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Altro che Dio, patria e famiglia

Altro che Dio, patria e famiglia. A Pordenone i carabinieri hanno arrestato un giovane di 29 anni con l’accusa di aver violentato una ragazza di 18 anni tra l’8 e il 9 giugno scorsi in città. Il Gazzettino racconta che il ventinovenne di origini colombiane era tornato nella notte a casa dopo aver commesso l’abuso, si era poi spogliato e messo a lavare i suoi vestiti. La madre il giorno successivo aveva notato delle strane macchie sugli abiti del figlio che non riusciva a pulire.

Il collegamento è stato rapido: luogo, ora e quel colore tipico dello spray anti aggressione coincidevano. Ai carabinieri di Pordenone la donna ha raccontato di essere “preoccupata”. “Sono una persona rispettabile e temo che mio figlio sia coinvolto nella violenza sessuale di cui ho letto sul giornale”, ha detto in caserma. Con sé aveva portato anche le prove e quegli abiti coincidevano perfettamente con quelli ripresi dalle telecamere. Oltre alla madre anche la sorella ha raccontato alle forze dell’ordine di avere assistito a telefonate in cui l’arrestato discuteva di un’eventuale fuga in Spagna, probabilmente per sfuggire all’arresto.

La madre in questione si è preoccupata della figlia di altri, della sua dignità e della giustizia che merita di fronte a un reato così famelico. Niente Dio, patria e famiglia come formula per essere egoisti sentendosi benedetti. I comandamenti di madre e figlia (che sono pure “straniere”) sono il rispetto, la solidarietà e la vicinanza agli oppressi, anche a costo di mettere in discussione la tranquillità famigliare. Così, da lontano, pare che sia un’ottima interpretazione della parola di Dio, delle leggi e della Costituzione italiana.

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Meloni stoppa Orbán nell’Ecr. Un passo verso Ursula e il Ppe

Giorgia Meloni aveva chiesto un referendum su se stessa per cambiare l’Europa. Un progetto ambizioso che si è rivelato più complesso del previsto, portando la premier italiana a confrontarsi con una realtà politica ostile e stratificata. La politica a Bruxelles non si fa con la propaganda. Nonostante l’incremento dei membri del suo gruppo europeo Ecr (Conservatori e Riformisti Europei), Meloni si trova ai margini delle trattative per le nomine della prossima Commissione europea, ben lontana dall’influenza che sperava di ottenere.

Giorgia Meloni aveva chiesto un referendum su se stessa per cambiare l’Europa

Macron e Scholz premono per accelerare il pacchetto delle nomine utilizzando il voto a maggioranza qualificata, strategia che escluderebbe Meloni e altri leader euroscettici come Orbán. Proprio ieri è stato stoppato l’ingresso di Fidesz, il partito del premier ungherese, in Ecr. Una scelta interpretabile come un passo di avvicinamento della stessa Meloni verso il Ppe (e il bis di Ursula von der Leyen). Ma l’accelerazione impressa da Macron e Scholz complica notevolmente le cose.

La premier italiana sta cercando di bilanciare diverse strategie. Da una parte, alza la tensione per ottenere condizioni migliori nelle trattative così da poter giustificare agli occhi del suo elettorato l’eventuale virata su von der Leyen, emblema di quell’Europa che la leader FdI prometteva di cambiare. Dall’altra, prepara un piano B: una possibile alleanza con Marine Le Pen, creando un fronte comune contro glii stessi Macron e Scholz. Un “coordinamento nero” che potrebbe rafforzare temporaneamente la sua posizione, ma rischia di isolare ulteriormente l’Italia in Europa e scatenare una battaglia contro Bruxelles, che alla lunga, tra procedure di infrazione e vincoli asfissianti del Patto di Stabilità, potrebbe rivelarsi un bagno di sangue per l’Italia.

