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L’astro nascente Bardella. E il bisnonno algerino

Il giovane astro nascente dell’ultra-nazionalismo francese, Jordan Bardella, sarà il vincitore delle prossime elezioni in Francia, come indicano tutti i sondaggi. Il giovane leader ha raccontato di essere cresciuto in una casa monoparentale a Drancy, una zona periferica a nord di Parigi.

Il giovane astro nascente dell’ultra-nazionalismo francese, Jordan Bardella, sarà il vincitore delle prossime elezioni in Francia

È figlio unico, nato in una modesta famiglia di origine italiana. Le sue origini piemontesi sono usate nella narrazione del delfino politico di Marine Le Pen come esempio di buona e sana integrazione, ovviamente dalla pelle bianca, da contrapporre ovviamente agli stranieri pericolosi. “I francesi di origine straniera o di nazionalità straniera che lavorano, pagano le tasse, rispettano la legge e amano il nostro Paese non hanno niente da temere”, ha detto Bardella lo scorso 14 giugno durante un intervento televisivo.

Una sorta di doppio binario per francesi francesi e francesi un po’ meno francesi che fa il paio con l’idea del Rassemblement national di vietare ai francesi con doppia nazionalità di poter accedere a posti statali. C’è un piccolo problema. Bardella avrebbe un bisnonno algerino di cui curiosamente non parla mai. Secondo il quotidiano “Jeune Afrique”, per sfamare la famiglia ha dovuto prendere una barca per la Francia.

Nel 1930, Mohand Séghir Mada e suo fratello maggiore Bachir lasciarono il loro villaggio verso Marsiglia per trasferirsi poi a Lione, che a quel tempo contava già diverse migliaia di immigrati algerini, che lavoravano soprattutto nelle fabbriche tessili. “I miei genitori italiani provengono da una generazione che si è integrata, ha assimilato, ha lavorato duro, ha amato la Francia”, ripete spesso Bardella. A quanto pare pure il bisnonno algerino. Ma di quello non parla.

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Il premierato di fatto è già tra noi

Negli ultimi due mesi il governo guidato da Giorgia Meloni ha emanato ben dieci nuovi decreti legge. Con gli ultimi provvedimenti l’esecutivo in carica ha superato il governo Draghi diventando il secondo per numero di dl prodotti nelle ultime legislature.

Openpolis osserva come anche nel caso di queste norme, non sempre si è trattato di affrontare situazioni di necessità e urgenza come prevederebbe il dettato costituzionale. Sempre più spesso i governi nelle ultime legislature hanno fatto affidamento sui decreti legge per dare più rapida attuazione alla propria iniziativa politica, confondendo il comandare con il governare.

Con la presidenza del Consiglio sono passate attraverso decreti legge anche misure riguardanti la costruzione del Ponte sullo stretto di Messina o l’attuazione del cosiddetto Piano Mattei. Un governo che dispone di un’ampia maggioranza e che non lascia al Parlamento le leggi che ritiene fortemente identitarie è un conclave di ministri – sarebbe meglio dire di leader di partito – che ritene la Camera e il Senato parcheggi ben pagati di ratificatori normativi.

Nelle ultime settimane il Consiglio dei ministri ha varato provvedimenti d’urgenza norme in materia di politiche di coesione (Dl 60/2024); attività sindacale nelle forze armate e partecipazione a iniziative Nato (Dl 61/2024); interventi a favore di imprese agricole e ittiche (Dl 63/2024); semplificazioni in tema di edilizia e urbanistica (Dl 69/2024, cosiddetto decreto salva casa); interventi in materia di sport, scuola e università (Dl 71/2024); misure per potenziare il servizio sanitario nazionale e ridurre così le liste d’attesa (Dl 73/2024); misure per la realizzazione di grandi eventi, per la ricostruzione post-eventi catastrofici e per l’attività della protezione civile (Dl 76/2024); disposizioni riguardanti le materie prime critiche (Dl 85/2024); misure per fronteggiare la situazione dei Campi Flegrei; interventi riguardanti le infrastrutture, il processo penale e lo sport.

