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Il Bestiario della settimana – La frecciata di Geppi allo Strega: “Applaudite, siamo in diretta. Qui non si possono coprire i fischi”

Un applauso alla… Strega

All’annuale cerimonia per il Premio Strega la presentatrice della serata Geppi Cucciari si ripete. L’anno scorso aveva smascherato il ministro alla Cultura Sangiuliano, che stava in una giuria per giudicare libri che non aveva letto, quest’anno ha aperto la serata con la frase:  “Applaudite che siamo in diretta e non si possono coprire i fischi”, riferendosi al pessimo servizio mandato in onda dalla Rai (che si è giustificata spiegando che il video era stato realizzato da una produzione esterna) nel quale i fischi allo stesso ministro erano stati sostituiti con applausi. Fratelli d’Italia questa volta ha deciso di inviare al premio il presidente della commissione Cultura Federico Mollicone che si è distinto subito dicendo “facciamo un plauso alla Strega”. Chi è la Strega (al femminile)? I maligni sollevano ildubbio: ce l’aveva con Geppi?

Reato penale

In uno dei suoi innumerevoli messaggi senza contraddittorio e senza giornalisti la presidente del Consiglio Giorgia Meloni annuncia di avere “reintrodotto il reato penale di somministrazione illecita di lavoro”. Solo che il “reato penale” non esiste. Il reato è sempre un illecito solo penale, non esiste quello civile o amministrativo. Ora aspettiamo la reintroduzione dell’acqua acquosa, del manzo bovino e del determinante articolo determinativo.

So’ ragazzi

Fermi tutti. Dice Meloni che le vere vittime dell’inchiesta di Fanpage sono i giovani del suo partito che sono stati ripresi mentre si esibiscono in ridanciane pose di fascisti contemporanei. Il perché non l’ha spiegato. Donzelli di Fratelli d’Italia aveva detto che erano stati “traditi”, dimenticando che la fedeltà negli illeciti è una pratica vietata dalla legge. L’avvocata Bernardini De Pace: “Difenderei i ragazzi di Gioventù Nazionale perché sono stati violati nell’onore e nella riservatezza”. Insuperabile Italo Bocchino che rivolto a Fanpage dice “andassero a fare le inchieste sulla camorra, non sui ragazzini di 15 anni”. Ora non resta che attendere l’istituzione di una nuova giornata della memoria per quei poveri ragazzi.

Basta poco a Vasco

Ha girato poco la notizia che durante il suo concerto a Bari Vasco Rossi abbia voluto vergare un veloce editoriale politico modificando la sua canzone “Basta poco”. “Basta poco per essere intolleranti… ditelo a Salvini. Basta poco, basta esser solo un po’ ignoranti… come Salvini”, ha cantato Vasco. Visto il silenzio lo facciamo noi: solidarietà al ministro. Va bene così?

Quelli della notte

L’ex premier britannico Rishi Sunak a Metro: “Vorrei regalare a Giorgia Meloni un assaggio della vita notturna dello Yorkshire”. Ora ha tutto il tempo che gli serve.

Guerra di classe

In Piemonte il neo-assessore Paolo Bongioanni  ha chiesto il dispiegamento dell’esercito per sparare ai cinghiali. Secondo l’assessore servirebbe a contenere la peste suina. Il secondo passo sarà il dispiegamento di un battaglione di ammaestratori di pulci.

Che Ciocca!

Angelo Ciocca, ex europarlamentare della Lega divenuto popolare per le sue intemperanze, è rimasto fuori dal nuovo Parlamento Ue per la scelta del generale Roberto Vannacci di farsi eleggere nella circoscrizione del Nord-Ovest. In campagna elettorale aveva fatto parlare di sé per un’improbabile canzone con improbabile balletto a suo sostegno e per alcuni video in cui mangiava “cibo italiano” contro “i grilli dell’Europa”. A pensarci bene quindi può tranquillamente continuare la sua attività politica.

Giornalisti e infiltrati

Quattro giornalisti sono stati palpeggiati da uno sconosciuto, che si è infiltrato a un punto stampa della segretaria del Pd Elly Schlein durante il Milano Pride. Mentre i cronisti erano impegnati a raccogliere delle dichiarazioni audio e video, l’uomo si è messo dietro di loro, toccandoli più volte nelle parti intime. Forse ci siamo fatti prendere un po’ la mano con le inchieste.

