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Video Fake su Kamala Harris postato da Elon Musk

“Io, Kamala Harris, sono la candidata democratica alla presidenza dato che Joe Biden ha mostrato finalmente la sua senilità durante il dibattito”. Inizia così il video diventato virale su X dopo la condivisione di Elon Musk in cui Kamala Harris sembra accusare il presidente Usa Joe Biden.

Il patron di X Elon Musk viola la policy del suo Social pubblicando un video Fake su Kamala Harris

Solo che quel video è un deepfake, ovvero un video elaborato dall’intelligenza artificiale che non ha alcuna attinenza con la realtà. Pubblicato per la prima volta dallo youtuber Mr Reagan, ha unito alcune immagini reali presenti nei filmati ufficiali della campagna di Harris per le elezioni di novembre a una voce clonata dall’IA ma molto simile a quella originale. “Sono l’apoteosi della diversità, quindi se criticate qualcosa che dico siete sia maschilisti sia razzisti”, si sente dire alla vicepresidente Usa nel deepfake. “io sono una marionetta del Deep State e sono stata addestrata per quattro anni dal campione delle marionette, Joe Biden”.

Il video ha raggiunto i 5 milioni di visualizzazioni. Elon Musk, idolo di Giorgia Meloni e della destra nostrana, ha commesso però un piccolo errore: ha violato le regole del social di cui è proprietario. Il regolamento di X infatti dice chiaramente che per ogni utente, padrone incluso, “on è possibile condividere contenuti multimediali artificiali, manipolati e fuori contesto che potrebbero ingannare o confondere” senza apporre un apposito segnale che chiarisca origine e metodo di realizzazione. Come ha risposto il mentore della destra peggiore del mondo dopo la pessima figura Ha spiegato che si trattava di una “parodia”. Solo che nelle parodie ci si mette la faccia o la firma. Qui la vera parodia è un pericoloso riccone scambiato per genio.

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Ora Giorgia si crede Marco Polo

Dimenticate Giorgia Meloni nemica della Cina. Terrorizzata dall’isolamento in Europa e logorata dalla traballante credibilità del governo in politica estera la presidente del Consiglio a Pechino indossa i panni di novella Marco Polo per aggiustare i rapporti che il suo stesso governo ha guastato. 

“Quello di Marco Polo non è stato solamente un viaggio fisico attraverso l’antica Via della seta”, ma è stato soprattutto un viaggio di scoperta e di conoscenza, ha affermato Meloni, sottolineando come l’esploratore veneziano abbia contribuito a “modificare la percezione che in Italia si aveva dell’impero cinese in un periodo in cui le distanze erano talmente grandi da sembrare incolmabili”. 

Peccato che la Via della seta citata dalla presidente del Consiglio sia una strada chiusa, come certi malinconici cantieri abbandonati sotto il sole d’agosto. A dicembre dell’anno scorso il governo ha disdetto l’accordo firmato dall’ex premier Giuseppe Conte (con Salvini vice premier) che fece infuriare gli Usa. Anche in quel caso l’esecutivo non brillò: settimane di rimpalli diplomatici e il tentativo maldestro di non pubblicizzare la rottura. 

Erano i tempi in cui il protezionismo aizzava i voti. Pochi mesi fa Meloni aveva espresso dubbi sulla transizione verso l’elettrico, sostenendo che “non è la panacea” e soprattutto che avrebbe potuto danneggiare l’industria automobilistica europea, già messa a dura prova dalla concorrenza cinese. 

Dimenticate quella Giorgia Meloni. Non esiste più. I numeri, d’altronde, parlano chiaro: nel 2023 l’interscambio commerciale ha raggiunto i 66,8 miliardi di euro, con oltre 1.600 aziende italiane che operano nel Paese asiatico. In Cina operano più di 1.600 aziende italiane, soprattutto nel settore del tessile, della meccanica, della farmaceutica, dell’energia e dell’industria pesante; il volume degli investimenti esteri diretti è di circa 15 miliardi di euro. Cifre che spiegano il pragmatismo dell’attuale visita, al di là delle roboanti dichiarazioni del passato. 