Nessuno di questi decreti è stato ovviamente convertito in Parlamento. Deputati e senatori si ritroveranno quindi ingolfati nelle prossime settimane per convertire in legge la lista dei desideri di Palazzo Chigi. Come nota Openpolis l’eccessivo ricorso alla decretazione d’urgenza comporta una significativa riduzione dello spazio di manovra del Parlamento: costretti a dare priorità all’esame dei ddl di conversione dei decreti, deputati e senatori non avranno molto tempo per dedicarsi ad altre iniziative legislative.

Non solo. La necessità di convertire in legge i decreti entro 60 giorni fa sì che spesso la seconda Camera che si trova a discutere il provvedimento non abbia tempo nemmeno di leggerlo con attenzione. Allo svilimento del Parlamento si aggiunge pure il nodo dei cosiddetti decreti omnibus che affrontano ambiti di intervento non coerenti tradendo i dettati della Costituzione.

Il premierato che ha in mente Giorgia Meloni è già qui, visibile in tutte le sue sfaccettature: discussione parlamentare falciata, Parlamento svilito a pulsantificio industriale, opposizioni relegate a confezionare dichiarazioni per la stampa, opere strategiche decise di fronte a un caminetto, riforme utili come spot promozionali. Le manca solo di blindare Palazzo Chigi e indebolire il Presidente della Repubblica. A quel punto l’urgente diventerà legittimo e ordinario. Voi lo votereste un premierato così?

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Il grano brucia, la produzione crolla del 20%. L’allarme di Coldiretti

Dicono quelli che stanno al governo (non tutti ma molti) che quest’anno il freschino che sentono sotto casa sbugiardi gli allarmi sulla crisi climatica e che la loro priorità sia di difendere le produzioni italiane. La siccità sta bruciando un campo su cinque provocando un crollo della produzione del 20% mentre l’importazione di grani esteri meno controllati sta mettendo in difficoltà i produttori italiani. A lanciare l’allarme non sono degli eco-terroristi, ma è la Coldiretti che oggi denuncia una situazione è disperata, soprattutto in Puglia e Sicilia, dove le rese per ettaro sono quasi dimezzate e molte aziende hanno rinunciato alla raccolta. 

Il quadro, già cupo, è aggravato dalla concorrenza sleale. Nei primi tre mesi del 2024, l’Italia ha visto un’invasione di cereali esteri, con oltre 2,1 miliardi di chili di grano varcare i confini, un incremento del 15% rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Il paradosso è evidente: mentre il grano italiano stenta a crescere, i mercati sono invasi da prodotti di dubbia qualità provenienti da Turchia, Kazakhistan e Ucraina. La prima quotazione del grano alla borsa merci di Foggia è stata di 13 euro alla tonnellata in meno rispetto all’ultima quotazione del 2023, una cifra che non copre nemmeno i costi di produzione.

Crisi climatica e concorrenza sleale: la lotta per la sopravvivenza dell’agricoltura italiana

La Coldiretti denuncia l’uso di sostanze vietate in Europa nei paesi esportatori. La Turchia, ad esempio, utilizza fungicidi come il Carbendazim e il Malathion, tossici per le api e sospetti cancerogeni. Lo stesso vale per il grano ucraino, trattato con il Chlorothalonil, anch’esso sospetto cancerogeno. Di fronte a questo panorama, il futuro di circa duecentomila aziende agricole italiane è a rischio, e con esso, la qualità del grano duro destinato alla pasta, orgoglio e simbolo della nostra cultura gastronomica.

Ettore Prandini, presidente della Coldiretti, non usa mezzi termini: “Occorre far rispettare il principio di reciprocità sulle importazioni. Non possiamo tollerare l’invasione di grano trattato con sostanze vietate da decenni da noi”. La richiesta è chiara: ridurre la dipendenza dall’estero, promuovendo accordi di filiera tra imprese agricole e industriali con obiettivi chiari e prezzi equi che coprano i costi di produzione.

Ma la soluzione non è solo economica. Per Coldiretti serve “un investimento serio contro i cambiamenti climatici”, accelerando l’impiego delle nuove tecniche di evoluzione assistita (Tea) e realizzando bacini di accumulo delle acque piovane. E non meno importante, è la necessità di contrastare l’invasione della fauna selvatica che costringe molte aree interne all’abbandono dei terreni.

