Vai al contenuto

Leggi Usa contro l’aborto: due anni di Calvario per le donne. Human Right Watch: crisi dei diritti umani

In Italia l’attacco all’aborto da parte delle destre è frutto di una strategia sottile. Non si passa infatti per l’abolizione o la modifica della 194 ma attraverso la sua applicazione integrale, sfruttando i gangli di una legge che prevede la possibilità che i ginecologi pratichino l’obiezione di coscienza. In Parlamento giacciono quattro proposte di legge che mettono comunque la 194 nel mirino. L’ultima, targata Fratelli d’Italia, punta a dare diritti giuridici all’embrione fin dal momento del concepimento Per immaginarne gli effetti basta fare un salto negli Usa. L’America post-Roe è un campo minato di leggi e divieti che hanno trasformato il diritto all’aborto in una chimera per milioni di donne.

A due anni dalla sentenza Dobbs vs. Jackson Women’s Health Organization, che ha annullato Roe vs. Wade, il panorama dei diritti riproduttivi negli Stati Uniti è drasticamente cambiato, in peggio. La decisione della Corte Suprema del 2022 ha scatenato una reazione a catena di restrizioni statali che ha reso l’aborto un percorso irto di ostacoli, spesso insormontabili, per molte donne americane. Human Rights Watch denuncia che questa decisione ha creato una vera e propria crisi dei diritti umani. Le leggi restrittive varate da numerosi Stati hanno costretto molte donne a portare a termine gravidanze non vitali o gravidanze frutto di violenza sessuale, mettendo in pericolo la loro salute fisica e mentale. Queste leggi hanno imposto “una sofferenza inutile a chi cerca di esercitare il proprio diritto all’autodeterminazione”.

Il panorama legale post-Dobbs è un mosaico di normative contraddittorie e draconiane.

L’effetto Dobbs

La Corte Suprema, nella sua sentenza, ha rimesso agli Stati la facoltà di legiferare in materia di aborto. Questo ha creato un’America divisa, dove il diritto all’aborto dipende dal codice postale della donna. Gli Stati più conservatori hanno approvato leggi che vietano l’aborto a partire dalle sei settimane, spesso prima che molte donne sappiano di essere incinte. In Texas, ad esempio, la Heartbeat Bill vieta l’aborto non appena si rileva l’attività cardiaca fetale, con pochissime eccezioni. In Mississippi, i divieti di aborto hanno costretto una ragazza di 13 anni a portare a termine una gravidanza per stupro.

Il Texas e l’Oklahoma hanno approvato leggi che consentono ai privati cittadini di citare in giudizio cliniche, operatori sanitari e individui per aver aiutato qualcuno ad abortire e i legislatori del Texas e del Missouri hanno cercato di rendere illegale ottenere aborti fuori dallo Stato. La situazione è resa ancora più disperata dalla mancanza di accesso a cure mediche sicure e dalla chiusura di numerose cliniche che fornivano servizi abortivi. Secondo il Guttmacher Institute, il 75% delle donne che cercano un aborto negli Stati Uniti sono a basso reddito, e queste restrizioni colpiscono in modo sproporzionato le donne più povere, quelle di colore e quelle che vivono in aree rurali, ampliando ulteriormente il divario di disuguaglianza socio-economica.

Le testimonianze di donne americane costrette a portare avanti gravidanze non vitali sono un potente richiamo all’urgenza di un cambiamento nel paese. La BBC ha raccontato le storie di donne obbligate a portare avanti gravidanze con feti non vitali, mettendo in luce l’iniquità delle leggi attuali e la necessità di una riforma che metta al centro la salute e il benessere delle donne. Human Rights Watch conclude il suo rapporto con un appello accorato: gli Stati Uniti devono “riconoscere l’aborto come un diritto umano fondamentale” e devono “agire per garantire che ogni donna abbia accesso a cure sicure e legali”. La lotta per i diritti riproduttivi è tutt’altro che finita e noi qui in Italia lo sappiamo bene.

