica contenente una valutazione aggiornata dell’impatto del Pnrr sull’economia italiana. Le cifre presentate dall’Upb dipingono un quadro meno roseo rispetto a quello tracciato dal governo Meloni nel Def dello scorso aprile.

L’analisi dell’Ufficio parlamentare di bilancio: stime più caute

Secondo l’Upb, nei primi tre anni di attuazione del piano (2021-2023) “gli impatti del Pnrr sull’economia italiana sono moderati”, contribuendo per “un paio di decimi di punto percentuale in media sulla crescita annua”. In altre parole, in ciascuno di questi tre anni il Pnrr avrebbe contribuito alla crescita con uno 0,2% in media.

Le cose dovrebbero migliorare nei successivi tre anni (2024-2026), quando “gli impatti medi sulla variazione annuale si rafforzano, tra i sette e gli otto decimi di punto”. L’Upb stima che nel 2026, ultimo anno di attuazione del piano, “l’effetto complessivo sul livello del Pil sarebbe maggiore del 2,9 per cento rispetto allo scenario di base, ossia al livello del Pil che si sarebbe realizzato in assenza del piano”.

Queste stime sono decisamente più caute rispetto a quelle contenute nel Def del governo. Il documento governativo, infatti, prevede che nel 2026 il Pil italiano sarà più alto del 3,4% grazie al Pnrr. Una differenza apparentemente piccola, ma che in termini assoluti si traduce in miliardi di euro.

Ma non è solo questa discrepanza a destare attenzione. Il Def stima un contributo crescente del Pnrr alla crescita del Pil: dallo 0,2% del 2021 si passa allo 0,1% del 2022, per poi salire allo 0,4% nel 2023, allo 0,9% nel 2024, all’1% nel 2025 e allo 0,8% nel 2026.

Particolarmente ottimistica appare la previsione per il 2024: secondo il Def, il 90% della crescita prevista per quest’anno (stimata all’1%) dipenderebbe dalla corretta attuazione del Piano. Un’affermazione che sembra quasi una scommessa, considerando che, come riporta Pagella Politica, “dal 1° gennaio al 17 luglio 2024 sono stati spesi meno di 10 miliardi di euro del Pnrr: entro fine anno ne vanno spesi altri 33 miliardi”.

Le stime del governo non si fermano qui. Nel Def si legge anche che “l’effetto delle riforme possa generare un incremento del Pil del 5,6 per cento al 2030 e di circa il 10 per cento nel lungo termine”. Numeri che hanno fatto alzare più di un sopracciglio tra gli esperti.

Differenze tra le previsioni del governo e dell’Upb

Gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti, nel loro libro “Pnrr: La grande abbuffata”, definiscono questi effetti stimati “semplicemente pazzeschi”. Secondo i due studiosi, l’operazione di stima fatta dal ministero è un’”impresa di per sé eroica, perché non conosciamo metodologie attendibili per stimare gli effetti di tali riforme, e l’incertezza statistica è ancora maggiore che nel caso degli investimenti”.

Boeri e Perotti sottolineano come, seguendo le tabelle del Def, “nel 2026 queste riforme porterebbero a un Pil più alto di 70 miliardi, e nel ‘lungo periodo’ (oltre il 2030) di altri… 200 miliardi all’anno (!)”. Se a questa cifra si aggiungono i benefici generati dagli investimenti del Pnrr, si raggiunge un valore che i due economisti definiscono “poco credibile”.

In questo scenario di stime contrastanti e previsioni ardite, l’analisi dell’Upb sembra offrire un approccio più cauto e realistico. Resta da vedere se il governo sarà in grado di raggiungere anche solo gli obiettivi più modesti delineati dall’Ufficio parlamentare di bilancio, considerando i ritardi e le difficoltà che già si stanno manifestando nell’attuazione del Piano. Continuare a ripetere che tutto va bene non basterà.

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Sangiuliano punitore solo degli altri

Mercoledì, sui social del ministro della cultura (!) Gennaro Sangiuliano, è comparsa una card in cui si comunicava che “il Consiglio dei ministri vara il comitato per celebrare 2 secoli e mezzo di Napoli”. Peccato che Napoli di anni ne abbia almeno 2500.

Fin qui tutto malinconicamente normale. Che i membri di questo Governo siano più propensi a riscrivere la storia più che studiarla è cosa nota. Sangiuliano tra i ministri comunque spicca per l’ossessiva ripetitività dei suoi scivoloni.