Soluzioni e richieste di Coldiretti: reciprocità, investimenti climatici e contrasto alla fauna selvatica

La situazione attuale non è solo una questione di mercato ma secondo Coldiretti “una battaglia per la sopravvivenza dell’agricoltura italiana”. È una “lotta contro il tempo, il clima e un mercato globale che spesso gioca con regole sleali”. La qualità del grano italiano, riconosciuta come mediamente buona-ottima, “deve essere protetta e valorizzata”. “Non possiamo permettere che le nostre campagne, simbolo di tradizione e qualità, siano schiacciate dalla concorrenza estera e da un clima impietoso”, scrivono. 

Qui si arriva al tilt. La principale organizzazione degli imprenditori agricoli a livello nazionale ed europeo è la cartina tornasole di come la mistificazione del cambiamento climatico possa essere utile a raccogliere voti ma sia pericolosa se applicata alle azioni di un governo. Per difendere il “made in Italy” non basta la carta intestata di un nuovo ministero e non serve illudersi che la catastrofe sia solo un’ideologia. La transizione non è una zuffa antiscientifica sul motore dell’auto nel box. È una questione di “sopravvivenza”. Parola di Coldiretti. 

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La guerra a Gaza ha fatto un’altra vittima: il patrimonio culturale

La campagna militare di Israele a Gaza ha causato devastazioni senza precedenti. Decine di migliaia di persone sono state uccise, molte delle quali donne e bambini, e molte altre sono rimaste ferite. Più della metà degli edifici di Gaza sono stati danneggiati o distrutti, inclusi importanti siti culturali e religiosi come moschee, musei, siti storici e cimiteri. Utilizzando immagini satellitari e video open source, Scripps News e Bellingcat hanno identificato oltre 150 siti di patrimonio culturale o religioso danneggiati o distrutti a Gaza.

Le Forze di Difesa Israeliane (IDF) dichiarano di non avere una dottrina che miri a causare danni massimi alle infrastrutture civili, indipendentemente dalla necessità militare. Tuttavia, ciò non ha evitato che alcuni dei siti esaminati, come cimiteri e moschee, siano stati distrutti o danneggiati. La distruzione diffusa ha attirato l’attenzione delle Nazioni Unite, poiché il bersagliamento intenzionale di siti di patrimonio culturale violerebbe il diritto internazionale.

Devastazione dei siti culturali e religiosi

Dopo otto mesi di guerra, oltre 35.000 palestinesi e 1.200 israeliani sono stati uccisi. Secondo le Nazioni Unite, più del 75% della popolazione di Gaza è stata costretta a lasciare le proprie case, spesso spostandosi ripetutamente. La distruzione ha colpito duramente anche i siti archeologici, alcuni dei quali risalenti a migliaia di anni fa. Un esempio significativo è un sito sulla costa a nord di Gaza City, danneggiato già nel 2021 e ulteriormente colpito durante l’invasione di terra del 2023.

Forensic Architecture, un gruppo di ricerca con sede nel Regno Unito, ha analizzato i danni al sito, identificando decine di crateri causati da attacchi aerei e movimenti di veicoli militari. Anche stazioni costruite per pompare acqua di mare nei tunnel di Hamas minacciano la terra a lungo termine, danneggiando ulteriormente le rovine archeologiche e mettendo a rischio le riserve idriche di Gaza.

L’invasione di terra ha danneggiato numerosi siti archeologici, come il Tell Ali Muntar, un sito occupato ininterrottamente per secoli. La pressione sulla terra a Gaza, uno dei luoghi più densamente popolati del mondo, porta a costruire su siti archeologici, mettendo ulteriormente a rischio il patrimonio culturale.

Le moschee, parte integrante della vita quotidiana dei palestinesi, sono state gravemente colpite. L’Unesco ha documentato i danni a 47 siti di interesse culturale, sottolineando l’impatto devastante sulla vita delle persone. La moschea Al Omari, uno dei siti più famosi, è stata quasi completamente distrutta. La distruzione di questi luoghi non è solo una perdita storica, ma anche un colpo alla vita quotidiana della popolazione.