Durante la festa del Giornale, Meloni ha criticato l’approccio frettoloso di Macron e Scholz sulle nomine, definendolo “surreale” e sottolineando la necessità di riflettere sulle priorità dei cittadini. Ma la sua opposizione sembra più un tentativo di complicare un accordo piuttosto che una reale possibilità di influenzare le decisioni. Le dinamiche interne al Ppe e al Pse aggiungono altri ostacoli. Manfred Weber, leader del Ppe, propone un dialogo con la destra per sostenere la rielezione di von der Leyen. Tuttavia, Donald Tusk e altri leader temono che Meloni possa rafforzare i nemici interni al loro partito, preferendo un’alleanza con Macron e Scholz. Questo scontro di visioni ha portato a una polarizzazione tale che rende difficile qualsiasi dialogo costruttivo, con Meloni sempre più ai margini.

La posizione di Meloni è fragile anche a causa delle dinamiche interne all’Ecr. Deve evitare l’emorragia di parlamentari e mantenere la leadership all’interno della destra europea, navigando tra le complesse dinamiche politiche europee per mantenere un ruolo rilevante per l’Italia. La pressione politica aumenta mentre cerca di bilanciare il supporto interno ed esterno, con contatti costanti con von der Leyen per negoziare un riconoscimento politico utile a legittimare un eventuale sostegno al suo secondo mandato. Le parole del Presidente Sergio Mattarella risuonano come un monito: l’Europa deve rimanere fedele ai suoi valori fondanti di pace, democrazia e coesione sociale. Valori che Meloni rischia di compromettere con le sue alleanze pericolose.

La promessa di cambiare l’Europa si scontra con la dura realtà delle trattative politiche

La promessa di cambiare l’Europa si scontra con la dura realtà delle trattative politiche, mettendo in discussione la capacità della premier italiana di realizzare il suo ambizioso progetto. Con un futuro incerto e acque politiche sempre più agitate, Meloni deve riuscire a tenere insieme le sue molte facce che fino a qui hanno giocato su diversi piani nel tentativo – finora fallito – di mantenere l’Italia al centro del panorama europeo. I prossimi giorni saranno cruciali per determinare se riuscirà a navigare attraverso queste acque turbolente o se verrà definitivamente relegata ai margini della politica europea.

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Concorso esterno in associazione mostruosa

A fine maggio, il Tar aveva rigettato il ricorso presentato da Asgi, Arci, ActionAid, Mediterranea Saving Humans, Spazi Circolari e Le Carbet contro il trasferimento di sei motovedette alla Garde Nationale tunisina. In virtù di questa decisione, per il mese di giugno era in previsione il trasferimento delle prime tre motovedette. Le associazioni hanno quindi impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo presso il Consiglio di Stato, chiedendo d’urgenza la sospensione cautelare del provvedimento.

Maria Teresa Brocchetto, Luce Bonzano e Cristina Laura Cecchini del pool di avvocate che segue il caso hanno spiegato che «come sostenuto anche dalle Nazioni Unite, fornire motovedette alle autorità tunisine vuol dire aumentare il rischio che le persone migranti siano sottoposte a deportazioni illegali». 

Filippo Miraglia di Arci ha spiegato che in Tunisia «alla nuova ondata di arresti e deportazioni nei confronti delle persone migranti ora si affiancano persecuzioni contro gli attori della società civile che le sostengono» ma nonostante la gravità della situazione «le politiche italiane ed europee sembrano sostenersi e giustificarsi a vicenda, impermeabili agli allarmi lanciati dalle Nazioni Unite e dalle Ong internazionali che condannano unanimemente l’operato delle autorità tunisine». 

La decisione del Tar si basava sugli accordi politici tra Italia e Tunisia (il memorandum firmato in pompa magna il 16 luglio 2023 tra Giorgia Meloni e Kaïs Saïed) e sul fatto che l’Italia recentemente abbia inserito la Tunisia tra i Paesi considerati “sicuri”. Il Consiglio di Stato ritiene invece “prevalenti le esigenze di tutela rappresentate da parte appellante”, sospendendo il trasferimento delle motovedette alla luce delle possibili violazioni che tale atto può comportare.

