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Il paradosso dell’attentato a Donald

L’ideale sarebbe stato un indiscutibile democratico, meglio ancora un Antifa nell’accezione negativa che la destra sovranista vorrebbe dare all’obbligo di essere antifascisti per Costituzione.

Thomas Matthew Crooks, 20 anni, di Bethel Park, ha deluso le aspettative. “Un bravo studente di matematica al liceo che lavorava in una casa di cura”, scrive il Washington Post. Crooks non aveva precedenti con le forze dell’ordine, non aveva mai dato segni di squilibrio e non ha lasciato traccia di minacce. Gli ex compagni di classe lo hanno descritto come gentile, educato e intelligente.

Chi era Thomas Matthew Crooks?

L’uomo armato lavorava come assistente dietetico presso il Bethel Park Skilled Nursing and Rehabilitation Center, in un sobborgo di Pittsburgh che conta circa 34.000 abitanti e si trova a circa 40 miglia a sud di Butler. Crooks “ha svolto il suo lavoro senza preoccupazioni e i suoi precedenti penali erano puliti”, ha affermato l’amministratore della struttura in una nota. L’elenco dei diplomati della Bethel Park High School stilato da un’agenzia di stampa locale nel 2022 fa figurare Crooks come uno dei 20 studenti ad aver ricevuto un premio di 500 $ per matematica e scienze dalla scuola quell’anno.

Accanto al suo corpo è stato trovato un fucile semiautomatico tipo AR-15. Gli investigatori hanno confermato che l’arma è stata regolarmente acquistata dal padre dell’uomo armato. L’FBI ha spiegato che la famiglia sta collaborando alle indagini.

Di certo si sa che Crooks si esercitava al Clairton Sportsmen’s Club, un poligono a sud di Pittsburgh. “Il Club non è in grado di rilasciare ulteriori commenti in merito a questa questione alla luce delle indagini in corso delle forze dell’ordine”, recita la nota stampa del centro sportivo rilasciata dal suo consulente legale, Robert Bootay, esprimendo le proprie condoglianze per la famiglia di Corey Comperatore, uno spettatore ucciso.

Il registro degli elettori indica il signor Crooks come repubblicano, sebbene i registri federali di finanziamento delle campagne elettorali mostrino che prima aveva donato 15 dollari al Progressive Turnout Project, un gruppo liberale, tramite la piattaforma di donazioni democratica ActBlue nel gennaio 2021. Per ora, dicono gli investigatori, è impossibile identificarlo con una precisa ideologia politica.

L’ombra delle armi sulla violenza politica

Gli inquirenti hanno trovato alcuni ordigni rudimentali sulla sua auto e nell’abitazione. Spesso gli attentatori, i cosiddetti “shooter”, si preparano ordigni per barricarsi con atteggiamenti di guerriglieri. Le assonanze già evidenti invece sono con la strage avvenuta a Austin, in Texas, quando nel 1996 un veterano uccise quindici persone sparando da una torre. Dal trentaduesimo piano di un hotel aveva sparato invece Steven Paddock uccidendo 60 persone. Due anni fa Robert Crimo III ne ha uccise sette sparando da un tetto a Highland Park, Illinois.

Allora forse converrebbe accendere la luce su un Paese in cui le armi sono la prima causa di mortalità tra i giovani americani. Il tentato assassinio è avvenuto un mese dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha inferto l’ultimo colpo agli sforzi per frenare le armi da fuoco, annullando il divieto sui “bump stock”, dispositivi che aumentano notevolmente la potenza di fuoco dei fucili. La misura era stata implementata dopo una sparatoria di massa a Las Vegas, la più mortale nella storia moderna degli Stati Uniti.

A Bethel Park, la comunità oggi sta cercando di fare i conti da domenica con l’ultimo atto di violenza armata, che ha spinto un angolo della periferia americana nel cuore delle elezioni presidenziali del 2024. “È scioccante. È un po’ spaventoso”, ha detto Jeffrey, il vicino della famiglia Crooks. “Non sai mai cosa pensa la gente”.

In Italia la delusione per un attentatore che non corrisponde al tipo utile per alzare ancora l’intensità della battaglia politica contro gli avversari indica la responsabilità con cui si sta affrontando il problema. Del resto chi sono quelli che vogliono le armi libere dalle nostre parti li conosciamo bene.