L’articolo Leggi Usa contro l’aborto: due anni di Calvario per le donne. Human Right Watch: crisi dei diritti umani sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Gaza, uccisi più giornalisti che nella Seconda guerra mondiale: la denuncia delle Ong e l’inchiesta di The Intercept

Salman Bashir seguiva la guerra di Israele a Gaza da un mese quando il suo collega giornalista, Mohammed Abu Hatab, è stato ucciso. Durante una trasmissione in diretta Bashir ha gettato a terra il suo giubbotto con la scritta “PRESS”, gridando: “Siamo vittime in diretta TV”. Abu Hatab, reporter per Palestine TV, è stato ucciso in un attacco israeliano che ha distrutto la sua casa e ucciso 11 membri della sua famiglia a Khan Younis.

Abu Hatab è uno dei più di 100 giornalisti uccisi nei nove mesi di guerra, che rendono questo conflitto il più mortale per i giornalisti, superando persino la Seconda guerra mondiale. Con l’offensiva militare di Israele a Gaza, seguita all’attacco di Hamas del 7 ottobre, la vita dei giornalisti nella Striscia è diventata un incubo.

Il conflitto più mortale per i giornalisti

In quattro mesi Arab Reporters for Investigative Journalism ha collaborato con altre 13 organizzazioni per indagare sugli attacchi contro i giornalisti palestinesi, la distruzione degli uffici dei media a Gaza e gli attacchi ai giornalisti in Cisgiordania. Nonostante i blackout delle telecomunicazioni il consorzio è riuscito a intervistare 120 testimoni e consultare circa 25 esperti e analisti di armi.

Determinare il numero esatto di giornalisti uccisi è difficile ma il Comitato per la protezione dei giornalisti (CPJ) ha documentato l’uccisione di 102 giornalisti palestinesi, rendendo questa la guerra più mortale per i giornalisti da quando l’organizzazione ha iniziato a raccogliere dati nel 1992. Carlos Martínez de la Serna, direttore del programma al CPJ, ha dichiarato: “Sono stati uccisi mentre raccoglievano cibo, mentre riposavano in una tenda, mentre riferivano sulle conseguenze di un bombardamento”.

Il Sindacato dei giornalisti palestinesi (SPJ) alza la cifra a 140 giornalisti e lavoratori dei media uccisi dall’inizio della guerra e altri 176 feriti. Queste morti rappresentano il 10 per cento dei giornalisti a Gaza, secondo Shuruq As’ad, portavoce del sindacato. “I giornalisti di tutto il mondo dovrebbero essere protetti indipendentemente dal paese in cui lavorano”, ha detto.

L’esercito israeliano nega aver preso di mira i giornalisti. “L’IDF respinge apertamente la falsa accusa di uccisione mirata di giornalisti”, ha affermato il portavoce israeliano. Ma CPJ e altre organizzazioni sono convinte che i giornalisti uccisi fossero ben riconoscibili mentre svolgevano il proprio lavoro. 

Nell’inchiesta pubblicata da The Intercept i giornalisti in Gaza hanno dichiarato di sentirsi “bersagliati”. Molti hanno paura di indossare giubbotti e caschi, rendendo difficile il loro lavoro. Sami Barhoum, corrispondente per TRT Arabia, ha raccontato di essere stato colpito direttamente da un proiettile di artiglieria mentre era in missione. Il suo cameraman, Sami Shehadeh, ha detto dal suo letto d’ospedale prima dell’amputazione della gamba: “Perché indossiamo giubbotti da stampa Perché indossiamo i caschi? Così possono prenderci di mira”.

Reporter senza frontiere (RSF) ha presentato tre denunce alla Corte penale internazionale riguardo ai crimini di guerra contro i giornalisti. Le denunce includono casi di oltre 20 giornalisti palestinesi uccisi dall’esercito israeliano. “RSF ha ragionevoli motivi per credere che alcuni di questi giornalisti siano stati deliberatamente uccisi e che altri siano stati vittime di attacchi deliberati da parte delle forze di difesa israeliane contro i civili”, ha dichiarato l’organizzazione.

