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Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva – Lettera43

Prima la violenza economica, poi gli insulti e le botte. Dalla denuncia a marzo 2023, passano sei mesi prima che scatti il dispositivo di protezione. L’ex però continua a minacciarla sui social. Lei è riuscita a raccontare l’inferno che ha vissuto, molte altre donne no. Ed è impensabile che lo Stato le lasci da sole.

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva

È una storia che provoca il fremito delle storie che vengono dal futuro. Ma è un brivido spaventoso perché il futuro qui è prevedibile e nero. Elisa ha 26 anni e conosceva Stefano da sempre, fin da bambini in Calabria, quando condividevano le compagnie. Anni dopo si rivedono, lei si innamora e si trasferisce da lui a Roma. Fin qui è l’inizio comune a tante relazioni. Ma da quel momento cominciano i segnali. Lui dice di avere un buon lavoro, in una banca in zona Tiburtina. Non era vero. E infatti poco dopo comincia a vivere del sussidio di Elisa lasciandola senza soldi per potersi muovere, per potere salire su un treno e raggiungere la sua famiglia.

La violenza economica precede quasi sempre la violenza fisica

La violenza economica come forma di controllo è lo stadio che precede la violenza fisica. L’abbiamo letto tante volte, l’abbiamo scritto tante volte raccontando le vittime di femminicidio. Però Elisa è viva, tenetelo bene a mente perché c’è differenza tra vivere e sopravvivere agli incubi e alle minacce. Lei racconta di momenti tenerissimi che si alternavano a picchi di odio, quando lui l’apostrofava «puttana», «troia», «cagna», «zingara». Il sospetto diventa paura ed Elisa riconosce di essere vittima. Una notte, frugando nei suoi cassetti, trova una pistola. Dice Elisa che lui non ha porto d’armi e che l’arma non è mai stata denunciata. Il copione è sempre lo stesso. La madre di lui minimizza, le telefonate a casa sono controllate (le uniche a cui le è concesso  rispondere). E poi immancabilmente arrivano le botte. Elisa parla di una pornomania che Stefano non riesce a controllare. Una sera viene portata in un club di scambisti e riesce a scappare. A casa lui la punisce, racconta lei, con morsi, calci e pugni. A questo punto siamo già nel baratro. «Il 28 di febbraio (2023 ndr) io non ricordo cosa sia successo», racconta Elisa, «ricordo di essere andata a dormire e che lui poco prima mi ha dato una tazza di latte, però i miei ricordi sono sfocati, ricordo che abbiamo percorso una galleria e io vedevo tutto viola, avevo i battiti accelerati e tra un vuoto e l’altro ricordo la sua voce che diceva a un’altra persona: tanto non si ricorderà mai nulla». «Non so cosa mi sia successo», continua, «se sono stata abusata e se mi hanno filmata perché non ero da sola. C’era un’altra ragazza che non conosco, era priva di sensi, e un altro uomo che non ho mai visto in vita mia».

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva
Scarpe rosse simbolo della lotta alla violenza di genere (Getty Images).

A marzo 2023 la prima denuncia che rimane nel cassetto, solo a ottobre scatta il codice rosso

Quando a marzo lui cerca di strangolarla in cucina e poi ad aprile la morde in faccia Elisa scappa, raggiunge la madre, depositano denuncia. Quella denuncia per rimane nel cassetto. «Se la sono dimenticata», spiega le spiega l’avvocato, proponendole di non protestare. A ottobre, sei mesi dopo la denuncia, arriva finalmente il codice rosso, quel dispositivo di protezione pensato per intervenire immediatamente che invece qui è scattato dopo sei mesi. Siamo al 2024. A marzo lui spunta su TikTok e continua a minacciarla, pubblicamente, senza ritegno e senza paura. Minaccia di uccidere Elisa e sua madre ripetutamente. Le offese non si contano. I video sembrano un manuale del femminicidio annunciato. Ma non è tutto: l’ex fidanzato minaccia pubblicamente i Carabinieri del Nucleo investigativo di via in Selci a Roma e promette vendetta contro i magistrati Vito e Corrado della Dda di Catanzaro definendoli «infami» e «cani». «La pagherete», assicura. E a Elisa promette di «mangiarle il cuore mentre ancora batte». Non trovando aiuto lei decide di fare ciò che non dovrebbero fare donne in pericolo in un Paese civile: «L’ho sputtanato sui social, gli hanno chiuso in maniera definitiva l’account da cui mi minacciava, ma ne ha aperto subito un altro senza problemi», racconta. Era il 27 luglio.

