Vai al contenuto

Pistoleri d’Italia

Nello Trocchia sul quotidiano Domani riporta stralci dell’interrogatorio di Emanuele Pozzolo, il deputato sospeso di Fratelli d’Italia che a Capodanno è stato protagonista di una vicenda su cui sta indagando la Procura. Quella notte uno sparo ha ferito Luca Campana, genero di Pablo Morello che è il caposcorta del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro Delle Vedove. Delmastro era presente alla serata. 

Sul colpo partito dalla sua arma la Procura di Biella ha chiesto il processo per “reati di omessa custodia di armi, accensioni ed esplosioni pericolose, porto illegale in luogo pubblico e/o aperto al pubblico della pistola revolver North american arms e di cinque cartucce”. Le perizie balistiche e lo stub confermerebbero che il deputato eletto nel partito di Giorgia Meloni avrebbe sparato, forse accidentalmente.

Pozzolo durante il suo interrogatorio invece avrebbe accusato il caposcorta del suo compagno di partito, raccontando la sua versione dei fatti. Alcuni passaggi sono particolarmente significativi. Dice Pozzolo di avere avuto bisogno di una pistola perché «appoggia un movimento di resistenza iraniana» e «soggetti di rilievo politico che hanno appoggiato tale movimento hanno subito degli attentati ed anche, recentemente, un politico spagnolo». 

Quando il caposcorta del sottosegretario Delmastro ha visto l’arma del deputato avrebbe detto «che è sta cosa da finocchio?». Pozzolo ha spiegato di avere portato l’arma alla festa partecipata anche da bambini perché, dice, «potevo portarla fuori. In virtù del porto da difesa personale. Inoltre non ritengo sia un’arma particolarmente insidiosa».

Buon mercoledì. 

Nella foto: Emanuele Pozzolo (da facebook)

L’articolo proviene da Left.it qui

L’occupazione cresce e i salari restano al palo

I numeri indicano che cresce l’occupazione, è vero, ma l’Italia è il Paese avanzato con gli stipendi più bassi. Lo scrive il rapporto dell’Ocse sulle prospettive dell’occupazione. A maggio il tasso di disoccupazione in Italia è sceso al 6,8%, un punto percentuale in meno sul 2023 e tre punti percentuali sotto rispetto a prima della crisi Covid, “ma ancora al di sopra della media Ocse del 4,9%”.

Le previsioni sono nere. Nei prossimi due anni “la crescita dei salari reali dovrebbe rimanere contenuta”

Anche l’occupazione totale è aumentata nell’ultimo anno, con un incremento su base annua del 2%. Tuttavia, il tasso di occupazione italiano “rimane ben al di sotto della media Ocse: 62,1% contro 70,2% nel 1° trimestre di quest’anno”. L’Italia è il Paese che ha registrato il più forte calo dei salari reali tra le maggiori economie dell’Ocse. «Nel primo trimestre del 2024, i salari reali erano ancora inferiori del 6,9% rispetto a prima della pandemia», ricorda il rapporto. Preoccupante, poi, l’evoluzione in negativo del potere d’acquisto di chi ha un posto, coerente con l’aumento della povertà assoluta tra i lavoratori dipendenti registrato dall’Istat.

Le previsioni sono nere. Nei prossimi due anni “la crescita dei salari reali dovrebbe rimanere contenuta”: i salari nominali in Italia dovrebbero crescere del 2,7% nel 2024 e del 2,5% nel 2025, aumenti “significativamente inferiori a quelli della maggior parte degli altri Paesi Ocse”. Visto che l’inflazione è data all’1,1% nel 2024 e al 2% nel 2025, in tasca rimarrà qualcosa ma il recupero riguarderà solo una parte del potere d’acquisto perduto. Nel 2025 i lavoratori italiani saranno più poveri di quanto fossero prima della pandemia. Male anche gli strumenti che hanno sostituito il reddito di cittadinanza che per Ocse andrebbero estesi. Tutto bene, dicono.

L’articolo L’occupazione cresce e i salari restano al palo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Cervelli in valigia, Italia in bancarotta: il grande esodo dei giovani che lascia un paese vecchio e povero

Il 35% dei giovani italiani è pronto a lasciare il paese per cercare salari più alti, migliori opportunità lavorative, esperienze di vita arricchenti e stabilità professionale. Questi dati emergono da un’indagine realizzata da Ipsos per la Fondazione Giuseppe Barletta, che ha coinvolto un campione di 1.200 under 30. Per avere un lavoro più gratificante, addirittura l’85% dei giovani considera la possibilità di trasferirsi lontano da casa. 