Pugno di ferro

Il Comune di Venezia aveva bandito i rumorosi galletti da un’aia alla periferia della città. Un tribunale veneto ha confermato la sentenza affermando che il canto dei galli era dannoso per la salute degli abitanti della periferia di Mestre. All’agricoltore è stato vietato di allevare galli, ma può allevare galline, non più di 50 alla volta. È il mito della sicurezza della destra.

Italia fuori dall’Europeo per mancanza di figli

Titolo del Secolo d’Italia: “Meno figli? Meno talenti. Ecco perché un’ltalia più feconda sarà calcisticamente più competitiva”. Secondo questo ragionamento la Cina dovrebbe essere fortissima, però.

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Mettere a tacere Travaglio & C: bufera sull’ergastolano Forti

Chico Forti, condannato per omicidio da un tribunale Usa, è stato accolto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni all’aeroporto di Pratica di Mare dopo la sua estradizione in Italia. I suoi 24 anni di condanna già espiati gli hanno fatto meritare un ritorno a casa degno di un capo di Stato.

La sua cella nel carcere di Montorio è stata frequentata da diversi parlamentari della maggioranza che per giorni ci hanno rassicurato sul fatto che stesse bene, dormisse bene, mangiasse bene. Come ricordava Massimo Giannini in un articolo del 31 maggio a Montorio, mentre Forti mangiava foie gras e giocava a Call of Duty, ci sono detenuti che crepano, nell’incuria e nella penuria: cinque suicidi in soli tre mesi.

Chico Forti è stato intervistato da Bruno Vespa e ha raccontato di essere stato accolto in carcere “come un re” e che il primo a volergli parlare è stato il comandante Schettino che gli ha detto “Chico sei il mio eroe”. “Mi hanno fatto un piatto di spaghetti all’amatriciana”, ha detto Foti a un sorridente Vespa.

Ora si viene sapere che nel carcere di Verona dove è stato trasferito Forti avrebbe avvicinato un altro detenuto esprimendo il suo fastidio per la prima pagine de Il fatto quotidiano contro di lui e gli avrebbe chiesto aiuto per “mettere a tacere Travaglio, Lucarelli e una terza persona”. In cambio avrebbe promesso loro aiuto, una volta tornato libero e “candidato”.

A riferirlo è il garante dei detenuti, a confermarlo è il detenuto avvicinato da Chico Forti. La Procura indaga, Meloni tace. Sarebbe curioso sapere chi ha promesso la libertà a Forti, essendo prerogativa solo del Presidente della Repubblica concedere la grazia. Ma in fondo Forti è già fin troppo libero.

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La favola del primato italiano: sul Pnrr i numeri raccontano altro

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ogni volta che ne ha l’occasione torna a sbandierare il presunto primato italiano nella realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). L’ultima volta è accaduto il 2 luglio, quando ha commentato sui social l’annuncio della Commissione Ue riguardo alla valutazione preliminare positiva per l’erogazione della quinta rata del Pnrr. “L’Italia è il primo Paese in tutta l’Unione per obiettivi raggiunti e avanzamento finanziario del Pnrr”, ha dichiarato la leader di Fratelli d’Italia.

“Siamo lo Stato membro che finora ha ricevuto l’importo maggiore”, ha aggiunto, sostenendo che l’Italia ha ottenuto 113,5 miliardi di euro, il 58,4% del totale del nostro Pnrr. Ma questa affermazione, come sottolineato da Pagella Politica, non rispecchia la realtà dei fatti. I numeri, infatti, raccontano un’altra storia. Il Pnrr italiano, nel piano originario approvato nel 2021 dal governo Draghi, contava su 191,5 miliardi di euro, cifra poi aumentata a 194,4 miliardi con l’aggiunta delle risorse del REPowerEU, un programma volto a finanziare progetti energetici per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili russi.

L’erogazione dei fondi del Pnrr italiano – così come di quelli degli altri Paesi – è legata a 617 traguardi e obiettivi da raggiungere in cambio di dieci rate di finanziamenti. Secondo i dati della Commissione, finora l’Italia ha raggiunto 178 dei 617 traguardi e obiettivi, pari al 29% del totale. Questa percentuale, però, non tiene conto dei 54 traguardi e obiettivi raggiunti con la quinta rata, la cui valutazione preliminare positiva è stata data il 2 luglio. Se assumiamo il raggiungimento di questi traguardi, la percentuale sale al 37%: 232 traguardi e obiettivi raggiunti sui 617 concordati. Ma come si posiziona l’Italia rispetto agli altri Paesi europei? È qui che il castello di carte delle dichiarazioni di Meloni crolla.