Quando il codice rosso non funziona: la storia di Elisa, viva ma non ancora salva
Immagine generata con l’Ia (Imagoeconomica).

Burocratizzare la paura e soppesare il rischio è un lasso di tempo che troppo spesso non salva

Qui arriva la parte, se possibile, ancora più spaventosa. Elisa ha addosso il terrore di chi teme di indovinare il proprio futuro. Ha denunciato ancora. Sono passati 14 mesi dalla sua prima denuncia e lui con il suo nuovo account pubblica video in cui canta in auto, in palestra. Elisa e sua madre hanno due nuovi codici rossi. In tutto sono stati depositati 135 video di minacce. «Che nel 2024 si debba ricorrere ai social per far valere i propri diritti mi disgusta», dice Carlotta Vagnoli, scrittrice e attivista da cui ho appreso della storia di Elisa. «Mi fa anche pensare», scrive Vagnoli, «a tutte quelle donne che non possono esporsi in questo modo e che rimangono dunque isolate per anni, in attesa di un segnale da uno Stato che non le accompagna nella fuoriuscita dalla violenza». La morale della storia? Il codice rosso – come denunciano in molti – non funziona abbastanza. Burocratizzare la paura e soppesare il rischio è un lasso di tempo che troppo spesso non salva. Oggi Elisa è viva, chissà se sarà salva.

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Il costo della propaganda

Che l’Italia non brillerà nella prossima Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen è cosa certa. Resta da vedere quanto sarà fragoroso il tonfo, ma i voltafaccia di Giorgia Meloni di sicuro hanno affievolito il peso del nostro Paese a Bruxelles.

Di quanto costi in termini di credibilità che il vice presidente del Consiglio Matteo Salvini sia stato vicino a Vladimir Putin e fondamentalmente fatichi a rinnegarlo del tutto ancora oggi è sotto gli occhi di tutti. Se a questo ci aggiungiamo le carezze all’estremismo di destra del suo candidato di punta Roberto Vannacci il quadro è completo. Perfino Le Pen ha dovuto dire basta. La propaganda della destra contro l’odiosissimo Macron e l’odiosissima Merkel (e poi Scholz) ha accentuato l’isolamento dell’Italia nel quadro europeo.

Francia e Germania ritengono l’Italia un ineludibile partner commerciale, ma in ogni occasione utile rivendicano la divergenza politica con il nostro Paese. Per semplificare: non possono fare a meno dell’Italia ma farebbero volentieri a meno del suo governo. Ieri sulla facinorosa polemica olimpica è intervenuta l’Algeria in difesa della sua pugile. Per ora è poca roba. Sarebbe bastato conoscere lo stato dei diritti in Algeria per sapere che le transizioni sono punite dalla legge. Ma al nostro governo dell’Algeria interessano solo il gas a basso costo e i cereali.

Però se ad Algeri perdono la pazienza ci mettono un secondo a far saltare il cosiddetto Piano Mattei di cui sono irrinunciabile perno. La morale è semplice: la propaganda che si fa in patria poi costa là fuori. Solo che a pagarla non è Giorgia Meloni, sono gli italiani. Sempre.

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Da “Io sono Giorgia” a “Meloni chi?”. Anatomia di un crollo di credibilità

Il valzer delle maschere di Giorgia Meloni è giunto al termine e ora è il momento di fare i conti. La nostra premier, che per mesi ha danzato su due palcoscenici – moderata in Europa e sovranista in patria – si ritrova ora con un pugno di mosche e una credibilità politica in frantumi.

Fine del doppio gioco: come Giorgia Meloni ha perso la credibilità politica tra sovranismo e moderazione in Europa

Il balletto è iniziato con la sua elezione nel 2022. Da un lato, Meloni si presentava come il volto presentabile della destra italiana. Dall’altro, continuava a promuovere politiche reazionarie: detenzione automatica dei migranti, limitazione dei diritti delle coppie omosessuali, opposizione al Green Deal europeo e al diritto all’aborto nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. Un gioco delle parti che sembrava funzionare, fino al momento della verità.