Il conflitto più mortale per i giornalisti

La sorveglianza israeliana a Gaza è capillare. Droni sorvolano costantemente la Striscia, raccogliendo informazioni e conducendo attacchi. Khalil Dewan, ricercatore sull’uso dei droni, ha affermato che l’esercito israeliano “colpisce i suoi obiettivi con un alto grado di conoscenza di chi sta uccidendo”. Almeno 20 giornalisti e lavoratori dei media sono stati attaccati da droni dall’inizio della guerra.

In questo contesto, i giornalisti palestinesi continuano a rischiare la vita per documentare la guerra. Nonostante le immense difficoltà, la loro dedizione resta incrollabile. Come ha scritto il giornalista Roshdi al-Sarraj poco prima di essere ucciso da un attacco aereo: “Non ce ne andremo… e se ce ne andremo, andremo in cielo, e solo in cielo”.

L’articolo Gaza, uccisi più giornalisti che nella Seconda guerra mondiale: la denuncia delle Ong e l’inchiesta di The Intercept sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Assange è libero

Julian Assange è libero. Ha lasciato il carcere di massima sicurezza di Belmarsh dopo avervi trascorso 1901 giorni. Gli è stata concessa la libertà su cauzione dall’Alta Corte di Londra ed è stato rilasciato nel pomeriggio all’aeroporto di Stansted, dove si è imbarcato su un aereo ed è partito dal Regno Unito.

“Questo è il risultato di una campagna globale – scrive Wikileaks – che ha coinvolto organizzatori di base, attivisti per la libertà di stampa, legislatori e leader di tutto lo spettro politico, fino alle Nazioni Unite. Ciò ha creato lo spazio per un lungo periodo di negoziati con il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, che ha portato a un accordo che non è stato ancora formalmente finalizzato. Forniremo maggiori informazioni il prima possibile”. 

Dopo più di cinque anni in una cella di 2×3 metri, isolato 23 ore al giorno, presto si riunirà alla moglie Stella Assange e ai loro figli, che hanno conosciuto il padre solo da dietro le sbarre. WikiLeaks ha pubblicato storie rivoluzionarie di corruzione governativa e violazioni dei diritti umani, ritenendo i potenti responsabili delle loro azioni. In qualità di caporedattore, Julian ha pagato duramente per questi principi e per il diritto delle persone a sapere.

Ci sarà sempre una ragione di Stato per silenziare le voci scomode al potere. Talvolta c’è anche una legge scritta apposta per garantire impunità. Ci sarà sempre anche chi, per fortuna, ritiene il giornalismo come cane da guardia del potere e continuerà a scrivere e a pubblicare.

Buon martedì. 

Nella foto: Julian Assange all’ambasciata dell’Ecuador, 2014 (David G. Silvers)

L’articolo proviene da Left.it qui

Le destre si impantanano nell’egemonia culturale

Immaginate una parte politica ossessionata dalla cultura degli altri. Immaginate una parte politica ossessionata dal sapere degli altri tanto da bollarli come “professoroni”. Immaginatela per anni relegata all’opposizione mentre promette ai suoi elettori che “esiste un’altra cultura”, come se la cultura fosse il vezzo di riscrivere la storia o di piegare la realtà alle proprie opinioni. Immaginateli dopo una vita passata così mentre riescono a raggiungere il potere, straripanti di voglia di imporre la propria “egemonia culturale”.

Per prima cosa scambiano la capacità di costruire una cultura prevalente con la sordina messa alle voci avverse. Arrivano in Rai, storica costruttrice di cultura popolare, e dopo aver satenato il fuggi fuggi dei presunti volti (e voci) ostili si accorgono che, con i rincalzi scelti dai nuovi vertici da loro insediati, gli ascolti arrancano. Nel progetto un ruolo fondamentale ovviamente lo copre il ministro della Cultura. Al ministero arriva Gennaro Sangiuliano che il 6 luglio del 2023, da giurato del Premio Strega, ammette di avere votato libri che forse leggerà.

Poi si corregge. “Sì, li ho letti perché ho votato però voglio, come dire, approfondire questi volumi”, dice. Lo scorso 4 aprile il ministro ha spostato Times Square da New York a Londra. A gennaio dell’anno scorso ci ha spiegato che “il fondatore del pensiero di destra in Italia è stato Dante Alighieri” e ora ci spiega che “Colombo voleva raggiungere le Indie circumnavigando la terra sulla base delle teorie di Galileo Galilei”. Che non era ancora nato. Immaginate il naturale nervosismo di quella parte politica a fatica arrivata fin lì.