Pnrr, il confronto

La Francia ha raggiunto il 73% dei traguardi e obiettivi concordati, la Danimarca il 46%, il Lussemburgo il 43% e Malta il 39%. Quindi, ben quattro Paesi sono davanti all’Italia in termini percentuali di attuazione del Pnrr. Anche confrontando il numero di rate ricevute, l’Italia non può vantare un primato assoluto. Finora ha ricevuto quattro rate, a cui si aggiungerà presto la quinta, se tutto andrà come previsto. Questo significa che siamo al 50% del totale delle rate concordate. La Francia ha ricevuto tre rate su cinque, raggiungendo il 60%. Meloni ha affermato che l’Italia è il Paese che ha ricevuto l’importo maggiore del Pnrr.

Anche qui, i numeri raccontano una storia diversa. L’Italia ha ottenuto finora 102,5 miliardi di euro. Ai 113,5 miliardi dichiarati da Meloni si arriva considerando come già fatta l’erogazione degli 11 miliardi della quinta rata. Anche ammettendo questa somma, la percentuale di fondi ricevuti dall’Italia sul totale del Pnrr è del 58,4%. Ma la Francia ha ricevuto il 76,6% del suo piano, e la Danimarca il 59,3%, superando quindi l’Italia. Non è la prima volta che la presidente del Consiglio racconta questa favola, e non sarà l’ultima. Ogni volta che Meloni rivendica un primato inesistente, bisogna basarsi sui fatti e sui numeri. La realtà è che l’Italia non è prima in Ue per la realizzazione del Pnrr.

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Migranti, non solo dal mare: uccisi pure da milizie e governi nell’inferno terrestre verso l’Europa

Attraversano deserti e mari e a ogni passo sfidano la morte. Sono i migranti e i rifugiati che percorrono le rotte dall’Africa verso l’Europa, vittime di violenze inaudite e sfruttamento. In politica sono il piatto forte della propaganda dei sovranisti. In terra sono un girone dantesco che striscia ai bordi dell’Europa.

Migranti, le rotte della disperazione: dall’Africa all’Europa

L’ultimo rapporto dell’UNHCR, realizzato insieme all’OIM e al Mixed Migration Centre, getta luce su una realtà agghiacciante che si consuma quotidianamente lungo le rotte migratorie terrestri e marittime. Il titolo stesso è un pugno nello stomaco: “In questo viaggio, a nessuno importa se vivi o muori”.

I numeri parlano chiaro: le persone che attraversano il deserto del Sahara sono più di quelle che si imbarcano sul Mediterraneo. Le vittime si stima siano il doppio di quelle che si consumano in mare. Il rapporto, che copre un periodo di raccolta dati di tre anni, segnala un aumento del numero di persone che tentano queste pericolose traversate terrestri e dei rischi di protezione che corrono.

Chi sono? Guardando le prime 10 nazionalità di chi è arrivato in Italia via mare tra il 2018 e il 2022, emergono dati significativi. Siriani, maliani e sudanesi hanno altissime percentuali di riconoscimento dello status di rifugiato: rispettivamente il 95,23%, il 60,32% e l’83,25%. Persone che fuggono da situazioni drammatiche, con il diritto alla protezione internazionale. Eppure vengono trattati come criminali, respinti e abbandonati. 

L’inferno in terra: abusi e sfruttamento dei migranti

Il rapporto dell’UNHCR fotografa una situazione in peggioramento. Il deterioramento delle condizioni nei paesi di origine e in quelli di accoglienza spinge sempre più persone a intraprendere questi viaggi della disperazione. Nuovi conflitti divampano nel Sahel e in Sudan, l’impatto devastante dei cambiamenti climatici e delle catastrofi aggrava emergenze nuove e protratte nell’Est e nel Corno d’Africa. A tutto questo si aggiungono manifestazioni di razzismo e xenofobia che colpiscono rifugiati e migranti.