L’occasione è stata il voto per la riconferma di Ursula von der Leyen. Qui Meloni ha mostrato tutta la sua incoerenza: prima si è astenuta nel voto dei leader Ue, poi ha fatto votare contro il suo partito al Parlamento europeo. Un voltafaccia che ha lasciato di stucco persino i più cinici osservatori brussellesi. L’improvviso cambio di rotta è facilmente interpretabile. Meloni non ha digerito di essere stata tagliata fuori dall’accordo tra popolari, liberali e socialisti per la riconferma di von der Leyen. Un’esclusione che ha risvegliato i suoi istinti da “underdog” della politica italiana.

Il risultato? Mesi di faticoso lavoro diplomatico gettati alle ortiche. Von der Leyen si era spesa personalmente per costruire un rapporto con Meloni, arrivando persino a visitare insieme a lei i punti di ingresso dei migranti in Italia. Tutto dimenticato sull’altare del risentimento personale.

Come se non bastasse, Meloni ha alzato ulteriormente i toni attaccando la Commissione per il suo rapporto sullo stato di diritto in Italia. Un rapporto che esprimeva preoccupazioni sulla libertà di stampa e sull’indipendenza della Rai. Temi sensibili per una premier che ha fatto causa a giornalisti per diffamazione (reato ancora punibile con il carcere in Italia) e piazzato fedelissimi ai vertici della TV di Stato. La reazione scomposta di Meloni, con tanto di lettera di protesta a von der Leyen, dimostra quanto sia fragile la sua presunta svolta moderata. Bastano poche critiche per far emergere la vera natura di una leader cresciuta nell’humus della vecchia destra italiana.

Conseguenze e prospettive future

Ora Meloni si ritrova isolata e indebolita sulla scena europea. E il conto potrebbe essere salato: dall’assegnazione di un portafoglio di secondo piano per il prossimo commissario italiano, fino a una maggiore rigidità nell’applicazione delle regole sul deficit e sul debito pubblico. A proposito di commissario, il nome che circola è sempre quello di Raffaele Fitto, ministro per gli Affari europei. Fitto gode di una buona reputazione a Bruxelles ma le sue chance di ottenere un portafoglio di peso potrebbero essere compromesse proprio dal comportamento di Meloni. L’Italia spera in un commissario con responsabilità economiche, vista la sua situazione debitoria, ma rischia di ritrovarsi con il nuovo portafoglio “Mediterraneo”: una vittoria di Pirro, considerando che Roma era tra i Paesi che ne chiedevano l’istituzione.

Il problema è che entrambe le strade presentano rischi enormi. Sfidare apertamente l’Ue potrebbe avere conseguenze catastrofiche per un Paese con il secondo debito pubblico più alto d’Europa e un deficit che viola i limiti Ue. D’altro canto, una svolta definitiva verso il moderatismo rischierebbe di alienare quella base elettorale che ancora crede al mito della Meloni “anti-sistema”. In questo contesto, la visita in Cina appare come un disperato tentativo di distrazione. Meloni cerca di minimizzare le tensioni con von der Leyen, parlando di “manipolazione di un documento tecnico”. Ma ormai il dado è tratto, e la credibilità della premier è ai minimi termini.

Come sottolinea Lorenzo Castellani della Luiss, Meloni “aveva costruito credibilità in ambito diplomatico e finanziario, oltre che con la Commissione, e aveva beneficiato di numerose concessioni, incluse quelle sul fondo di ripresa post-Covid e sulla migrazione”. Ora ha “buttato via tutto”. Resta da vedere se Meloni saprà reinventarsi, trovando una terza via tra sovranismo e moderazione. O se, come sembra più probabile, continuerà in questo balletto schizofrenico tra faccia feroce in patria e sorrisi di circostanza in Europa. Una cosa è certa: il tempo delle maschere è finito. E l’Europa non sembra più disposta a tollerare il gioco delle tre carte della nostra premier.

Come ha detto un diplomatico Ue a Politico.eu, chiedendo di rimanere anonimo: “Vedremo quale Meloni emergerà da questa situazione: quella di estrema destra che abbiamo sempre temuto o quella pragmatica che abbiamo imparato a conoscere?”. La risposta a questa domanda determinerà non solo il futuro politico di Meloni, ma anche il posto dell’Italia nell’Unione Europea. In entrambi i casi la premier dovrà scontentare una parte dei suoi elettori. 