Intanto gli altri corrono. La Germania ha trovato nella Repubblica Popolare un mercato importantissimo per assorbire la propria produzione (soprattutto industriale) staccando di molto Francia e Italia. Come spiega l’Ispi se mediamente ognuna di queste ultime due esporta verso la Cina circa €1,5-2 miliardi di beni ogni mese, il dato per la Germania è di circa €8-9 miliardi.

E nelle relazioni commerciali tra Europa e Cina il settore di maggior rilievo è quello dell’automotive. Storicamente l’equilibrio commerciale si reggeva sull’importazione europea di numerosi prodotti, compensata dall’export di auto in quello che è ormai il primo mercato al mondo. Quel mercato è oggi però saturo e il flusso del commercio di autoveicoli si sta invertendo, con la Cina che esporta sempre più auto, soprattutto elettriche. 

Benvenute le auto cinesi in Italia, quindi. Il “Piano d’Azione” firmato a Pechino comprende sei ambiti di cooperazione: dai prodotti agricoli e alimentari alle indicazioni geografiche, dall’istruzione all’ambiente e allo sviluppo sostenibile fino all’industria. E su questo punto Meloni fa un inciso: “Compresi il settore strategico delle auto elettriche”. 

La visita di Meloni avviene in un momento in cui altri leader europei hanno intensificato i contatti con Pechino. Il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno effettuato visite in Cina negli ultimi mesi, discutendo di accordi economici e questioni geopolitiche. Meloni ancora una volta sembra inseguire gli altri leader europei, contraddicendo la sua retorica sovranista.

L’incoerenza di Meloni sta tutta qui. Da un lato, la retorica nazionalista e le critiche alla Cina per conquistare consensi interni. Dall’altro, la necessità di mantenere buoni rapporti con Pechino per non danneggiare gli interessi economici italiani. Poi c’è l’isolamento a Bruxelles. La premier è bravissima a indicare i nemici ma è troppo debole a tessere relazioni. 

Così la visita a Pechino diventa un esercizio di equilibrismo. La presidente del Consiglio invoca “un mercato libero” ma “anche equo trasparente e reciprocamente vantaggioso”. Sventola l’amicizia con Pechino ma dice che “i partner devono giocare secondo le regole perché le aziende possano competere sui mercati internazionali in condizioni di parità”. 

I cinesi, molto meno retorici, chiedono all’Italia “sincerità”, che è forse un sinonimo dolce della parola “coerenza”. “Che posizione ha l’Italia sui dazi dell’Ue alle auto cinesi?”, si chiedono i giornali del regime. Nessuna risposta. Su quel tavolo Meloni sta giocando un’altra delle sue contraddittorie partite. Ma per distendere gli animi non servirà romanticizzare Marco Polo. 

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Il femminismo di facciata di Meloni, in Italia e pure in Europa

Il giorno in cui Giorgia Meloni è salita a Palazzo Chigi una ridda di voci festeggiava la sua vittoria celebrando la nomina a presidente del Consiglio come “vittoria per tutte le donne” e “per il femminismo”. Dopo 644 giorni di governo si può dire che in Italia non sia andata propriamente così – basti pensare che si sta rimettendo in discussione il diritto all’aborto – e ora nemmeno in Europa. 

Le sue azioni e le politiche sostenute dal suo partito e dai suoi alleati mostrano una realtà ben diversa, caratterizzata da incoerenze che minano le sue stesse affermazioni. Meloni ha sfruttato il tema del femminismo come strumento politico, talvolta manipolando la narrazione per avvantaggiare la sua immagine e quella del suo partito. La leader di Fratelli d’Italia ha mostrato un femminismo di facciata, utilizzando la retorica dell’uguaglianza solo quando conveniente ma senza attuare misure concrete per migliorare la condizione delle donne. Ad esempio, le politiche restrittive sui diritti riproduttivi e il sostegno a valori tradizionali rigidamente conservatori dimostrano una contraddizione rispetto ai principi femministi autentici.