A stretto giro di posta il ministro impugna il telefono e scrive sui suoi social: “L’errore sul profilo Instagram relativo alla nascita del Comitato nazionale “Neapolis 2500” evidentemente è del mio social media manager. Per questo ho accettato le sue dimissioni”.

Qualche osservazione. Per Sangiuliano è “evidente” che l’errore non sia suo, come se non fosse uno sconclusionato ministro avvezzo alla gaffe. A pagare è stato Michele Bertocchi, social media manager e autore televisivo in Rai.

Al di là del fatto che il ministro avrebbe dovuto già da tempo costringere alle dimissioni colui che ha sbagliato le date su Cristoforo Colombo, quello che ha confuso l’ubicazione di Time Square e colui che è stato giurato per il Premio Strega senza leggerne i libri (quindi sé stesso), registriamo che il ministro intende il proprio ruolo come quello del “punitore” dei suoi sottoposti.

“Non è possibile che ogni volta che c’è un problema sia sempre e solo colpa dei SMM e questa volta addirittura vengono accettate delle dimissioni dovute ad un errore del genere. IL SOCIAL MEDIA MANAGER È UN PROFESSIONISTA e come tale deve essere trattato”, scrive Riccardo Pirrone, presidente dell’Associazione nazionale SMM.

Buon giovedì.

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Il Piano Mattei affonda insieme ai migranti

Il portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni Flavio di Giacomo ha rilanciato la testimonianza di un migrante sbarcato sabato scorso a Lampedusa da una barca che l’aveva soccorso in mare. Secondo il racconto del sopravvissuto una barca con 45 persone, tra cui donne e bambini, partita il 30 luglio dalla Tunisia verso l’Italia sarebbe naufragata.

Il Piano Mattei affonda insieme ai migranti. Sull’ultimo naufragio è calato il silenzio

Negli ultimi sette giorni nel mar Mediterraneo sono morti 97 migranti, dice l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim). “Si parla molto di sbarchi in calo, ma in realtà l’emergenza non era numerica neanche nel 2023. La vera emergenza, che continua anche adesso, è umanitaria: sono 1.021 le vittime dall’inizio dell’anno”, ha scritto il portavoce di Giacomo. La differenza rispetto agli anni scorsi è nell’abile nascondimento dei morti da parte del governo, che snocciola spesso i numeri che dimostrerebbero la diminuzione degli sbarchi.

Nel cruscotto del ministero continuano a mancare però le vittime, mai conteggiate a meno che non sporchino le spiagge italiane e disturbino la quiete balneare. Del naufragio avvenuto nei giorni scorsi non se ne sa nulla, non si dice nulla, non si domanda nulla. Nessun chiarimento sulla responsabilità, nessuna indagine sulle cause e sulle vittime. La normalizzazione degli annegati è un elemento fondamentale per il buon funzionamento della strategia di respingimenti illegali, come dimostra l’amica Tunisia si sta distinguendo per avere imparato in fretta come essere un buon trampolino di lancio verso il fondo del mare. Così mentre il cosiddetto Piano Mattei vola nella propaganda questi altri affondano.

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Nuovi reati per disperati

“Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”. La frase attribuita a Voltaire torna utile, se le carceri sono la cartina di tornasole della politica di un governo allora mettiamoci il naso dentro.

Qualche giorno fa a Biella si è impiccato un detenuto di 55 anni. È il sessantunesimo suicidio nei primi sette mesi del 2024, almeno ventuno casi in più rispetto all’anno scorso. Il Decreto Caivano ha trasformato il carcere in ricettacolo di malessere minorile. Che fa il governo? Nei 28 articoli del ddl Sicurezza prevede 13 nuove fattispecie di reato oltre a nuove aggravanti. Per risolvere le rivolte in carcere non si pensa a detenzioni più dignitose ma ci si inventa il reato di “rivolta in carcere”. Fino a 5 anni, diventa reato anche la “resistenza passiva”.

Gandhi qui da noi sarebbe un criminale. All’articolo 19 il reato di “rivolta” si estende anche ai minori stranieri non accompagnati e ai rifugiati titolari di protezione internazionale. C’è un piccolo particolare: per la legge quelli non sono detenuti, come ha fatto notare la capogruppo M5S in commissione giustizia, D’Orso. Reclusione fino a un mese per il blocco stradale o ferroviario commesso da un singolo e da 6 mesi a 2 anni se il reato viene commesso da più persone riunite (aggravato se consumato nelle stazioni o nelle loro vicinanze).