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Khelif, Carini e la politica. Propaganda pure con la boxe

Giovedì sera il il Comitato Olimpico Internazionale ha pubblicato un comunicato per difendere la decisione di includere la pugile algerina Imane Khelif alle Olimpiadi, criticando duramente “l’aggressione” in corso contro di lei dopo l’incontro contro l’italiana Angela Carini, che si era ritirata dopo meno di un minuto.

Khelif, Carini e la politica. Propaganda pure con la boxe. Solita polemica di distrazione di massa

Vale la pena leggerlo con attenzione per comprendere in pochi secondi quale sia il retrogusto dell’enorme campagna mediatica messa in piedi dal governo (Meloni in primis) e cavalcata dall’internazionale della peggiore destra omofoba nel mondo, con Elon Musk e trumpiani in prima fila. 

Nel comunicato si fa cenno all’Iba, la federazione internazionale di boxe che ha escluso Khelif ai Mondiali del 2023. Su quell’esclusione poggia gran parte della propaganda del governo. L’anno scorso Khelif fu squalificata dal torneo poco prima della finale a cui si era qualificata, per via di una decisione che – ci fa sapere il CIO – fu presa inizialmente da amministratore delegato e segretario generale dell’IBA, e solo dopo è stata ratificata dal consiglio di amministrazione che chiese di chiarire il protocollo. 

Ma chi è l’amministratore delegato dell’Iba Il suo presidente Umar Kremlev è un imprenditore vicino a Vladimir Putin. Il principale finanziatore è la Gazprom, la compagnia petrolifera di stato russa. E proprio in Russa l’Iba ha la sua sede dopo avere traslocato dalla Svizzera a seguito di gravi scandali di corruzione che ne hanno minato la credibilità. Anche per questo il Comitato olimpico non riconosce la federazione pugilistica. 

Dove è cominciata la polemica contro l’algerina Khelif? Da account in Russia. E questo è tutto quello che c’è da sapere. 

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I treni che non arrivano

Mentre la politica italiana discute del sesso dei pugili trainata da una donna che si fa chiamare al maschile la rete ferroviaria del Paese barcolla sotto i colpi dell’insipienza dell’infantile politica del ministro Matteo Salvini. 

Là dove non arrivano gli incendi e la strutturale debolezza si aggiungono i lavori di manutenzione e di potenziamento programmati nelle settimane più trafficate dell’anno, creando disagi che per essere silenziati hanno bisogno di un’olimpica distrazione di massa. 

Sulla tratta Pescara-Bari i treni dell’Alta velocità, gli Intercity e i Regionali accumulano quasi quotidianamente ritardi che si avvicinano alle due ore. Le linee Torino-Milano-Venezia, Milano-Bologna e Roma-Firenze sfasano da giorni, preparandosi ai prossimi lavori sulla linea che istituzionalizzeranno i disagi. 

L’Osservatorio nazionale di Federconsumatori raccontano di fortissimi disagi in Calabria, Toscana, Lazio e Veneto. La cosiddetta Alta velocità si è fermata a Battipaglia andando verso sud e i treni non superano Reggio Calabria verso nord, dovendo ripiegare su bus a Bassa velocità. 

Gli italiani ostaggi della rete ferroviaria durante il periodo estivo in altri tempi sarebbe stato lo spunto per un’indignazione popolare da prime pagine e da dolenti servizi televisivi. Basterebbe, del resto, mettere il microfono sotto il naso di qualcuno delle migliaia di viaggiatori arrabbiati pesti. 

Tutti i microfoni dei giornali servili (gli altri, sia sa, sono ritenuti “corrotti” dal governo) stanno sotto il naso del ministro e della presidente del Consiglio che, in veste di endocrinologi e genetisti, lasciano scorie in giro. 

Buon venerdì.   

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Altro che tutela ambientale, spunta un altro condono

Entra oggi in vigore il decreto legislativo 103/2024 “Semplificazione dei controlli sulle attività economiche”. È un decreto importante perché interviene sulla protezione ambientale, sull’igiene e salute pubblica, sulla sicurezza pubblica e sulla sicurezza dei lavoratori. Temi che scaldano i giornali e il dibattito politico. La norma più impattante in vigore già da domani è quella all’art. 6 in tema di “violazioni sanabili e casi di non punibilità per errore scusabile”.