L’orrore più grande accade prima di rischiare nell’ultimo tratto, quello per mare. Il rapporto rileva che in alcune parti del continente, i rifugiati e i migranti attraversano sempre più spesso aree in cui operano gruppi di insorti, milizie e altri attori criminali. Qui sono diffusi il traffico di esseri umani, i rapimenti a scopo di riscatto, il lavoro forzato e lo sfruttamento sessuale. Alcune rotte di contrabbando si stanno spostando verso aree più remote per evitare zone di conflitto attivo o controlli alle frontiere, sottoponendo le persone in movimento a rischi ancora maggiori.

L’elenco degli abusi denunciati da rifugiati e migranti è agghiacciante: tortura, violenza fisica, detenzione arbitraria, morte, rapimento a scopo di riscatto, violenza sessuale e sfruttamento, riduzione in schiavitù, traffico di esseri umani, lavoro forzato, espianto di organi, rapina, espulsioni collettive e respingimenti. La Libia si conferma l’epicentro di questo inferno in terra, seguita dal deserto del Sahara, Mali, Niger e Sudan.

Complicità e inazione: i colpevoli oltre i criminali

I colpevoli? Il rapporto punta il dito non solo contro i criminali ma anche contro chi dovrebbe garantire sicurezza e protezione. Le bande criminali e i gruppi armati sono indicati come i principali responsabili di questi abusi, ma non mancano forze di sicurezza, polizia, militari, ufficiali dell’immigrazione e guardie di frontiera. Nella sezione orientale della rotta, i militari e la polizia sono stati percepiti come i principali responsabili delle violazioni dei diritti umani dal 48% degli intervistati, contro il 20% e il 21% riportati rispettivamente nelle sezioni settentrionale e occidentale.

Nonostante gli impegni assunti dalla comunità internazionale per salvare vite umane e affrontare le vulnerabilità, in conformità con il diritto internazionale, le tre organizzazioni avvertono che l’attuale azione internazionale è inadeguata. Lungo la rotta del Mediterraneo centrale si registrano enormi lacune in termini di protezione e assistenza, che spingono rifugiati e migranti a proseguire in viaggi pericolosi.

Il sostegno specifico e l’accesso alla giustizia per i sopravvissuti a varie forme di abuso sono raramente disponibili lungo le rotte. Il sostegno è ostacolato anche da finanziamenti inadeguati e restrizioni all’accesso umanitario, anche in luoghi chiave come i centri di detenzione informale e le strutture di accoglienza.

UNHCR, OIM e partner umanitari fanno il possibile per colmare le lacune, potenziando i servizi di protezione e assistenza salvavita, i meccanismi di identificazione e di indirizzo lungo le rotte. Ma è come svuotare il mare con un secchiello, spiegano. La prossime Ue guidata ancora da von der Leyen non lascia presagire nulla di buono. Servono risposte concrete, immediate, su larga scala. Sempre le stesse: corridoi umanitari, vie legali e sicure per chiedere asilo. Perché come recita il titolo del rapporto, in questo viaggio a qualcuno deve importare se vivi o muori. A noi.

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Il Regno Unito volta pagina. Vittoria per i Laburisti. Starmer sarà il nuovo premier

l Regno Unito volta pagina dopo 14 anni di governo conservatore. Le elezioni generali tenutesi ieri hanno segnato una netta vittoria del Partito Laburista guidato da Keir Starmer, che si appresta a diventare il nuovo Primo Ministro. Secondo i primi exit pool, i laburisti hanno conquistato 410 seggi alla Camera dei Comuni, ben oltre la soglia della maggioranza assoluta fissata a 326. Un trionfo che segna la fine dell’era Tory iniziata nel 2010 e proseguita attraverso tre diverse elezioni. Per i conservatori si profila invece una disfatta storica, con appena 131 seggi ottenuti, il peggior risultato della storia. Terza forza tornano a essere i Lib-dem con 51 seggi, seguiti dalla destra di Reform Uk (13) e dallo Scottish National Party (10).

Il Partito laborista ha vinto le elezioni in Regno Unito

La giornata elettorale si è svolta in un clima di grande attesa, con i seggi aperti dalle 7 alle 22 nelle quattro nazioni del Regno Unito. Ne viene fuori la volontà di cambiamento degli elettori britannici dopo anni difficili segnati dalla Brexit, dalla pandemia e dalla crisi economica.