Il femminismo di facciata: promesse e realtà delle politiche di Meloni

A livello europeo, la situazione è ancora più preoccupante. Il nuovo Parlamento Europeo è dominato dagli uomini, con solo il 38,5% dei deputati europei confermati che sono donne, un calo rispetto al 40% della precedente legislatura. Questo rappresenta un’inversione di tendenza, visto che la proporzione di donne era sempre aumentata dal 1979. Questo declino è particolarmente evidente nel gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR), guidato dalla stessa Meloni, dove la rappresentanza femminile è scesa dal 30% a meno del 22%.

L’ascesa dei partiti di destra, inclusi quelli rappresentati da Meloni, ha avuto un impatto significativo sull’equilibrio di genere nel Parlamento Europeo. La destra europea, che spesso si oppone a misure come le quote di genere, ha contribuito a creare un ambiente meno inclusivo per le donne. Il gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei, con solo 17 donne su 78 membri, è emblematico di questa tendenza. Meloni è la presidente del gruppo. 

I gruppi liberali e di sinistra nel Parlamento Europeo vantano una presenza femminile ben superiore alla media, con i Verdi che raggiungono il 51% e i Socialisti e Democratici il 43%. Al contrario, i gruppi di centro-destra e di destra estrema mostrano una significativa carenza di rappresentanza femminile, con l’EPP al 37% e il nuovo gruppo dei Patrioti europei al 32%.

Questo squilibrio di genere non è solo una questione di rappresentanza simbolica ma ha ripercussioni concrete sulla qualità della legislazione europea. Le commissioni parlamentari, dove si prendono decisioni cruciali, sono spesso dominate da uomini, con solo il 37,5% delle posizioni di leadership occupate da donne. Questo porta a una visione parziale e a volte limitata delle questioni di genere, influenzando inevitabilmente la formulazione delle politiche.

Un impatto europeo: il tradimento anche a Strasburgo

Le proposte per migliorare l’equilibrio di genere, come quelle per riflettere meglio la composizione del Parlamento nelle commissioni, sono state finora poco efficaci. Regole e suggerimenti esistenti spesso non vengono rispettati, alimentando il ciclo di segregazione e disuguaglianza. La necessità di una riforma sarebbe urgente ma l’attuale clima politico e la retorica di leader come Meloni rendono difficile intravedere un cambiamento significativo.

Il modello di “femminismo di facciata” non solo tradisce le donne italiane ma è stato esportato anche a Strasburgo contribuendo a un ambiente politico europeo meno inclusivo e meno equo. Con buona pace di coloro che festeggiavano. 

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Chissà che grasse risate avrà sputato von der Leyen

C’erano due modi per reagire alla Relazione annuale sullo stato di diritto dell’Ue che certifica l’ungherizzazione dell’Italia sulla libertà di stampa e sulla gestione della televisione pubblica. Giorgia Meloni avrebbe potuto riunire i suoi chiedendogli di smetterla con le querele temerarie ai giornalisti, con gli attacchi alla stampa e soprattutto con quest’ossessione per l’egemonia culturale intesa come silenziamento delle opinioni contrarie. 

La presidente del Consiglio invece ha scelto la solita via, quella del vittimismo e della distorsione della realtà sotto gli occhi di tutti. Così ha preso carta e penna rivolgendosi direttamente alla mamma, Ursula von der Leyen, con la sfacciataggine dei negazionisti più infoiati e con l’imbarazzo di chiedere aiuto a un’avversaria politica. 

Meloni si lamenta che “per la prima volta il contenuto di questo documento – scrive –  è stato distorto a uso politico da alcuni nel tentativo di attaccare il governo italiano”. Secondo la premier a condizionare il rapporto Ue sarebbero stati i “professionisti della disinformazione e della mistificazione” colpevoli di “attacchi maldestri e pretestuosi che possono avere presa solo nel desolante contesto di ricorrente utilizzo di fake news”. Insomma, Meloni si lagna perché la gente legge i documenti senza fidarsi del suo racconto. 