In sostanza, nel caso di accertamento, per la prima volta nel quinquennio, di violazioni sanabili che prevedono la sanzione amministrativa non superiore nel massimo a 5.000 €, l’Organo di controllo …” diffida l’interessato a porre termine alla violazione, ad adempiere alle prescrizioni violate e a rimuovere le conseguenze dell’illecito amministrativo entro un termine non superiore a venti giorni. In caso di ottemperanza alla diffida, il procedimento sanzionatorio si estingue limitatamente alle inosservanze sanate”. È un condono.

Se vieni beccato ti sgridano, risistemi la cameretta, prometti che farai il bravo e vieni perdonato. Tutto perfettamente in linea con “lo Stato amico” inteso dal governo e dalla maggioranza, quello che evita sanzioni e controlli per il bene del fatturato. Ah, non solo. Nei confronti dei soggetti in possesso del Report di basso rischio, le amministrazioni programmano ed effettuano i controlli ordinari non più di una volta l’anno e non possono essere effettuate due o più ispezioni diverse sullo stesso operatore economico contemporaneamente. E se il controllo va bene il controllato sa che per dieci mesi non può essere controllato di nuovo. Però tranquilli, al prossimo disastro sono già pronte le promesse e i comunicati di cordoglio.

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Maledetta stampa

Avete sentito per caso le risposte nel merito della presidente del Consiglio alle critiche mosse dalla Commissione europea e ai rilievi del rapporto scritto dalla federazione dei giornalisti europei? Pensateci bene, escludete il piagnisteo di Giorgia Meloni e il gnegneismo dei suoi compagni di maggioranza. Di risposte nel merito non ne è arrivata nessuna.  

Per l’ennesima volta la premier ha deciso di puntare sulla confusione condita un pizzico di vittimismo e una grattugiata di poteri forti ostili. Ad avanzare la tesi che si tratti di una vera e propria strategia politica descritta “nel mattinale a uso e consumo dei comunicatori e dei parlamentari di FdI, scritto quotidianamente con la supervisione del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari” è il giornalista Emanuele Lauria su Repubblica. Il giornalista racconta di un’azione coordinata tra parlamentari di Fratelli d’Italia e giornali di destra. 

Accusare gli accusatori quando possibile e irrigidire ancora di più il proprio rapporto illiberale con la stampa considerata nemica: ecco il piano. In questo disegno si inserirebbe anche l’esclusione dei giornalisti italiani alla conferenza stampa di Meloni al vertice con Xi. Perfino i cinesi si sono stupiti dell’assenza. E pensare che da quelle parti hanno lo stomaco forte, a proposito di libertà di stampa. 

Sul fronte interno il governo ha dichiarato guerra alla stampa. Non finisce mai bene perché i potenti passano ma i giornalisti restano. Sul fronte internazionale Meloni ormai è un’Orbàn all’amatriciana e se ne accorgerà quando sarà il momento delle nomine dei commissari europei. 

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Le armi non creano lavoro: i numeri smontano un falso mito

Quando parla di armi il ministro della Difesa Guido Crosetto fa spesso riferimento alle “ricadute occupazionali”. L’industria degli armamenti è spesso circonfusa da un’aura di potenza economica e tecnologica. Ma quanto c’è di vero nei luoghi comuni che la accompagnano? Un recente rapporto di Gianni Alioti (Weapons Watch) e Maurizio Simoncelli (Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo) smonta pezzo per pezzo la narrazione dominante su questo settore.

Economia delle armi, ricadute occupazionali o favole del ministro?

Partiamo dal contributo al Pil. Secondo i dati forniti dall’Aiad, la Federazione Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza di Confindustria, l’industria bellica italiana rappresenta solo lo 0,5% del PIL nazionale. Un dato che impallidisce di fronte al 5,2% dell’industria automobilistica.

E l’occupazione? Nonostante dal 2013 al 2022 le spese di investimento per armamenti siano cresciute del 132%, il numero di occupati è rimasto stabile intorno ai 30.000 addetti, pari allo 0,8% dell’occupazione manifatturiera italiana. Emblematico il caso del comparto aeronautico di Leonardo S.p. A: dal 2007 al 2022, nonostante l’enfasi sui posti di lavoro legati alla produzione del jet F-35, ha registrato un calo del 17% degli occupati.