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Von der Leyen, sfida all’ultimo voto per blindare il bis. Meloni di fronte a un dilemma cruciale

Giovedì 18 luglio, nell’emiciclo del Parlamento europeo a Strasburgo, Ursula von der Leyen affronterà la sfida decisiva per la sua riconferma a presidente della Commissione europea. Con una maggioranza assoluta fissata a 361 voti su 720, von der Leyen ha trascorso due settimane frenetiche a caccia di ogni singolo voto, cercando di consolidare il sostegno necessario. Nonostante l’ottimismo diffuso tra i suoi sostenitori, il percorso verso la conferma appare tutt’altro che agevole.

I numeri sulla carta sembrano favorevoli: il Partito Popolare Europeo (PPE), i Socialisti e Democratici (S&D) e i liberali di Renew contano complessivamente 401 membri, una maggioranza che dovrebbe garantire la riconferma. Tuttavia, la storia e le dinamiche parlamentari insegnano che le defezioni sono sempre dietro l’angolo. Nel 2019, von der Leyen riuscì a essere eletta con un margine risicato di soli nove voti, nonostante un vantaggio teorico ben più ampio. Questo precedente pesa come un’ombra sul voto di giovedì, con una previsione di diserzioni tra il 10 e il 15% nei tre principali gruppi europeisti.

Il peso delle defezioni e il ruolo decisivo dei Verdi per la conferma di von der Leyen

In questa cornice di incertezza, un ruolo cruciale potrebbe essere giocato dai Verdi, che con i loro 53 eletti potrebbero fornire i voti decisivi. Le recenti dichiarazioni della presidente dei Verdi, Terry Reintke, lasciano spazio a un moderato ottimismo per la presidente uscente: “Abbiamo avuto uno scambio molto costruttivo”, ha dichiarato Reintke, sottolineando l’interesse comune contro l’estrema destra. Tuttavia, i Verdi attendono ancora di vedere le linee programmatiche definitive e il discorso di von der Leyen prima di annunciare il loro voto.

Ma il vero nodo della questione potrebbe trovarsi altrove, e precisamente a Roma. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e del gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (Ecr), si trova di fronte a un dilemma che potrebbe avere implicazioni profonde per il futuro politico dell’Italia e dell’Europa. Al momento, la posizione ufficiale dell’Ecr è di “libertà di voto”, con molti membri del gruppo, tra cui i 20 deputati polacchi del PiS, dichiaratamente contrari a von der Leyen. Tuttavia, i 24 deputati di Fratelli d’Italia rimangono un’incognita. Nicola Procaccini, presidente dell’ECR, ha confermato che il voto del gruppo è ancora negativo, ma ha lasciato uno spiraglio, sostenendo che le “indicazioni” di Meloni, attese dopo l’audizione con von der Leyen, potrebbero influenzare la decisione finale.

Il dilemma di Giorgia Meloni e l’incognita dei Conservatori

Meloni è in bilico tra la fedeltà alle promesse elettorali e il pragmatismo politico. Votare a favore di von der Leyen potrebbe essere visto come un tradimento dai suoi elettori ma potrebbe rappresentare l’unica opportunità per aumentare l’influenza dell’Italia in Europa. Gli alleati conservatori della presidente uscente della Commissione sostengono che un voto contrario sarebbe un regalo per i populisti e destabilizzerebbe ulteriormente il già fragile scenario geopolitico. D’altra parte, un appoggio a von der Leyen potrebbe rafforzare la posizione dell’Italia nelle future negoziazioni europee, permettendo a Meloni di contare di più nei tavoli che contano.

In questa situazione complessa, la strategia di von der Leyen è chiara: evitare accordi formali con i Verdi per non alienarsi ulteriormente la sua base nel Ppe, ma allo stesso tempo corteggiare i voti individuali del gruppo Ecr. Tuttavia, come sottolineato da esponenti di spicco del Ppe, come l’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, e il commissario europeo greco Margaritis Schinas, la prudenza è d’obbligo. La posta in gioco è alta: un fallimento giovedì potrebbe portare a una paralisi della Commissione europea fino al 2025, con conseguenze imprevedibili per l’Europa.

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Trump e noi

Molto ci sarà da dire sull’attentato all’ex presidente USA Donald Trump sopravvissuto a un attentato in Pennsylvania. 

Ci sarà da capire come possa un cecchino appostarsi su un tetto poco lontano da un comizio politico, ci sarà da capire quali siano le motivazioni che hanno spinto Thomas Matthew Crooks a compiere il gesto (lui non potrà spiegarle, essendo morto). Ci sarà da valutare l’impatto sulla campagna elettorale. Hanno sparato a Trump ma hanno ammazzato Biden, ha twittato ieri Marianna Aprile. Per ora sembra una sintesi perfetta. Si dovrà fare i conti con democrazie che appaiono sempre più fragili. 