Keir Starmer, 61enne ex procuratore della Corona, ha incentrato la sua campagna elettorale sulla parola d’ordine del “cambiamento”, promettendo di voltare pagina rispetto all’era conservatrice. Pur ribadendo che non rimetterà in discussione la Brexit, Starmer ha puntato su temi come il rilancio del servizio sanitario nazionale, la lotta al caro vita e nuovi investimenti nei servizi pubblici.

Sunak ha pagato lo scotto di anni turbolenti per i Tories

Dal canto suo, il premier uscente Rishi Sunak ha pagato lo scotto di anni turbolenti per i Tories, segnati da scandali e una girandola di leader. Il suo tentativo di giocare d’anticipo convocando le elezioni a luglio, nella speranza di capitalizzare qualche timido segnale positivo sull’economia, si è rivelato un azzardo fallimentare. A penalizzare ulteriormente i conservatori è stata anche la concorrenza a destra del nuovo partito Reform UK guidato da Nigel Farage, che ha eroso voti preziosi in numerosi collegi. Il sistema elettorale maggioritario britannico ha così amplificato la sconfitta Tory, premiando invece la rimonta laburista. “Basta con il caos di 14 anni di governo tory, è ora di voltare pagina e cambiare il Paese”, è stato il mantra di Starmer durante la campagna elettorale e anche nel suo ultimo appello prima del voto. Nel quale ha chiesto ai britannici un sostegno proprio per un vero cambiamento: “Il cambiamento può avvenire solo se lo votate”. “Saremo un governo per tutti i britannici, non solo per pochi. Ricostruiremo i servizi pubblici, rilanceremo l’economia e restituiremo fiducia nelle istituzioni”, è il suo messaggio degli ultimi giorni.

Per il Regno Unito si apre un nuovo capitolo anche sul fronte internazionale, a partire dai rapporti con la presidente della Commissione Ue – che va verso una conferma alla guida dell’esecutivo comunitario proprio nei prossimi giorni con il voto dell’Europarlamento – Ursula von der Leyen. Pur ribadendo che il Regno Unito non rientrerà nell’Unione, Starmer ha promesso di lavorare per relazioni più strette con Bruxelles, in particolare sul piano commerciale. La sconfitta conservatrice apre ora scenari inediti per il partito che ha governato il Paese negli ultimi 14 anni. Rishi Sunak è già pronto alle sue dimissioni da leader, aprendo la strada a una nuova corsa per la leadership Tory. Tra i nomi che circolano per la successione ci sono quelli di Penny Mordaunt e Kemi Badenoch.Per i laburisti si tratta invece di un ritorno al governo dopo quasi 15 anni. L’ultima volta che il partito guidò il Paese fu con Gordon Brown, successore di Tony Blair, sconfitto nel 2010 da David Cameron. Ora Starmer avrà il compito di traghettare il Regno Unito fuori da anni difficili, tra le conseguenze della Brexit e le sfide economiche.

Tra le prime sfide che attendono il nuovo premier c’è sicuramente il rilancio del servizio sanitario nazionale, messo a dura prova dalla pandemia, e nuove misure per contrastare l’aumento del costo della vita che ha colpito duramente molte famiglie britanniche. Sul fronte internazionale, Starmer dovrà ridefinire le relazioni con l’Unione Europea nel quadro post-Brexit e rilanciare il ruolo globale del Regno Unito.

Keir Starmer esulta: “Il mandato comporta grandi responsabilità”

“Ce l’abbiamo fatta! Il cambiamento inizia ora. Il partito laburista è cambiato, è pronto a servire il nostro paese, pronto a riportare la Gran Bretagna al servizio dei lavoratori. Il mandato comporta grandi responsabilità. Dobbiamo riportare la politica al servizio del pubblico. Questa è la grande prova della politica in quest’epoca: la lotta per la fiducia è la battaglia che definisce la nostra epoca. Prima il Paese, poi il partito è un principio guida” ha detto il leader laburista Keir Starmer nel discorso per commentare l’esito del voto in Gran Bretagna.

“Il nostro compito non è altro che rinnovare le idee che tengono insieme il nostro Paese, un rinnovamento nazionale”, ha detto in un discorso pronunciato mentre il suo partito si assicurava la maggioranza assoluta nel nuovo Parlamento. “Non posso promettervi che sarà facile”, ha aggiunto Starmer.