Ma non era il settore più avanzato tecnologicamente? In realtà l’Italia vanta eccellenze in molti altri campi innovativi: microelettronica, robotica, automazione industriale, produzione di macchinari e mezzi di trasporto, informatica, biotecnologie, farmaceutica, energie rinnovabili.

C’è poi il nodo dell’export. Dal 2019 al 2023 l’export di armamenti italiani è cresciuto dell’86% rispetto al quinquennio precedente. Ma, in violazione della Legge 185/90, è diretto prevalentemente a paesi in guerra o autocratici che calpestano i diritti umani, come Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti.

Veniamo alla composizione azionaria. Se è vero che il principale azionista di Leonardo S.p.A è il Ministero dell’Economia (30,2%), un ruolo sempre più decisivo lo giocano i fondi istituzionali, per il 53% nordamericani. Tra questi, colossi come Vanguard Group, Goldman Sachs, BlackRock.

E i contributi pubblici? L’industria bellica riceve fondi consistenti sia dallo Stato che dall’UE. Nel 2024 circa il 2% del bilancio UE (2,32 miliardi) è destinato a scopi militari. L’EDIP (Programma Europeo per l’Industria della Difesa) stanzia 1,5 miliardi fino al 2027, mentre l’EDF quasi 8 miliardi per il periodo 2021-2027. Finanziamenti che vanno per lo più a 4 Stati (Francia, Spagna, Italia e Germania) e 5 aziende (Airbus, Leonardo, Thales, Dassault Aviation e Rheinmetall).

Più soldi per meno lavoro: l’inganno dell’industria bellica

Ma il dato forse più interessante riguarda il rapporto tra fatturato e occupazione. Un’analisi del settore aerospaziale europeo dal 1981 al 2021 mostra che a fronte di un aumento del fatturato del 366%, l’occupazione è calata del 7,2%. Disaggregando i dati, emerge che gli occupati nel militare sono diminuiti del 54%, mentre quelli nel civile sono cresciuti dell’84%.

Lo stesso trend si osserva negli USA: negli ultimi 20 anni il fatturato dell’industria aerospaziale americana è cresciuto del 166%, in linea con l’aumento delle spese militari USA (+170%), ma il numero totale degli occupati è diminuito del 13%.

A livello globale, un’analisi dei primi 10 gruppi multinazionali per fatturato militare mostra che dal 2002 al 2016, a fronte di una crescita del fatturato del 60% (74% quello militare), il numero di occupati si è ridotto del 16%. I profitti, invece, sono aumentati del 773%.

Questi dati mettono in discussione l’equazione “più armi = più lavoro”, rivelando un settore che, pur godendo di ingenti finanziamenti pubblici, non sembra in grado di generare occupazione in misura proporzionale alla crescita dei ricavi. Con buona pace del ministro. 

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Olimpiadi di Parigi, l’altra faccia della medaglia: un anno di “pulizia sociale” per imbellettare i Giochi

Durante l’agitato dibattito sulla cerimonia di inaugurazione il presidente francese Emmanuel Macron ha ribadito lo “spirito inclusivo” della Francia e delle Olimpiadi. Un rapporto shock, intitolato “1 Year of Social Cleansing – Le Revers de la Medaille”, compilato da diverse associazioni, racconta l’altra faccia della medaglia: la cosiddetta “pulizia sociale” avvenuta nella regione dell’Île-de-France per ripulire Parigi prima della festa. 

Macron e lo “spirito inclusivo” delle Olimpiadi: la realtà nascosta

Il documento, che analizza il periodo da aprile 2023 a maggio 2024, dipinge un quadro preoccupante di come l’avvicinarsi dei Giochi abbia accelerato processi di marginalizzazione e invisibilizzazione delle fasce più vulnerabili della popolazione. Partiamo dai numeri, freddi ma eloquenti. La notte tra il 25 e il 26 gennaio 2024, durante la 7ª Notte della Solidarietà, sono state contate 3.462 persone senza fissa dimora a Parigi, con un aumento del 16% rispetto all’anno precedente. Un dato che, come ha sottolineato il rapporto, è probabilmente sottostimato.