Reato anche l’occupazione abusiva. Notate il tratto comune: tutti i nuovi reati sono solo per i poveri e i disperati. Per i “politici incensurati” invece “niente misure cautelari per i politici incensurati”. La proposta di Azione piace anche alla maggioranza.

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M5S: le accuse degli ex parlamentari pro Grillo a Conte: “Vuole trasformare i 5S in un clone del Pd”. La replica di Todde e Gubitosa

“Il tracollo del Movimento è colpa di Conte”. Mentre in casa Movimento 5 stelle Giuseppe Conte lavora per l’assemblea costituente fissata al 4 ottobre (stessa data della fondazione) undici ex parlamentari pentastellati scrivono una lettera aperta e mettono nel mirino il presidente del partito: “Si prenda le sue responsabilità”. 

La lettera aperta degli ex parlamentari

L’idea di Conte – un appuntamento per riunire e rilanciare il M5s dopo il deludente risultato europeo – aveva già creato frizione con il garante Beppe Grillo che aveva denunciato tra i 5 stelle “anche e soprattutto una crisi di identità”, lamentando il fatto di non essere stato informato della proclamazione di un’assemblea. 

A stretto giro di posta Conte aveva risposto assicurando che il garante sarebbe stato “il benvenuto” ma dicendosi indisponibile a “discutere preventivamente i temi da sottoporre all’assemblea costituente” con il fondatore. “Stiamo andando oltre la democrazia diretta – ha detto Conte ieri sera ai giornalisti -. Stiamo realizzando un percorso che prevede un confronto ampio, partecipato e discussioni approfondite” che si concluderà “con un voto degli iscritti”. 

La lettera di oggi prende invece le parti di Grillo. Firmata dagli storici Nicola Morra, Alessio Villarosa e da Rosa Silvana Abate, Ehm Yana Chiara, Jessica Costanzo, Emanuele Dessì, Elio Lannutti, Michele Sodano, Simona Suriano, Raffaele Trano, Andrea Vallasca accusa Conte di “ingratitudine” che “è una mescolanza di egoismo, orgoglio e stupidità”. 

“Solo per contribuire a ripristinare la verità storica, fattuale e poi anche politica – scrivono -, interveniamo in merito alle evidenti divergenze tra Giuseppe Conte e Beppe Grillo, il fondatore del M5S, assieme a Gianroberto Casaleggio, il visionario mite e determinato, purtroppo scomparso prematuramente, ai quali molti ‘smemorati di Collegno’, senza arte né parte, dovrebbero dimostrare rispetto e gratitudine”.

Per gli undici la “lettera di Conte in risposta a Grillo ha profondamente colpito molti di noi per i modi, oltre che per il contenuto” poiché “l’idea di un’assemblea costituente per rimettere in carreggiata il fu movimento ora partito riecheggia le pratiche dei vecchi partiti che si volevano pensionare”. 

“È questo il destino del M5s?  – scrivono gli ex parlamentari – Trasformarsi in un clone del Pd?”, si legge nella missiva, e ripercorrendo i momenti che portarono al governo Draghi, e le resistenze di molti nel partito, ricordano le parole di Conte nel dare la fiducia a Draghi, e chiedono che “ognuno si prenda le proprie responsabilità”.

Le tensioni interne nel Movimento 5 Stelle

E ancora: “Oggi chi si scusa con gli iscritti, si dimentica di alcuni, gli espulsi, che hanno pagato un conto durissimo per aver mantenuto fede ai principi ed esclusi perché scomodamente eretici. Le scuse tardive non cancellano le responsabilità”. L’attacco a Conte è frontale: “Come può un leader che ha guidato il Movimento dal 32,7% al 9,99% non assumersi minimamente la colpa di questo tracollo?”, si chiedono nella lettera. Infine gli undici riconoscono che Grillo ha “sicuramente commesso errori, ma ha dato l’anima per far nascere l’unica vera innovazione. Scaricare tutta la colpa delle difficoltà del fu movimento su Grillo è assolutamente scorretto”. 

Nessun commento dell’ex premier mentre la presidente della Regione Sardegna Alessandra Todde ha parlato di “dichiarazioni rilasciate da chi non ha più nessun ruolo e nessun peso all’interno del M5s”. Per Todde chi discute Conte “non è più iscritto e i commenti esterni dei soliti nomi lasciano il tempo che trovano”. Poi, la stoccata del vicepresidente Michele Gubitosa: “Fronda interna Piuttosto la definirei fronda esterna, visto che parliamo di tutti ex eletti
del M5s”. Intanto in Senato Antonio Trevisi lascia il Movimento per approdare in Forza Italia.