In Parlamento irrompe anche Nigel Farage

In Parlamento irrompe anche Nigel Farage, presidente onorario della formazione populista Reform U, eletto per la prima volta come parlamentare nel Regno Unito.

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Se i diritti sono per censo diventano privilegi

Lunedì la figlia del presidente del Camerun, Brenda Biya, ha pubblicato una foto sul suo profilo Instagram in cui bacia la modella brasiliana Layyons Valença, con la didascalia: “PS: sono pazza di te e voglio che il mondo lo sappia”. Il post non esplicita il suo orientamento sessuale ma Biya ha poi ripubblicato nelle sue storie di Instagram diversi articoli che descrivono la foto come un coming out. C’è un piccolo particolare: in Camerun l’omosessualità è illegale dal 1972 e dal 2016 una legge prevede fino a 5 anni di carcere.

La figlia del presidente del Camerun, Brenda Biya, ha pubblicato una foto in cui bacia la modella brasiliana Layyons Valença

Il padre di Biya, Paul, è presidente del Camerun dal 1982. Il gesto di Brenda Biya è stato ovviamente accolto come un segnale incoraggiante dalla comunità Lgbtq camerunense. “Sta diventando una voce per il cambiamento sociale in un paese dove i tabù sono profondamente radicati”, ha detto alla stampa l’attivista transgender camerunese Shakiro che è stato condannato sulla base della legge del 2016: nel 2021 fu condannata a cinque anni di carcere per “tentata omosessualità” e dal 2023 vive in Belgio, dove ha chiesto asilo.

Il gesto di Brenda, però, ha sollevato anche alcune riflessioni sulle sproporzionate possibilità di ricchi e poveri: per alcuni è evidente che la ragazza abbia potuto fare coming out sui social perché vive in Svizzera e ha maggiori opportunità di difendersi contro la legge anti-Lgbt nel caso in cui venisse perseguita, grazie alla sua alta posizione nella classe sociale e alla sua maggiore istruzione. È esattamente così. I diritti non sono un simbolo da sventolare. Sono diritti solo se accessibili a tutti. Altrimenti si chiamano privilegi, anche se profumano di quel progressismo che funziona sui social.

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La sfida per il lavoro e l’unità

Nonostante il pessimismo e la distrazione l’Italia sta vivendo un momento di straordinaria mobilitazione popolare. Al centro ci sono quattro quesiti referendari che mirano a ridisegnare il panorama dei diritti del lavoro nel nostro Paese. La Cgil, promotrice dell’iniziativa, ha lanciato una sfida ambiziosa: raccogliere le firme necessarie per indire un referendum che cancelli gli attacchi ai diritti dei lavoratori degli ultimi anni, dal Jobs Act di Renzi in poi. E la risposta dei cittadini è stata travolgente.

Nonostante il pessimismo e la distrazione l’Italia sta vivendo un momento di straordinaria mobilitazione popolare

“Abbiamo già superato ampiamente le 850mila firme per ognuno dei quattro quesiti, quindi stiamo parlando di milioni di firme”, annuncia con orgoglio il segretario della Cgil, Maurizio Landini. Un risultato che va ben oltre le aspettative e che dimostra quanto il tema del lavoro sia sentito dagli italiani. Il primo quesito mira a ripristinare la tutela del reintegro per i licenziamenti illegittimi, di fatto abrogando le norme del Jobs Act che hanno reso più facile licenziare. Il secondo punta a garantire un lavoro dignitoso, intervenendo sulla disciplina dei contratti a termine. Il terzo si concentra sulla stabilità del lavoro, cercando di limitare e mettere un freno al dilagare del precariato.Infine, il quarto quesito affronta il tema cruciale della sicurezza sul lavoro, estendendo la responsabilità delle imprese appaltatrici in caso di infortuni.

Sono temi che toccano da vicino la vita di milioni di italiani. Lo sa bene Alessandro Barbero, storico e scrittore, che ha deciso di sostenere apertamente l’iniziativa: “Firmo per tutte le persone che non hanno potuto lottare, che hanno avuto indennizzi da fame e a cui continuano a proporre contratti a tempo determinato invece di un’assunzione stabile”. Parole che risuonano nel cuore di chi vive sulla propria pelle la precarietà e l’insicurezza del lavoro contemporaneo. La mobilitazione non si ferma ai confini nazionali. La Cgil ha organizzato una raccolta firme straordinaria che coinvolge diverse città europee, da Bruxelles a Barcellona, da Francoforte a Basilea. Un’iniziativa che dimostra come il tema del lavoro sia centrale non solo per l’Italia, ma per l’intera Europa.