Spiega poi la presidente che a scelta di diversi giornalisti e conduttori di lasciare la Rai non è dipesa dal cambio di linea editoriale, bensì da “normali dinamiche di mercato”. Per Meloni è “normale mercato” che la Rai crolli nella credibilità e negli ascolti. La normale dinamica di fuggire dagli oppressori, si potrebbe dire. Chissà che grasse risate avrà sputato von der Leyen leggendo quella lettera. 

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Cosa suggeriscono le migliaia di firme per il referendum

In meno di due giorni sono state raccolte più del 30% delle firme necessarie per il referendum sull’autonomia differenziata, la disastrosa legge che vorrebbe legittimare l’atavica spaccatura del’Italia. 

Gli ultimi dati dicono che online sono state raccolte circa 130 mila firme, un numero impressionante che fa il paio con i tradizionali banchetti in giro per l’Italia allestiti da partiti e comitati. Un attivismo e una partecipazione in controtendenza con l’astensione protagonista delle ultime elezioni. 

Certamente la pessima legge voluta dal governo per cristallizzare e aumentare le disuguaglianze tra le regioni più ricche e quelle più povere è una spinta importante. La legge uscita dal Parlamento non piace ai presidenti di Regione che pur fanno parte di partiti della maggioranza di governo. L’esultanza della Lega che ha deciso di intestarsi l’autonomia come vessillo del vecchio sogno secessionista è una prova, più che un indizio. 

Vi sono però altri due dati di cui tenere conto. La mancata partecipazione dei cittadini alle elezioni è spesso figlia – come sottolineano gli analisti – di una disperanza diffusa. Gli elettori non credono che il loro voto possa modificare il flusso degli accadimenti. E quindi perché quelli poi corrono a firmare? Avanzo un’ipotesi: perché il fine di un referendum è chiaro, senza fronzoli, immediato nei risultati e non richiede un’adesione valoraliale a una comunità politica. Insomma, non è il meno peggio. È quella roba lì, definita, senza bisogno di mediazioni e compromessi. Questo è un avviso ai partiti. 

Poi c’è il successo della raccolta firme sulla piattaforma online a dirci per l’ennesima volta che le persone si mobilitano quando sono messe nelle condizioni di farlo e quando hanno la possibilità di scegliere. E questo è un avviso per la prossima legge elettorale di cui non parla nessuno ma è l’elefante nella stanza. 

Buon lunedì. 

Foto da pagina Fb Contro ogni autonomia differenziata

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Perché l’intesa con il Ruanda sui minerali critici ci mette in discussione come europei- Lettera43

Il conto del memorandum siglato dall’Ue rischia di pagarlo la RD del Congo. Kigali è accusata di contrabbando di materie prime e di finanziare le milizie ribelli M23 che insanguinano il Paese. Bruxelles si limita a chiedere alle industrie estrattive maggiore trasparenza. Chi dovrebbe essere controllato diventa così controllore. Per la transizione energetica noi europei siamo davvero disposti a ignorare diritti e principi?

Perché l’intesa con il Ruanda sui minerali critici ci mette in discussione come europei

L’Europa ha fame. Una fame vorace e cieca che divora principi, valori e vite umane con la stessa nonchalance con cui si mangia un croissant a colazione. Il piatto del giorno? Minerali. Quelli che servono per smartphone e auto elettriche. Il conto? Lo paga la Repubblica democratica del Congo, con il sangue. L’accordo sui minerali strategici siglato lo scorso 19 febbraio dall’Ue con il Ruanda solleva questioni molto serie sulle responsabilità di Bruxelles nel conflitto che insanguina il Paese. Nonostante se ne parli poco.

L’accordo Ue-Ruanda rischia di fornire una copertura legale per il traffico di “minerali di conflitto” dal Congo