Implicazioni internazionali e perdita d’identità

Il gruppo Heritage for Peace ha documentato i danni ai siti culturali e religiosi a Gaza, pubblicando un rapporto dettagliato. La distruzione di oltre 100 moschee e 21 cimiteri evidenzia la gravità della situazione. Anche il sito di un mosaico bizantino scoperto sotto un uliveto nel 2022 è stato pesantemente danneggiato.

La protezione del patrimonio culturale è cruciale durante i conflitti armati. La Convenzione dell’Aia protegge esplicitamente i beni culturali, e la distruzione di questi siti è stata utilizzata come prova nel caso contro Israele presso la Corte Penale Internazionale. Preservare la cultura palestinese diventa ancora più importante di fronte a questa devastazione. Molti osservatori internazionali ritengono che la distruzione del patrimonio culturale a Gaza non sia solo una questione di perdita storica, ma un attacco alla vita e all’identità di un intero popolo.

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Lezione di diritti a Giorgia, stavolta da Marina B.

Dopo Alessandra Mussolini il governo Meloni prende un metaforico schiaffo anche da Marina Berlusconi. “Se parliamo di aborto, fine vita o diritti Lgbtq, mi sento più in sintonia con la sinistra di buon senso. Perché ognuno deve essere libero di scegliere. Anche qui, vede, si torna alla questione di fondo, quella su cui non credo si possa arretrare di un millimetro: la questione della libertà”, dice l’imprenditrice figlia dell’ex presidente del Consiglio in un’intervista al Corriere della Sera. A dire il vero nella stessa intervista Marina Berlusconi esprime un concetto politicamente ancora più sostanzioso: “Dobbiamo fare i conti anche con un nemico interno, non meno insidioso”, spiega, “il successo alle Europee di movimenti con idee antidemocratiche non può non allarmare. Le preoccupazioni sulle conseguenze del prossimo voto negli Stati Uniti aumentano”.

E ancora: “La risposta però non può certo essere quella di rinchiudersi nei propri confini”. Non bisogna essere analisti politici per comprendere che l’editrice si riferisca all’avanzare dei gruppi in Europa dei Conservatori e riformisti europei di cui fa parte Fratelli d’Italia con Giorgia Meloni e il gruppo Identità e democrazia capeggiato dalla Lega di Matteo Salvini. Insomma, la figlia del leader storico del centrodestra Silvio Berlusconi ritiene pericoloso l’arretrare sulle libertà civili e preoccupante l’avanzare in Europa dei movimenti di riferimento della presidente del Consiglio e del suo vice. Questo a proposito del mantra “il popolo è con noi” ripetuto ossessivamente da Meloni e dai suoi seguaci. Dopo Mussolini e Berlusconi che impartiscono lezioni di diritti a questo governo chi sarà il prossimo?

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Ora possiamo far tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio?

Nella seconda puntata della sua inchiesta Fanpage mostra come l’antisemitismo – quello vero, non quello confuso con la difesa delle vite umane a Gaza – sia endemico all’interno della componente giovanile del partito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

A margine degli eventi politici e organizzativi del partito, oltre che nelle chat del movimento giovanile, sono frequenti gli insulti, soprattutto quelli antisemiti, provenienti in particolare da coloro che si sentono costretti a sostenere la solidarietà a Israele come dettato dal governo di Giorgia Meloni. “Gli ebrei sono una casta, campano di rendita in virtù dell’Olocausto – afferma una militante del circolo di Gioventù nazionale Centocelle – Sono troppi, io li disprezzo come razza, perché oggettivamente è una razza, c’è la razza ariana, c’è la razza ebraica, c’è la razza nera”.

Non si tratta, come aveva riferito al Parlamento il ministro Ciriani, di “casi privati, i solati e decontestualizzati”. I protagonisti della caccia all’ebreo sono figure dirigenziali all’interno del movimento giovanile di Fratelli d’Italia nonché assistenti di importanti parlamentari. 

L’ex portavoce della Comunità ebraica di Roma nonché di una parlamentare di Fratelli D’Italia, Ester Mieli, è la vicepresidente della commissione Segre per il contrasto dei fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza e ieri ha sbottato. «le parole e i comportamenti là tenuti sono per me motivo di condanna e disapprovazione», ha scritto ieri in una nota. 