Fenomeno in Crescita

Il fenomeno della migrazione giovanile non è nuovo, ma è in crescita. Secondo il rapporto “Italiani nel mondo” della Fondazione Migrantes, il 44% di chi ha lasciato l’Italia nel 2022 era un giovane tra i 18 e i 34 anni, due punti percentuali in più rispetto agli anni precedenti. Dal 2006, la presenza degli italiani all’estero è aumentata del 91%, con le donne che hanno quasi raddoppiato la loro presenza (+99,3%), i minori aumentati del 78,3% e gli over 65 del 109,8%. 

Le Cause della Fuga

Il principale motivo che spinge i giovani italiani a emigrare è il basso livello dei salari. In Italia, i lavoratori guadagnano in media circa 3.700 euro all’anno in meno rispetto alla media europea e oltre 8.000 euro in meno rispetto ai colleghi tedeschi. La retribuzione media annua lorda per dipendente è di circa 27.000 euro, inferiore del 12% alla media UE e del 23% a quella tedesca . La stagnazione salariale è un problema persistente: l’Italia è l’unico paese europeo in cui i salari sono effettivamente diminuiti dal 1990 a oggi, con una decrescita del 2%.  

Il Costo Economico della Fuga dei Cervelli

La formazione di un diplomato costa allo Stato circa 77.000 euro, quella di un laureato 164.000 euro e quella di un dottore di ricerca 228.000 euro. I cervelli in fuga costano all’Italia circa 4,5 miliardi di euro all’anno. Secondo uno studio della Fondazione Nord Est e dell’associazione Tiuk, tra il 2011 e il 2021 sono almeno 1,3 milioni i giovani italiani tra i 18 e i 34 anni emigrati in paesi UE e nel Regno Unito.

Il Fallimento delle Politiche di Incentivo

Le politiche basate su bonus e incentivi una tantum hanno dimostrato di essere inefficaci nel risolvere il problema. Nonostante gli investimenti in formazione, il paese non riesce a trattenere i giovani talenti, causando un depauperamento del tessuto demografico, culturale e sociale. Gianluca Torelli della Cgil sottolinea come la combinazione tra inverno demografico e fuga dei giovani possa mettere una seria ipoteca sul futuro del paese.

Responsabilità e Soluzioni

Secondo Lara Ghiglione, segretaria confederale della Cgil, il governo ha enormi responsabilità in questo fenomeno. La necessità di una legge sul salario minimo e sulla rappresentanza sindacale è fondamentale per migliorare i salari e le condizioni di lavoro, rendendo il paese più attrattivo per i giovani. Anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha definito la fuga dei cervelli una “patologia” da cui guarire, invitando la classe politica a trovare soluzioni per garantire il ritorno dei giovani in Italia.

Impatto sui Territori

Il Mezzogiorno d’Italia è particolarmente colpito da questo fenomeno. Sommando il calo delle nascite e l’emigrazione, questa regione paga il saldo negativo più pesante. I giovani del Sud Italia affrontano spesso contratti precari e malpagati, con poche opportunità di crescita. Questo scenario è aggravato dalla fragilità del tessuto istituzionale e dall’incapacità della politica di attrarre i giovani nei processi decisionali.

I dati sono chiari: l’Italia sta perdendo una generazione di giovani talentuosi, attratti da migliori condizioni lavorative e salariali all’estero. Senza interventi concreti, il paese continuerà a vedere un’emigrazione crescente che ne impoverisce il tessuto sociale e produttivo. E non basterà la retorica della Patria senza figli, se i figli che ci sono sognano la valigia. 

L’articolo Cervelli in valigia, Italia in bancarotta: il grande esodo dei giovani che lascia un paese vecchio e povero sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

L’Ungheria al timone dell’Ue: sei mesi di ambiguità e potenziali conflitti

L’Ungheria di Viktor Orbán ha preso le redini del Consiglio Europeo per i prossimi sei mesi, in un momento delicato per il futuro del progetto comunitario. Il semestre ungherese si preannuncia più come un’occasione di scontro politico che di reale avanzamento legislativo, con Budapest pronta a spingere la propria agenda su temi sensibili come migrazione e difesa.