L’articolo Le destre si impantanano nell’egemonia culturale sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Premierato, altro che riforma anti-ribaltone. La giurista Azzollini: resta possibile cambiare maggioranza

Il 18 giugno scorso il Senato ha approvato la controversa riforma costituzionale del “premierato”, una proposta tanto ambiziosa quanto discussa, fortemente voluta dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La riforma costituzionale promette di rivoluzionare il nostro sistema politico, introducendo l’elezione diretta del presidente del Consiglio e una cosiddetta “norma anti-ribaltoni”. Il mito della “stabilità” del governo è un chiodo fisso della maggioranza di governo ma, come suggerisce Vitalba Azzollini nel suo articolo per Pagella Politica, le promesse del governo potrebbero non reggere alla prova dei fatti.

La presidente Meloni ha spesso sottolineato come uno dei “grandi obiettivi” della riforma sia garantire il diritto dei cittadini di scegliere da chi essere governati, mettendo fine alla stagione dei ribaltoni. Questa riforma del premierato nasce con l’intento di evitare situazioni come quella del 2018-2019, quando in un breve arco di tempo si passò da un governo Movimento 5 Stelle-Lega a un governo Movimento 5 Stelle-Partito Democratico, entrambi guidati da Giuseppe Conte. Tuttavia, nonostante le buone intenzioni, il testo approvato dal Senato sembra fallire nel suo obiettivo principale: impedire i ribaltoni tra governi.

La riforma del premierato: promesse e realtà

La novità principale della riforma è la modifica dell’articolo 92 della Costituzione, che prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Questo cambiamento è significativo, poiché il capo del governo non sarà più nominato dal presidente della Repubblica, ma sarà scelto direttamente dai cittadini. Tuttavia, i cambiamenti non finiscono qui. L’articolo 94, che regola il rapporto di fiducia tra Parlamento e governo, subisce anch’esso delle modifiche. In particolare, il terzo comma stabilisce che, se il governo non ottiene la fiducia entro dieci giorni dalla sua formazione, il presidente della Repubblica deve sciogliere il Parlamento e indire nuove elezioni. Questo meccanismo si ripete anche in caso di revoca della fiducia da parte delle camere.

Questa riforma, tuttavia, lascia ampi margini di manovra che potrebbero consentire ancora i tanto temuti ribaltoni. Nonostante il nuovo meccanismo di fiducia. Osserva la giurista Azzollini, non c’è alcuna garanzia che il presidente del Consiglio successivo sia sostenuto dalla stessa maggioranza elettorale. Infatti, la legge non specifica che la nuova maggioranza debba essere identica a quella espressa dalle urne, aprendo così la possibilità a coalizioni diverse.

Il precedente del 2005, durante il terzo governo Berlusconi, è illuminante. Allora, una norma “anti-ribaltone” fu inclusa nella riforma costituzionale, bocciata poi con un referendum nel 2006. Questa prevedeva che il presidente del Consiglio potesse essere costretto alle dimissioni solo con il voto contrario della maggioranza assoluta della Camera, senza il sostegno dell’opposizione. Un meccanismo rigido, ma efficace per evitare cambi di governo senza passare per nuove elezioni.

Ambiguità legislativa e il rischio di nuovi ribaltoni

Al contrario, la riforma Meloni, come evidenzia Azzollini, sembra mancare di simili garanzie. Il rischio di governi di unità nazionale o di maggioranze diverse resta concreto. Il testo della legge parla di un “parlamentare eletto in collegamento con il presidente del Consiglio”, ma non specifica che debba essere supportato dalla stessa coalizione vincente. Questa ambiguità lascia aperta la porta a potenziali ribaltoni, nonostante le promesse contrarie.