“Non ci siamo dimenticati dei 6 milioni di connazionali nel mondo, come spesso accade”, sottolinea Filippo Ciavaglia dell’area Internazionale della Cgil. Il successo della raccolta firme è ancora più significativo se si considera il contesto in cui avviene. In un’epoca di disaffezione verso la politica e di scarsa partecipazione, vedere centinaia di migliaia di cittadini mobilitarsi per una causa comune è un segnale forte. È la dimostrazione che la società civile non ha abdicato al suo ruolo politico, anzi lo sta rivendicando con forza. “Credo che sia un risultato molto importante, che indica la volontà dei cittadini e dei lavoratori di cancellare delle norme che hanno precarizzato il lavoro, lo hanno reso meno sicuro, hanno indebolito la vita delle persone, hanno abbassato i salari”, commenta Landini. “E credo che sia una domanda di libertà nel lavoro”.

La libertà nel lavoro, appunto. Un concetto che può sembrare paradossale, ma che in realtà è al cuore della questione. Perché, come sottolinea il leader dell Cgil, “una persona per essere libera non dev’essere precaria, deve avere uno stipendio dignitoso e non deve morire sul lavoro che fa, deve poter usare la propria intelligenza e potersi realizzare nel lavoro che fa”. Il referendum si configura così non solo come uno strumento di opposizione a determinate politiche ma come un’affermazione positiva di diritti.

È un modo per dire che un altro mondo del lavoro è possibile, un mondo in cui la dignità e la sicurezza dei lavoratori non sono optional, ma presupposti irrinunciabili. Indipendentemente dall’esito finale, questa mobilitazione ha segnato un punto di svolta. Ha dimostrato che i temi del lavoro sono ancora centrali nell’agenda del Paese, riportando l’economia reale come priorità. Al di là della propaganda il Paese è sfiancato da lavori precari e salari da fame. E non è finita qui. Perché mentre la macchina referendaria sul lavoro è in pieno movimento, all’orizzonte si profila già una nuova sfida.

Cgil e Uil hanno infatti annunciato l’intenzione di promuovere un referendum contro la legge sull’Autonomia differenziata. “Perché quella legge aumenta i divari e le diseguaglianze, non solo a danno del Mezzogiorno ma negando la crescita dell’intero Paese”, spiega Landini. È un’ulteriore conferma di come la società civile stia assumendo un ruolo sempre più attivo e propositivo nel panorama politico italiano. I referendum tornano a essere un simbolo di partecipazione democratica, un modo per riaffermare il primato della volontà popolare su temi cruciali per il futuro del Paese. È una lezione di democrazia che non può essere ignorata dai partiti. Mentre si ingrossano le file degli astenuti le iniziative politiche dal basso sono in ottima salute. A questo punto la domanda è lecita: non sarà che la crisi sia dei partiti e non della politica Solo che per rispondere i leader dovrebbero avere coraggio, tanto coraggio.

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Un altro, un’altra ammazzata

A Roma in via degli Orseolo al numero civico 36 c’è un nugolo di palazzi bassi color mattone e alcuni che tendono al rosa. Poi c’è un’area recintata vuota, inaspettata nel caos della capitale. Infine c’è Villa Sandra. Ci si entra da via Portuense ma chi ci lavora esce da dietro. Ieri, non erano ancora le due del pomeriggio, in via degli Orseolo al numero 36 c’era anche il corpo di Manuela Pietrangeli, 50 anni festeggiati con un contratto di lavoro che prometteva serenità in mezzo alla tempesta. Pietrangeli aveva un buco in mezzo al petto, come iniziano certi romanzi e certe serie a puntate. 

A sparare è stato Gianluca Molinaro che da tre anni era separato dalla donna. Avevano anche un figlio, ha nove anni. Molinaro era a bordo della sua auto, ha abbassato il finestrino. Uno sparo l’ha colpita al braccio, lei era con una collega, provando a scappare ha chiesto aiuto. Un fucile a canne mozze è l’arma del delitto. Un fucile a canne mozze che la colpisce al petto uscendo dal finestrino di un’auto. 