Sullo sfondo incombe anche il nuovo gruppo Patrioti per l’Europa di cui Orbàn è fondatore e ispiratore e questi primi giorni da scheggia impazzita. Dopo le visite “a sorpresa” a Kiev e Mosca, il premier ungherese e presidente di turno dell’istituzione Ue è stato a Pechino per la sua “missione di pace 3.0”, proprio nel giorno della formazione del gruppo parlamentare ‘Patrioti per l’Europa’. Nessun contatto o coordinamento con gli altri leader né con i vertici di Commissione e Consiglio Europeo.

Il governo Orbán, noto per le sue posizioni euroscettiche e le simpatie filorusse, si trova ora paradossalmente a dover gestire dossier cruciali per l’integrazione europea. Tra questi spiccano il rafforzamento dell’industria della difesa comune, l’utilizzo dei beni russi congelati a sostegno dell’Ucraina e l’inasprimento delle sanzioni contro Mosca. Temi su cui l’Ungheria ha finora mostrato forte riluttanza, se non aperta ostilità.

Difesa e Ucraina: i nodi più spinosi

Sul fronte della difesa, Budapest dovrà coordinare i negoziati sul Programma europeo per l’industria della difesa (EDIP), che prevede 1,5 miliardi di euro per potenziare l’apparato militare del blocco. Un’iniziativa che l’Ungheria ha finora ostacolato, bloccando i fondi Ue per rimborsare gli aiuti militari all’Ucraina. Sarà interessante vedere come Orbán gestirà questa ambivalenza, dovendo mediare tra la sua retorica sovranista e le responsabilità della presidenza.

Ancor più spinosa la questione dei beni russi congelati, con l’Ue che punta a utilizzarne i proventi per sostenere Kiev. Un piano che potrebbe essere sabotato dall’Ungheria, unico paese membro apertamente filorusso. Non a caso, come rivela Politico.eu, si valuta di affidare il dossier a un formato ristretto di ministri della zona euro per aggirare il potenziale veto ungherese.

Sul fronte delle sanzioni contro Mosca, poi, ci si aspetta ben poco da Budapest. “Si siederanno sulle loro mani e non faranno nulla per sei mesi”, ha dichiarato a Politico.eu un diplomatico europeo. Una previsione che la dice lunga sulle aspettative verso la presidenza ungherese.

L’agenda di Orbán: tra sovranismo e responsabilità europea

Ma l’agenda di Orbán non si limita a ostacolare le politiche anti-russe. Il premier magiaro punta a imporre la propria visione anche su temi come migrazione e politica agricola. Sull’immigrazione, in particolare, l’Ungheria spingerà per un approccio più restrittivo, in linea con le sue politiche nazionali ultraconservatrici.

Non mancano poi dossier potenzialmente divisivi come la riforma del mercato farmaceutico Ue, su cui l’Ungheria dovrà mediare tra le pressioni dell’industria e le esigenze di accesso ai farmaci dei Paesi più poveri. O ancora la direttiva sulle rivendicazioni verdi delle aziende, tema caro agli ambientalisti, ma osteggiato da molti governi.

Insomma, il semestre ungherese si preannuncia come una continua prova di equilibrismo tra gli interessi nazionali di Orbán e le responsabilità europee. Con il rischio concreto di paralisi su molti fronti cruciali, dalla difesa comune al sostegno all’Ucraina.

D’altronde, come ha candidamente ammesso il ministro ungherese per gli affari Ue János Bóka, “è diritto di ogni Stato membro assicurarsi che le decisioni prese su base consensuale siano conformi agli interessi nazionali”. Una dichiarazione che suona come un avvertimento: l’Ungheria non rinuncerà alle sue prerogative sovraniste, nemmeno da presidente di turno.

Resta da vedere se prevarrà il pragmatismo istituzionale o l’agenda nazionalista di Orbán. Di certo questi sei mesi metteranno a dura prova la tenuta dell’Unione, in un momento storico in cui l’Europa avrebbe bisogno di maggiore coesione. La presidenza ungherese rischia di trasformarsi in un’occasione mancata, se non in un vero e proprio azzardo per il futuro del progetto comunitario.