Sul fronte italiano vale la pena sottolineare alcune storture. C’è il provincialismo di chi paragona un attentato di tale portata alla statuetta sbattuta in faccia a Berlusconi. Ci sono i rimestatori nel torbido che hanno rilanciato la faccia di un italiano sulle televisioni mondiali, per divertimento. E questo dice molto sullo stato di salute della stampa. 

C’è la solita masnada di speculatori che cercando di usare l’attentato contro Trump (il ragazzo era iscritto alle liste dei repubblicani, amava le armi, non proprio un tipo di sinistra) per attaccare gli avversari politici ha rilanciato per tutto il giorno un video falso e sbagliato. 

Infine c’è il coming out di Salvini che in diretta ha detto “Spero che questo serva a chi semina odio contro le destre, contro i fascisti, contro i razzisti e contro Trump”. Anche con il vento a favore Salvini riesce a farla controvento.

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Trump e l’elefante nella stanza del dibattito italiano

Il dibattito politico italiano a pochi minuti dal fallito attentato in Pennsylvania ancora una volta brilla per provincialismo e malafede, a testimonianza dell’infimo livello raggiunto.

La richiesta di non trasformare gli avversari politici in nemici fatta da chi qui da noi ha trasformato la politica in guerra permanente è la prima caratteristica che salta agli occhi. La stessa intitolazione dell’aeroporto di Malpensa all’ex presidente Silvio Berlusconi è stata usata come un randello contro l’opposizione, lasciando intendere una soddisfazione più legata alla vendetta che alla memoria.

L’elefante nella stanza della politica italiana dopo gli spari contro Trump lo indica Più Europa che ricorda come l’AR-15, il fucile usato dall’attentatore dell’ex presidente del Consiglio, sia una vecchia conoscenza dei fatti di sangue americani. È stato usato nel 2018, il giorno di San Valentino, da un 19enne per il massacro di 17 persone alla Marjory Stoneman Douglas High School in Florida; è stato usato il 25 maggio 2022, per il massacro alla Robb Elementary Schooldi Uvalde, in Texas; e il 28 marzo 2023, nell’istituto Convent School di Nashville, con questo fucile sono stati uccisi tre bambini di 9 anni, la preside, il custode e una supplente.

Negli Usa un ventenne ha acquistato tranquillamente quel fucile, si è appostato su un tetto poco prima di un comizio del candidato presidente e ha sparato. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensino quelli che da anni spingono per la libera circolazione delle armi anche qui da noi, come il ministro Matteo Salvini e i suoi compagni di partito nella Lega oppure come i dirigenti di Fratelli d’Italia sotto l’ombra del loro parlamentare Emanuele Pozzolo, con una pistola in tasca alla festa di Capodanno.

Niente di tutto questo. Anche le pallottole contro Trump sono solo micce per le guerre di cortile.

Buon lunedì.

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La macchietta Vannacci e il suo strano concetto di democrazia in Europa – Lettera43

Neppure i Patrioti per l’Europa lo vogliono. Ma lui derubrica le opinioni contrarie a un’invenzione dei nemici, mentre la sua votazione tra i vicepresidenti del gruppo per acclamazione diventa un “suffragio”. Il generale ha un’interpretazione tutta sua delle regole: non si è nemmeno iscritto al partito (la Lega) che gli ha permesso di candidarsi.

La macchietta Vannacci e il suo strano concetto di democrazia in Europa

La democrazia è un vessillo molto delicato. Qualcuno la agita come ideologia per limitare la democrazia degli altri, qualcuno la ritiene un’inattuabile aspirazione, quasi utopia, mentre altri più meccanicisticamente la vedono come un broglio di regole elettorali. La democrazia per il generale e neo europarlamentare Roberto Vannacci è stoffa double face a supporto di tutto e tutto il suo contrario.

Un generale vagamente leghista e che non piace al partito

Il generale è vagamente leghista. Gran parte dei leghisti non lo ritengono uno di loro. Chi lo ama lo ritene un eccezionale testimonial che può permettersi di non inserirsi nelle dinamiche e perfino in certe ideologie del partito. Chi lo odia sottolinea come la sua campagna elettorale si sia risolta in qualche apparizione televisiva, qualche ospitata d’onore negli eventi di partito e qualche foto con il segretario Matteo Salvini nel ruolo della dama di compagnia elettorale. Lui, il generale, della Lega ha sempre parlato poco e molto morbido. Ci ha tenuto, eccome, a far sapere che più di un partito gli ha offerto lo scranno a Bruxelles e quando è stato stilettato da Luca Zaia e altri dirigenti poco soddisfatti dalla sua candidatura ha precisato di essere «un candidato indipendente». La Costituzione che Vannacci cita a più riprese per rivendicare il diritto di discriminare direbbe anche del ruolo dei partiti, ma il generale deve avere saltato quella lezione.