Sgomberi e marginalizzazione: l’altra faccia della medaglia

L’avvicinarsi della competizione olimpica ha preteso la soluzione più semplice: gli sgomberi. L’Osservatorio degli sgomberi dei luoghi di vita informali ha registrato, tra il 2023 e il 2024, ben 138 sgomberi nella sola Île-de-France. Parliamo di 64 baraccopoli, 34 accampamenti di tende, 33 squat e 7 insediamenti di viaggiatori. In totale, 12.545 persone sono state colpite da questi interventi, con un aumento del 38,5% rispetto al periodo precedente.

A rendere già allarmanti i numeri sono soprattutto le modalità. Solo il 27,5% è stato preceduto da diagnosi sociali e appena il 35,3% è stato accompagnato da offerte di alloggio, perlopiù temporanee. Il rapporto denuncia numerosi casi di violenza fisica e verbale durante gli sgomberi, con un aumento dell’uso di ordinanze di evacuazione da parte delle autorità, spesso senza adeguata giustificazione legale. 

Non si è trattato di interventi casuali. Molti sgomberi hanno preso di mira specifici gruppi etnici, come Rom e migranti. Da febbraio 2024, si è registrato un notevole aumento delle ordinanze prefettizie in tal senso. Il sistema di accoglienza francese, già inadeguato, ha mostrato tutte le sue falle di fronte alla pressione internazionale. L’Île-de-France disponeva di quasi 96.650 posti di alloggio generale ma la metà di questi erano in hotel. Un numero insufficiente, con la maggior parte dei servizi saturi. I servizi di alloggio d’emergenza come il 115 hanno registrato un alto numero di richieste inevase.

La situazione è stata particolarmente critica per le categorie più vulnerabili. Donne incinte, famiglie con bambini e persone con gravi problemi di salute spesso non sono riuscite ad accedere a un alloggio stabile. Nella zona di Seine-Saint-Denis, per esempio, single e famiglie con bambini si sono ritrovati spesso senza un tetto.

Di fronte a questa emergenza la risposta del governo di Marcon sembra essere stata quella di “disperdere” il problema. È stato implementato un nuovo tipo di schema di alloggio in dieci regioni per ospitare (temporaneamente) esuli e senzatetto provenienti dall’Île-de-France, spesso senza considerare le loro esigenze sociali. Una politica di dispersione che mirava a decongestionare le strutture di accoglienza nella regione parigina e a esaminare sistematicamente la situazione amministrativa degli individui tralasciando le esigenze specifiche come richiederebbe la legge. 

In tutto questo, i Giochi Olimpici hanno agito come un catalizzatore. I preparativi per l’evento hanno portato a un aumento delle operazioni di polizia contro senzatetto, migranti, Rom, sex worker e tossicodipendenti. Il rapporto cita testimonianze dirette che hanno evidenziato il legame tra gli sgomberi e i Giochi. Il 26 aprile 2023, 500 residenti dello squat Unibéton sono stati sgomberati. Si trattava del più grande squat della regione Île-de-France, situato sull’Île-Saint-Denis, vicino al futuro Villaggio Olimpico degli Atleti. Un evento che ha segnato l’inizio di un anno caratterizzato da sgomberi ripetuti dalle aree di vita informali.

Le Olimpiadi come catalizzatore di esclusione sociale

Le conclusioni del rapporto sono amare: i Giochi Olimpici di Parigi 2024 non sono diversi dalle edizioni precedenti in termini di impatto sulle popolazioni vulnerabili. Anzi, hanno esacerbato l’esclusione sociale per i più deboli. Di fronte a questo scenario, il collettivo “Le revers de la médaille” ha lanciato un appello: servono misure concrete per garantire un’eredità sociale positiva dai Giochi. Tra queste, la creazione di 20.000 posti di alloggio a livello nazionale e l’istituzione di un primo centro di accoglienza umanitaria per gli esuli a Parigi.

Così mentre il mondo celebra lo spirito olimpico c’è chi ha pagato il prezzo più alto per questi Giochi: gli invisibili diventati esclusi. La vera sfida per Parigi 2024 non è solo sul campo di gara, ma nelle strade e nei quartieri della città, dove si è giocata la partita più importante: quella per la dignità umana. E per quella non basta una pomposa cerimonia che celebri i diritti. I diritti si praticano. 