L’articolo L’Ungheria al timone dell’Ue: sei mesi di ambiguità e potenziali conflitti sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La bassa intensità percepita su Gaza

Scrive The Lancet – che non dovrebbe essere rivista accusabile di antisemitismo – che non vi son dubbi sula credibilità dei dati dei morti e dei feriti palestinesi che no, non sarebbero «gonfiati da Hamas» come da mesi ripetono alcune riviste israeliane e alcuni incauti commentatori italiani. Anzi, secondo la prestigiosa rivista ci sarebbero almeno 10 mila morti in più che non rientrano nel computo generale. 

“Applicando una stima prudente di quattro morti indirette per ogni diretta ai 37.396 decessi – scrive The Lancet . segnalati fino a fine giugno, non è improbabile stimare che fino a 186.000 decessi potrebbero essere attribuiti all’attuale conflitto a Gaza”. Anche la guerra terminasse oggi nei prossimi mesi e anni continuerebbero a verificarsi molte morti indirette per malattie – soprattutto infettive -, per la distruzione delle infrastrutture sanitarie, la carenza di cibo, acqua potabile, medicine e l’impossibilità della popolazione di fuggire in luoghi sicuri. Gli 80 mila litri di gasolio al giorno che servono per tenere funzionanti gli ospedali e mezzi di soccorso devono essere garantiti, avverte l’Oms. 

Il giornale Haaretz ieri ha riportato che nelle condizioni poste dal premier Netanyahu per la fine del conflitto ci sarebbe l’autorizzazione a continuare la distruzione di Gaza anche dopo la liberazione degli ostaggi. Difficile trattare su basi del genere. Lo pensa anche il leader dell’opposizione israeliana Yair Lapid. 

Nel percepito dai media la guerra su Gaza sembra essere diventato un conflitto a bassa intensità. E questa è sempre una pessima notizia per le vittime. 

Buon martedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

Complottisti climatici alla carica sui Social

Ieri su quel fantastico e aberrante mondo che sa essere il social X, già Twitter, ho incrociato un profilo ovviamente anonimo che pubblicava un post per negare il cambiamento climatico. L’utente @love__unicorn si fa chiamare Italy, con annessa bandiera italiana. È un sovranista che usa gli inglesismi. Il nostro eroe, che qui prendiamo come archetipo di un genere, pubblica un video di articoli di giornale che dal 2010 indicano come l’allarme caldo segni ogni anno un nuovo record. “Cronologia percolante!”, scrive aggiungendoci l’emoticon sorridente. Per “Italy” il fatto che la stampa ogni anno dia notizia che fa più caldo dell’anno precedente dovrebbe essere la dimostrazione che il riscaldamento globale non esiste. Per lui la coerenza e la logica delle notizie dovrebbe essere la dimostrazione del complotto. Irresistibile.

Alcuni commenti lì sotto sono della stessa solfa: l’utente Stenoma scrive “ci prendono per il culo”, Franco is 4 free scrive “praticamente nel 2028 la terra prenderà fuoco!” e l’utente Mandrake che ha bandierine della Russia e del Brasile scrive “Visto questi dati, ci dovrebbero stare 150 gradi ad agosto quest’anno”, senza apostrofo. Chissà se ieri sera si sono ritrovati al bar sotto casa per festeggiare e darsi di gomito quando hanno letto che le temperature tra luglio 2023 e giugno 2024 sono state le più alte mai registrate con una media di 1,64 gradi rispetto ai tempi preindustriali, come certificato dal Copernicus Climate Change Service. Michele Arnese, che invece è un giornalista, scrive che “il mese scorso è stato il giugno più caldo mai registrato a livello globale”, ma dal suo “personale osservatorio, ossia la casa romana dove abito da 23 anni”, non si sente “di confermare Copernicus”. Prendiamo nota.

L’articolo Complottisti climatici alla carica sui Social sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Non solo la sconfitta di Le Pen, il conto più salato del voto francese rischia di pagarlo Meloni

C’è la sconfitta in Francia di Marine Le Pen che no, non porterà il suo Rassemblement national al governo. C’è il premer ungherese Viktor Orbàn che con il suo gruppo Patrioti per l’Europa, ufficializzato oggi, sfila al gruppo dei Conservatori e riformisti europei (Ecr) di Giorgia Meloni gli spagnoli di Vox e va a braccetto con Matteo Salvini.