Avanti con la democrazia del “chi ha i voti ha ragione”

La democrazia di Vannacci, ereditata da Silvio Berlusconi e dal suo segretario Salvini, è quella del “chi ha i voti ha ragione”, visione infantile ma comoda della competizione politica come uno show televisivo in cui duellano maschi alfa per il dominio. Vannacci ha preso i voti, quindi Vannacci ha ragione. «Ci sono molti italiani che la pensano come lui», ha detto dopo le elezioni europee Salvini e nell’ottica della democrazia come comando (e non governo) della maggioranza quelle preferenze sono un certificato di garanzia.

La macchietta Vannacci e il suo strano concetto di democrazia in Europa
Roberto Vannacci con Matteo Salvini (Imagoeconomica).

Persino i Patrioti per l’Europa non lo vogliono

A Bruxelles e Strasburgo il generale Vannacci però è considerato una macchietta. Una pericolosa macchietta per i socialisti e per i popolari e un’indelicata macchietta per il partito dei Patrioti per l’Europa di cui Vannacci fa parte. Jean-Philippe Tanguy, figura di spicco del Rassemblement National e vice-coordinatore della campagna presidenziale di Marine Le Pen nel 2022, ha dichiarato senza mezzi termini che i lepenisti «si oppongono» all’elezione di Vannacci a vicepresidente del nuovo gruppo europeo dei Patrioti. Laurent Jacobelli, già portavoce del Rn e oggi deputato è sulla stessa linea. Jordan Bardella, il figliol quasi prodigo di Le Pen in Francia che ha fallito per un pelo alle ultime elezioni francesi, solo poche settimane fa aveva pubblicamente condannato le dichiarazioni omofobe di Vannacci, prendendo le distanze da posizioni che riteneva inaccettabili. La democrazia, dicevamo. Nel nuovo gruppo dei Patrioti per l’Europa, covato dal premier ungherese Viktor Orban, Vannacci è stato eletto nelle file dei vicepresidenti. Anzi, in realtà non è proprio così: per acclamazione è stato eletto un pacchetto in cui Bardella figura presidente del gruppo europeo insieme a un mazzo di vicepresidenti. Ora i francesi dicono che Vannacci, no, Vannacci non si può proprio vedere nel direttivo.

Le accuse diventano frutto di una «stampa faziosa e di sinistra»

Torniamo al generale. In un’intervista a Repubblica Vannacci dice (va riportata tutta, anche se lunga, i lettori capiranno): «L’elezione dei vicepresidenti è avvenuta all’unanimità, quindi mi sembrano posizioni sicuramente contrastanti con quanto deciso durante il suffragio. Non vorrei che, come al solito, fosse un’amplificazione di una stampa faziosa e di sinistra. D’altra parte anche in Italia e anche per Repubblica, nonostante le plurime archiviazioni della giustizia italiana, vengo descritto come un razzista misogino e chi più ne ha più ne metta. Tutte accuse infondate, hanno stabilito i giudici, ma fosse per Repubblica dovrei essere in galera. Libération è l’equivalente del Fatto Quotidiano in Francia… non le fa venire in mente niente?».

La macchietta Vannacci e il suo strano concetto di democrazia in Europa
Una sostenitrice del generale Vannacci (Imagoeconomica).

Le opinioni che Vannacci esprime non sono opinabili

Eccola la democrazia secondo Vannacci: la votazione per acclamazione diventa un “suffragio” e le opinioni contrarie sono un’invenzione dei nemici (che non sono avversari, ma appunto nemici). Le opinioni che Vannacci esprime non sono opinabili. Le posizioni che vorrebbe ricoprire non sono discutibili. E chissà cosa avrà pensato l’eurodeputato voluta da Salvini leggendo che il portavoce di Patrioti per l’Europa nel corso di un briefing con la stampa al parlamento europeo di Bruxelles ha detto che la questione verrà affrontata lunedì e quindi no, non è invenzione della stampa nemica.