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Blitz notturno delle destre alla Camera contro la Cannabis light: undicimila posti di lavoro rischiano di andare in… fumo

Nella notte scorsa, mentre il paese dormiva, nelle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia della Camera si è consumato il delitto di un intero settore dell’economia italiana. La seduta fiume sul ddl sicurezza ha portato all’approvazione di un emendamento del governo che equipara la cannabis light a quella con THC. Una mossa che, secondo molti, segna la fine di un settore in crescita e promettente, la cui esistenza è stata stroncata da decisioni prese col favore delle tenebre.

La decisione notturna

La Camera ha lavorato incessantemente, in una maratona legislativa che ha visto l’approvazione di numerosi emendamenti, tra cui quello che di fatto cancella la differenza legale tra cannabis light e cannabis tradizionale. Per Riccardo Magi, segretario di Più Europa, ”il governo Meloni ha appena ucciso il settore della cannabis light nel nostro Paese”. Un’industria che, fino a ieri, contava circa 11 mila posti di lavoro e un fatturato annuo di 500 milioni di euro.

Stefano Vaccari, capogruppo Pd in commissione Agricoltura e segretario di Presidenza della Camera, ha definito questa scelta un “gravissimo errore”, affermando che “equiparare la cannabis light a quella con THC ha azzerato un settore produttivo che impiega migliaia di persone”. Secondo Vaccari, “ha vinto la follia propagandistica del governo” che confonde la cannabis light, usata in cosmesi, erboristeria e integratori alimentari, con le droghe pesanti, dimostrando un approccio ideologico più che pragmatico.

Un settore in crescita, ora bloccato

La reazione del mondo agricolo e industriale è stata immediata. Cristiano Fini, presidente di Cia-Agricoltori Italiani, ha sottolineato come questa decisione rappresenti “una grave sconfitta per la libera impresa in Italia”. La cannabis light, utilizzata in vari settori che vanno dalla cosmesi all’erboristeria, dagli integratori alimentari al florovivaismo, aveva visto un’esplosione di interesse, soprattutto tra i giovani imprenditori agricoli. Ora, questo segmento del comparto agroindustriale rischia di andare in fumo.

Le conseguenze immediate

Le conseguenze di questa decisione vengono definite dagli operatori del settore “devastanti”. I produttori di cannabis legale, che operavano in un contesto di legalità e trasparenza, si trovano ora in un limbo giuridico. “Molti acquirenti, di fronte all’incertezza legislativa, stanno disdicendo gli ordini”, denuncia la Cia. Questo non solo mette a rischio il raccolto attuale, ma getta un’ombra su tutto il futuro del settore. Gli agricoltori, che avevano investito tempo e risorse in una coltura promettente, sono ora costretti a costosi ricorsi legali per difendere i propri diritti.

Una scelta ideologica

Dietro questa decisione molti vedono un pregiudizio ideologico più che una reale necessità di sicurezza. La cannabis light, con il suo basso contenuto di THC, non rappresenta una minaccia per la salute pubblica. Al contrario, ha trovato impieghi benefici e legali riconosciuti a livello europeo. Tuttavia, il governo Meloni, in preda a quella che Magi definisce “furia ideologica”, ha scelto di colpire duramente un settore florido e innovativo.

Il futuro del settore

Il futuro per la filiera della cannabis light in Italia appare ora cupo. Gli imprenditori del settore, giovani e innovativi, si trovano ad affrontare una battaglia legale e commerciale senza precedenti. Le speranze di una ripresa sono legate alla capacità di fare fronte comune e di trovare nelle sedi giuridiche il riconoscimento dei propri diritti. Ma il danno, intanto, è stato fatto. Una notte di decisioni ha cancellato anni di lavoro e di crescita economica, lasciando migliaia di famiglie nell’incertezza.

Il governo ha scelto di intervenire su un settore in espansione senza ascoltare le voci degli operatori e degli esperti. La cannabis light, fino a ieri simbolo di un’agricoltura giovane e innovativa, oggi è diventata vittima di scelte politiche discutibili. Il paese, che avrebbe potuto essere un esempio di regolamentazione intelligente e di crescita sostenibile, si ritrova ora a dover affrontare le conseguenze di decisioni prese nel buio della notte. L’oscurantismo costa, oltre a indignare.

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