Infine c’è il presidente di turno del Consiglio dell’Ue – che incidentalmente è proprio Orbàn – che viene accusato di “slealtà” nonché di mostrare “disprezzo per i doveri della presidenza del Consiglio dell’Ue” dagli Usa e da diversi paesi europei.

Giorgia tra sovranismo e isolamento

Il quadro internazionale per Meloni, colei che a lungo è stata indecisa se lasciarsi abbracciare dal sovranismo spinto o istituzionalizzarsi nell’establishment Ue, è un sentiero stretto che sembra senza via d’uscita. Fallita la missione de “l’Italia che cambia l’Europa”, come recitavano i suoi manifesti elettorali, ora si ritrova a fare i conti con la sua sopravvivenza politica.

La presidente del Consiglio avrebbe voluto essere il ponte tra i i sovranisti e Ursula von der Leyen, proponendosi come irrinunciabile mediatrice per gli uni e per gli altri. La sconfitta di Le Pen in Francia però deresponsabilizza la destra francese che prevedibilmente per i prossimi cinque anni continuerà a fare ciò che l’ha portata a incassare comunque un notevole risultato: opporsi alle politiche Ue senza la benché minima volontà di cercare una qualsiasi mediazione.

Quanta sia la voglia di scontrarsi con Bruxelles lo si legge anche nelle parole di Salvini mentre annuncia festante l’adesione della Lega al nuovo gruppo dei Patrioti, proprio con Le Pen: “I popoli europei – dice il vice di Meloni – hanno dimostrato di volere un cambiamento radicale a Bruxelles contro lo strapotere di burocrati e banchieri, superando definitivamente il disastroso modello degli ultimi cinque anni fondato su scelte filo-islamiche, filo-cinesi ed eco-estremiste con sinistre e socialisti. Oggi nasce finalmente un grande gruppo dei per cambiare il futuro di questa Europa”.

Il dilemma di Giorgia dopo il disastro di Le Pen

È significativo anche che il candidato premier del Rassemblement national, Jordan Bardella, sia stato eletto capogruppo del nuovo gruppo dei partiti di destra proposto dal premier ungherese Orban. L’eurodeputato della Lega, Roberto Vannacci, è stato eletto vice presidente.

Sono 84 gli eurodeputati che fanno parte del gruppo, 12 le delegazioni. L’Ecr di Meloni perde anche gli spagnoli di Vox, per cui la leader di Fratelli d’Italia si era molto spesa nell’ultima campagna per le politiche in Spagna. “Condivideremo il gruppo” al Parlamento europeo con la Lega di Salvini, ma “il nostro alleato politico in Italia è Fratelli d’Italia, è sempre stato così e continuerà a essere così”, dice il presidente di Vox Santiago Abascal, rispondendo a una domanda di LaPresse.

E aggiunge: “A tutti piacerebbe poter continuare a lavorare insieme e sono convinto che nel futuro forse potremmo farlo all’interno di uno stesso gruppo”.  Ma in politica contano i numeri, più che le amicizie. Il gruppo Ecr nel Parlamento europeo scende da 84 a 78 eletti, scivolando al quarto posto, dopo i Popolari, Socialdemocratici e proprio i Patrioti che hanno assorbito il vecchio gruppo di Identità e democrazia. Il gruppo liberale di Renew è al quinto posto con 76 eletti, poco dietro.

A una capa di governo non conviene giocare troppo alla secessione. Meloni sa benissimo che influenzare le scelte della prossima Commissione Ue è una questione di sopravvivenza politica. Per questo mentre i Patrioti l’aspettano, alla fine alla premier converrebbe addirittura entrare nei Popolari. E così la trasformazione nella neo Berlusconi sarebbe completa.

L’articolo Non solo la sconfitta di Le Pen, il conto più salato del voto francese rischia di pagarlo Meloni sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Terrorizzati da Michela Murgia, anche se morta

Le polemiche sono iniziate ancora prima dell’inaugurazione del gigantesco murale di 100 mq che la Banksy italiana, Laika, ha realizzato sulla scrittrice Michela Murgia. È il progetto «Ricordatemi come vi pare» curato da Pietro Turano per Arcigay Roma: l’opera, autorizzata dal Municipio V di Roma e apparsa proprio sulla facciata del Municipio, è in corso di realizzazione dall’associazione grazie al sostegno di Einaudi, Mondadori e Rizzoli (case editrici dell’autrice). 