Quindi no, nonostante le dichiarazioni di Meloni, la riforma costituzionale sembra più un compromesso che una soluzione definitiva. Se l’intento era di rafforzare la democrazia evitando i ribaltoni, il risultato ottenuto potrebbe non essere all’altezza delle aspettative. La riforma, così com’è, rischia di lasciare intatto il problema che prometteva di risolvere. 

L’articolo Premierato, altro che riforma anti-ribaltone. La giurista Azzollini: resta possibile cambiare maggioranza sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Renew Europe perde pezzi e il bis di von der Leyen vacilla: Ecr e Verdi tornano in partita per la Commissione Ue

Il cammino verso la riconferma di Ursula von der Leyen si fa accidentato.A pochi giorni da un vertice cruciale dei leader dell’Ue, il sostegno che la presidente della Commissione europea sperava di ricevere da Renew Europe, uno dei suoi principali alleati, le sta scivolando tra le dita. Non è che l’inizio di una complessa partita a scacchi politica.

Jacob Moroza-Rasmussen, ex segretario generale dell’ALDE, riassume a Politico il problema in termini semplici: “La matematica non è dalla parte di von der Leyen in questo momento.” I numeri parlano chiaro. La decisione improvvisa del populista ceco Andrej Babiš di ritirare i suoi sette deputati da Renew ha inflitto un colpo pesante, riducendo i seggi dei liberali da 102 a soli 74. Il gruppo dei liberali è stato superato persino dai conservatori e riformatori europei (ECR), che includono i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

L’incertezza del sostegno di Renew Europe a von der Leyen

La situazione è ulteriormente aggravata dal fatto che uno dei pezzi grossi dei liberali, il primo ministro olandese Mark Rutte, parteciperà al suo ultimo Consiglio europeo prima di assumere il nuovo ruolo di segretario generale della Nato. Senza Rutte, la dinamica interna di Renew potrebbe vacillare ancora di più.

Von der Leyen e il Partito Popolare Europeo (Ppe) hanno finora dialogato solo con i socialisti e democratici (S&D) e Renew, escludendo sia i Verdi che l’Ecr. Una scelta rischiosa, soprattutto in un Parlamento europeo dove i numeri contano più di ogni altra cosa. Se von der Leyen non riuscirà a raggiungere un accordo soddisfacente con questi partiti, il suo futuro come presidente della Commissione potrebbe essere in pericolo.

La presidente ha bisogno di 361 voti su 720 nel ballottaggio segreto previsto per il 18 luglio. Anche sommando tutti i membri di Ppe, S&D e Renew, si arriva a 398 voti, ma non tutti questi voti sono garantiti. Alcuni membri del Ppe e dell’S&D potrebbero non sostenerla e Renew sta perdendo pezzi. Una situazione di incertezza che non fa che aumentare la tensione.

“Siamo fiduciosi nel portare a termine un accordo al Consiglio europeo”, ha detto un funzionario del Ppe a Politico, mantenendo un velo di ottimismo. Ma il Parlamento europeo è un campo di battaglia diverso, dove le dinamiche possono cambiare rapidamente. Se i leader dell’UE ritengono che von der Leyen non abbia abbastanza sostegno, possono ritardare il voto dei deputati da luglio a settembre, come accadde con José Manuel Barroso nel 2009.

Strategia e sfide nel Parlamento Europeo

Simon Hix, professore di politica comparata, sottolinea l’importanza del Ppe, ma avverte che costruire una maggioranza stabile sarà arduo. “Non ci sono vere alternative a von der Leyen”, aggiunge Hix, suggerendo che offrire a Meloni un portafoglio di vicepresidenza potrebbe garantirle i 24 voti necessari.

L’equilibrio è precario. I socialisti e Renew, sebbene meno potenti del Ppe, sono comunque necessari in Parlamento. E i socialisti hanno avvertito chiaramente: il loro sostegno non è garantito se von der Leyen si avvicina troppo a Meloni o altre forze di destra.

Nel frattempo, i Verdi si fanno avanti, reclamando un posto nei negoziati. “Chiunque voglia maggioranze stabili può negoziare con noi Verdi”, ha dichiarato ieri Rasmus Andresen. Ma anche aggiungendo i Verdi, il rischio di non avere i numeri rimane, e potrebbe persino costare il sostegno all’interno del Ppe.