Ai giovani di Fratelli d’Italia si potrebbero aggiungere le uscite dei molti “adulti” di questi mesi. Ora possiamo fare tornare l’antisemitismo un argomento da prendere sul serio? Grazie. 

Buon giovedì. 

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Immigrati e Made in Italy: non sono i rifugiati il vero problema dello sfruttamento del lavoro agricolo

Si torna a parlare – ma si smetterà presto – dello sfruttamento dei lavoratori migranti nell’agricoltura. La morte di Satnam Singh a Latina pone ancora una volta l’annoso tema “dell’eccellenza del cibo italiano” dipendente dalle braccia straniere.

“Un fatto costantemente ignorato dalla pubblicità patinata e dagli eventi ufficiali del made in Italy”, come scrive il  docente di Sociologia delle migrazioni nell’università degli studi di Milano, Maurizio Ambrosini. Singh è la centesima vittima immigrata sul lavoro nel 2024.

In una riflessione per lavoce.info Ambrosini sottolinea come in agricoltura “scarsa capacità contrattuale nei confronti della distribuzione e scarsa capacità d’innovazione tecnologica sono compensate dallo sfruttamento del lavoro, fornito oggi sempre più da immigrati in varie condizioni legali”.

Il sociologo sottolinea che dove il lavoro umano non può essere sostituito dalle macchine, o non lo è per mancanza d’investimenti, la stagionalità delle produzioni richiede “grandi afflussi di manodopera per periodi molto brevi, senza che si presti sufficiente attenzione – e controlli dovuti – a come questi lavoratori vengano assunti, trattati e alloggiati. Va ricordato per contro che vi sono regioni in cui i pomodori non si raccolgono più a mano”.

Immigrazione e Made in Italy

Gli immigrati che lavorano regolarmente in Italia sono stimati dall’Istat in 2,4 milioni circa, più del 10 per cento degli occupati.

In agricoltura, però, il loro contributo è più rilevante: gli stranieri occupati nel settore sono quasi 362 mila (alla fine del 2022) e coprono il 31,7 per cento delle giornate di lavoro registrate. Ma questi sono solo i numeri ufficiali che non tengono conto di un vasto mondo di lavoro sommerso.

Una recente ricerca promossa dal centro studi Confronti per conto della Fai-Cisl sui lavoratori immigrati nell’agroalimentare (“Made in Immigritaly. Terre, colture, culture”) evidenzia come le principali provenienze nazionali registrate nei dati istituzionali sono tuttora, nell’ordine: Romania, Marocco, India, Albania e Senegal.

Le nazionalità dei rifugiati non compaiono nelle prime posizioni, e in generale l’Africa subsahariana è sottorappresentata. Quindi no, il problema non sono gli immigrati irregolari e i richiedenti asilo, come si sente dire in questi giorni.

“Nonostante la stabilità delle presenze di im­migrati – dice Paolo Naso, curatore della ricerca e docente di Scienza politica all’Università La Sapienza di Roma – il Paese continua a vivere una sorta di schizofrenia tra la narrazione dell’immigrazione come invasione onerosa e socialmente rischiosa da una parte, e un sempre più evidente bisogno di manodopera immigrata dall’altra”. A balzare all’occhio piuttosto è la debolezza di uno Stato che installa ambulatori e servizi igienici in prossimità dei cosiddetti “ghetti” o costruisce tendopoli ma non riesce, come scrive Ambrosini – “a incidere sui rapporti di lavoro e a convincere i datori di lavoro ad applicare i contratti”.

Esempi virtuosi
Ma nell’agricoltura, spiega Ambrosini, lo sfruttamento non è un destino. In Trentino migliaia di lavoratori stagionali ogni anno arrivano, soprattutto dall’Europa orientale, sono assunti quasi sempre regolarmente e alloggiati dignitosamente.

Oggi il problema è che non ne arrivano più a sufficienza. In provincia di Bergamo, come in altre province della Valpadana, gli indiani sikh – coetnici di quelli sfruttati a Latina – lavorano nell’industria zootecnica, con impieghi stabili, contratti regolari, alloggi decenti. In Veneto le produzioni di eccellenza impiegano manodopera straniera che riceve trattamenti adeguati.