Michela Murgia da morta infastidisce fascisti, destrorsi e pro vita. Del resto le parole non muoiono, le idee neppure. Quelli dovranno farsene una ragione. Per l’associazione Pro vita “stanno abusando di beni e servizi pubblici per imporre con violenza all’intera collettività il pensiero ideologico un’autrice decisamente divisiva”. Il consigliere di Fratelli d’Italia Daniele Rinaldi l’ha presa alla lontana e ha sollevato dubbi sul rispetto della normativa relativa alla sicurezza sul lavoro. 

Ma ciò che vale leggere è la risposta dell’artista Laika. “Non mi faccio dare lezioni da una compagine politica che critica un murales e nel frattempo lavora per intitolare un aeroporto ad uno dei personaggi più controversi della storia del nostro paese”, ha detto l’artista riferendosi all’idea di intitolare l’aeroporto di Malpensa a Silvio Berlusconi, uomo che per anni ha pagato Cosa nostra. E a Pro Vita e famiglia, l’artista romana consiglia “di sorridere ogni tanto: siamo in democrazia (per ora) e nessuno vi impedirà di non abortire, di sposarvi e fare famiglia secondo il vostro credo. La stessa libertà deve valere per tuttə”. 

L’articolo Terrorizzati da Michela Murgia, anche se morta sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

I geni dei due estremi

In Italia esistono due tipi di simpatici analisti politici che anche questa mattina si alzano dal letto con qualche livido dopo le notizie che provengono dalla Francia.

I primi sono quelli che ultimamente vanno per la maggiore. Chiamano solitamente il fascismo in tutte le sue declinazioni (il post, il pre, il para, tutte le sue diverse evoluzioni) come “sovranismo” perché non hanno nemmeno il coraggio delle loro idee. Qualche settimana fa pregustavano il rovesciamento dell’Unione europea e ne sono usciti scornati. Marciavano a braccetto dichiarandosi amici per la pelle e ora a Strasburgo litigano per un tozzo di pane nel recinto dell’opposizione. Le facce di Le Pen e di Bardella in queste ore sono la fotografia della loro natura: lupi di fronte agli agnelli e poi talpe complottarde di fronte ai risultati elettorali. 

I secondi sono più godibili e anche più fastidiosi. Perdono voti ma si sentono cardine della politica  in memoria di una superiorità che si sono autoassegnati. Si fanno chiamare lib in tutte le sue forme (dem, mica dem, né di destra né di sinistra, poli che che esistono nei manifesti elettorali) e vedono antisemiti dappertutto, rivendicando una supremazia intellettuale che ha più profeti che elettori. Irridono l’antifascismo ma si alimentano dei suoi risultati, scrivono nella bio che odiano tutti gli -ismi ma adottano l’isteria come tecnica di propaganda e di gestione dei rapporti. Per loro Melenchon e Le Pen pari sono. Per loro ieri ha vinto Macron. “Se Macron riesce a formare un governo tagliando i due estremi ha fatto un capolavoro”, scrivono da ieri. Non conoscono la matematica, eppure sono tutti economisti, perfino gli uscieri. Odiano gli altri populisti perché vogliono essere gli unici. Ogni volta vanno a letto convinti di avere vinto tutte le elezioni dell’orbe terraqueo. Mitici. 

Buon lunedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

Decreto flussi, un sistema che non funziona e produce irregolarità – Lettera43

Per far fronte alla mancanza di lavoratori si introducono migranti in Italia tramite i click day. Solo che poi il numero dei visti concessi è sempre maggiore a quello dei contratti attivati. E quindi molti extracomunitari finiscono per alimentare sommerso e criminalità. Poi non stupiamoci quando leggiamo di braccianti ridotti a schiavi e morti atrocemente.

Decreto flussi, un sistema che non funziona e produce irregolarità

La Direzione generale dell’immigrazione del ministero del Lavoro alle parti sociali ed economiche ha presentato i dati di sintesi del 2023 e del 2024 del Decreto flussi. Il piano triennale del governo Meloni prevede 452 posti spalmati in tre anni, fino al 2025. Regolarizzare gli ingressi nel nostro Paese per il governo è un gioco su un filo sottile. Da una parte bisogna calmierare la propaganda che gli stessi partiti di destra infiammano in prossimità delle competizioni elettorali; dall’altra parte bisogna accontentare gli amministratori e i presidenti di Regione (anche dei partiti di maggioranza, il leghista Luca Zaia in testa) che quotidianamente denunciano la mancanza di lavoratori.