La mossa di Babiš di lasciare Renew potrebbe non sorprendere, ma le sue conseguenze psicologiche sul Consiglio europeo sono profonde. L’Ecr, ora più grande di Renew, potrebbe diventare più assertivo, complicando ulteriormente la situazione. Un negoziato inconcludente potrebbe portare a un pasticcio politico che nessuno desidera. Von der Leyen cammina su un filo sottile, sperando di non cadere nel vuoto dell’incertezza politica.

L’articolo Renew Europe perde pezzi e il bis di von der Leyen vacilla: Ecr e Verdi tornano in partita per la Commissione Ue sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La parola impronunciabile: capitalismo

Il Tg La7 ha pubblicato in esclusiva un documento della Procura in cui si legge che Renzo Lovato, padre di Antonello Lovato, il 37enne che ha abbandonato sotto casa il bracciante indiano Satnam Singh dopo che quest’ultimo aveva perso il braccio destro in un incidente sul lavoro nella sua azienda agricola, è indagato da cinque anni per reati di caporalato in un altro procedimento. Spiace quindi per il ministro all’Agricoltura Francesco Lollobrigida che si è lanciato subito in difesa degli agricoltori, come se il caporalato fosse un fortuito caso alimentato dagli schiavi e non dagli schiavisti. 

Nel frattempo scopriamo che Prakhash e Kamal Hinduja, origini indiane e passaporto britannico, membri della famiglia più ricca del Regno Unito, spendevano più per il mangime del loro cane che per lo stipendio di uno dei loro domestici, nella loro villa di Ginevra. Un giudice svizzero ha condannato gli Hinduja, il figlio Ajay e la moglie di lui Amrata a pene da quattro a quattro anni e mezzo di carcere per sfruttamento della manodopera e lavoro illegale, mentre è caduta l’accusa più grave mossa nei loro confronti, traffico di esseri umani. Il clan Hinduja è a capo di una multinazionale indiana che possiede solo in Regno Unito beni per 50 miliardi di euro, e ben di più nel resto del mondo: loro è per esempio la catena internazionale di alberghi Raffles. Eppure l’accusa è di avere ridotto i domestici letteralmente in schiavitù. Il retrogusto di fondo alle due vicende ha un nome impronunciabile che pochi si concedono il lusso di scrivere: il capitalismo. Forse sarebbe il caso di parlarne. 

L’articolo La parola impronunciabile: capitalismo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

A proposito della casa (e non di Salis)

Lasciando perdere il baccano e la paternalistica banalizzazione che certi sedicenti liberali hanno ordito sulla questione del diritto alla casa per aiutare la destra (ma va) contro Ilaria Salis si potrebbe invece leggere il rapporto speciale sull’alloggio in Europa, dal Global Policy Lab di Politico. 

In un sondaggio in vista dell’impennata di estrema destra della scorsa settimana nelle elezioni del Parlamento europeo, i sindaci del continente hanno elencato l’alloggio come una delle questioni più importanti che i loro collegi elettorali devono affrontare. «Abbiamo raggiunto il punto di rottura di una situazione che è stata in lento rosolamento per anni», ha detto Sorcha Edwards, il segretario generale di Housing Europe, che rappresenta i fornitori di alloggi pubblici, cooperativi e sociali. «Per molto tempo, i politici sono stati felici di ignorare la questione perché ha colpito i gruppi a basso reddito che votano di meno, ma ora tocca la classe media stessa». 

Gli europei spendono in media quasi il 20 per cento del loro reddito familiare disponibile per l’alloggio, e c’è la percezione che la disponibilità stia diventando più scarsa. Edwards ha detto che i Paesi europei avevano investito in alloggi a prezzi accessibili nel dopoguerra, ma hanno abbandonato la questione negli anni Ottanta. Quando le amministrazioni neoliberiste del piccolo governo sono salite al potere hanno ampiamente tagliato la spesa. I consigli municipali a corto di denaro che avevano precedentemente costruito alloggi hanno rinunciato alle nuove costruzioni e hanno addirittura ceduto parte del patrimonio.