Finanziare chi viola i diritti umani in fondo è un Concorso esterno in associazione mostruosa. Quello che stiamo facendo dal 2017 con la Libia. O no?

Buon venerdì. 

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Il Quotidiano di Puglia intervista Giulio Cavalli su “I mangiafemmine”

Un anziano che uccide la moglie? Niente di eclatante. E allora: se anche i femminicidi come i profughi annegati davanti alle coste del Sud, con migliaia di storie di vita e di sogni affogati, vengono percepiti come fatti “normali”, perché non immaginare un mondo in cui uccidere le donne diventa legale? Giulio Cavalli, scrittore, giornalista e drammaturgo, nel suo libro che presenta oggi a Taranto e martedì a Sannicandro, racconta questo mondo al contrario.

Cavalli, cos’è “I Mangiafemmine”?

«Rientra nella trilogia pensata con Fandango che si chiude dopo “Carnaio” e “Nuovissimo Testamento” e racconta un mondo immaginario. L’iperrealismo mi aiuta a dimostrare quanto sia pericolosa una comunità che sposta ogni giorno la propria etica qualche centimetro più in là. Nei tre romanzi c’è sempre una riflessione sull’orrore, ossessivamente ripetuto, che rischia di diventare normalità. I Mangiafemmine è un libro che racconta anche di femminicidi, perché credo che sappiano meglio parlarne le donne, non solo in quanto vittime, ma perché associazioni e collettivi femminili sono molto più preparati a farlo. Io volevo fare invece un libro sui maschi e sulla mancata reazione, anzi direi normalizzazione del femminicidio che segue quei pelosi meccanismi antropologici che normalizzano tragedie: i bambini affogati nel Mediterraneo, i suicidi in carcere, i migranti congelati nelle rotte balcaniche. Penso sia la stessa dinamica bestiale».

Ma l’idea di raccontare un mondo in cui il femminicidio è legalizzato, com’è nata?

«Durante una riunione di redazione si parlava di un femminicidio tra anziani: un 80enne aveva sparato alla moglie in Puglia. Mi venne detto che era un caso troppo “normale” e mi si è accesa una lampadina: se in un posto in cui si lavora con le parole si pensa una cosa del genere perché non immaginare un paese in cui si arriva alla legalizzazione del femminicidio? Volevo parlarne perché a mia generazione è l’ultima, spero, nutrita di atteggiamenti patriarcali, e poi con il mio lavoro tra editoria, spettacolo e giornalismo, frequento ambienti in cui sono molto diffuse le molestie…».

Il dibattito pubblico aggressivo e una politica a trazione “muscolare”, sono riconducibili alla diffusione dei femminicidi? C’è un machismo diffuso, non solo tra uomini.

«Sì, il maschilismo che era passato di moda è tornato in auge, perché la prepotenza è considerata forza, il comandare è sinonimo di governare, il femminile è considerato sinonimo di femminista. A capo del governo c’è una donna col piglio del maschio».

La legge non protegge le donne che denunciano, quindi da dove si deve cominciare?

«I grandi progressi e le evoluzioni passano sempre da far diventare fuori moda certi atteggiamenti, penso che letteratura e giornalismo, e tutti coloro che vengono ascoltati, hanno un’enorme responsabilità. Mi capita ora che nelle discussioni tra maschi si facciano notare frasi indelicate o irresponsabili. Ma il tema della parità di genere che viene prima della violenza ha dei costi enormi, in termini economici anche. Parità nel lavoro significa che parecchi maschi dovrebbero rinunciare a presiedere i consigli di amministrazione: l’ambiente maschile è terrorizzato».

La violenza spesso è rivolta anche ai poveri con disinvoltura e un disprezzo nuovo rispetto alla nostra storia.

