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Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Sono convinto che in cuor suo Ignazio Maria Benito La Russa sia convinto di essere un politico brillante. La seconda carica dello Stato ha coniato la figura retorica del larussismo che consiste nell’esprimere solidarietà canzonando le vittime. Anche ieri La Russa probabilmente si è addormentato sornione pensando di essere riuscito a esprimere contemporaneamente la dovuta solidarietà al giornalista de La Stampa Andrea Joly e l’interessata simpatia verso i fascisti che l’hanno pestato. 

Le regole lessicale del larussismo ci sono tutte. Si comincia dal “condanna totale” a cui si aggiunge sempre un “ma”. Poi La Russa indossa la maschera del busto di Mussolini per aggiungere che non crede che «il giornalista passasse lì per caso» per poi aggiungere che ha «letto» che «non si è dichiarato giornalista». 

Usiamo la sua stessa figura retorica al contrario. Nel centro di Torino dei fascisti fuorilegge hanno occupato la strada con una festa non autorizzata sparando fumogeni mentre intonavano canzoni dedicate a Mussolini. Un cittadino – fingiamo che non sia un giornalista – è rimasto colpito dalla decadenza del Paese in cui vive e ha voluto raccogliere prove di un reato che si consumava in mezzo alla strada. 

I manigoldi, come al solito vigliacchi, gli hanno intimato di cancellare le foto del loro crimine in pubblico assalendolo per le vie della città, a dimostrazione degli effetti dell’invasione di clandestini della Costituzione che per colpa di un governo incapace di chiudere i porti e i tombini ai fascisti di ritorno. La seconda carica dello Stato se l’è presa con il cittadino per nascondere le responsabilità morali del governo di cui fa parte. 

Che ne dice La Russa, fa ridere anche così?

Buon mercoledì. 

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A grandi passi verso l’irrilevanza

Giorno dopo giorno cresce l’irrilevanza politica dell’Italia in Europa. Il pastrocchio di Giorgia Meloni che per mesi ha oscillato tra von der Leyen e sovranisti finendo nel guado dell’insignificanza sta dando i suoi frutti amari. 

Al Parlamento europeo l’Italia ha ottenuto una sola presidenza di commissione finita all’ex sindaco di Bari Antonio Decaro (Pd) mentre Forza Italia perde la guida della commissione Affari costituzionali che fu di Salvatore De Meo e ora invece passa al tedesco Sven Simon. Anche il Pd perde la presidenza di una commissione di peso come quella Economia che nella scorsa legislatura era presieduta da Irene Tinagli e ora è passata socialista francese Aurore Lalucq.

Non è nemmeno un caso che la presidenza della sottocommissione per le questioni fiscali sia finita a Pasquale Tridico, capo delegazione del Movimento 5 stelle. Un esponente dell’opposizione in Italia e in Europa è ritenuto più credibile di patrioti e sovranisti che reclamano una poltrona. Un’immagine che dice tutto. 

Che la capa del governo italiano stia dentro un partito ritenuto impresentabile in Europa non è solo il giudizio vezzoso di qualche giornalista ritenuto nemico dalla maggioranza. È un dato politico che condiziona il peso del nostro Paese all’interno dello scacchiere europeo. Le regole della politica, soprattutto quelle tra nazioni, sono molto più semplici di come qualcuno si ostini a raccontare. La credibilità è il capitale politico di un Paese. E se ci pensate bene accade così per ciascuno di noi. 