«Abbiamo avvertito di questo problema per almeno 10 anni, ma i politici sono stati felici di ignorarlo fino a poco tempo fa, quando è tornato all’ordine del giorno»”, ha detto Edwards. «Anni di inazione sono stati ora peggiorati da una crescita inflazionistica e da [un] aumento dei prezzi dei mutui che ha portato la stagnazione delle costruzioni del settore privato». 

Buon lunedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche – Lettera43

Il caso del 77enne che a Cagliari ha ammazzato la moglie di 59 anni che rientrava tardi la sera finirà nel dimenticatoio. Non è una vicenda “golosa” come quella di Giulia Tramontano, non stuzzica lotte al patriarcato come con Giulia Cecchettin. E così senza sensazionalizzazione perdiamo il focus su un fenomeno ormai strutturale.

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche

Luciano Ellies ha 77 anni. È un dato da tenere a mente perché a quell’età la preponderanza del testosterone è una favola da filmetti sui bagnini che non invecchiano mai. Dicono che vivesse da separato in casa con la moglie Ignazia Tumatis che di anni ne aveva 59. Aveva, al passato, perché 10 volte una punta di coltello l’ha trafitta mentre rientrava a casa, a Cagliari, in via Podgora. La mano sul coltello è quella del marito separato in casa Luciano che contestava l’orario di rientro della donna che evidentemente considerava abbastanza sua da gestire nelle entrate e nelle uscite.

Niente scusa del raptus per umanizzare gli assassini

Luciano Ellies ha telefonato alle figlie. «Ho ucciso la mamma», sono state le sue parole. Dice che lei durante la discussione le ha «riso in faccia» e lui non ci ha visto più. Ho forse ci ha visto benissimo, a dire la verità, perché una decina di fendenti non sono un raptus. Anzi, a ben vedere il raptus è psico-magia che piace a certi commentatori per umanizzare gli assassini e a certi avvocati per imboccare il famoso sentiero del non in grado di intendere e di volere.

La guerra dei numeri e il conteggio che continua a salire

Secondo l’Osservatorio femminicidi di Repubblica Ignazia è la 33esima vittima di femminicidio del 2024, anche se nel frattempo il conteggio continua ad aggiornarsi, con il caso di Arezzo dove un 80enne ha spato alla moglie malata di Alzheimer. Per il pannello di femminicidio.info invece è la 19esima. Alcuni centri antiviolenza sottolineano come le donne ammazzate siano 48. Il ministero dell’Interno al 16 giugno, quando Ignazia era ancora viva, scriveva che «sono stati registrati 126 omicidi, con 43 vittime donne, di cui 38 uccise in ambito familiare/affettivo; di queste, 21 hanno trovato la morte per mano del partner/ex partner».

Il femminicidio non tira più, inghiottito da stereotipi e storie periferiche
Una manifestazione a Roma contro la violenza sulle donne (Imagoeconomica).

Disputa semantica tra “emergenza” culturale e fenomeno strutturale

La disputa sui numeri però è un terreno fertile per le discussioni che guardano il dito lasciando perdere la luna. Barbara Spinelli su Treccani scriveva già a fine 2019 che «l’assenza di dati ufficiali ha facilitato i meccanismi di sensazionalizzazione del fenomeno, ingenerando l’indebita percezione che vi sia un aumento esponenziale di questo tipo di reati, quando invece, stando al dato numerico, non è possibile definirla “emergenza”, ma sarebbe semmai corretto parlare di emersione, agli occhi dell’opinione pubblica, di un fenomeno strutturale». In molti pensano invece che l’emergenza sia culturale e quindi pericolosa anche con una sola vittima.

Tramontano-Impagnatiello avevano gli ingredienti per attrarre il telespettatore

Il femminicidio non tira più. L’uccisione di Giulia Tramontano è golosa solo per la cronaca giudiziaria. Alessandro Impagnatiello è un buon soggetto per la narrazione del processo. Ombroso, immediatamente antipatico, bugiardo cronico, traditore: ha gli ingredienti per un thriller che si svolge in attesa del crollo del cattivo. Vederlo condannato regalerà il senso di rivalsa ai telespettatori. La gravidanza di Giulia Tramontano aggiunge quel pizzico di “Dio, patria e famiglia” che solletica i pro vita. Commemorare il feto è un’occasione imperdibile.