La regione dei Grandi Laghi, ricca di risorse minerarie essenziali per le tecnologie verdi e l’elettronica, è teatro di una crisi umanitaria che ha causato 6 milioni di morti e 7 milioni di sfollati negli ultimi decenni. Proprio in questo contesto, l‘intesa Ue-Ruanda si configura come una mossa geopolitica potenzialmente destabilizzante. Il presidente congolese Félix Tshisekedi ha espresso forte disapprovazione, definendo l’accordo «una provocazione di pessimo gusto». La sua reazione riflette una preoccupazione diffusa: il Ruanda, partner dell’Ue in questo accordo, è accusato di sostenere attivamente le milizie ribelli M23, protagoniste di una sanguinosa insurrezione nell’est della Rd del Congo. Gli eventi successivi alla firma dell’accordo sembrano confermare questi timori. L’M23 ha esteso il proprio controllo sulle risorse minerarie della regione, occupando a fine aprile Rubaya, un importante centro minerario vicino al confine orientale della Rd del Congo. Sebbene un portavoce delle milizie abbia negato l’interesse del gruppo per le riserve di coltan dell’area, gli esperti rimangono scettici. Il nodo centrale della questione è il contrabbando di minerali. Secondo dati Onu citati dal Dipartimento di Stato Usa, il Ruanda esporta più minerali di quanti ne estragga, e questo solleva seri dubbi sulla provenienza di queste risorse. L’accordo Ue-Ruanda rischia di fornire una copertura legale per il traffico di “minerali di conflitto” dal Congo.

Perché l'intesa con il Ruanda sui minerali critici ci mette in discussione come europei
Donne congolesi contro l’accordo siglato tra Ue e Ruanda (Getty Images).

Bruxelles pare disposta a mettere l’accesso alle risorse al di sopra dei diritti umani

L’Europa dal canto suo difende l’accordo sostenendo che miri a promuovere filiere sostenibili e responsabili. Un funzionario Ue, parlando in condizione di anonimato nei giorni scorsi a Politico, ha dichiarato che l’intesa punta a «favorire il cambiamento sul terreno». Tuttavia, queste rassicurazioni non sembrano sufficienti a placare le critiche. Emmanuel Umpula Nkumba, direttore esecutivo di African Natural Resources Watch, lo dice chiaramente: l’Ue sembra disposta a mettere l’accesso alle risorse minerarie al di sopra dei principi dei diritti umani. Questa percezione ne mina la credibilità come attore globale impegnato nella promozione della pace e dei diritti fondamentali. L’accordo si inserisce in un contesto più ampio di competizione geopolitica. L’Ue sta cercando di diversificare le proprie fonti di approvvigionamento di minerali critici, in una corsa che la vede contrapposta alla Cina. Pechino mantiene già stretti legami con il Congo e controlla vaste parti del suo settore minerario. Ma quanta democrazia è sacrificabile in questa lotta? Il ruolo del presidente ruandese Paul Kagame è centrale in questa vicenda. Rieletto per un quarto mandato con il 99 per cento dei voti in elezioni altamente controllate (roba da fare impallidire gli autocrati più duri in giro per il mondo), Kagame ha ammesso che il suo Paese è diventato una rotta di transito per i minerali estratti artigianalmente e semi-industrialmente dal Congo. Nonostante le ripetute smentite di Kigali, un rapporto delle Nazioni Unite accusa direttamente Kagame di sostenere l’M23.

Perché l'intesa con il Ruanda sui minerali critici ci mette in discussione come europei
Il presidente ruandese Paul Kagame (Getty Images).

Come ci procureremo i minerali destinati alla transizione energetica dirà molto di cosa siamo noi europei

E quindi? Per mitigare le critiche, Bruxelles ha chiesto al Ruanda di aderire all’Iniziativa per la Trasparenza delle Industrie Estrattive e di fornire una mappa di tutte le miniere da cui si approvvigiona. Inoltre, l’Ue vuole che il Ruanda utilizzi strumenti scientifici per verificare l’origine dei minerali. Sembra il gioco delle tre carte: il controllato che diventa controllore per controllarsi da solo. Un film già visto. Attivisti e ricercatori suggeriscono che l’Europa potrebbe esercitare pressioni più efficaci, ad esempio condizionando gli aiuti allo sviluppo, considerando che l’Unione è uno dei maggiori donatori del Ruanda. Guillaume de Brier, ricercatore presso l’International Peace Information Service, sottolinea la necessità di un approccio più ampio, che vada oltre la mera regolamentazione e includa un vero e proprio processo di pace per la regione. Ma l’accordo Ue-Ruanda sui minerali strategici solleva interrogativi cruciali sul ruolo dell’Unione europea in Africa. Mentre Bruxelles cerca di bilanciare interessi economici e principi etici, la situazione nel Congo orientale rimane critica. È possibile perseguire i propri interessi economici senza rinunciare ai principi etici? Questa è la vera domanda. Come ci procureremo i minerali per sostenere la transizione energetica dirà molto di cosa siamo noi, europei.