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Altro che rinascita, in Italia crollano le case

Roberto Abbruzzo, 28 anni, macellaio della zona, sposato e padre di una bimba piccola, e Margherita Della Ragione, di 35 anni sono le vittime del crollo del ballatoio della Vela celeste di Scampia. In gravi condizioni c’è una ragazza di 25 anni. Altri feriti non sono in pericolo di vita. I bimbi feriti con traumi ricoverati sono 7 ed hanno un’età compresa tra gli 8 ed i 2 anni. I bambini hanno fratture multiple, contusioni e diverse lesioni d’organo. Due sono in gravissime condizioni per lesioni multiple del cranio. Sulla Vela celeste c’era un cantiere che avrebbe dovuto rafforzare le paratie del piano terreno e i varchi di accesso. Troppo tardi. Gli 800 abitanti attendono da tempo le nuove case che gli sono state promesse dopo la decisione di abbattere le Vele. Troppo tardi. La tragedia è stata più veloce del progetto Re-Start Scampia.

Nel frattempo il cosiddetto decreto Caivano che avrebbe voluto essere il primo passo per la rinascita del Sud sta facendo scoppiare le carceri di minorenni mentre coloro che compiono i 18 anni in cella vengono traslocati con gli adulti. La sicurezza sventolata da Giorgia Meloni durante la sua passerella a Caivano non ha niente a che vedere con la difesa delle dignità delle persone. Da queste parti la sicurezza consiste nel non morire schiacciati da case pericolanti, non avere nessun’altra opportunità oltre al degrado. La vera sicurezza consiste nell’opportunità di avere speranza, non punizioni. L’arresto del ragazzino spacciatore sfruttato dalla mafie è omeopatia penale qui dove le case cadono in testa agli inquilini. E no, non è solo Napoli, non è solo il Sud, non è solo Scampia.

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Orbán e Borrell ai ferri corti, cordone sanitario Ue all’Ungheria

Il giochetto di Orbán antieuropeista da presidente del Consiglio dell’Ue rischia di essere già al tramonto. Josep Borrell, Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri, ha riperso la pazienza nei confronti del primo ministro ungherese Viktor Orbán. Il motivo è la cosiddetta “missione di pace” di Orbán, che includeva incontri con Vladimir Putin a Mosca e Xi Jinping a Pechino, durante il semestre di presidenza ungherese del Consiglio dell’Ue. Borrell ha definito il comportamento di Orbán “puramente vergognoso”, sottolineando che la Russia è l’aggressore e l’Ucraina sta esercitando il suo diritto all’autodifesa.

La critica di Borrell alle politiche di Orbán

Borrell ha ribadito che tutti i membri dell’Ue devono sostenere attivamente la politica estera comune, in linea con l’articolo 24.3 dei Trattati dell’Ue, e che le azioni di Orbán rappresentano una mancanza di cooperazione leale. Ha inoltre annunciato che la riunione informale dei ministri degli Esteri, originariamente prevista a Budapest, si terrà a Bruxelles, aggiungendosi al boicottaggio già annunciato dalla Commissione Europea.

Orbán e il ministro degli Esteri ungherese, Peter Szijjártó, hanno criticato le forniture di armi dell’Ue a Kiev, definendole una “politica a favore della gUerra”. Borrell ha risposto che l’unico favorevole alla gUerra è Putin, non l’Unione Europea. Ha anche denunciato il perenne veto dell’Ungheria all’assistenza militare dell’Ue per l’Ucraina, che attualmente blocca 6,6 miliardi di euro di rimborsi.

L’annuncio di Borrell è stato un colpo significativo per l’Ungheria, che da tempo è in disaccordo con Bruxelles su vari temi, tra cui lo stato di diritto e la libertà di stampa. La presidenza ungherese del Consiglio dell’Ue, iniziata con grandi aspettative, ha subito un duro colpo con qUesto boicottaggio. I funzionari dell’Ue hanno espresso preoccupazione per l’indipendenza giudiziaria in Ungheria e le violazioni dei diritti umani, sottolineando che qUesti problemi mettono in discussione la capacità dell’Ungheria di guidare l’Unione.

