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Molestie sul lavoro: il patriarcato in cifre che l’Italia finge di non vedere

Ci risiamo. L’Istat ci consegna l’ennesimo rapporto che grida vendetta ma che rischia di rimanere lettera morta nell’indifferenza generale. Il 13,5% delle donne italiane tra i 15 e i 70 anni ha subito molestie sessuali sul lavoro. Un esercito di oltre 1,8 milioni di vittime silenziose, schiacciate tra la paura di perdere il posto e la vergogna di denunciare.

Ma attenzione: non stiamo parlando solo di pacche sul sedere o battutine volgari. Il ventaglio è ampio e va dagli sguardi lascivi alle proposte indecenti, fino ad arrivare a veri e propri abusi fisici. Un calvario quotidiano che colpisce soprattutto le più giovani: il 21,2% delle lavoratrici tra i 15 e i 24 anni ha già vissuto sulla propria pelle questa forma di violenza.

E gli uomini? Anche loro non sono immuni, ma i numeri parlano chiaro: solo il 2,4% ha subito molestie sul lavoro. Una disparità che riflette il tanto temuto “patriarcato”, dove il potere – quasi sempre maschile – viene usato come arma di ricatto e sopraffazione.

L’istruzione? Un’arma a doppio taglio per le donne

Ma c’è di più. L’istruzione, che dovrebbe essere uno scudo, diventa paradossalmente un fattore di rischio: il 14,8% delle donne laureate ha subito molestie, contro il 12,3% di quelle con titolo di studio inferiore. Come dire: più sali, più ti esponi al pericolo. E la geografia Il Nord-Ovest e il Centro guidano questa triste classifica, con punte del 20,3% in Piemonte. Un dato che fa a pugni con la retorica del Sud arretrato e maschilista.

Il silenzio assordante delle vittime

Ma il dato più agghiacciante è un altro: solo il 2,3% delle vittime denuncia alle forze dell’ordine. Un muro di omertà e paura che protegge i molestatori e perpetua il ciclo della violenza. L’indagine Istat ci regala altri dettagli cda brividi. Nell’81% dei casi, le donne subiscono molestie da parte di uomini.

E chi sono questi maschi alfa del terzo millennio? Per lo più colleghi (37,3%) o clienti, pazienti, studenti (26,2%). Insomma, gente comune, non mostri nascosti nell’ombra. E non crediate che si tratti di episodi isolati. L’80% delle donne ha subito molestie più volte negli ultimi 12 mesi. Un incubo ricorrente, una ferita che si riapre ogni giorno varcando la soglia dell’ufficio.

Ma forse il dato più inquietante è quello che non c’è. Quel 24,8% di donne che non ne ha parlato con nessuno. Un silenzio assordante, fatto di vergogna, paura, rassegnazione. Un silenzio che grida più forte di qualsiasi statistica. Anche gli uomini preferiscono tacere nel 28,7% dei casi.

Ma c’è una differenza sostanziale: quando decidono di parlare, gli uomini si rivolgono più facilmente alle autorità. Il 26,7% degli uomini che ha subito molestie gravi ha contattato le forze dell’ordine o altre istituzioni, contro appena il 6,3% delle donne.

L’indagine Istat ci offre anche uno spaccato temporale. Negli ultimi tre anni, il 4,2% delle donne e l’1% degli uomini ha subito molestie sul lavoro. Numeri in calo rispetto al dato lifetime, ma che non lasciano spazio all’ottimismo. Perché dietro ogni percentuale c’è una persona, una dignità calpestata, un diritto negato.

E non dimentichiamo i ricatti sessuali, quella zona grigia dove il confine tra molestia e abuso si fa sottile. Sono 298mila le donne che hanno subito ricatti per ottenere un lavoro o un avanzamento di carriera. Un numero che fa rabbrividire e che ci racconta di un mondo del lavoro dove il merito è troppo spesso sacrificato sull’altare del più bieco machismo.

I numeri ci raccontano di un’Italia dove la parità di genere sul lavoro resta un miraggio. Un’Italia dove troppo spesso le donne sono costrette a scegliere tra la propria dignità e la propria carriera. Un’Italia che ha bisogno urgente di una rivoluzione culturale, prima ancora che legislativa. Con buona pace di quelli che “il patriarcato non esiste”. 