Sembra una scena di mafia scritta da Sciascia e invece è un altro femminicidio. I giornali scrivono che lei era buona. La notizia che lei è morta, uccisa da un uomo che aveva lasciato. È una notizia anche che l’assassino abbia delle denunce che del femminicidio sono veri e propri reati spia. Due mesi di carcere per violenze contro la sua ex compagna, denunce per atti persecutori. È la sua ex compagna (con cui ha un’altra figlia) che l’ha convinto a costituirsi. Racconta che quando lui l’ha chiamata confessando il femminicidio era ubriaco e voleva uccidersi. Non si è ucciso, no, e ha chiamato un’altra sua vittima – per fortuna viva – per mondarsi. Ora è in arresto. Un altro, un’altra ammazzata. 

Buon venerdì. 

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Ha detto tutto lui

«Non si può ricorrere a semplificazioni di sistema o a restrizioni di diritti “in nome del dovere di governare”. Una democrazia “della maggioranza” sarebbe una insanabile contraddizione». Non ci gira tropo intorno il presidente della Repubblica parlando a Trieste e puntualizzando cosa sia la democrazia (parlamentare) e la Costituzione. 

«La democrazia come forma di governo – ha detto Mattarella – non basta a garantire in misura completa la tutela dei diritti e delle libertà: può essere distorta e violentata nella pretesa di beni superiori o utilità comuni. Il Novecento ce lo ricorda e ammonisce». Per questo il capo dello Stato invita a non confondere la «volontà generale» con quella di una maggioranza che si considera «come rappresentativa della volontà di tutto il popolo».

Mattarella pronuncia «un fermo no all’assolutismo di Stato, a un’autorità senza limite, potenzialmente prevaricatrice». «La coscienza dei limiti è un fattore imprescindibile di leale e irrinunziabile vitalità democratica». Per questo sono necessari «limiti alle decisioni della maggioranza che non possano violare i diritti delle minoranze».

Le parole che arrivano dal Quirinale si sovrappongono alle critiche verso la riforma del premierato fortemente voluta da Giorgia Meloni e dalla sua maggioranza. Mattarella parla anche della necessità di evitare che il «principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori». Queste invece sono all’indirizzo della ministra per le riforme Casellati che negli ultimi giorni spinge per una legge elettorale ancora più maggioritaria. 

Mi pare che ci sia tutto. Buon giovedì. 

Nella foto: il presidente Mattarella a Trieste, frame video, 3 luglio 2024

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Non sarà un tappo di plastica a far morire i leghisti di sete

Da ieri i tappi di plastica non rimovibili delle bottiglie, protagonisti della catastrofica campagna elettorale per le europee di Matteo Salvini, sono diventati obbligatori per legge. Il leader della Lega e i suoi compagni di partito hanno usato il tappo che rimane attaccato alla bottiglia come simbolo delle “leggi senza senso” dell’Unione europea.

Da ieri i tappi di plastica non rimovibili, protagonisti della catastrofica campagna elettorale di Salvini, sono diventati obbligatori per legge

Erano evidentemente convinti che una gran parte degli elettori fosse drammaticamente angustiata dalla fatica cerebrale di trovare la collocazione esatta per poter bere senza comprimersi le narici. Ogni partito politico del resto ha legittimamente la sua agenda di priorità. Funziona così. Per Salvini e la sua compagnia politica quel tappo di plastica dovrebbe essere la metafora della burocrazia dell’Unione europea che rende difficile la vita ai cittadini.

“Più Italia, meno Europa!”, urlavano i manifesti elettorali leghisti, dove il “più Italia” era rappresentato da un tappo staccabile. Nella sua ultima indagine Legambiente ha censito 705 rifiuti ogni 100 metri sulle spiagge italiane. I rifiuti dispersi in mare o lungo le coste, restano una delle grandi minacce ambientali da affrontare a livello globale. Quei rifiuti sono causa di inquinamento che arreca gravi danni agli ecosistemi oceanici, impattando sia sulla fauna selvatica che sugli esseri umani. Il 40,2% di questi è rappresentato da 5 tipologie di oggetti tra cui – indovina un po’? – proprio i tappi di plastica. Secondo il report “Plastic & Climate” la produzione, l’incenerimento e lo smaltimento della plastica aggiungono all’atmosfera più di 850 milioni di tonnellate di CO2 all’anno. Non saranno i tappi a fare morire i leghisti di sete.

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