Borrell ha concluso dichiarando di aver “perso la speranza” che Budapest cambi posizione a breve, avvertendo che l’assenza di rimborsi potrebbe disincentivare ulteriori aiuti militari a Kyiv. Ha insistito sulla necessità di un fronte unito e coerente all’interno dell’Ue per affrontare le sfide geopolitiche, specialmente con l’aggressione russa in corso.

Il futuro dell’Ungheria nell’UE

La presa di posizione di Borrell riflette una crescente impazienza all’interno dell’Ue verso le azioni di Orbán, che spesso sembrano andare contro i principi fondamentali dell’Unione. Mentre l’Ungheria cerca di mantenere relazioni diplomatiche bilaterali con la Russia e la Cina, molti stati membri dell’Ue vedono qUeste mosse come una minaccia alla solidarietà e alla sicurezza collettiva dell’Unione.

L’atteggiamento di Orbán ha sollevato interrogativi sul futuro dell’Ungheria nell’Ue e sulla sua capacità di rispettare i valori e le regole comuni. I prossimi mesi saranno cruciali per determinare se l’Unione riuscirà a mantenere la coesione interna di fronte a queste sfide, o se le divisioni interne porteranno a un ulteriore indebolimento della sua posizione globale.

Dopo giorni di speculazioni, Borrell ha confermato che il prossimo incontro informale dei ministri degli Esteri, noto come Gymnich, originariamente previsto a Budapest alla fine di agosto, sarà invece ospitato a Bruxelles. Il cambiamento si aggiunge al boicottaggio già annunciato dalla Commissione europea, che consiste nell’inviare funzionari pubblici, anziché commissari, agli incontri informali in Ungheria.

Orbàn si conferma il capo ideale per i patrioti europei. Utilizza l’istituzione europea per fomentare la propaganda e poi si lamenterà – sicuro – di essere stato messo ai margini. Possiamo già indovinare la retorica sui “poteri forti”, incapace di riconoscere le regole della democrazia. 

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Strage di Cutro, chiusa l’inchiesta: 6 indagati tra Finanza e Guardia Costiera. I Pm: “Inerzia e ritardi, la tragedia si poteva evitare”

Che non si tratti di una semplice “tragedia” come frettolosamente etichettata dalla presidente del Consiglio Meloni e dal ministro dell’Interno Piantedosi lo credono in molti. Da oggi ne è ufficialmente convinta anche la Procura di Crotone che ha chiuso le indagini sulla strage che ha provocato la morte di 94 migranti, tra cui 35 bambini, oltre a una decina di dispersi. 

Secondo gli inquirenti quella tragedia si poteva evitare e per dimostrarlo hanno raccolto migliaia di documenti, approfondimenti, consulenze, valutazioni, chat e immagini. La chiusura delle indagini aggiunge anche un quarto indagato tra gli uomini della Guardia di finanza e la riduzione degli indagati della Guardia costiera da tre a due. Nelle prossime ore verranno notificati gli atti e emergeranno con maggiore chiarezza le responsabilità ipotizzate dalla Procura. Nei diciassette mesi passati dalla strage l’inchiesta ha esaminato ogni azione e soprattutto ogni inazione di quella notte tra il 25 e il 26 febbraio del 2023. 

La chiusura delle indagini e nuove scoperte

Per il pubblico ministero Pasquale Festa e il procuratore capo Giuseppe Capoccia i quattro indagati della Guardia di Finanza avrebbero gestito in modo errato la segnalazione del caicco avvistato a 40 miglia dalle coste calabresi e le comunicazioni con la Guardia costiera. In particolare, si contesta loro di aver trattato l’evento come un’operazione di polizia “low enforcement” anziché come un’emergenza di soccorso in mare (evento Sar).

La Guardia di finanza comunicando di intervenire lei come low enforcement disse: “Ce ne occupiamo noi, mare permettendo”, e quel “mare permettendo” avrebbe dovuto – secondo la procura – allertare di più la Costiera, che sapeva bene che quella notte c’era mare grosso e la situazione meteo era in peggioramento.