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Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo – Lettera43

A destra parlano di attacco alla democrazia, come se stanare ragazzotti fascisti in un partito fosse un pericolo. Dicono che bisogna limitarsi alla cronaca, ai fatti, evitare le opinioni. Ma quello è lavoro da ufficio stampa. Il punto è che hanno paura. Della verità scomoda, del cambiamento, di mettere in discussione le proprie convinzioni.

Meloni, Fanpage e quell’idea distorta di giornalismo

Diteci esattamente quale giornalismo volete, che razza di idea avete del giornalismo, quale dovrebbe essere la formula per accarezzare i lettori, la politica, l’imprenditoria tutta ed evitarci il rogo. Giorgia Meloni, giornalista professionista – come ci tiene a ricordare nel suo curriculum depositato a Palazzo Chigi – ha un’idea confusa, rabberciata dalle idee di qualche decennio fa. Ha spiegato la presidente del Consiglio che il giornalismo che si infila tra le beghe del potere è un attacco alla democrazia e non si capisce bene di chi sia quella democrazia messa a rischio dallo stanare ragazzotti fascisti riuniti in organizzazione. Tanta è la confusione sotto il cielo che la premier ha chiesto addirittura l’intervento di Sergio Mattarella, non si capisce bene per cosa. Forse Meloni vorrebbe che il presidente della Repubblica bussasse alla porta di Fanpage per tirare l’orecchio al direttore Francesco Cancellato e dirgli che i bambini non devono occuparsi delle cose dei grandi, non devono ascoltare i loro discorsi, devono stare in cameretta a giocare, devono farsi i fatti loro. Spira quell’aria del giornalismo come recinto dove ci si può divertire però senza esagerare. Quella stessa aria che nel ‘500 soffiava sulla testa dei giullari. Va bene ridere e far ridere, però occhio a non esagerare.

Meloni, Fanpage e quell'idea distorta di giornalismo
Sergio Mattarella stringe la mano a Giorgia Meloni (Imagoeconomica).

Quelli per cui la stampa dovrebbe limitarsi alla cronaca e attenersi ai fatti

Ci sono quelli per cui i giornalisti dovrebbero limitarsi alla cronaca. Dicono proprio così, limitarsi. Come se la cronaca fosse un lavoro di ribattuta dei fatti. Poi si correggono: attenersi ai fatti, dicono. Evitare le opinioni. Ricordano quelle redazioni in cui al giovane praticante viene chiesto di telefonare al direttore prima di aggiungere un aggettivo. Limitarsi ai fatti è la reductio del “limitarsi ai nostri fatti”. Per loro i giornalisti sono impiegati a tempo pieno con lo scopo di propagare certe azioni, solo quelle, e rendere popolari le loro opinioni. Lo chiamano giornalismo, ma non sanno che è lavoro da ufficio stampa. E gli uffici stampa costano.

Per loro il “giornalista bravo” è quello con cui sono sempre d’accordo

Ci sono quelli per cui i giornalisti bravi sono quelli che mettono su carta le loro riflessioni al bar, tra amici. Per loro un “giornalista bravo” è un giornalista con cui sono sempre d’accordo. Sognano le edicole come un social fisico in cui incontrare gente con le loro stesse idee, con le identiche opinioni, tutti in lotta verso un unico obiettivo: collimare in molti e non sentirsi mai soli. Giornalismo come bonus psicologico.

Quelli dei nomignoli, degli sfottò: è stand up comedy su carta

Poi ci son quelli che vogliono il giornalismo con i nomignoli, con gli sfottò, con il perculamento dell’avversario come zenit del piacere. Per loro il giornalismo è stand up comedy su carta. Ridono a crepapelle. «Hai visto stamattina sul giornale x come il giornalista y ha bastonato il politico z?». E godono. Il giornalismo è un momento ludico. Chiamano gli avversari politici con i nomignoli inventati dal loro editorialista di punta. È tutto un gozzovigliare di faccette, di darsi di gomito, di moderne maschere di commedia dell’Arte sul palcoscenico del presente.

Chi sfodera autorevolezza e competenza come marchio doc rilasciato

Ci sono quelli che il giornalismo è il fine, mica il mezzo. L’autorevolezza come la competenza è un marchio doc rilasciato all’origine per un decina di firme e quel caravanserraglio di giornalisti sono la guida spirituale del Paese. Se il loro giornalista preferito scrive una sciocchezza o addirittura una falsità, quella bugia diventa verità. Se gli fate notare che le cose non stanno così, loro rispondono: «L’ha scritto x». Discussione chiusa. Giornalismo come nuovissimo testamento.