«L’aporofobia di solito emerge in momenti storici in cui il dibattito pubblico e politico è scarso. Gli intellettuali sono pochi o poco popolari, il vocabolario delle persone si restringe e alla fine, quando non si sanno esprimere le cose, subentra la paura, ed essa genera disprezzo come attività di allontanamento. I fragili vengono odiati perché sono lo specchio di ciò che siamo noi. L’uomo che arriva senza niente sulla battigia misura la temperatura democratica di chi lo accoglie, racconta più degli altri che di se stesso. E la politica travestita da pro loco nasconde le cose sotto il tappeto».

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L’inchiesta di Fanpage e la consegna del silenzio

Nei giorni scorsi la testata giornalistica Fanpage ha pubblicato un’inchiesta che evidenzia come Gioventù nazionale, il movimento giovanile di Fratelli d’Italia – il partito guidato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni – abbia al suo interno qualche problema di nostalgie fasciste. Sulle evidenze di quell’inchiesta hanno espresso preoccupazione i partiti di opposizione, diversi osservatori politici e addirittura la Commissione europea.

Poco o niente si è sentito invece dalla maggioranza, al di là dell’improbabile difesa del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri secondo cui “quelli che urlano Duce potrebbero essere tifosi della Casertana” (si sono incazzati anche i tifosi della Casertana) e il ministro dei Rapporti con il Parlamento Luca Ciriani che ha risposto a un’interrogazione del Pd. Secondo il condirettore di Fanpage Adriano Biondi le risposte date dal ministro ricalcherebbero “un grande classico della narrativa vittimista della destra italiana: non rispondere nel merito della questione, ma provare a delegittimare l’interlocutore”.

Per Biondi il ministro con la sua risposta “si assume la gravissima responsabilità non solo di giustificare, ma anche di legittimare le pratiche e i comportamenti che emergono dal nostro lavoro d’inchiesta”. Fanpage scrive anche che Meloni avrebbe dato “la consegna del silenzio” a tutti gli altri. A Firenze l’assessore dem uscente all’Ambiente di Palazzo Vecchio, Andrea Giorgio, è stato querelato dal candidato del centrodestra Eike Schmidt per avere sottolineato come questa destra abbia pesanti infiltrazioni di estrema destra. Quindi siamo messi così: non solo la destra non ne parla, ma pretende pure che non ne parlino gli altri.

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Giornata mondiale dei profughi, Meloni rispolvera il Piano Mattei. Per non parlare dell’emergenza

Che nella Giornata mondiale dei profughi, indetta dalle Nazioni unite il 20 giugno di ogni anno, il governo italiano rispolverasse il Piano Mattei è una curiosa coincidenza. L’Unchr ha inteso rimarcare l’urgenza di adottare soluzioni immediate per migliorare le condizioni di vita di milioni di persone, tra cui anche bambini.

L’obiettivo principale – spiegano dalle Nazioni unite –  è quello di rimuovere gli ostacoli all’inclusione nella vita sociale, economica e politica, garantendo a ciascun individuo la possibilità di costruirsi un futuro. In esilio, i rifugiati hanno il diritto di prendere parte attivamente alla comunità che li ha accolti, attraverso l’inserimento lavorativo, lo sport, la scuola e le altre attività.

Piano Mattei o campagna d’Africa

Alla parola profughi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e i suoi ministri hanno una sola reazione, la chiusura, il respingimento, la filatura di una favola che li faccia scomparire dal dibattito pubblico. Per questo nella Giornata mondiale dei profughi l’asse della discussione dalle nostre parti si è spostato sul cosiddetto Piano Mattei, ossia l’architettura orchestrata dal governo per contrastare l’epocale fenomeno delle migrazioni.