Responsabilità e inazione delle autorità

Per questo i due ufficiali di ispezione della Guardia Costiera sono sotto accusa sostanzialmente per la non azione. Come spiega il Corriere della sera “sia pure indotti in errore dai finanzieri, dice la procura, non si preoccuparono di informarsi e di far scattare un eventuale evento Sar, cioè di soccorso in mare, e lasciarono che se ne occupasse la finanza come evento di low enforcement, cioè come operazione di polizia”.

Tra gli indagati esce dall’inchiesta il responsabile della sala operativa della Guardia costiera di Reggio Calabria. Entra invece il capoturno della sala operativa della Finanza di Vibo Valentia, accusato di aver fuorviato la capitaneria con informazioni operative che erano solo intenzioni. Per esempio, spiega la Procura, comunicò via radio che “un nostro mezzo in pattugliamento sta aspettando il target (la barca con i migranti, ndr) a due-tre miglia dalla costa” mentre in realtà quel mezzo stava rientrando in porto per rifornirsi di carburante.

Ad oggi per quella strage sono stati condannati con rito abbreviato a vent’anni di reclusione e tre milioni di euro di risarcimento (difficilmente esigibili) due scafisti mentre gli altri tre sono sotto processo con rito ordinario sempre pendente dinanzi al Tribunale di Crotone che vedrà la prossima udienza, una delle ultime, il prossimo 30 luglio. 

La diocesi di Locri-Gerace si era sobbarcata i costi di vitto e alloggio per la trentina di persone arrivate da buona parte d’Europa in quei giorni facendosi carico anche dei biglietti aerei per consentire ai parenti i quattro diversi luoghi dove erano custodite le vittime. Caritas e Croce rossa non hanno ancora ricevuto compensazione delle spese sostenute. Nemmeno i 25 mila euro spesi per ripulire la spiaggia dai rottami della strage sono stati restituiti al Comune.

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Le accuse infondate contro Unrwa e i proiettili

Il Regno Unito, come molti altri Paesi nel mondo, aveva sospeso a gennaio i finanziamenti all’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite che garantisce gli aiuti ai profughi palestinesi. Erano i giorni in cui lo stato di Israele accusava alcuni dipendenti dell’agenzia di essere stati coinvolti nell’attacco compiuto da Hamas lo scorso 7 ottobre. 

Quelle accuse non sono mai state dimostrate se non addirittura smentite dai più autorevoli media del mondo. L’effetto di affamare ulteriormente i palestinesi profughi nella loro stessa nazione è stato ottenuto. 

Il ministro degli Esteri britannico David Lammy ha detto che il suo governo fornirà all’agenzia delle Nazioni Unite 21 milioni di sterline (circa 25 milioni di euro) spiegando che la malnutrizione a Gaza è ormai così grave che le madri non riescono più a produrre il latte per nutrire i loro bambini e le loro bambine: «gli aiuti umanitari sono una necessità morale di fronte a una tale catastrofe» e «l’Unrwa è assolutamente centrale per fornire aiuti ai civili sul posto».

Incurante della realtà e delle smentite lo stato di Israele si appresta a dichiarare Unrwa “organizzazione terroristica”, alla faccia del diritto internazionale. Dopo avere inventato accuse che non sono riusciti a provare il governo israeliano continua imperterrito sulla sua strada. 

Intanto un convoglio delle Nazioni Unite è stato colpito ieri dalle Forze di difesa israeliane (Idf) nella Striscia di Gaza. Lo ha annunciato Philippe Lazzarini,  commissario generale dell’Unrwa, con un post su X. Il veicolo blindato è stato colpito da “almeno cinque proiettili” mentre era in attesa a un posto di blocco a sud di Wadi Gaza, che divide il nord e il sud dell’enclave.

Buon martedì. 