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Elezioni Usa, il ritorno del Midwest: come Walz può ribaltare le sorti dei democratici

Tim Walz, governatore del Minnesota scelto da Kamala Harris come suo vice nella corsa alla Casa Bianca, incarna una figura politica in grado di far dialogare l’anima progressista del Partito Democratico con l’elettorato moderato e rurale che negli ultimi anni si è allontanato dalla sinistra americana. 

Un progressista con radici rurali

Sessantenne dalla folta chioma bianca, Walz porta in dote un’esperienza variegata: ex insegnante di storia, allenatore di football, veterano della Guardia Nazionale e rappresentante al Congresso di un distretto conservatore del Minnesota rurale. Un curriculum che sembra ritagliato su misura per ricucire lo strappo tra i democratici e quell’America profonda che guarda con diffidenza all’establishment di Washington.

Politiche progressiste in azione

Ma attenzione a liquidarlo come un semplice centrista. Walz si definisce orgogliosamente “progressista” e il suo operato da governatore del Minnesota lo conferma. Ha firmato leggi che garantiscono pasti gratuiti nelle scuole, tutelano il diritto all’aborto, espandono i congedi retribuiti e legalizzano la marijuana per uso ricreativo. Ha ampliato le tutele per la comunità LGBTQ+ e reso gratuito l’accesso all’università per le fasce più povere. Insomma, un’agenda decisamente di sinistra che però Walz ha saputo comunicare con un linguaggio semplice e diretto, lontano dalla retorica spesso astrusa dei liberal dei grandi centri urbani.

Sul fronte economico, Walz si è fatto promotore di politiche fiscali fortemente progressiste. Ha firmato un pacchetto da 3 miliardi di dollari che include un generoso credito d’imposta per i figli, espande i crediti per le spese scolastiche e l’assistenza all’infanzia, e taglia le tasse per i pensionati. Per finanziare questi tagli, ha introdotto una nuova tassa globale sulle multinazionali. Un approccio che ricorda da vicino la “Bidenomics“, con il suo focus sulla classe media e sui lavoratori.

In materia di lavoro, Walz ha mostrato una particolare attenzione ai diritti sindacali. Ha vietato gli accordi di non concorrenza che limitano la mobilità dei lavoratori, ha proibito ai datori di lavoro di penalizzare chi non partecipa a riunioni antisindacali, e ha di fatto aumentato il salario minimo per i dipendenti delle piccole imprese. Non a caso, l’anno scorso si è unito al picchetto del sindacato United Auto Workers durante la vertenza con le case automobilistiche.

Sulla sanità, Walz si è distinto per la difesa strenua del diritto all’aborto, codificandolo nella legge statale nel 2023. Ha anche firmato una legge che vieta ai fornitori di assistenza sanitaria di negare cure necessarie a causa di debiti non pagati e proibisce l’utilizzo dei debiti medici per influenzare il punteggio di credito. Un approccio che si allinea perfettamente con la battaglia di Kamala Harris contro i cosiddetti “junk fees” nel settore sanitario.

In tema di ambiente ed energia, Walz ha firmato una legge che impone il 100% di elettricità pulita nello stato entro il 2040, accompagnata da una riforma complessiva dei permessi energetici e da incentivi per i veicoli elettrici. Ha anche sostenuto il bando delle sostanze chimiche PFAS, note come “inquinanti eterni”. Tuttavia, ha mantenuto una posizione equilibrata sull’industria mineraria, sostenendo l’estrazione di ferro ma mostrandosi cauto su progetti più controversi come l’estrazione di rame vicino ad aree protette.

Sull’istruzione, Walz ha aumentato la spesa per l’educazione K-12 di 2,2 miliardi di dollari e ha introdotto un programma di aiuti finanziari che copre le tasse universitarie per le famiglie con reddito inferiore a 80.000 dollari annui. Un approccio che mira a rendere l’istruzione superiore accessibile a tutti, in linea con le proposte più progressiste del Partito Democratico.

In politica estera, Walz ha sempre votato a favore degli aiuti a Israele, condannando duramente gli attacchi del 7 ottobre. Tuttavia, ha anche mostrato apertura verso le critiche alla gestione del conflitto a Gaza, invitando ad ascoltare le preoccupazioni di chi chiede una riduzione del sostegno americano alle operazioni militari israeliane.