“Se il Piano Mattei sarà un successo e riuscirà davvero a costruire quel nuovo modello di cooperazione e sviluppo con le Nazioni africane che abbiamo in mente molto dipenderà dal contributo delle nostre imprese e dalla possibilità di mettere le loro energie e la loro concretezza al servizio di questa iniziativa”, ha detto ieri la presidente del Consiglio in un videomessaggio ad una iniziativa di Confcommercio dedicata al contributo del settore privato italiano al Piano Mattei per l’Africa.

Per Meloni “la concretezza è il tratto distintivo” del Piano che si dovrebbe svolgere “su sei direttrici di intervento, che sono istruzione e formazione, salute, agricoltura, acqua, energia e infrastrutture”. Fa niente che l’interscambio commerciale tra l’Italia e l’Africa sia in discesa, con un calo sul 2023 del 14,6% sull’anno precedente (fonte Sace su dati Istat). Il messaggio di fondo è sempre lo stesso: “Aiutiamoli a casa loro”, lasciando intravedere perfino un guadagno per le imprese italiane. Il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana lo dice a chiare lettere: il Piano Mattei può “migliorare le condizioni di vita degli immigrati, evitando situazioni incontrollate e favorendo un miglior equilibrio dei flussi migratori”. Evviva la sincerità.

Piano Mattei, l’altra prospettiva

Che si aggiunge a quella del ministro della Difesa Guido Crosetto nel corso del convegno sul Piano Mattei preso il Centro Alti Studi per la Difesa: “Se regaliamo tutta la parte che può crescere nel mondo e che ha le principali riserve all’altro lato della forza, per usare un termine da Guerre Stellari, come possiamo pensare di vincere la sfida tecnologica e commerciale del futuro?”, ha detto.

Insomma, mica vorremmo farci scippare l’Africa “Ci siamo presi l’onere di parlare non solo del presente ma anche del futuro, di spiegare all’Europa prima e alla Nato poi alcuni concetti” sull’Africa, ha spiegato Crosetto. Già, ma il presente? Come evidenzia uno studio dell’Unhcr, nel 2023 le persone in fuga nel mondo sono state 117.3 milioni: si tratta di una cifra record. Nello stesso anno, secondo i dati Eurostat, sono state anche presentate più di 1 milione di richieste di asilo nei 27 Stati membri dell’Unione europea, mentre in Italia, stando ai numeri del ministero dell’Interno, sono sbarcate circa 158mila persone.

La maggior parte dei rifugiati viene accolta nei Paesi limitrofi a quelli colpiti da guerre e crisi umanitarie. L’Unhcr ribadisce che viene sovrastimata la portata reale dei flussi verso l’Italia e l’Europa visto che il 75% dei rifugiati viene accolto nei Paesi a basso e medio reddito. In pratica la disperazione che costringe alla mobilità viene amplificata (distorta) dalla propaganda per trasformarla in allarme.

Presente ignorato

Il presente sono le guerre da cui milioni di persone fuggono ma – avvisa il rapporto dell’Agenzia della Nazioni unite – ma anche il disastro climatico. Solo che l’Unione europea ha “dimenticato” i migranti climatici nelle sue azioni politiche. Ieri l’Ue ha ribadito “il suo fermo impegno a favore del diritto di chiedere e godere di asilo e del principio di non respingimento, sancito sia dalla Convenzione sui rifugiati del 1951 che dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che devono essere sempre rispettati”.

Ma a Bruxelles come a Roma l’imperativo è solo uno, la deterrenza. Oxfam racconta che nei 10 dei Paesi più colpiti al mondo dall’alternarsi di inondazioni e siccità sempre più frequenti e devastanti, il numero di sfollati è più che raddoppiato nell’ultimo decennio. Solo nel 2023 centinaia di migliaia di persone sono state costrette a fuggire 8 milioni di volte dalle proprie case per mettersi in salvo. Da 3,5 milioni nel 2013  siamo passati a 7,9 milioni nel 2023, ossia il 120% in più rispetto a 10 anni fa (secondo i dati del Global Internal Displacement Database). Discutere di improbabili Piani Mattei significa non avere contezza del presente e del futuro prossimo. È una promessa vana di chi vorrebbe fermare il vento con le mani.