Nella foto: quel che rimane dell’ufficio Unrwa a Gaza City (dalla pagina fb Unrwa)

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No, il Pnrr non va bene come dicono

Giorgia Meloni si dice “fiera di quanto fatto” sul Pnrr e ricorda che “la fase due non ammette errori e ritardi”. Esulta anche il ministro Fitto, che con il Pnrr spera di avere abbastanza rincorsa per meritarsi un posto a Bruxelles. Scorrendo le dichiarazioni si potrebbe credere di essere di fronte a un trionfo. E invece no, non è così. 

Partiamo dai numeri: nel 2024 è stata effettuata una nuova revisione del Pnrr che ha influenzato anche la programmazione dei flussi finanziari. Attualmente, scrive Openpolis, il 56% delle scadenze del Pnrr sono ancora da completare, con molte posticipate al 2025 e 2026.

Nel contesto del piano europeo Next Generation EU, all’Italia spettano 194,4 miliardi di euro, distribuiti in diverse rate condizionate al raggiungimento di specifici traguardi e obiettivi verificati semestralmente dalle istituzioni europee. Dopo il versamento della quinta rata, che deve ancora essere autorizzato dal Consiglio dell’Unione Europea, l’Italia avrà incassato 113,5 miliardi di euro.

Nel 2023, il governo ha operato una significativa revisione del Pnrr italiano. Dopo l’approvazione di tale modifica, l’erogazione della sesta rata doveva essere condizionata al completamento di 39 scadenze per un valore di circa 9,2 miliardi di euro. Tuttavia, la richiesta italiana è stata inferiore di 700 milioni di euro rispetto al previsto. La revisione del 2024 ha comportato una riprogrammazione del quadro delle scadenze fino al giugno 2026, influenzando i flussi finanziari delle future rate.

Questa riprogrammazione non ha risolto tutte le criticità. Più della metà delle scadenze relative alla realizzazione del Pnrr devono ancora essere conseguite. È quindi cruciale proseguire nell’attività di monitoraggio. A giugno 2026 è previsto il completamento di 173 scadenze, un obiettivo ambizioso e rischioso.

Le modifiche del 2024, passate quasi inosservate, hanno interessato 24 misure. L’investimento “Partenariati per la ricerca e l’innovazione – Orizzonte Europa” è stato eliminato per insufficienza di domanda, mentre altre misure sono state riprogrammate. L’importo della sesta rata è stato ridotto di 700 milioni di euro rispetto alla versione del 2023.

Il nuovo programma di erogazione delle risorse Pnrr prevede che l’Italia debba incassare 28,6 miliardi di euro entro la fine del 2024. Anche se la quinta rata ha visto un incremento di 500 milioni di euro, passando da 10,6 a 11,1 miliardi, l’importo totale è ancora inferiore rispetto al cronoprogramma iniziale di 6,9 miliardi di euro.

Per ottenere tutti i fondi del Pnrr, l’Italia deve realizzare 618 traguardi e obiettivi suddivisi su 10 rate. Supponendo che non ci siano problemi sull’ottenimento dei fondi legati alla sesta rata, le scadenze ancora da conseguire sarebbero 349. La settima rata, da richiedere entro la fine dell’anno, ha visto una riduzione delle scadenze programmate da 74 a 69.

Il governo italiano ha adottato misure per accelerare l’implementazione del Pnrr, inclusa l’eliminazione di alcuni progetti per ridurre il rischio di mancato completamento entro il 2026. Tuttavia, le motivazioni per il definanziamento di specifiche misure non sono sempre chiare, come rilevato dal Prof. G. Viesti dell’Università di Bari. Con il decreto Pnrr quater, il governo ha anche previsto l’uso di poteri sostitutivi e il commissariamento delle opere in ritardo.