Un candidato per tutti gli americani

Il punto di forza di Walz sembra essere la sua capacità di coniugare posizioni progressiste con un linguaggio e un’immagine che possono risultare familiari anche all’elettorato più moderato e conservatore. La sua esperienza militare, la passione per la caccia e il background rurale gli conferiscono una credibilità che potrebbe rivelarsi preziosa per riconquistare quegli stati del Midwest che nel 2016 furono determinanti per la vittoria di Trump.

Certo, la scelta di Walz non è esente da critiche. I repubblicani lo dipingono già come un pericoloso estremista di sinistra, riesumando la sua gestione controversa delle proteste seguite all’omicidio di George Floyd nel 2020. D’altro canto, alcuni settori della sinistra dem lo considerano troppo moderato su temi come l’immigrazione e il controllo delle armi.

In un’America sempre più polarizzata, la sua figura di progressista pragmatico potrebbe rappresentare la sintesi necessaria per ricompattare l’elettorato democratico e al contempo erodere il consenso repubblicano nelle aree rurali. Una scommessa rischiosa, certo, ma che Kamala Harris ha deciso di giocarsi fino in fondo. “Certo sono un mostro. Bambini con la pancia piena così possono imparare e donne che prendono le loro decisioni sulla propria salute”, ha detto Walz in un confronto televisivo. Di sicuro la sua mostrificazione sarà il prossimo passo di Trump e seguaci. 

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Così gli italiani possono andare in vacanza tranquilli

Tra le proposte che oggi saranno sul tavolo del Consiglio dei ministri guidato da Giorgia Meloni c’è l’innalzamento da 100 mila a 200 mila euro per usufruire dell’imposta sostitutiva sui redditi delle persone fisiche calcolata in via forfettaria per chi trasferisce la propria residenza fiscale in Italia. 

Una flat tax per i ricchi stranieri che rende l’Italia un paradiso fiscale per attrarre soldi nella speranza che investano soldi qui da noi. La norma non è una novità. Fu pensata nel 2016 dal governo Renzi e a oggi ha portato ben pochi risultati. 

In cinque anni sono stati 1.136 i “ricchi” che hanno deciso di trasferirsi in Italia sfruttando i maxi sconti fiscali, con il giocatore Cristiano Ronaldo in testa. Nel 2022, ultimo anno con dati disponibili, gli 818 contribuenti principali con i loro 318 famigliari hanno prodotto la miseria di 89,8 milioni di euro di entrate. 

Il risultato tangibile invece sono i rilievi mossi dall’Eu Tax Observatory che nel suo Rapporto sull’evasione fiscale globale ha definito questo regime fiscale preferenziale il più dannoso tra quelli adottati nell’intera Unione europea. 

A ruota ci sono le critiche della Corte dei conti contro la mancata trasparenza della misura tant’è che l’Agenzia delle entrate “non conosce né l’ammontare dei redditi esteri sui quali agisce l’imposta sostitutiva, né le imposte ordinarie che sarebbero state effettivamente prelevate su tali redditi in assenza del regime sostitutivo”. 

Dalle parti del governo hanno pensato che fosse una buona idea, vista la situazione, innalzare il privilegio. Così gli italiani possono andare in vacanza tranquilli. 

Buon mercoledì. 

foto:Дмитрий

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Difendersi dai processi anziché nei processi

Le cronache romane ci restituiscono il presidente dimissionario della Regione Liguria Giovanni Toti abbronzato e in tour negli uffici politici romani per apparecchiare il suo successore. Le gravi accuse che gli vengono mosse dalla Procura di Genova (corruzione e finanziamento illecito ai partiti) non hanno meritato una sola riga dei dibattiti e delle cronache.

Le cronache romane ci restituiscono il presidente dimissionario della Regione Liguria Giovanni Toti abbronzato e in tour negli uffici politici romani

Toti ha visitato il viceministro delle Infrastrutture e dei Trasporti per valutare una sua eventuale candidatura come successore. “Edoardo Rixi? Lo stimo – dice Toti – bisogna vedere se è disponibile e può fare campagna”. Toti ora è un “semplice cittadino”, dicono i suoi compagni di partito di centrodestra. Il garantismo peloso del resto è esattamente questo: utilizzare la leva della presunzione di innocenza sancita dalla Costituzione per sfuggire alle questioni di responsabilità.

Al di là dell’aspetto giudiziario e del processo che verrà quanto è opportuno che un ex presidente di Regione accusato di essere a capo di un sistema di potere corruttivo vada in cerca di un successore del suo potere? Giovanni Toti ha il diritto di difendersi e la Liguria pure. Toti ieri ha rilanciato anche l’idea dello scudo per gli amministratori. “Uno scudo serve, non solo per parlamentari e ministri, surreale che uno come Matteo Salvini finisca a processo”, ha detto ai giornalisti.