E l’iscrizione al partito? Se gli farà fare quello che vuole…

E l’iscrizione alla Lega? Vannacci spiega: «Possibile, anche in base al futuro che la Lega vorrà costruirsi. Io sono un combattente e se si tratta di pugnare per un futuro migliore basato su più sicurezza, più tradizioni, più identità, più ricchezza e più sovranità ci sono. Sono pronto a trasformare quest’onda di 560 mila voti delle Europee in uno tsunami». La democrazia secondo Vannacci: se il partito farà quello che vorrebbe fare lui allora potrebbe condividere i voti che ha preso grazie al partito. Che meraviglia.

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Il Bestiario della settimana – Salvini dall’entusiasmo al Maalox per Le Pen battuta in Francia. Dal Silvio airport al Godo Station

Brutta aria in Europa

Il gruppo europarlamentare Esn – fondato dai neonazisti tedeschi di Afd –  ha accolto in quota Republika (estrema destra slovacca) solo Milan Uhrík, leader del partito. Il secondo eletto Milan Mazurek rimarrà nei Non Iscritti perché avrebbe negato l’Olocausto ed elogiato Hitler in passato. Insomma, è stato incauto. Avrebbe dovuto solo pensarlo. 

La persona più qualificata

Il presidente Usa Joe Biden in conferenza stampa dopo il vertice Nato ha detto: “sono la persona più qualificata per battere Trump”. Poco prima ha avuto un lapsus su Zelensky che ha chiamato “Putin” e su Trump chiamato “vice presidente”. In effetti se ci pensate ritenersi “il più qualificato” è esattamente in linea con le affermazioni precedenti. 

Liberi liberi da che cosa poi

Il quotidiano Libero in occasione dell’intitolazione a Silvio Berlusconi dell’aeroporto di Malpensa ha aperto la prima pagina con “Buon volo comunisti”. Il quotidiano Libero è lo stesso giornale che accusa i partiti non di destra di riversare odio contro Giorgia Meloni e il suo governo. Il quotidiano Libero è lo stesso giornale che accusa i partiti non di destra di occuparsi di priorità “che non interessano agli italiani”. Il quotidiano Libero ha dedicato la sua prima pagina a una pernacchia da fare ai suoi “nemici”. Come alle scuole elementari, solo che lì all’intervallo nessun bambino si ritene un “intellettuale di destra”. 

Canta che ti passa

L’ex deputato e vicepresidente della Camera dei Deputati Simone Baldelli ha lasciato la politica (4 legislature con Forza Italia) per intraprendere la carriera di cantante. Il nuovo singolo si intitola “Bello”. «Bello» – spiega –  è un piccolo viaggio «al ritmo di musica tra immagini diverse, luminose, a tinte accese, ora sovrapposte, ora apparentemente scomposte, che trasudano un sereno ottimismo e un’ostinata caparbietà». Il suo singolo più ascoltato si intitola “Pasatelo bien”, divertiti. E si sta divertendo un sacco, in effetti. 

Un viaggio alla Berlusconi

Il geniale @nonleggerlo su x propone un itinerario costruito sui nomi reali degli aeroporti in giro per il mondo: “Partenza dal SILVIO BERLUSCONI Airport di Milano; Scalo al TANGA Airport, Tanzania; Cambio al FORMOSA Airport, Argentina; Controllo documenti al FALSE PASS Airport, Alaska; Rifornimento al MINNA Airport, Nigeria; Pernottamento al PECHORA Airport, Russia; Impossibile bypassare il MAFIA Airport, Tanzania; Atterraggio-tributo al BENITO Airport, Colombia; A scelta, l’ALMIRANTE Airport, caraibico; Ripartenza immediata per il PUTAO Airport, Myanmar; Inevitabile check-in al PAGO PAGO Airport, Samoa per fare PUKA-PUKA Airport, Polinesia francese; Take off dal LIMON Airport, Honduras; Ci attendono al folcloristico WACCA Airport, Ethiopia; B. eviterebbe ovviamente il DIBBA Airport, Oman, direbbe che è un LAMERD Airport, Iran [risate]; Bus turistico all’EROS Airport, Namibia; Finale a scelta, a chi piace una MARLBORO Airport, Massachusetts… a chi la piacevole opzione del GANJA Airport, Azerbaijan; Alternativa più economica, il SEGHE Airport, Giappone; A disposizione la navetta della GODO Station, Fukushima”. Buon viaggio. 

End in Italy

In Italia, gli iscritti al Liceo del Made in Italy sono solo 375 per tutti e 92 i corsi attivati nelle scuole. A due mesi dall’inizio dell’anno scolastico il nuovo indirizzo, che non ha raggiunto il numero minimo di studenti per classe, ora rischia di non partire. Dice Meloni che l’Italia ha “guadagnato credibilità agli occhi del mondo”. In effetti il Made in Italy in Italy tira fortissimo.  