La Corte dei Conti ha evidenziato ritardi significativi nella realizzazione dei progetti pubblici, un settore tradizionalmente lento per l’amministrazione pubblica italiana. Nonostante l’Italia sia riuscita a ottenere i fondi relativi alle prime cinque rate del Pnrr, il futuro e i risultati sono meno facili e meno scontati di come vengono raccontati. I numeri parlano, per questo sono così odiati dalla propaganda. 

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Spararne una al giorno, gara aperta nella Lega

Ogni mattina qualcuno dalle parti della Lega di Salvini si alza e sa che dovrà correre più veloce dei suoi compagni di partito per spararla grossa e meritarsi un posto al sole. L’operazione è perigliosa e complicata poiché nella savana dei leghisti abitano esemplari irraggiungibili nell’istigazione. Qualche giorno fa il senatore leghista Manfredi Potenti ha pensato che sarebbe stata una buona idea multare fino a 5 mila euro chi chiama al femminile le cariche o i titoli rivestiti dalle donne (tipo sindaca o avvocata). Un multa per utilizzo non condiviso della lingua è una legge troppo ambiziosa perfino per Putin o per Kim Jong-un. Ogni giorno la stampa deve perdere tempo, spazio e fatica per riportare in cronaca le gesta di qualche parlamentare naïf. Inevitabile è anche lo sdegno misto alla risata imbarazzata dei lettori e degli elettori.

Ogni mattina qualche dirigente della Lega deve svegliare presto il suo addetto stampa per vergare un comunicato in cui il partito prende le distanze dalle affermazioni di un suo parlamentare. Ieri è accaduto al capogruppo al Senato della Lega Massimiliano Romeo per dirci che i vertici del partito “non condividono quanto riportato nel ddl Potenti il cui testo non rispecchia in alcun modo la linea della Lega che ne ha già chiesto il ritiro immediato”. A coloro che da fuori osservano la scena, che quasi quotidianamente si ripete, rimane la sensazione che ogni proposta di legge squinternata sia anche il modo per tastare il polso della fattibilità, una sorta di test di marketing politico per capire a quanti metri dell’abisso sia finito l’elettorato. E chissà che prima o poi non ci sia più bisogno di smentire. L’elettorato sarà pronto, l’autocrazia finalmente splenderà.

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Rinnovabili, in Italia storico sorpasso sui fossili nel 2024

Nel primo semestre del 2024, l’Italia ha compiuto un passo da gigante verso un futuro più verde. Per la prima volta nella storia del nostro Paese, la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili ha superato quella da fonti fossili. Un traguardo che fino a poco tempo fa sembrava un miraggio e che invece oggi è realtà. 

I dati forniti da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale, parlano chiaro: tra gennaio e giugno, la produzione di energia da fonti rinnovabili ha segnato un incredibile +27,3% rispetto allo stesso periodo del 2023. Un balzo in avanti che sa di rivoluzione energetica.

Un’impennata idroelettrica senza precedenti

Vero protagonista della svolta in questo semestre è stato l’idroelettrico. Le centrali idroelettriche hanno macinato gigawattora su gigawattora, favorite dalle abbondanti piogge primaverili che hanno gonfiato i fiumi del nord Italia. Mentre al sud e nelle isole la siccità mordeva, al settentrione le turbine giravano a pieno regime, producendo la bellezza di 25,92 TWh. Un’impennata del 64,8% rispetto all’anno precedente, quando ci si era fermati a 15,73 TWh.

E mentre l’acqua faceva il suo dovere anche il sole e il vento non sono stati da meno. La capacità rinnovabile in esercizio è aumentata di 3.691 MW, di cui ben 3.341 MW di fotovoltaico. Un incremento del 41% rispetto al 2023, che dimostra come l’Italia stia finalmente prendendo sul serio la sfida della transizione energetica.

Il risultato? Nel primo semestre del 2024, le rinnovabili hanno coperto il 43,8% della richiesta di energia, contro il 34,9% dello stesso periodo dell’anno precedente. Un record storico su base semestrale che fa ben sperare per il futuro. E se guardiamo solo al mese di giugno, il quadro è ancora più roseo: le energie pulite hanno soddisfatto il 52,5% della domanda elettrica, contro il 43,8% di giugno 2023.