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Altro che 2% del Pil in armi. Mancato pure l’impegno con la Nato

Il 12 luglio dell’anno scorso durante il vertice Nato a Vilnius la presidente del Consiglio Giorgia Meloni durante la conferenza stampa (senza stampa) disse che “è importante il continuare a investire per rafforzare la nostra industria, le nostre capacità nella difesa”. perché “la nostra libertà ha un costo” e “perché quello che si investe in difesa torna dieci, cento volte tanto in termini di capacità di difendere i propri interessi nazionali”. 

In quell’occasione era andata in scena la Meloni in versione internazionale, molto diversa nei modi e nei contenuti rispetto alla versione che va in scena qui in patria. La svolta atlantista della presidente del Consiglio nelle intenzioni era uno dei tasselli per recuperare “credibilità internazionale” e per rassicurare Bruxelles. Per questo la premier ce l’aveva con “quelli che dicono che dobbiamo smobilitare”. I pacifinti, li chiamano.

L’Italia lontana dall’obiettivo del 2% del Pil in spesa militare

Fratelli d’Italia, Lega, Forza Italia e Noi Moderat , nell’Accordo quadro di programma per un governo di Centrodestra, hanno assicurato il “Rispetto degli impegni assunti nell’Alleanza Atlantica, anche in merito all’adeguamento degli stanziamenti per la difesa, sostegno all’Ucraina di fronte all’invasione della Federazione Russa e sostegno ad ogni iniziativa diplomatica volta alla soluzione del conflitto” (qui il programma di coalizione). Oggi le promesse fanno i conti con la realtà: rispettare quegli impegni, almeno nel breve termine, sarà molto difficile se non impossibile.

Nel 2014 gli Stati dell’alleanza militare hanno concordato di portare le spese militari a un valore pari al 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil), un impegno poi confermato dai governi italiani entrati in carica negli anni successivi. Pagella politica osserva come le stime più aggiornate, pubblicate il 17 giugno dalla Nato, mostrano però che nel 2024 l’Italia sarà uno degli otto Paesi sui 31 membri dell’alleanza militare che non raggiungerà l’obiettivo del 2 per cento. L’anno scorso quelli che non hanno raggiunto questa soglia sono stati invece 21: dunque, secondo la Nato, 13 Paesi che nel 2023 non avevano centrato l’obiettivo del 2 per cento lo faranno quest’anno.

Dalla retorica atlantista agli impegni difficili da rispettare

Anzi, in Italia la percentuale di spesa in relazione al Pil è scesa. Secondo la Nato, quest’anno la spesa in difesa dell’Italia raggiungerà un valore pari all’1,49 per cento del Pil, mentre nel 2023 questa percentuale si stima sia stata pari all’1,50 per cento e nel 2022 all’1,52 per cento. La Nato considera come “spesa in difesa” i pagamenti effettuati dai governi per le necessità delle forze armate, inclusi gli stipendi, le pensioni, le operazioni di mantenimento della pace, e gli investimenti in ricerca e sviluppo, finanziati dai ministeri della Difesa e da altri ministeri. 

Nell’analisi di Pagella politica sulla spesa in difesa espressa invece in valori assoluti e in termini reali, ossia corretta per tenere conto dell’impatto dell’inflazione, tra il 2023 e il 2024 quella italiana crescerà leggermente, passando da poco meno a poco più di 29,8 miliardi di dollari. La variazione percentuale è comunque dello 0,12 per cento, la più bassa tra tutti e 31 Paesi della Nato fatta eccezione per la Slovenia, dove si stima un calo dell’1,37 per cento. Tra i grandi Paesi dell’Unione europea, quest’anno rispetto al precedente in Germania la spesa aumenterà del 29,5 per cento, in Francia del 6,1 per cento e in Spagna del 9,3 per cento.