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ll Bestiario della settimana – “Ti piace il teatro? Allora sei gay”. L’ultima follia di Elon Musk. E l’editrice… Giubilei

Se ti piace il teatro sei gay

La figlia transgender ha fatto saltare i nervi a Elon Musk, lo straricco americano che piace così tanto alla destra di casa nostra e di casa loro. L’uomo che aveva comprato Twitter trasformandolo in X evocando il feticcio della libertà ha cominciato a sparare contro il figlio Xavier – ora Vivian – dichiarandolo “morto” per la sua scelta. Poi su X ha scritto: “Xavier è nato gay e leggermente autistico, due caratteristiche che contribuiscono alla disforia di genere. Lo sapevo da quando aveva circa 4 anni e sceglieva i vestiti da farmi indossare come una giacca e mi diceva che erano “favolosi!”, così come il suo amore per i musical e il teatro. Ma non era una ragazza”. Occhio ad andare in teatro, si diventa gay. 

L’editrice Francesco Giubilei

Surreale scenetta televisiva. Protagonista l’editore Francesco Giubilei, ultimamente assurto a profeta culturale di Meloni e compagnia cantante. Parlando di Kamala Harris, Giubilei la definisce “candidato”. In studio lo correggono: candidata. “Mi sento più a mio agio col maschile”, dice Giubilei. Peccato che sia così poco a proprio agio con la lingua italiana. Come dice giustamente l’account grande_flagello su X: “E allora vai di piloto, farmacisto, autisto, baristo e giornalisto!”. Brava, Giubilei. 

La priorità in Liguria dopo l’arresto di Toti

La consigliera regionale ligure Sonia Viale (Lega) ha presentato un quesito in consiglio regionale contro Google Translate, “colpevole” di non tradurre correttamente la lingua ligure. “Se si prova a inserire nell’applicazione frasi in Italiano da tradurre in Ligure, vengono fuori traduzioni inventate o in una lingua che nessuno ha mai parlato in Liguria”. Occhio che ora cade la Giunta per questo. 

L’originalità di TeleMeloni

Comunicato stampa della Rai sul nuovo programma “Se mi lasci non vale” in onda la prossima stagione: “Sei coppie in crisi, selezionate attraverso casting mirati ed approfonditi, accettano di partecipare al programma per rimettersi in gioco e ritrovarsi. Si tratta di coppie in crisi provenienti da tutta Italia […] Una vera e propria scuola per coppie, un corso di educazione sentimentale”. Si tratta evidentemente della copia del fortunato programma Temptation Island in onda sulle reti Mediaset. Ma la Rai del nuovo corso, si sa, ci tiene a fare sempre brutta figura e quindi ha scelto come “educatore sentimentale” Luca Barbareschi, secondo il quale le denunce di molestie delle attrici servono “a farsi pubblicità”. E semmai è vero il contrario: “Non ho mai avuto bisogno di trucchi per scopare. Ma mi è capitato di dire “Amore, chiudi le gambe, interessante ma ora parliamo di lavoro”.

Come lotta Pino Insegno

“Polemiche? Non le ho mai ascoltate, ho risposto coi numeri”, dice il conduttore (nonché amico dei Fratelli d’Italia) Pino Insegno. Ma la sua trasmissione Reazione a catena con la sua conduzione ha perso appeal e ascolti, in calo di 3/4 punti (anche nelle puntate senza Europei). Ed è già reduce dal flop del Mercante in Fiera.