I complottisti che vorrebbero le inchieste sul “non ce lo dicono”

Naturalmente ci sono quelli che vorrebbero il giornalismo del “non ce lo dicono”. Più le tesi sono assurde, disparate e disperate e più un giornalista è meritevole di stima. Vorrebbero un giornalismo rarefatto dove il coraggio è direttamente proporzionale al coraggio di essere irrealistici. Il naif è da Pulitzer.

Cosa hanno in comune tutte queste visioni distorte? La paura

Immaginate in questa realtà come sia messo male il giornalismo che non si piega alle aspettative di nessuno, che scava in profondità, che dà voce a chi non ce l’ha, che sfida il potere e le sue narrazioni preconfezionate. Pensate come vanno poco di moda i giornalisti che non cercano approvazione, ma la verità; e che non si limitano a riportare i fatti, ma li contestualizzano e li analizzano criticamente. In fin dei conti, tutte queste visioni distorte del giornalismo hanno un elemento in comune: la paura. Paura della verità scomoda, paura del cambiamento, paura di mettere in discussione le proprie convinzioni. Ma il vero giornalismo non può e non deve piegarsi a queste paure. Il suo compito è illuminare gli angoli bui della società, dare voce a chi non ne ha, sfidare il potere costituito e le narrative dominanti. Non è un mestiere per compiacere, ma per scuotere le coscienze. Chi invoca un giornalismo “limitato”, in realtà, chiede di limitare la democrazia stessa.

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Incagliati sul fascismo di ritorno

Come prima reazione all’inchiesta di Fanpage che ha prevedibilmente svelato l’anima nera in pezzi del suo partito Giorgia Meloni aveva deciso di attaccare la testata e di sponda tutto il giornalismo. Distrarre e vittimizzarsi, come sempre. Questa volta chiamando in causa addirittura il Quirinale. 

Non è andata bene. Le parole della senatrice a vita Liliana Segre indignata per il ripetersi della storia che lei porta sulla pelle hanno capito e affondato Fratelli d’Italia. Il sempre vispo Donzelli ha dovuto vergare in accordo con la presidente del Consiglio un comunicato con il retrogusto della resa: “Ascolteremo come anche nelle occasioni passate, con la massima attenzione e il massimo rispetto le parole della senatrice Segre. Sono sempre un monito per tutti gli orientamenti politici. La senatrice Segre quando riflette sul pericoloso germe dell’antisemitismo è un simbolo di tutta la nazione. Un simbolo che deve essere rispettato da tutti senza polemiche e senza strumentalizzazioni”, dice. 

Anche questa è una bugia. Sono gli stessi che votarono contro l’istituzione della commissione monocamerale di controllo per combattere razzismo, antisemitismo e ogni forma di istigazione all’odio parlando di bavagli e di censura. Bisogna ricordarselo, bisogna ricordarglielo. Ora pagherà qualche giovanotto, assisteremo alle espulsioni. Ma per mondare a fondo il partito non basterà. Dovrebbe rinnegare un bel pezzo del suo consenso elettorale. 

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Scopri le differenze (tra centristi italiani e francesi)

In Francia la prevedibile vittoria del Rassemblement nazional di Marine Le Pen ha posto il tema etico, oltre che politico, della costruzione di un fronte comune.

«Sosterremo il candidato in grado di battere il Rassemblement, a prescindere dalle divergenze», ha detto il leader della sinistra riformista Glucksmann sottolineando la necessità di «fare blocco». Il secondo partito nel Paese è il Nuovo fronte popolare con il 29,1% che tiene insieme a sinistra riformista, i socialisti di Melenchon, gli ecologisti. Il loro programma elettorale punta sull’aumento del salario minimo, sull’abbassamento dell’età pensionabile e sui numeri identificativi per le forze dell’ordine che negli ultimi anni si sono rese protagoniste di eccessi di violenza. 

In quella coalizione ci sono differenze che ricordano molto il quadro nostrano. C’è chi è accusato di essere “filo-Hamas”, c’è chi viene dipinto come bellicista per il suo sostegno all’Ucraina. Su una cosa sono d’accordo: come pagare l’aumento dei diritti dei lavoratori? Con i soldi dei ricchi. 

Male, malissimo il centro del presidente Macron. Il capo dello Stato che finora aveva una maggioranza relativa di 250 deputati, potrebbe ritrovarsi tra 60 e 90 deputati secondo la proiezione dell’Ifop. 