Il paradosso dell’atlantismo del governo sta nel dire ciò che non si riesce a fare e non fare ciò che si dice. La difesa dell’Ucraina e l’adesione alla Nato per Meloni è una postura obbligata per non perdere credibilità internazionale e non essere assimilata ai suoi alleati sovranisti europei. Ma la sicurezza internazionale – se la si vuole costruire a suon di bombe – non se ne fa nulla della solidarietà e delle promesse. Così alla fine i guerrafinti rischiano di fare più danni dei pacifinti di cui continuano a parlare. 

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Il dramma di Satnam non fa notizia

Se un trentunenne di Milano, magari del centro, o del quartiere Monti a Roma fosse stato scaricato dal suo datore di lavoro davanti a casa con un braccio tranciato riposto in una cassetta e la moglie al suo fianco avremmo un quintale di trasmissioni in prima serata pronte a tuffarsi nella pornografia della violenza.

Avremmo avuto, sicuro, qualche decina di approfondimenti sui sogni del ragazzo violentato dal suo capo che l’ha reso mutilato oltre che schiavo, avremmo interviste lacrimevole ai parenti, agli amici. Qualche presunto giornalista d’inchiesta sarebbe da giorni al citofono del titolare della sua azienda per strappare una parola dal giro dei carnefici. Satnam Singh invece ha un cognome cacofonico, si trascinava per qualche spiccio nelle meno interessanti campagne di Latina, nido di braccianti trattati con la disgustata indifferenza che si riserva ai materiali di rublta ai bordi di un cantiere, prima che vengano buttati via. Satnam ha la sventura di abitare il mondo di quegli altri, fuori da noi.

Qualsiasi cosa gli sia successa non tocca l’etica della Patria. La morale nazionale non viene intaccata da ciò che gli italiani fanno agli stranieri. Fosse accaduto il contrario perfino i fascisti sarebbero in piazza. Ieri Satnam è morto, due giorni dopo il suo braccio. La ministra del Lavoro Marina Calderone ha assicurato ancora più incisività al “contrasto al sommerso nella promozione di una cultura del lavoro” mentre il presidente della commissione Lavoro della Regione Lazio, Angelo Tripodi di Forza Italia dice che il caporalato è “una piaga che dobbiamo combattere tutti insieme, senza distinzioni politiche e ideologiche”. Niente speciali in prima serata, però.

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Fate una cosa, cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati

Fate una cosa leale, cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati che ricorre oggi. Raccontate con sincerità ai 117,3 milioni di persone costrette a fuggire dal loro Paese in  tutto il mondo (a maggio 2024 come riporta il Rapporto Global Trends del 2024 dell’Agenzia Onu per i rifugiati) che quell’articolo della Dichiarazione universale dei diritti umani firmata il 10 dicembre del 1948 a Parigi è stato una svista. «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio Paese», dice il secondo comma dell’articolo 13. Un articolo invecchiato male, malissimo, praticamente dissolto. L’articolo 14, «ogni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni» è stato una svista. Ammettete in conferenza stampa che è stato abrogato nel corso del tempo e non c’è più nulla da fare. 

Spiegate che quell’articolo 9 secondo cui «nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato» non è applicabile a chi arriva per mare o per terra a disturbare il lavoro dei governi eletti con il mandato di gestire l’etnie, prima delle persone. 

Evitateci lo sturbo di fronte alle celebrazioni di oggi, in questa Italia assassina protagonista di un’Europa assassina che ha celebrato l’anniversario della tragedia a Steccato di Cutro ripetendola qualche miglio più in là. 

Cancellatela la giornata mondiale dei rifugiati che ricorre oggi, fate più bella figura. Racconterete che era un buon proposito ce non si è riusciti a mantenere, come la promessa mancata dell’ultima sigaretta. «C’erano dei seri problemi di gestione del consenso interno per mantenere le promesse con quelli da fuori»: ai nipoti potete dire così. 

Buon giovedì. 

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