LEGGI ANCHE Orban e le contraddizioni sui migranti: in Europa alza la voce ma l’Ungheria ne ha bisogno

Nell’incrocio tra domanda e offerta il procedimento si incaglia

Nel 2023 i posti disponibili erano 136 mila e le domande presentate ai click day sono state 609 mila, più del quadruplo. Lo stesso per il 2024: i posti sono 151 mila e le richieste 702 mila. Un quarto delle domande è inevaso. Dopo il fatidico clic della lotteria della cittadinanza arriva però la parte più difficile. Per completare i passaggi dovrebbe esserci la stipula del contratto di soggiorno da parte del datore di lavoro dopo l’arrivo in Italia del cittadino extracomunitario. Nel momento dell’incrocio tra domanda e offerta il sistema si incaglia. Del resto i datori di lavoro devono, secondo le regole, assumere gente che spesso non hanno mai visto, attivando i contratti a distanza. Una modalità senza senso che infila gli aspiranti lavoratori ai mestieri più basilari, calcolandoli semplicemente come forza cinetica a disposizione, senza nessuna possibilità di valutarne le competenze.

Decreto flussi, un sistema che non funziona e produce irregolarità
I numeri dell’approvazione del decreto flussi alla Camera nel 2023 (Imagoeconomica).

Alcuni settori rimangono esclusi, come trasporti e turismo

Il sistema si blocca. Per questo il numero dei visti non combacia mai con quello dei contratti attivati. Alcuni settori rimangono praticamente esclusi, come quello dei trasporti e del turismo. La Cgil spiega che chi entra con il decreto flussi e non trova il corrispondente contratto di lavoro va ad alimentare l’irregolarità lavorativa senza avere più la possibilità di uscire dalla spirale del sommerso per le leggi vigenti. Diventa di fatto un invisibile regolarmente importato a disposizione della criminalità e del lavoro nero. Spesso si ritrova ghettizzato (mica metaforicamente) per qualche lavoro da pochi spicci.

Chi entra nel nostro Paese ha un visto, ma non un contratto

Nicola Marongiu, coordinatore Contrattazione e Politiche del lavoro della Cgil nazionale, nota che «c’è stato uno stallo per le quote d’ingresso tra il 2011 e il 2021. In questi ultimi anni c’è stato un incremento delle quote, che sono triplicate, e, nonostante questi numeri, il meccanismo continua a non funzionare. C’è un’elevata richiesta di accesso ai flussi, poi gli incroci con le offerte di lavoro sono casuali e i contratti attivati una minoranza. Chi entra in Italia ha un visto, ma non un contratto e così questi lavoratori spariscono dal circuito legale».

Decreto flussi, un sistema che non funziona e produce irregolarità
Giorgia Meloni (Getty).

Un pensiero colonialista dell’Italia che “fa la spesa”

Sono finezze giuridiche? Per niente. Ogni volta che capita di leggere un’intervista ai datori di lavoro che lamentano scarsa professionalità nella forza lavoro a disposizione si dovrebbero tenere a mente quel mezzo milione di persone che nei prossimi tre anni entreranno in Italia senza avere la possibilità – per legge! – di accedere a un percorso di formazione. Dietro la filosofia del Decreto flussi così com’è pensato c’è il pensiero colonialista dell’Italia che ciclicamente “fa la spesa” in giro per il mondo di lavoratori che il resto del mondo dovrebbe avere formato per rispondere alle esigenze del mercato italiano. Un’utopia economica, oltre a una disdicevole visione della realtà.

La burocrazia li trasforma in schiavi da vendere al chilo

Ogni volta che capita di leggere di un bracciante massacrato dal lavoro illegale, anche senza bisogno di morti atroci per dissanguamento dopo avere perso il braccio, si dovrebbero tenere a mente quel mezzo milione di persone che arrivano in Italia per salvarsi ma non collimano con il lavoro salvifico che gli viene offerto. Questi per la burocrazia spariscono, però nella realtà sono schiavi da vendere al chilo. Al di là della propaganda, vale la pena tenere in piedi un sistema così?

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/decreto-flussi-click-day-migranti-visti-contratti-sistema/