C’è una differenza che salta subito all’occhio rispetto alla realtà nostrana. I liberali hanno deciso di allearsi a sinistra per il secondo turno, mettendo da parte le ambizioni personalistiche. «Faccio distinzioni tra gli avversari politici e i nemici della Repubblica», ha detto la candidata dell’Ensemble Somme Albane Branlant che si è ritirata dopo essere arrivata terza. Eh, già.

Buon lunedì. 

Nella foto: manifestazione a Reims, 14 giugno 2024 (Gérald Garitan)

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Lucialibri intervista sul romanzo “I mangiafemmine”

(La mia intervista a LuciaLibri)

Nel suo più recente romanzo, “I Mangiafemmine”, Giulio Cavalli immagina una società in cui i femminicidi siano legalizzati. «È una questione – chiarisce in questa videointervista – che mette in discussione il maschio che sono stato, in qualche modo mi autoprocesso. Quello dei femminicidi è un tema che non va rimandato, ma guardato negli occhi e affrontato, altrimenti travolgerà tutti. Siamo in un periodo storico in cui il romanzo politico è scomparso…»

A DF, luogo di carta in cui Giulio Cavalli torna per la terza volta, dopo i romanzi Carnaio e Nuovissimo Testamento, lo fa anche ne I Mangiafemmine (204 pagine, 18 euro), il suo più recente romanzo, edito ancora da Fandango – per legge viene legalizzato il femminicidio. «Di questi tre romanzi è quello che ho sedimentato di più – ammette Giulio Cavalli, intervistato a Palermo, dopo la sua presentazione alla libreria Europa – perché impatto quasi quotidianamente con la questione dei femminicidi, per via del mio lavoro di giornalista, i numeri sono spaventosi. E poi è una questione che mette in discussione molto di me, del maschio che sono e di quello che sono stato, in qualche modo, scrivendo questo romanzo, ho anche processato me stesso. Quando scrivo letteratura mi consento di esondare, di non stare dentro dentro le regole di qualsiasi tipo, sia stilistiche che emotive…».

Con I Mangiafemmine siamo dinnanzi a un’opera eminentemente politica. «Purtroppo – osserva Giulio Cavalli – siamo in un momento storico in cui è scomparso il romanzo politico. Chi prova a mettere il piede nel contemporaneo viene arso sul rogo, come è accaduto a Michela Murgia. Siamo in un momento in cui, secondo me, la consapevolezza politica della letteratura, e ancor prima dell’editoria, è piuttosto carente…».

Nel mirino de I Malafemmine c’è un retaggio culturale, quello che del patriarcato senza fine e inciso nel Dna di molto maschi. «Il problema di fondo – fa notare Giulio Cavalli – è della cultura conservatrice che vorrebbe che i nostri atavici vizi venissero considerati come tradizioni ed è un rischio pericolosissimo perché è una colonizzazione del pensiero che consente di spostare l’etica ogni giorno di qualche metro più in là.. Ci sono secoli da percorrere in fretta prima che continuino a rimanere troppe vittime per terra. Quello dei femminicidi è un tema che non riusciremo a rimandare ancora lungo, da affrontare guardandolo dritto negli occhi, oppure, come spesso è accaduto nella storia, ci travolgerà…».

Intervista a Giulio Cavalli su “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”

(La mia intervista per Occhi Magazine, a cura di Anna Zaccaria)

Giulio Cavalli è giornalista scrittore, attore. Classe 1977 da anni è attivo politicamente. I suoi articoli, le sue storie sono legate all’attualità, alla lotta contro le mafie e proprio per questa sua attività ha vissuto per anni sotto scorta. Dalle sue inchieste tra l’altro partirono le indagini contro le infiltrazioni mafiose di Expo 2015.

Cresciuto a Lodi, ha con Valstagna, piccolo comune della Valbrenta, un legame stretto e speciale visto che i suoi genitori sono originari della valle e le vacanze estive le passava proprio dai nonni.

Sabato 3 agosto ci torna, invitato dalla Pro Loco, per mettere in scena una delle sue opere teatrali più conosciute: “Falcone, Borsellino e le teste di minchia”. In anteprima lo abbiamo intervistato per conoscerlo un po’ di più.

Un lombardo a Valstagna… che ricordi hai del paesino?