La democrazia secondo Salvini

In occasione delle ultime elezioni russe il ministro Salvini disse: “Quando un popolo vota ha sempre ragione, le elezioni fanno sempre bene. Sia quando vinci che quando perdi”. In occasione delle ultime elezioni francesi Salvini ha detto: Esultanza nelle strade di comunisti e centri sociali, di filo-islamici e antisemiti, teppisti che attaccano a sassate la Polizia in diverse città, caos in Parlamento. Questa la prima notte dopo le elezioni in Francia con l’ammucchiata ‘tutti contro la Le Pen’ costruita da Macron che vince le elezioni ma non ha i numeri per governare”. Come direbbe lui: maalox!”

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Libertà di stampa, Italia osservata speciale

La libertà di stampa in Italia è moribonda e l’Europa se ne sta accorgendo. Mentre il governo continua la sua crociata per la nuova egemonia culturale, le associazioni dei giornalisti europee lanciano l’allarme. Ma a Roma fanno orecchie da mercante.

L’European Movement International, insieme ad altre organizzazioni, chiede alla Commissione Europea di indagare sullo stato della libertà di stampa nel Belpaese. Una richiesta che sa di disperazione, l’ultimo tentativo di salvare il salvabile prima che sia troppo tardi. E cosa fa la Commissione? Temporeggia, rimanda, si nasconde dietro risposte vaghe e promesse di “monitoraggio”. Come se non bastasse, ritarda la pubblicazione del rapporto annuale sullo Stato di diritto.

Un caso? Difficile crederlo. Intanto, il governo prosegue indisturbato la sua opera di demolizione. La Rai, un tempo servizio pubblico, è ormai ridotta a megafono del potere. Programmi scomodi vengono cancellati, giornalisti silenziati. L’ultimo caso? Quello di Serena Bortone, “colpevole” di aver letto un discorso antifascista. L’ombra del controllo governativo si allunga anche sulle agenzie di stampa.

L’Agi, una delle principali del paese, rischia di finire nelle mani di un deputato leghista. Un conflitto d’interessi che grida vendetta ma che sembra non scandalizzare nessuno. I giornalisti lavorano sotto costante pressione, minacciati da un potere che non tollera voci fuori dal coro.

E mentre l’Italia sprofonda nelle classifiche internazionali sulla libertà di stampa, il governo festeggia. L’Europa osserva, preoccupata. Ma osservare non basta più. Servono azioni concrete, immediate. Perché senza una stampa libera e indipendente, la democrazia è solo una farsa. E l’Italia, purtroppo, sembra avviata proprio su questa strada.

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Nordio e i numeri sballati sulla carcerazione preventiva

Carlo Nordio, ministro della Giustizia, è caduto in una trappola pericolosa: quella di piegare i numeri alla narrazione politica. Di recente, durante un’intervista a 24 Mattino su Radio 24, Nordio ha dipinto un quadro fosco del sovraffollamento carcerario, affermando che “Il 30 per cento dei detenuti è in carcere in attesa di giudizio, e statisticamente almeno la metà poi viene assolta”. Una dichiarazione allarmante, peccato che, come ricostruisce il Fact Checking di Pagella Politica, i dati del ministero della Giustizia raccontino una storia diversa.

Al 30 giugno 2024, i detenuti negli istituti penitenziari italiani erano 61.480. Di questi, il 15 per cento (9.213) era in attesa del primo giudizio, “una percentuale più bassa di quella indicata da Nordio”, rileva Pagella Politica. Se includiamo anche quelli condannati ma non in via definitiva, arriviamo al 25 per cento. Una percentuale più vicina ma sempre al di sotto del 30 per cento indicato dal ministro. Ma sul concetto di “metà assolti” il discorso si fa ancor più interessante.

La verità dietro le cifre di Nordio: cosa dicono davvero i dati

Nordio afferma che metà di questi detenuti in attesa di giudizio poi viene assolta. In realtà, i dati del ministero della Giustizia, presentati in Parlamento, mostrano che nel 2023 solo il 5,7 per cento delle custodie cautelari in carcere si è concluso con una sentenza di assoluzione.

“Questa percentuale contiene sia le assoluzioni definitive sia quelle non definitive, che quindi poi possono essersi trasformate in una condanna”, specifica peraltro Pagella Politica. A questo si aggiunge un 3,8 per cento di sentenze di proscioglimento a vario titolo. La matematica è semplice: “abbiamo che in circa il 90 per cento dei casi il procedimento termina con la condanna”, ha scritto il Ministero della Giustizia. Difficile immaginare di stirare i numeri fino al 50%.