Il crollo del carbone e la promessa del futuro

Ma la vera notizia, quella che fa tremare i polsi ai baroni del fossile, è un’altra: il crollo verticale della produzione di energia da carbone. Un tonfo del 77,3% che sa di requiem per questa fonte sporca e inquinante. Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin ha ribadito l’impegno dell’Italia a interrompere la produzione di energia elettrica dal carbone entro la fine del 2025, con la sola eccezione della Sardegna. Una promessa che, alla luce di questi dati, sembra finalmente realizzabile.

Certo, la strada verso una completa transizione energetica è ancora lunga e tortuosa. La domanda di energia continua a crescere, trainata dalla diffusione delle auto elettriche, dall’aumento degli impianti di aria condizionata e dal futuro divieto di vendita di nuove caldaie a gas naturale imposto dall’UE dal 2040. Sfide che richiederanno investimenti massicci in infrastrutture e tecnologie innovative.

I segnali però sono incoraggianti. Il governo ha annunciato nuove misure per sostenere lo sviluppo delle rinnovabili, tra cui incentivi fiscali per le aziende che investono in tecnologie verdi e la semplificazione delle procedure burocratiche per l’installazione di nuovi impianti. Passi necessari per raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi nei prossimi anni.

Rinnovabili: la partita è ancora da giocare

La partita, insomma, è ancora tutta da giocare. Ma l’Italia ha dimostrato di avere le carte in regola per essere protagonista della rivoluzione verde. Un cambio di passo che non solo contribuisce a ridurre le emissioni di CO2, ma migliora anche la sicurezza energetica del nostro Paese, riducendo la dipendenza dalle importazioni di combustibili fossili. 

Ora non resta che abbandonare la retorica della conservazione e gli occhiolini ai negazionisti climatici. L’Italia è in prima fila nella transizione energetica. Se smettesse di vergognarsene per accarezzare un certo elettorato si potrebbe perfino osare di più. 

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Lingua di Stato

«Io voglio essere libero di continuare a chiamare sindaco anche le sindache donne, voglio essere libero di chiamare “il presidente” anche la presidente». Ogni volta che qualcuno da destra spreca fiato, inchiostro e comunicati stampa per ribadire questo squinternato concetto alcuni sorridono e alcuni si preoccupano.

Quelli che sorridono ci spiegano con un certo snobismo che non sono certo questi i problemi che preoccupano gli italiani. Solitamente questi sorridono anche di quelli che si preoccupano ritenendoli allarmisti o comunque esagerati. 

Nei giorni scorsi il senatore leghista Manfredi Potente ha presentato il suo disegno di legge dal titolo “Disposizioni per la tutela della lingua italiana, rispetto alle differenze di genere” che vieta “in qualsiasi atto o documento emanato da Enti pubblici o da altri enti finanziati con fondi pubblici o comunque destinati alla pubblica utilità, è fatto divieto del genere femminile per neologismi applicati ai titoli istituzionali dello Stato”. C’è anche la multa: fino 5 mila euro. 

Il ddl molto probabilmente non diventerà mai legge ma contiene almeno due aspetti preoccupanti. C’è l’ignoranza di chi non sa che i femminili esistono dai tempi antichi – la sociolinguistica Vera Gheno si sgola da tempo per ricordarlo (lo testimoniano i suoi libri pubblicati da Einaudi come Grammanti e Potere alle parole)- e c’è la pericolosa idea di legiferare sulla lingua, segno particolare di ogni dittatura. Volendo ben vedere c’è anche la terza più significativa caratteristica: per libertà qualcuno intende il diritto di vietare agli altri ciò che non si condivide o ciò di cui non si è all’altezza. 

Buon lunedì. 

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