A proposito di Casapound e di Delmastro

Come racconta Alekos Prete su X il sottosegretario alla giustizia Andrea Delmastro, partecipò, insieme al picchiatore Francesco Polacchi, alla conferenza organizzata nel 2019 dal circolo di CasaPound Asso di Bastoni, dove pochi giorni fa è stato aggredito il giornalista de La Stampa Andrea Joly. Sempre Delmastro alla festa nazionale di CasaPound a Verona disse testualmente: “Grilli, grillini e pentastellati, vi vogliamo cercare nelle vostre case”. Ce l’aveva con i “grillini eterodiretti da Mattarella”.

Ancora a proposito di CasaPound e la Lega

È passata sotto traccia la notizia che la Lega ha ritirato la tessera a Igor Bosonin, 46 anni, uno dei quattro uomini accusati di aver aggredito sabato il giornalista Andrea Joly. Candidato nel 2018 come sindaco di Ivrea per CasaPound si era tesserato al Carroccio come sostenitore e non come militante (il partito prevede un doppio grado di tesseramento). Chissà se Salvini la vede la matrice. 

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Sangiuliano specchio riflesso con Le gaffe degli altri

Quando da bambini non si sapeva più come rispondere in un’acceso scontro verbale con un amico o un’amica si finiva sempre lì. “Specchio riflesso”, si diceva, talvolta accompagnandolo anche con un gesto delle mani che rimandavano al mittente le offese. Il ministro alla Cultura, Gennaro Sangiuliano, noto più per le brutte figure che per l’azione del suo ministero, annuncia in un’intervista a Il Foglio che sta scrivendo “un libro sugli errori dei giornalisti e dei politici. Si chiamerà ‘Le gaffe degli altri’”, spiega. “Raccolgo le inesattezze dei commentatori e degli avversari politici: così ci divertiremo”, aggiunge. Il ministro che nel giro di pochi mesi è riuscito a sbagliare su Galileo Galilei e Cristoforo Colombo, che ha collocato altrove Times Square, che ha inventato una militanza di destra di Dante Alighieri, decide di reagire così: “Specchio riflesso”.

“Sto raccogliendo tutti gli errori di giornalisti e politici per poi pubblicare un agile libretto”. Insomma, siamo alla puerile vendetta. Nelle parole del ministro si legge comunque un’invidiabile consapevolezza. Se il libello si intitolerà “Le gaffe degli altri” significa che Sangiuliano si riconosce comunque come appartenente alla lista dei gaffeur. Questo gli va riconosciuto. Tra gli altri talenti non si può tacere il gnegneismo di governo che a volte sfocia nel vittimismo, marchio doc della squadra di Giorgia Meloni. Al ministro non resta che fare un augurio: che il suo libro possa scalare le classifiche, essere presentato a Times Square (ma quella di Londra) e che infine meriti di arrivare alla finale di un prestigioso premio letterario. A quel punto troverà un ministro che gli dirà che gli è piaciuto pur ammettendo di non averlo letto.

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Altro che buone vacanze

L’estate resta nell’immaginario collettivo (e nella prosopopea della ministra Santanchè) la stagione del riposo e del divertimento. 

L’estate 2024 è un lusso per un terzo delle famiglie italiane (30,4%) che non ha la possibilità economica di concedersi una vacanza. Ancora peggio se si considerano le famiglie con figli, tra le quali la percentuale sale al 43,2%. 

L’estate 2024 è un’inverno caldo per i cosiddetti lavoratori poveri, quei tre milioni di persone che guadagnano meno di 11.500 all’anno. Si alzano al mattino, lavorano tutto il giorno e tornano a casa sfiniti per essere comunque poveri. Sotto i 12 mila euro all’anno ci sono un terzo dei lavoratori. 

Ma nell’estate del 2024 è un lusso anche ammalarsi. Secondo uno studio della Federazione dei medici di base (Fimmg) i pochi medici di base quando vanno in ferie “cedono” temporaneamente i propri pazienti – tutti alla soglie del tetto di 1.500 stabilito dalla legge per ogni medico – a un collega. Il centro studi della Fimmg calcola che per ottenere un appuntamento con il proprio medico di base ci vorranno fino a due settimane. 