Il ministro, quindi, ha esagerato, forse per giustificare le sue riforme. È un gioco pericoloso perché la realtà dei numeri non può essere piegata a piacimento senza rischiare di minare la fiducia nelle istituzioni. È un gioco pericoloso anche perché dimostra l’uso di una distorta narrazione per avvalorare le proprie tesi: la stessa accusa che il governo – nemmeno troppo sotto traccia – muove alla magistratura. Inoltre, è importante ricordare che la custodia cautelare è una misura che il giudice può disporre in presenza di gravi indizi di colpevolezza e quando vi sia il pericolo di fuga, inquinamento delle prove, o reiterazione del reato. Non è una scelta arbitraria ma una necessità legale.

Custodia cautelare: tra legalità e distorsioni politiche

L’articolo 27 della Costituzione italiana è chiaro: “L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva”. Il sistema giudiziario, pur con le sue imperfezioni, opera quindi all’interno di un quadro costituzionale ben definito. Si potrebbe dire che la rappresentazione fornita da Nordio sul sovraffollamento carcerario e sulle custodie cautelari è fuorviante.

La realtà è che il sistema giudiziario italiano, pur necessitando di riforme, non è quel mostro inefficiente che il ministro vorrebbe dipingere. Le parole di Nordio sembrano più uno strumento politico che un’analisi accurata della situazione. Un esercizio pericoloso, soprattutto quando si parla di giustizia. La fiducia nelle istituzioni si costruisce anche attraverso la trasparenza e l’aderenza ai fatti, non adattando i numeri a una narrazione conveniente.

Il senso della giustizia non è materia sacrificabile sull’altare della politica. Fossimo in un processo la frase del ministro cadrebbe alla prima obiezione della controparte.

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Borsellino day: polemiche infuocate tra commemorazioni e passerelle a Palermo

A pochi giorni dal 32° anniversario della strage di via d’Amelio, Palermo diventa teatro di un confronto aspro e carico di significati politici e morali. Le polemiche, già incandescenti, si intensificano intorno alle commemorazioni organizzate dal “Movimento delle Agende Rosse” e alle controverse iniziative dell’Agenzia Italiana per la Gioventù (AIG) a Palazzo Jung.

Salvatore Borsellino, figura di spicco nel ricordo del fratello giudice Paolo Borsellino e delle vittime della strage del 1992, ha alzato la voce in una conferenza stampa infuocata: “Sono venuto a conoscenza di una manifestazione che viene attuata nelle stesse date e negli stessi orari della nostra manifestazione in via d’Amelio. Una passerella e una sfilata che viene organizzata a Palazzo Jung a Palermo. Noi ci dissociamo completamente da questo tipo di manifestazioni”. Un gesto di netta separazione, mirato a denunciare quella che egli vede come una tentata normalizzazione di chi avrebbe dovuto essere in prima linea nella lotta alla mafia.

Dissenso e denuncia: Salvatore Borsellino alza la voce

La “Legalità è libertà – Giovani europei per un nuovo movimento culturale” promossa dall’Aig, con il suo red carpet di ospiti non è passata inosservata.

“Anche quest’anno, come e ancor più degli altri anni, le manifestazioni per l’anniversario della strage di via d’Amelio non saranno, come purtroppo ormai succede per il 23 maggio, una parata e un’occasione di passerelle per personaggi istituzionali anche reduci da condanne penali per contiguità alla mafia,” ha tuonato Borsellino. “Amministratori eletti grazie all’appoggio mafioso non possono partecipare impuniti a eventi che dovrebbero ricordare la lotta alla mafia, non celebrarne i complici,” ha dichiarato.

Le Agende Rosse, in risposta alle iniziative al Palazzo Jung, hanno annunciato un fitto programma di commemorazioni, che culmineranno il 19 luglio con una giornata di denuncia e memoria. Dal quartier generale tra la sede di via Della Vetriera e via D’Amelio, verranno messe in luce le lacune investigative e i presunti depistaggi che hanno, secondo Borsellino, impedito la giustizia per la strage di Stato del 1992.

Normalizzazione della mafia: la memoria tradita

L’atmosfera infuocata di Palermo non si limita alle mire politiche locali, ma si intreccia con una disputa nazionale sul ricordo delle figure pubbliche legate alla mafia. La recente intitolazione dell’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi, nonostante le controversie legali che lo collegano a Cosa Nostra, aggiunge combustibile al fuoco delle polemiche. Mentre alcuni cercano di normalizzare rapporti discutibili con la criminalità organizzata, altri come Salvatore Borsellino continuano a battere il tamburo per una memoria chiara e non compromessa.