In realtà io mi sento poco lombardo, crescendo con due genitori veneti, come tu ben sai, non puoi che sentirti veneto: i veneti sono veneti in qualsiasi angolo del mondo. A casa si parlava veneto e fra i miei ricordi più belli vi sono quelli legati alle estati quando ci si trovava a Valstagna e Carpanè con tutti i cugini, anche quelli che venivano da Roma. Una parte molto importante di me si sente veneta piuttosto che lombarda.

Come ti è nata la passione per il giornalismo e quando hai deciso che poteva essere il tuo mestiere?

In realtà io nasco teatrante. Ho cominciato a fare questo mestiere molto giovane e ho avuto la fortuna di lavorare con grandi attori come Paolo Rossi, Renato Sarti, Dario Fo. Innegabilmente questo ha dato la svolta alla mia carriera e penso di essere stato una persona molto fortunata. Sono convinto che la vita venga modificata soprattutto dagli incontri che il caso, la fortuna o la determinazione ti portano ad avere: io ho avuto il privilegio di avere dei preziosissimi incontri. Quando in seguito a minacce mafiose per questioni di sicurezza ho dovuto limitare molto i miei spostamenti e non potevo più mostrarmi in teatro, ho cercato e trovato un nuovo modo di comunicare ed ho cominciato così a scrivere articoli. Da teatrante e scrittore a giornalista, il passaggio è stato naturale, legato alla mia necessità di comunicare, perché sono consapevole che la parola funziona in tutte le sue forme. Fondamentalmente penso di fare sempre lo stesso lavoro, ossia raccontare storie in modalità diverse, dal palco al giornalismo. Posso dire di aver fatto il giornalista per legittima difesa.
Sono finito sotto scorta per minacce mafiose in una regione in cui la mafia “non esisteva”, così si pensava e si diceva; era un’anomalia o addirittura un caso di mitomania. E quindi il giornalismo inizialmente l’ho utilizzato per raccontare che ciò che stava accadendo a me, era semplicemente un rivolo di una situazione molto più più ampia. Sai, nel momento in cui la tua vita viene così profondamente modificata e stravolta hai due possibili strade da percorrere: quella di abbandonare quel filone e aspettare che si posi la polvere aspirando a tornare alla normalità, oppure riuscire a ribaltare le minacce ricevute e usarle in modo etico, facendole diventare la molla per raccontare la diffusione del fenomeno.

Quindi adesso ti senti più giornalista, scrittore o attore?

Mi sono sentito giornalista fino a un anno e mezzo fa e oggi è comunque l’attività che mi occupa più tempo nella quotidianità. Per dieci anni avevo smesso di fare teatro, il ritorno in scena è stato quasi per gioco: in poco tempo è stata ricostituita la compagnia e ora ci troviamo in tournée. È un ritorno alle origini che mi fa molto piacere. Quindi non mi definirei né giornalista né attore. Diciamo che continuo a raccontare storie.

Perchè Giulio Cavalli è “scomodo”?

In questo Paese chiunque usi la sua voce o la sua penna per raccontare la complessità è scomodo ed è sempre stato scomodo. Chi ha provato a far uscire ad esempio le mafie dall’alveo della criminalità spiccia, che viene buona per farci certi libri e certi film, diventa scomodo. Sostanzialmente io penso che quello che non mi viene perdonato da parte della criminalità organizzata, al di là degli appalti per Expo che era una questione prettamente economica, è che insisto per creare una chiave di lettura collettiva. Quello che vorrei è che chi viene a vedere i miei spettacoli cominciasse a guardare il proprio paese o la propria città con occhi diversi e cominciasse ad avere voglia di “scassare la minchia” come diceva la persona che voleva farmi fuori riferendosi a quello che facevo io.

Quali sono oggi i temi cui prestare attenzione?

Per quanto riguarda le mafie c’è un lavoro difficilissimo da fare: bisogna inserirle in un dibattito pubblico da cui sono completamente sparite, nel senso che quando si parla di mafia oggi in Italia si parla solo di memoria. Commemorare le vittime di un fenomeno che invece continua ad esistere, anzi è in ottima salute, mi sembra una cosa abbastanza ridicola.
I nostri spettacoli risultano comici al primo impatto e servono proprio a rinfrescare il tema e a far si che se ne parli ancora. Nel 2010-2011 si riempivano le piazze per manifestazioni antimafia. Oggi il movimento antimafia ha perso il suo dovere principale, quello di comunicare che essere antimafiosi è un prerequisito, non è un requisito, è un prerequisito che riguarda gli attori teatrali, i politici, i panettieri, i farmacisti, le badanti, gli autisti di pullman, tutti.