L’industria delle carni in Emilia-Romagna applica i contratti e stabilizza i lavoratori, pur con stratificazioni etniche e rivalità. “Lo sfruttamento non è un destino, – spiega Ambrosini – e le produzioni del made in Italy possono ricorrere al lavoro degli immigrati anche riconoscendolo e tutelandolo”.

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Opporsi all’opposizione col solito vittimismo

Il vittimismo della presidente del Consiglio Giorgia Meloni non è una novità. Opporsi all’opposizione è stata la tecnica comunicativa usata fin dal suo insediamento. Del resto sull’opporsi Meloni e Fratelli d’Italia hanno costruito l’enorme aumento del consenso. Opporsi all’Unione europea, opporsi al gender, opporsi alla sinistra, opporsi a taluni giornalisti, opporsi alle femministe, opporsi ai magistrati, opporsi a certi scrittori: opporsi come mantra per fare fiutare ai propri elettori il profumo della battaglia. Arrivata al governo Meloni però non ha smesso di opporsi e ha accelerato sul vittimismo. Così ieri l’abbiamo ascoltata mentre ha parlato di “toni irresponsabili da guerra civile”. Di chi? Dell’opposizione, ovviamente. Secondo Meloni i suoi avversari politici “non hanno argomenti nel merito”.

Forse le sfugge che il ruolo dell’opposizione sia proprio questo, incalzarla. L’abbiamo addirittura ascoltata mentre parla di “sinistra” che “manda in giro liste di proscrizione dei parlamentari del sud”. La parola proscrizione in bocca ad un governo che esclude gli scrittori dissidenti alla Fiera di Francoforte, che chiama pluralismo l’occupazione della Rai e che desta allarme a Bruxelles per gli interventi sulla libertà di stampa è un capolavoro. Di chi ha parlato quindi la presidente del Consiglio? Dell’opposizione. Chi è in difficoltà governare ha sempre bisogno di nemici da offrire in pasto ai suoi sostenitori. Così alla bisogna torna utile incendiare e dividere. Anche le sconfitte alle amministrative sono colpa della legge elettorale. E da lontano s’ode il rumore della terra che inizia a franare sotto i piedi.

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Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo

La malsana idea di dare colpa alla legge elettorale dopo una sconfitta sembra prendere piede nei partiti di maggioranza. Non li sfiora il dubbio che portarsi via il pallone perché la partita non va come vorrebbero sia un atteggiamento infantile più adatto a una rissa da cortile che al governo di una nazione. 

Leggendo i giornali di stamattina si viene a sapere che la Lega di Matteo Salvini (praticamente scomparso dopo la batosta delle europee) vorrebbe accelerare per cambiare le regole dei ballottaggi nelle elezioni amministrative addirittura in estate. 

La concentrazione è dedicata allo strumento legislativo da usare. Nella Lega temono che il Tuel (il testo unico degli enti locali) vedrà la luce troppo tardi per soddisfare la pancia degli elettori che vogliono risposte immediate per avere la sensazione della forza pronta dell’esecutivo. Qualcuno vorrebbe infilare l’abolizione dei ballottaggi sulla legge che resusciterà le province. Qualcuno vorrebbe un bel decreto cotto durante il Consiglio dei ministri, magari intestandolo proprio a Salvini che ha bisogno di tornare redivivo. 

L’agenda delle preoccupazioni dei leader di governo insomma è intasata da come disarticolare le dinamiche elettorali che sfavoriscono i propri candidati. Scomparse dai radar le piaghe dello sfruttamento nei campi e dei morti sul lavoro. Scomparsa l’Europa brutta e cattiva che andava rovesciata (Meloni tratta per elemosinare uno strapuntino). Scomparse le altre decine di allarmi che dalle parti di Palazzo Chigi durano giusto qualche ora come arma di distrazione.

Ora il nemico sono i ballottaggi. E viene quasi da ridere solo a scriverlo. 

Buon mercoledì. 