Palermo, a meno di una settimana dall’anniversario della strage di via d’Amelio, non solo brucia di caldo estivo ma di una tensione politica e morale che riflette divisioni profonde nella memoria collettiva italiana. Tra commemorazioni che si scontrano e accuse di complicità con la mafia che risuonano in ogni polemica, l’eredità di Borsellino continua a essere contestata e celebrata in un duello che non promette tregua. Del resto da 32 anni si commemora una storia che non ci è mai stata raccontata per intero. 

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Salvataggi in mare, l’agenzia Ue per i diritti fondamentali: distinguere tra trafficanti e soccorritori

Il recente aggiornamento del rapporto dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (FRA) pone una questione cruciale e spesso fraintesa nel contesto delle operazioni di salvataggio in mare: la necessità di distinguere chiaramente tra trafficanti di esseri umani e coloro che operano nel rispetto delle leggi internazionali e dei diritti umani per salvare vite umane. La distinzione non è solo teorica, ma ha implicazioni pratiche e legali significative per le operazioni di soccorso e per le vite di migliaia di migranti.

La normativa internazionale e le operazioni SAR 

Il quadro normativo internazionale, che comprende la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare (SOLAS) del 1974, la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo (SAR) del 1979 e la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982, stabilisce chiaramente l’obbligo di assistere le persone in difficoltà in mare, indipendentemente dalla loro nazionalità o status. Le operazioni di salvataggio devono concludersi con il trasferimento dei sopravvissuti in un “luogo di sicurezza” dove i loro bisogni fondamentali possano essere soddisfatti.

Le sfide delle organizzazioni non governative 

Dopo la conclusione del programma Mare Nostrum nel 2014, diverse organizzazioni della società civile hanno iniziato a impiegare navi e aerei per il soccorso, riducendo significativamente le morti in mare e portando i salvati in sicurezza nell’Unione europea. Tuttavia, molte di queste organizzazioni hanno dovuto affrontare ispezioni, detenzioni delle navi e procedimenti penali, ostacolando le loro operazioni di soccorso.

A maggio 2024, solo 17 navi e tre aerei erano ancora operativi, con molti mezzi bloccati per manutenzione o procedimenti legali. In alcuni casi, i membri dell’equipaggio e gli attori della società civile hanno affrontato procedimenti penali per le loro attività di ricerca e salvataggio, creando un effetto intimidatorio su queste operazioni.

Raccomandazioni e conclusioni della FRA 

La FRA sottolinea che le azioni legali contro le ONG e i volontari coinvolti nel SAR devono rispettare le leggi internazionali, del Consiglio d’Europa e dell’UE sui diritti fondamentali e sui rifugiati. È essenziale distinguere tra i trafficanti di esseri umani e coloro che agiscono in base all’imperativo umanitario e agli obblighi legali internazionali di salvare vite in mare. Questo richiede che le autorità nazionali e i tribunali trovino il giusto equilibrio tra le leggi internazionali, dell’UE e nazionali.

Il caso delle sanzioni italiane

Il rapporto evidenzia che dal luglio 2023 sono stati aperti 18 nuovi procedimenti legali in Italia contro le operazioni SAR delle ONG, con multe che vanno da 2.000 a 10.000 euro e il blocco temporaneo delle navi nei porti. Questi procedimenti sono spesso il risultato del mancato rispetto delle istruzioni della Guardia Costiera Libica o della mancata richiesta di un porto di sbarco in Libia.

La necessità di una distinzione chiara 

Il rapporto della FRA chiarisce che la distinzione tra trafficanti e soccorritori non è solo una questione legale, ma una questione di principio umanitario e di diritti fondamentali. Ignorare questa distinzione non solo compromette la sicurezza delle operazioni di salvataggio, ma mette anche a rischio la vita di migliaia di migranti che cercano disperatamente un luogo di sicurezza.

In un’epoca in cui le politiche migratorie diventano sempre più restrittive – scrive la FRA – è fondamentale riconoscere e rispettare il lavoro di chi, spesso a rischio della propria vita, si impegna a salvare quelle degli altri. La distinzione tra soccorritori e trafficanti deve essere non solo una linea guida per le operazioni SAR ma un principio fondamentale per la protezione dei diritti umani in mare. Qualcuno lo spieghi con calma anche al governo italiano. 

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