“Uno scudo come Capitan America – ha aggiunto -, bisogna allargare le immunità, più protezione non è necessaria solo per me ma anche per sindaci e amministratori”. La Liguria ha il diritto di difendersi da un politico che ha già cominciato a difendersi dai processi piuttosto che nei processi. Questione di opportunità, non di garantismo.

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Campo largo tra Renzi e Calenda

Una tipica giornata di abboccamenti tra il centrosinistra e il fu cosiddetto Terzo polo. Un riassunto già pronto delle prossime puntate: Renzi sconfessa sé stesso, Calenda attacca Renzi, entrambi insegnano al Partito democratico come dovrebbe fare il Partito democratico e fingono che il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi sinistra non siano mai esistite. 

La canicola estiva e il Parlamento che allaccia le valigie per le ferie lasciano spazio alla tragicomica marcia di avvicinamento di Italia viva e Azione verso il cosiddetto campo largo quasi sbrindellato. 

La mattinata si apre con un’intervista a Matteo Renzi nientepopodimeno che al Corriere della sera. Dall’alto della sua discutibile rilevanza politica  certificata dai risultati delle ultime elezioni europee il leader di Italia viva consegna le tavole dei suoi comandamenti all’opposizione. “Si può vincere solo con un contratto alla tedesca in cui si scriva prima, argomento per argomento, cosa vogliamo fare e cosa no”, dice Renzi, ansioso di dettare le regole in una coalizione che ancora non gli ha aperto la porta. 

Il senatore fiorentino sente il profumo di una possibile crisi del governo e cambia idea su tutto. L’acerrimo nemico Giuseppe Conte, presidente del M5S, ora diventa un boccino goloso. “”Noi siamo pronti al confronto sul futuro anche con Conte”, dice Renzi, usando il plurale maiestatis su una decisione che al momento in Italia viva è solo una fregola del capo non essendo stata da nessun organo democratico. I dissidi del passato? “Sul passato non cambio idea”, spiega Renzi, ma “è tempo di occuparci di futuro, non di fare le rievocazioni storiche”. 

E le differenti posizioni politiche? Renzi si dice “pronto al confronto” ma “tra Kamala Harris e Donald Trump, tifiamo per la Harris: spero anche Conte” e “su Putin e Venezuela non abbiamo dubbi: spero anche Conte”. È il solito confronto secondo Renzi in cui le possibilità si riducono a una: essere d’accordo. 

Sul Partito democratico “noi parliamo con la segretaria nazionale del Pd, non con le singole correnti interne”, spiega Renzi con il solito plurale da matita blu. Elly Schlein che fino a ieri era una pericolosa bolscevica viziata che non portava rispetto alla “storia del Pd” ora diventa l’unica interlocutrice. Possiamo solo immaginare il dramma che si consuma tra i caminetti dem in cui l’amicizia mai rotta con Renzi è l’unico capitale politico. 

Dall’altro lato del ring sbuca Carlo Calenda. Il profumo delle elezioni in Liguria sprona il leader di Azione alla benedizione di un’alleanza da cercare “ovviamente partendo dalle opposizioni”. Non fa tempo a dirlo e partono subito le condizioni: no a “un’agenda giustizialista”, dice stentoreo Calenda e priorità alla “questione delle infrastrutture, tema centrale della Liguria”. Non male come corteggiamento. 

Anche Calenda non riesce comunque a trattenersi dal tirare stoccate ai partiti da cui vorrebbe essere imbarcato e così ecco il velenoso passaggio a “quel problema del porto” che “ce l’aveva anche il pd prima, ma è stato graziato dalla magistratura, non ci andava solo Toti sulla barca e lo sapete benissimo”. Il riferimento è al vicepresidente Pd del consiglio regionale della Liguria Armando Sanna fotografato con l’ex governatore Claudio Burlando a bordo dell’imbarcazione dell’armatore Spinelli. 

E Renzi con Calenda, come la mettiamo? “Matteo Renzi domani mattina se deve fare un’alleanza con Casa Pound fa un’alleanza con Casa Pound. – dice Calenda –  Il problema non è quello che fa Renzi, il problema non è quello che gli passa per l’anticamera del cervello in quel momento come una cosa utile per lui. Il problema è che non ha un progetto di governo”.

Bello ‘sto campo largo. 

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