Parliamo dello spettacolo che presenterai il 3 agosto, nel 1993 avevi solo 16 anni come ti è nata l’idea di fare uno spettacolo dedicato a Falcone e Borsellino?

Perché se c’è una cosa che non sopporto è questa sorta di favoreggiamento culturale alla mafia che in Italia ritroviamo in certe produzioni cinematografiche, in certe produzioni letterarie e che ci presentano i cattivi quali Riina, Provenzano, Matteo Messina Denaro come menti sopraffine, quando basterebbe leggere gli atti giudiziari per comprendere che invece siamo di fronte a personaggi che non avrebbero nessuna credibilità, che sarebbero presi in giro al bar di Valstagna da tutti durante l’aperitivo. Siccome io vengo dalla Commedia dell’arte, faccio mio il mestiere del giullare e uso la risata per smontare la prepotenza.
Andiamo in giro per piazze, teatri e scuole e raccontiamo chi erano i boss e lo facciamo partendo dagli stessi atti giudiziari. Mostriamo il loro essere “nulla”, ne sbricioliamo l’onore e mostriamo che è assurdo che dal 1992 ad oggi siano state solo queste persone a tenere sotto scacco la politica, l’economia e la socialità di questo Paese

A me sembra però che una sorta di genialità del male ci sia…

Tutta la genialità sull’utilizzo delle falle di legge o dal punto di vista economico di gestione economica viene dai professionisti.
Paolo Borsellino diceva di temere più di tutto la normalizzazione della mafia e che ciò sarebbe stato il vero crinale pericoloso. E io penso che se oggi quando c’è un’operazione antimafia, leggendo i giornali, non riusciamo a capire quali siano i professionisti come commercialisti o direttori di banche e quali siano i boss, significa che la normalizzazione è perfettamente riuscita … Questo fa molta paura.

Secondo te adesso cosa si può fare?

Dobbiamo far tornare di moda l’antimafia al posto della mafia.
E poi dobbiamo prestare attenzione al fatto che oggi la criminalità organizzata, a differenza di una volta, non usa più professionisti ma se li crea in casa: figli, nipoti degli uomini di mafia sono avvocati internazionali, sono commercialisti con studi di prestigio e questo fa sì che nel lavoro ci troveremo, come concorrenti nei nostri settori, persone che vinceranno sempre non perché avranno più talento, non perché avranno usato più impegno, ma semplicemente perché non rispettano le regole. Questa è una grande emergenza.

Che consiglio vorresti dare ai ragazzi di 18/20 anni?

Pulitzer, il giornalista diceva che “la curiosità è il lubrificante necessario al buon funzionamento dei meccanismi della democrazia”. Peppino Impastato era un po più volgare di Pulitzer, però aveva la stessa intelligenza affilata e quando gli chiedevano che cosa bisognasse fare per sconfiggere in quel caso il boss Gaetano Badalamenti, lui diceva “scassare la minchia”… E se ci pensiamo è esattamente la frase di Pulitzer.

https://www.occhi.it/magazine/attualita/giulio-cavalli-quello-che-scassa-la-46223961

Il Bestiario della settimana – Cinquanta minuti di silenzio tra Magoni e Salis, il ponte sullo Stretto di Ponsacco e il manifesto profetico di FdI

Ius primae praesentationis

Scende dall’aereo a Charleroi e, quando individua l’autista che la deve accompagnare all’Europarlamento, scopre che condividerà il viaggio con un’altra persona. Scopre subito dopo che si tratta di Ilaria Salis, eletta tra le file di Alleanza Verdi Sinistra. Ma il tragitto, 50 minuti di auto, si svolge in completo silenzio. A raccontare l’episodio è Lara Magoni, già senatrice e assessore regionale al Turismo in Lombardia, eletta in Europa con Fratelli d’Italia nella circoscrizione Nord Ovest. Magoni in un post sul suo profilo Facebook si dimostra sdegnata poiché l’europarlamentare di Avs non si è presentata. Poi conclude: “Perché l’hanno votata”. Sorgono alcune domande: perché Magoni non si è presentata Ha uno ius primae praesentat­ionis? E poi: ma perché non ha chiesto a Salis i motivi per cui l’hanno votata Perché non ha espresso i suoi dubbi alla collega europarlamentare? E infine: può qualcuno di Fratelli d’Italia stupirsi del fatto che non vi siano argomenti da condividere con una collega di Avs?

Manifesti profetici

Vi ricordate il manifesto elettorale di Giorgia Meloni durante la campagna elettorale per le elezioni europee? “Con Giorgia l’Italia cambia l’Europa”. Non male, eh?

Il Ponte di Ponsacco

Susanna Ceccardi, leghista eletta per un soffio all’Europarlamento, è in estasi: “Dopo 75 anni di incontrastato dominio ‘rosso’, Ponsacco ha finalmente un sindaco di centrodestra! – scrive sui suoi social -. Complimenti al mio amico Gabriele Gasperini, che ho fortemente sostenuto e che continuerò a sostenere. Sono certa che Gabriele ripristinerà la sicurezza e la legalità in città, come chiedono i cittadini, cancellando le scellerate politiche buoniste del Pd che in questi anni hanno portato solo delinquenza, degrado e insicurezza!”. Il suo segretario Salvini esulta perché “per la prima volta nella storia abbiamo vinto a Ponsacco”. Quindi cambio di programma: il ponte partirà da Messina ma arriverà a Ponsacco.

Obtorto Colle

Mentre la destra italiana ironizza sulla senilità del presidente Usa Joe Biden il suo candidato presidente della Repubblica qui da noi, Vittorio Feltri, continua a regalarci perle di illuminata e illuminante giovinezza di pensiero. Una delle ultime è una risposta data su X: “Non uso il pannolone da quando piscio in bocca a te”, scrive Feltri. Pericolo scampato al Quirinale.

Rimedi all’astensionismo

Per le suppletive a Toronto, Canada, ci sono 84 candidati per la protesta di un collettivo che chiede la legge proporzionale. La scheda elettorale è lunga più di un metro. Se non votano candidiamoli, quindi.

Sovranismo alimentare

Il generale Roberto Vannacci, neo europarlamentare nelle file della Lega, è indagato per falso ideologico in atto pubblico riguardo ad alcuni rimborsi per eventi che non ci sarebbero mai stati, nel periodo in cui era addetto militare in Russia, tra il febbraio del 2021 e il maggio del 2022. La passione per il buon cibo, al di là dell’eventuale reato da accertare, è da tipico italiano. Complimenti.

Ordinaria amministrazione

Durante il consiglio comunale di Terni il sindaco Stefano Bandecchi per l’ennesima volta ha litigato con un consigliere comunale dell’opposizione lasciandosi andare a un linguaggio più che greve e imprecando in aula. Si potrebbe fare un assessorato alle risse, tanto per non intasare l’ordine dei lavori.

Il disarcionatore

“Joe Biden non ce la fa. Da senatore, vice presidente, Presidente ha servito con onore gli Stati Uniti d’America. Non si merita un finale inglorioso, non se lo merita. Cambiare cavallo è un dovere per tutti”. Parole e opere dell’ex presidente del Consiglio e leader di Italia viva Matteo Renzi. Uno a cui tutti riconoscono il grande pregio di sapere quando farsi da parte

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Restituire i migranti ai libici viola le norme internazionali

Il 2 luglio del 2018 il mercantile Asso28 soccorse una motovedetta della cosiddetta Guardia Costiera libica in avaria. Coordinata dalla nave militare italiana Duilio il mercantile ha trainato la motovedetta libica fino al porto di Tripoli. Lì sopra però c’erano anche 150 migranti restituiti all’inferno che furono successivamente “sottoposti a una diffusa e sistematica detenzione arbitraria” nei lager libici di Tarik Al Sikka, Zintan, Tarik Al Matar, Gharyan, con “atti di omicidio, sparizione forzata, tortura, riduzione in schiavitù, violenza sessuale, stupro e altri atti disumani” che “vengono commessi in relazione alla loro detenzione arbitraria”.

Cinque di loro nel 2021 hanno deciso di ricorrere contro le istituzioni italiane, il capitano del mercantile e la società armatrice. Ieri il Tribunale civile di Roma, con una sentenza firmata dal giudice Corrado Bile, ha condannato l’Italia (Presidenza del Consiglio dei Ministri, i ministeri di Difesa e Infrastrutture) oltre alla società armatrice e al capitano della nave al pagamento di un risarcimento di 15mila euro ciascuno nei confronti di cinque migranti, fra cui un bimbo di due anni e una donna incinta all’ottavo mese all’epoca dei fatti, respinti dal nostro Paese e rimandati in Libia.

Riconsegnare i migranti alle autorità libiche, spiega il giudice, è una palese violazione delle norme e convenzioni internazionali. Una sentenza che non solo condanna l’Italia ma che è anche un monito su una prassi che il nostro Paese reitera continuamente. Anzi, volendo essere più precisi, è una prassi che viene rivendicata da una certa politica come un’enorme vittoria. Quindi quella sentenza dice molto su quello che lo Stato ha fatto e su ciò che sta continuando a fare.

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Un capolavoro, il fallimento di Meloni

Breve disamina dei risultati politici della presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo le elezioni europee che a suo dire avrebbero dovuto essere la conferma della sua leadership. 

Giorgia Meloni è presidente del Consiglio, leader del suo partito italiano Fratelli d’Italia, leader del gruppo dei Conservatori europei in Europa nonché candidata capolista per finta. La voracità è un evidente problema quando si deve trattare perché lascia aperte molte piste per sé e per gli avversari   Così accade che il presidente della Repubblica chieda rispetto per l’Italia da parte dell’Unione europea e molti furbi analisti fingano di avere capito che Mattarella vorrebbe il gruppo dei Conservatori inseriti nelle trattative. 

Le trattative, appunto. Meloni ha scelto di guadare la campagna elettorale tenendosi equidistante (o equivicina) tra von der Leyen e il gruppo Identità e democrazia di Salvini e Le Pen. Era convinta di poter riapplicare l’antica teoria dei due forni di democristiana memoria, convinta di poter scegliere all’ultimo quale sponda fosse la più conveniente. Invece è rimasta lì solinga nel mezzo. Ora von der Leyen la considera troppo di destra e la destra europea la considera troppo di sinistra. Si era dimenticata un non trascurabile particolare: nonostante la propaganda a vincere in Europa sono stati gli altri, sempre gli stessi. 

Il suo gruppo europeo si sta sfaldando. Il partito polacco PiS valuta l’addio per fondare un nuovo gruppo con il premier ungherese Viktor Orbàn. Il premier ceco Petr Fiala, conservatore dello stesso gruppo Ecr di Meloni, annuncia il suo voto al bis di von der Leyen.

A Meloni non è restato che astenersi, triste e solitaria mentre in Italia il suo partito mostra antisemitismo da tutti i pori. Un capolavoro. 

Buon venerdì. 

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L’astro nascente Bardella. E il bisnonno algerino

Il giovane astro nascente dell’ultra-nazionalismo francese, Jordan Bardella, sarà il vincitore delle prossime elezioni in Francia, come indicano tutti i sondaggi. Il giovane leader ha raccontato di essere cresciuto in una casa monoparentale a Drancy, una zona periferica a nord di Parigi.

Il giovane astro nascente dell’ultra-nazionalismo francese, Jordan Bardella, sarà il vincitore delle prossime elezioni in Francia

È figlio unico, nato in una modesta famiglia di origine italiana. Le sue origini piemontesi sono usate nella narrazione del delfino politico di Marine Le Pen come esempio di buona e sana integrazione, ovviamente dalla pelle bianca, da contrapporre ovviamente agli stranieri pericolosi. “I francesi di origine straniera o di nazionalità straniera che lavorano, pagano le tasse, rispettano la legge e amano il nostro Paese non hanno niente da temere”, ha detto Bardella lo scorso 14 giugno durante un intervento televisivo.

Una sorta di doppio binario per francesi francesi e francesi un po’ meno francesi che fa il paio con l’idea del Rassemblement national di vietare ai francesi con doppia nazionalità di poter accedere a posti statali. C’è un piccolo problema. Bardella avrebbe un bisnonno algerino di cui curiosamente non parla mai. Secondo il quotidiano “Jeune Afrique”, per sfamare la famiglia ha dovuto prendere una barca per la Francia.

Nel 1930, Mohand Séghir Mada e suo fratello maggiore Bachir lasciarono il loro villaggio verso Marsiglia per trasferirsi poi a Lione, che a quel tempo contava già diverse migliaia di immigrati algerini, che lavoravano soprattutto nelle fabbriche tessili. “I miei genitori italiani provengono da una generazione che si è integrata, ha assimilato, ha lavorato duro, ha amato la Francia”, ripete spesso Bardella. A quanto pare pure il bisnonno algerino. Ma di quello non parla.

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