Nella foto: La presidente del Consiglio Meloni e il presidente del Senato La Russa, Roma, 25 aprile 2023 (governo.it)

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Dal Fast Fashion ai soliti fossili, gli investimenti in…sostenibili dell’Unione Europea

n un mondo che cerca disperatamente di aggrapparsi alle promesse di un futuro più pulito, il sipario si alza su uno spettacolo inquietante: i fondi “sostenibili” dell’UE, quelli che dovrebbero guidarci verso un domani più etico, sono infarciti di investimenti in aziende di fast fashion, combustibili fossili e produttori di Suv. È il Guardian, insieme ai suoi partner mediatici, a rivelare che ben 18 miliardi di dollari dei loro fondi finiscono nelle tasche dei 200 maggiori inquinatori del pianeta.

Gli investitori, con oltre 87 miliardi di dollari in fondi registrati sotto le normative ambientali e sociali dell’UE, ora sanno che parte di questi investimenti sostengono i principali responsabili delle emissioni di gas serra. Un quinto di questi fondi, promossi con termini eco-compatibili, nasconde infatti connessioni con le aziende più inquinanti.

Gli attivisti non ci stanno. Chiedono regole più severe, sottolineando come l’attuale sistema confonda gli investitori e trasformi la gente comune in involontari sostenitori della crisi climatica. Lara Cuvelier di Reclaim Finance lancia l’allarme: “I risparmiatori di pensioni e il pubblico vengono ingannati sulla vera natura della finanza sostenibile”.

Investimenti verdi, ma non troppo: il grande inganno delle etichette eco-compatibili

L’indagine condotta da Voxeurop in collaborazione con il Guardian ha messo sotto la lente di ingrandimento i 25 maggiori inquinatori in otto settori ad alta intensità di carbonio, tracciando gli investimenti dei fondi che rispettano la direttiva UE sulla finanza sostenibile. I dati rivelano un quadro sconfortante: gran parte degli investimenti nei 200 maggiori inquinatori proviene da fondi classificati come articolo 8, che promuovono obiettivi ambientali o sociali, con ulteriori 2 miliardi di dollari da fondi articolo 9, destinati all’investimento sostenibile.

Nonostante i regolamenti non siano pensati per il marketing, le classificazioni sono usate per esaltare le credenziali verdi dei prodotti finanziari. L’Autorità europea per gli strumenti finanziari e i mercati (ESMA) e i watchdog europei delle banche e delle assicurazioni chiedono riforme radicali per combattere il greenwashing. Le etichette “articolo 8” e “articolo 9” sono diventate sinonimo di qualità ambientale ma l’inganno è evidente. 

Il problema è grave: 11,7 miliardi di dollari di investimenti nei maggiori inquinatori provengono da fondi con nomi come “ESG” (ambientale, sociale e di governance), e 1,1 miliardi da fondi con termini come “pulito”, “transizione”, “zero netto” e “Parigi”. Questi ultimi richiamano l’accordo sul clima di Parigi del 2015, siglato con la promessa di mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali, un obiettivo che richiederebbe rapide riduzioni delle emissioni per raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Ma tra i primi dieci destinatari di questi fondi verdi regolamentati dall’UE si trovano aziende di combustibili fossili e case automobilistiche che continuano a produrre veicoli sempre più grandi.

ESMA interviene: nuove regole contro il greenwashing, ma basteranno?

Xavier Sol, direttore finanziario sostenibile di Transport & Environment, denuncia la situazione: “I più grandi portafogli verdi d’Europa sono le stesse società sporche, riconfezionate come sostenibili. Abbiamo bisogno di capitale privato per accelerare la transizione verde, non per ostacolarla”. Sol insiste che solo gli investimenti destinati ad attività realmente verdi dovrebbero ricevere un’etichetta sostenibile.

L’ESMA ha recentemente aggiornato le linee guida, vietando ai fondi con significativi investimenti in combustibili fossili di definirsi verdi. Queste nuove regole, che entreranno in vigore entro la fine dell’anno, non sono giuridicamente vincolanti e i regolatori nazionali possono ignorarle. Cuvelier osserva: “Finora i regolatori hanno usato solo la carota con gli investitori, ma non è abbastanza”. È un verde che tende sempre al grigio. 

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