A questo si aggiunge la disastrosa situazione delle liste d’attesa negli ospedali se per caso un malcapitato avesse bisogno di un esame specialistico. Che la nuova legge non risolverà le criticità esistenti l’ha riconosciuto anche il ministro Schillaci. “Servirebbe una manovra”, dice. Tradotto: servirebbero soldi che non ci sono. 

L’estate 2024 è la fotografia del Paese: se stai bene – di salute e di portafoglio – avrai il diritto di riposarti. Altrimenti niente. 

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Non serve l’intervento della magistratura, CasaPound si può sciogliere per decreto

Dice il deputato di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli che solo la magistratura ha il potere di sciogliere movimenti neofascisti come CasaPound. La tesi è stata illustrata qualche giorno fa in un’intervista con La Stampa, nella quale Donzelli ha condannato l’aggressione a un giornalista della testata torinese da parte di militanti di estrema destra ma ha insistito che la politica non dovrebbe intervenire nello scioglimento di tali organizzazioni, rispettando la separazione dei poteri e mantenendo l’Italia come uno Stato di diritto. Ieri anche il leader di Forza Italia e ministro, Antonio Tajani, ha in sostanza ribadito il concetto: “Spetta alla magistratura e al legislatore. C’è una legge che prevede che ci debba essere una sentenza della magistratura”, ha detto il vicepremier.

Caso CasaPound, il potere esecutivo nello scioglimento di organizzazioni neofasciste

Peccato che le cose non stiano così. Come spiega Pagella Politica la legge italiana prevede che, in casi straordinari di necessità e urgenza, il governo può sciogliere organizzazioni di stampo fascista senza attendere una sentenza della magistratura. Questo potere è conferito dal decreto-legge, uno strumento che permette al governo di agire immediatamente, con l’obbligo di ottenere poi la conversione in legge da parte del Parlamento entro 60 giorni.

La “legge Scelba” del 1952 disciplina nel dettaglio il divieto di riorganizzazione del disciolto partito fascista, punendo chiunque esalti pubblicamente i principi del fascismo. Essa consente al governo di intervenire direttamente per sciogliere movimenti che promuovono la violenza come metodo di lotta politica e che si riconoscono nei valori fascisti, purché vi sia una chiara ed evidente necessità urgente.

Donzelli comodamente ignora queste disposizioni spostando la responsabilità esclusivamente sulla magistratura e minimizzando il ruolo attivo che il governo potrebbe avere. È l’ennesimo indizio sulla reale volontà politica di Fratelli d’Italia e dell’esecutivo Meloni di contrastare efficacemente le organizzazioni neofasciste come CasaPound.

La contraddizione di Donzelli e la volontà politica del governo

Il caso recente di Forza Nuova, i cui vertici sono stati condannati per l’assalto alla sede della CGIL a Roma, rappresenta un esempio significativo. Nonostante la gravità dei fatti il governo non ha adottato misure drastiche per sciogliere il movimento, evidenziando una mancata azione che va oltre il mero rispetto delle procedure legali, configurandosi come una chiara scelta politica.

In passato, altri governi italiani hanno utilizzato il loro potere per sciogliere organizzazioni neofasciste. Nel 1973, il ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani decretò lo scioglimento di Ordine Nuovo; nel 1976, Francesco Cossiga fece lo stesso con Avanguardia Nazionale; e nel 2000, il ministro Enzo Bianco sciolse il Fronte Nazionale. Questione di volontà politica. 

La reticenza di autorevoli esponenti della maggioranza a riconoscere le possibilità di intervento governativo, quindi, non sembra essere una questione di semplice carattere tecnico. Se lo scopo era quello di giustificare l’inazione politica del governo si può tranquillamente dire che la missione è fallita. Ignorare il potere dell’esecutivo di sciogliere organizzazioni pericolose come CasaPound, in nome di una supposta separazione dei poteri, ha l’aria di essere più uno scarico di responsabilità che una posizione basata su principi oggettivi.

La realtà, confermata da esperti, come il professor Ugo Adamo, è che l’intervento è possibile e dipende solo dalla volontà politica di chi governa. Quindi, se CasaPound continua a esistere, la responsabilità ricade interamente su chi ha il potere, ma non la volontà, di esercitarlo.

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