Omicidio Giulia Tramontano, parla Impagnatiello: «Andai a pranzo da mia madre con il suo corpo in auto»
Giulia Tramontano e Alessandro Impagnatiello (ANSA).

Giulia Cecchettin e la parola patriarcato che fa venire l’orticaria

Giulia Cecchettin è scomparsa dal sentire popolare, vittima per la seconda volta della polarizzazione politica buttata addosso a suo padre. Una frotta di maschi si ingegna per delegittimare lui auspicando di delegittimare lei e quindi di sopire qualsiasi accusa al patriarcato che in certi ambienti è una parola che rizza i peli come se fosse il vaccino, le auto elettriche, il cambiamento climatico, l’antifascismo.

La demonizzazione della sorella per la critica collettiva alla violenza di genere

A Elena Cecchettin, sorella di Giulia, è andata perfino peggio. Secoli dopo è stata impalata come strega perché si è concesso il lusso di non volere stare “al suo posto”. Le hanno messo il microfono sotto il naso per farle recitare la parte della prefica e lei invece si è permessa di usare la morte della sorella per proporre una chiave di critica collettiva sulle violenze di genere. Hanno tirato fuori il satanismo per farla bruciare. Come secoli fa, appunto.

Femminicidio Giulia Cecchettin, il piano di Turetta dall’app-spia alla fuga in montagna
Il murale dedicato a Giulia Cecchettin realizzato a Milano dell’artista Fabio Ingrassia (Ansa).

Per indignarci ci serve il topos dell’italiano medio o della coppia perfetta

Di femminicidio si tornerà a parlare quando i protagonisti saranno troppo simili al topos dell’italiano medio per essere gettati nel bidone delle storie periferiche. Quando lei sarà giovane, studiosa o lavoratrice perfetta, quando lui sarà un bravo ragazzo senza grilli nella testa, quando le famiglie di entrambi saranno modelli di convenuta borghesia. A Ignazia – come quasi tutte le altre – andrà male. Uscire di sera a 59 anni con il marito a casa ad aspettarla è roba che non si fa. Quindi questa volta non c’è sesso, non c’è testosterone utile a piallare la morte di lei, ma rimane in campo un altro potente silenziatore: il rispetto che comunque si deve al proprio marito. Vedrete.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/femminicidio-cagliari-ignazia-tumatis-giulia-tramontano-cecchettin/

Un governo senza una visione

Volendo cercare – con una certa fatica – una notizia politica nell’intera giornata di ieri si potrebbe dire che l’evento più rilevante siano le parole del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con cui ci dice che “il Parlamento italiano non è nelle condizioni di approvare e non approva” il Meccanismo europeo di stabilità (Mes).

A fine giugno del 2024 dopo una campagna elettorale per le elezioni europee in cui la presidente del Consiglio candidata per finta – caso unico nel panorama politico per un capo di governo – ha promesso di cambiare l’Europa ostentando una rivoluzione invisibile che avremmo anche qui in Italia, i membri del governo discutono del Mes.

A distanza di anni, come le repliche estive ormai stanche e stinte che in televisione non guarda nessuno. Cosa manca La politica, semplicemente. Il ministro Giorgetti che propone di modificare il Mes sa benissimo che non può accadere essendo l’Italia l’unico Paese a non averlo ratificato. Ciò che conta è fare melina per coprire una disarmante mancanza di idee, di strategia complessiva, di un’idea di Paese al di là della propaganda.

Chissà che ne pensano gli elettori di questa destra che hanno votato confidando in un ribaltamento del tavolo dell’Unione europea e adesso vedono la loro leader aggirarsi per i corridoi di Bruxelles con la rabbia di chi non tocca palla. Chissà cosa ne pensano di un sabato di fine giugno in cui il dibattito nella sacra Patria è incagliato sul Meccanismo europeo di stabilità.

L’articolo Un governo senza una visione sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui