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Egitto, arresti e deportazioni forzate di massa contro i rifugiati sudanesi. Amnesty: “L’Ue rischia di essere complice”

Le autorità egiziane, che beneficiano anche di fondi europei, stanno conducendo una campagna brutale di arresti di massa e deportazioni forzate contro i rifugiati sudanesi. In un rapporto sconcertante Amnesty International denuncia come circa 800 sudanesi siano stati rimpatriati con la forza da milizie finanziate anche da Bruxelles tra gennaio e marzo 2024, negando loro il diritto fondamentale di chiedere asilo. Questi arresti, eseguiti al Cairo, a Giza e ad Assuan, hanno creato un clima di terrore tra i rifugiati, costretti a vivere nascosti per paura di essere catturati.

Le storie sono terribili: donne, uomini e bambini prelevati dagli ospedali e portati in strutture di detenzione improvvisate, spesso sporche e disumane, gestite dalle guardie di frontiera egiziane. Detenuti in condizioni crudeli, sono stati poi caricati su autobus e furgoni per essere deportati al confine sudanese. È l’ennesimo tradimento dei valori umani più elementari, perpetrato per di più con il sostegno dell’Unione europea.

Arresti e deportazioni: la mano pesante dell’Egitto sui rifugiati sudanesi

La crisi umanitaria in Sudan ha radici profonde. Dal conflitto scoppiato nell’aprile 2023, oltre 2 milioni di persone hanno lasciato il paese e più di 9 milioni sono sfollati interni. Nel Darfur occidentale, gli attacchi delle milizie delle Forze di Supporto Rapido (RSF) hanno causato migliaia di vittime, configurando crimini contro l’umanità e pulizia etnica. Edem Wosornu delle Nazioni Unite ha definito la situazione “uno dei peggiori disastri umanitari nella memoria recente”.

L’Unione Europea, però, è sorda e intanto firma un accordo di finanziamento di 80 milioni di euro con l’Egitto, destinato a rafforzare le forze di frontiera e la guardia costiera per impedire la migrazione verso l’Europa. Questi fondi, secondo il capo della politica estera dell’Ue, Josep Borrell, sono per “la gestione delle frontiere, la ricerca e il salvataggio e le operazioni anti-contrabando”. Ma cosa si nasconde dietro queste parole? La realtà è che l’Ue sta contribuendo a finanziare una macchina di repressione che arresta e deporta i rifugiati sudanesi.

A marzo 2024, l’Ue ha promesso ulteriori 7,4 miliardi di euro all’Egitto, di cui almeno 200 milioni destinati a combattere la migrazione. Ma è migrazione quella di persone che fuggono dalle guerre e dai massacri? Per il diritto internazionale certamente no.

Finanziamenti europei e violazioni dei diritti: il ruolo dell’Ue nella crisi umanitaria

Amnesty International è chiara: “L’Ue rischia di essere complice nelle violazioni dei diritti umani da parte dell’Egitto”. Sara Hashash, portavoce di Amnesty, ha dichiarato: “È inconcepibile che donne, uomini e bambini sudanesi in fuga dal conflitto armato nel loro paese vengano arrestati in massa e arbitrariamente detenuti in condizioni deplorevoli e disumane prima di essere illegalmente deportati”.

L’UNHCR ha documentato circa 3.000 persone deportate in Sudan dall’Egitto solo nel settembre 2023. Di fronte a queste cifre, l’indifferenza europea è disarmante. L’Egitto, alle prese con una grave crisi economica, sta utilizzando la situazione dei rifugiati per ottenere maggiori fondi internazionali, avviando un audit per calcolare il costo di questa popolazione. Ma la domanda è: quanto vale la vita di un rifugiato sudanese per l’Europa

Il conflitto in Sudan, definito un incubo umanitario, continua a generare un flusso incessante di rifugiati. La risposta dell’Ue, tuttavia, sembra essere quella di alzare muri e finanziare regimi repressivi, piuttosto che offrire protezione e sicurezza a chi ne ha disperato bisogno. È un tradimento dei valori fondamentali su cui l’Europa si è costruita.

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Unirsi per cosa

«Unità, unità». Ieri durante la manifestazione in piazza Santi Apostoli si è levato un grido della folla. Sul palco stava intervenendo il segretario di Sinistra italiana e deputato di Alleanza verdi sinistra Nicola Fratoianni chiedendo «meno prudenza» alle forze d’opposizione. 

L’opposizione, appunto, al governo più di destra della storia repubblicana e al vento di autoritarismo che sbatte l’Italia nel cassetto delle autocrazie occidentali. Un’ombra di opposizione s’è vista ieri in piazza, con la presenza dei partiti da +Europa a Rifondazione comunista passando per il Partito democratico, il Movimento 5 stelle. Ci sono volute le botte in Parlamento e una sequela di rigurgiti fascisti da esponenti locali fino agli alti esponenti nazionali. Un po’ tardi, bisbiglia qualcuno. Meglio tardi che mai, nota qualcun altro. 

Tra le cause dell’esplosione della destra in Italia, questa destra reazionaria e pericolosa, c’è sicuramente la disgregazione degli altri. Con molta avventatezza nell’opposizione che avrebbe dovuto esserci qualcuno ha brigato per erodere i possibili alleati più che gli avversari. Altri hanno speso energie per soffiare su un congresso cronico all’interno del proprio partito. Alcuni ancora oggi sfilacciano la tela per inseguire il cosiddetto centro che ieri era assente per mera strategia. 

Giorgia Meloni ha le mani libere grazie a un’opposizione disorganica e a degli alleati camerieri. Lo stravolgimento della Costituzione è l’emergenza che ha riacceso il senso di responsabilità. Uniti contro qualcosa è un inizio. Per cosa unirsi è la risposta da dare agli elettori. 

Buon mercoledì.

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Nostalgici del Ventennio, alla luce del sole

Giuseppe Marasco era presente a un incontro in una sede di comitato elettorale di Fratelli d’Italia di Manfredonia dove ha corso alle ultime Comunali per il sindaco Ugo Galli raccogliendo il record di 208 preferenze tanto da poter aspirare, probabilmente, anche ad un assessorato dopo il ballottaggio. Quando un suo collega si è scusato per essersi tolto la giacca per il troppo caldo Marasco ha detto: “Noi siamo abituati ai forni crematori”. E tutti giù a ridere. Poi Marasco preciserà che si riferiva al caldo e non all’Olocausto.

Il pugile Frank Mascia, uno con molti follower su Tik Tok, candidato non eletto con la Lega alle ultime elezioni amministrative a Settimo Torinese, si è mostrato in video mentre fa il saluto romano e sbeffeggia il reato di apologia di fascismo: “Della legge Scelba ce ne freghiamo”, dice. E propone un “raduno dei camerati” per settembre nella cittadina dell’hinterland torinese. A Riano, vicino a Roma, là dove due mesi dopo il rapimento e l’uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti vennero ritrovati i suoi resti, il monumento commemorativo è stato vandalizzato con la scritta “W il Fascio”, di fianco al mazzo di fiori del Presidente della Repubblica posato per i 100 anni dall’assassinio.

Qualche giorno fa a Roma i condomini del palazzo dove visse Matteotti avevano cancellato dalla targa in suo ricordo la dicitura “ucciso per mano fascista”. Per timore dei vandali, dicono. Senza bisogno di infiltrarsi sotto mentite spoglie nella compagine giovanile di Fratelli d’Italia (come nell’importante inchiesta di Fanpage), il ritorno di una certa nostalgia per il Ventennio si nota. Basta leggere le cronache locali, giorno dopo giorno. Un’incedere continuo che alza la temperatura dell’acqua mentre le rane inconsapevoli bollono.

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Si impenna la spesa per armi nucleari nel mondo: +13%

La spesa globale per le armi nucleari è aumentata del 13% raggiungendo un record di 91,4 miliardi di dollari nel 2023, secondo i calcoli del gruppo di pressione della Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari (Ican). Questo aumento di 10,7 miliardi di dollari rispetto all’anno precedente è stato principalmente guidato dal considerevole incremento dei bilanci della difesa negli Stati Uniti, in un contesto di incertezza geopolitica dovuta all’invasione russa dell’Ucraina e alla guerra tra Israele e Hamas.

Il rapporto spiega che le nove nazioni armate di armi nucleari hanno aumentato le loro spese, con la Cina al secondo posto con un budget di 11,9 miliardi di dollari, sebbene il totale di Pechino sia nettamente inferiore ai 51,5 miliardi di dollari degli Stati Uniti. La Russia è terza per spesa con 8,3 miliardi di dollari, seguita dal Regno Unito (8,1 miliardi di dollari) e dalla Francia (6,1 miliardi di dollari). Le stime per gli stati autoritari e i tre paesi con programmi nucleari non dichiarati (India, Pakistan e Israele) sono complicate dalla mancanza di trasparenza.

L’impatto geopolitico: aumento storico della spesa per le armi nucleari nel 2023

Susy Snyder, una delle autrici della ricerca, ha avvertito che gli stati nucleari sono “sulla buona strada per spendere 100 miliardi di dollari all’anno in armi nucleari” e ha sostenuto che questi fondi potrebbero invece essere utilizzati per programmi ambientali e sociali. “Questi miliardi avrebbero potuto essere utilizzati per combattere il cambiamento climatico e salvare animali e piante dall’estinzione, oltre a migliorare i servizi sanitari e educativi in tutto il mondo”, ha affermato Snyder.

Negli ultimi cinque anni, da quando Ican ha iniziato la sua ricerca, la spesa per le armi nucleari è aumentata del 34%, pari a 23,2 miliardi di dollari. La spesa degli Stati Uniti è aumentata del 45% durante questo periodo, mentre nel Regno Unito è cresciuta del 43%, e, mantenendo queste tendenze, supererà i 100 miliardi di dollari nel 2024.

Il presidente russo Vladimir Putin ha ripetutamente usato il proprio arsenale nucleare per avvertire l’Occidente nel caso di un intervento militare diretto in Ucraina. La Russia ha anche iniziato una serie di esercitazioni che simulano l’uso di armi nucleari tattiche vicino al confine ucraino a maggio.

Prospettive nere: verso i 100 miliardi di dollari di spesa annuale in armi nucleari

Secondo l‘Istituto Internazionale di Ricerca per la Pace di Stoccolma (Sipri), il numero di testate nucleari attive è leggermente aumentato a 9.585, principalmente a causa dell’incremento dell’arsenale cinese da 410 a 500 testate. Gli Stati Uniti e la Russia rimangono i maggiori possessori di armi nucleari, con circa il 90% di tutte le testate. La Russia ha 4.380 testate nucleari schierate o in deposito, rispetto alle 3.708 degli Stati Uniti.

I ricercatori Sipri stimano che la Russia abbia schierato circa 36 testate in più con forze operative rispetto a gennaio 2023, sebbene non vi siano prove definitive che Mosca abbia dispiegato missili nucleari in Bielorussia, nonostante le dichiarazioni di Putin e del presidente bielorusso Alexander Lukashenko.

L’arsenale nucleare britannico è rimasto invariato a 225 testate, così come quello della Francia a 290. Tuttavia, tre anni fa, il Regno Unito ha annunciato un aumento del limite di testate a 260 Trident per contrastare le minacce percepite da Russia e Cina.

Wilfred Wan, direttore del programma di armi di distruzione di massa di Sipri, ha dichiarato: “Non abbiamo visto armi nucleari giocare un ruolo così importante nelle relazioni internazionali dalla Guerra Fredda”, sottolineando il contrasto con la dichiarazione congiunta del 2022 di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Cina e Russia che affermava: “Una guerra nucleare non può essere vinta e non deve mai essere combattuta”.

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Tutto si tace, spento, come un corpo in fondo al mare

Il macabro anniversario della strage di Stato a Steccato di Cutro si celebra a 110 miglia dalle coste della Calabria dove una barca a vela partita dalla Turchia rovesciandosi ha vomitato in mare 66 persone che risultano disperse. 26 erano bambini. Arrivavano dall’Iran, dalla Siria e dal Pakistan. Gli 11 sopravvissuti sbarcati a Roccella Jonica raccontano che la nave imbarcava acqua  da giorni. 

Sempre ieri una Ong ha soccorso 64 persone al largo di Lampedusa. 10 sono morte soffocate rinchiuse nel ponte. Le altre sono state liberate a colpi d’ascia. Per questo 2024 siamo a 920 tra morti e dispersi nel Mediterraneo, sono 5 cadaveri al giorno che galleggiano nella rotta più letale del mondo. 

Al sontuoso G7 nella Puglia di cartapesta di qualche giorno fa i “grandi della terra” hanno cianciato di «prevenire e contrastare il traffico di migranti». È la formula vigliacca di chi non ha il coraggio di ammettere la voglia di fortezza. A nessuno di loro – come accade a Bruxelles – viene in mente l’ipotesi di rafforzare i soccorsi in mare. 

Salvare le persone è un tema secondario. Lo sforzo sta tutto nel trovare formule linguistiche nuove per abilitare l’orrore, naturalizzarlo, renderlo inevitabile. E ogni volta che ne muoiono le parole perdono senso, si infragiliscono, accendono meno sdegno, smuovono un lutto slavato. 

È la cosiddetta resilienza che auspicano i poteri: piegarsi narcotizzati di fronte agli eventi, allargando le braccia come massimo gesto di resistenza. Tutto si tace, spento, come un corpo in fondo al mare. 

Buon martedì. 

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Lezione di diritto a destra dalla nipote di Mussolini

Mussolini smentisce la presidente del Consiglio sui diritti. L’ex europarlamentare di FI Alessandra Mussolini ha stroncato le politiche del governo. “Meloni rivendica che, sui diritti, il governo non ha fatto alcun passo indietro? Ma nemmeno in avanti”, dice Mussolini in un’intervista a La stampa.

La nipote di Mussolini che dà lezioni di progressismo al governo Meloni è la foto dell’arretratezza di questo governo

“L’anno scorso l’Italia – spiga Mussolini – ha posto il veto in Consiglio europeo sul regolamento che uniforma le procedure di riconoscimento dei figli in tutti gli Stati dell’Unione, di modo che i bambini nati in famiglie omogenitoriali vengano automaticamente riconosciuti come figli di entrambi i genitori, cosa che avviene in tutta Europa ma non da noi. Da noi, il genitore non biologico deve adottare il bambino”.

“È assurdo almeno quanto il fatto che i single non possano adottare – aggiunge -. Gli italiani non godono di diritti che altrove sono consolidati”. “In campagna elettorale, più che sentire parlare di questo, ho sentito cose invereconde sull’aborto – prosegue -. L’importanza di indurre il ripensamento nelle donne che decidono di abortire”. Per Mussolini le azioni urgenti sarebbero il “riconoscimento dei minori a prescindere da dove e come siano nati” (ovvero il cosiddetto Ius soli”), “pagare le donne più degli uomini” per contrastare il gap salariale e per rendere le donne “indipendenti” e in grado di “denunciare le violenze e quindi arginarle”.

La nipote di Mussolini che dà lezioni di progressismo al governo di Giorgia Meloni è la fotografia dell’arretratezza di una propaganda di governo completamente sconnessa dalla realtà. Alla fine, come è sempre accaduto nella storia, i diritti irrompono, con buona pace dei reazionari di turno.

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I grandi centri di accoglienza non li vuole gestire nessuno: nell’ultimo triennio il 18% dei bandi è andato deserto

Il primo passo è stato quello di distruggere l’accoglienza diffusa. Ora sono in affanno anche i grandi centri di accoglienza. L’analisi dei contratti per la gestione dei centri rivela un ritorno ai grandi centri collettivi e difficoltà significative per le prefetture nell’assegnazione dei bandi. Secondo un rapporto di Openpolis, tra il 2020 e l’agosto 2023, su oltre 7mila bandi emessi dalle prefetture italiane, 3.195 riguardavano la gestione dei centri di accoglienza.

Dal 2020 al 2022, gli importi destinati agli accordi quadro per l’accoglienza diffusa sono diminuiti dal 52,2% al 31,7%, registrando un calo di 20 punti percentuali. Con budget e servizi ridotti al minimo, molti operatori hanno evitato di partecipare alle gare, con il 18% dei bandi che sono andati deserti. Quando i bandi vanno deserti, le prefetture possono provare a ripeterli; tra il 2020 e il 2023, ne sono stati ripetuti 184.

Il declino dell’accoglienza diffusa: il sistema italiano torna ai grandi centri

Il sistema di accoglienza per richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale è gestito principalmente attraverso i Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS), sebbene fossero stati concepiti come un’eccezione rispetto al Sistema di Accoglienza e Integrazione (SAI), che rappresenta il modello ordinario gestito dai comuni e focalizzato sui servizi di integrazione. Tuttavia, i CAS coprono attualmente il 59,7% dei posti disponibili nel sistema di accoglienza. L’emergenza è diventata la regola. 

All’interno dei CAS, esistono due principali modalità di gestione: i piccoli centri in rete e i grandi centri collettivi. I piccoli centri distribuiti sono generalmente considerati una soluzione preferibile per il benessere delle persone accolte e per il rapporto con il territorio. Tuttavia, le modalità di gestione e i capitolati d’appalto hanno storicamente favorito le grandi strutture collettive, a discapito dei piccoli centri.

L’analisi di Openpolis sui dati della Banca Dati dei Contratti Pubblici (BDNCP) dell’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC) mostra un trend crescente verso le grandi strutture. Questo balzo è avvenuto nonostante nel 2020 gli importi messi a bando per accordi quadro relativi a centri in rete rappresentassero ancora il 52,2% del totale. Tuttavia, con l’aumento delle presenze di richiedenti asilo, il sistema si è spostato sempre più verso i grandi centri, nonostante un lieve aumento dei bandi per l’accoglienza diffusa nel 2023.

Bandi deserti e gare ripetute: le sfide delle prefetture nella gestione dei migranti

L’analisi di Openpolis rivela che tra il 2020 e il 2022, il 18,7% degli accordi quadro è andato deserto, con il 44% di questi contratti relativi ai centri in rete. Le ragioni dietro questa tendenza includono gli importi meno attrattivi per la gestione in rete e la riduzione dei servizi per gli ospiti, portando molti operatori a evitare questi bandi.

Ovviamente il fatto che molte gare vadano deserte rappresenta un problema significativo per le prefetture, che spesso si vedono costrette a ripeterle. Tra il 2020 e il 2023, sono stati identificati 184 bandi ripetuti, con una prevalenza per i centri in rete. Nel 2022, più della metà dei principali accordi quadro per l’assegnazione di questi contratti è stata ripetuta, evidenziando ulteriori difficoltà.

Nessuna riforma del sistema quindi. Solo demolizione dell’esistente.Sarebbe essenziale rafforzare il sistema ordinario (SAI), aumentare i posti disponibili e consentire l’accesso ai richiedenti asilo. Tuttavia, le recenti misure adottate dal governo non sembrano indirizzate verso questa direzione. Al contrario, si sono complicati i lavori delle ONG che si occupano di salvataggi in mare, è stata ristretta la protezione speciale e i richiedenti asilo sono stati esclusi dal SAI.

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L’accusa di Politico.eu: pressioni di von der Leyen per ritardare il report sulla libertà di stampa. E ottenere l’ok dell’Italia al bis

Ursula von der Leyen ha cercato di rallentare un rapporto ufficiale dell’Unione Europea che critica l’Italia per l’erosione della libertà dei media, nel tentativo di ottenere il sostegno di Roma per un secondo mandato come presidente della Commissione Europea. Secondo quattro funzionari sentiti da Politico, un’indagine della Commissione evidenzia un giro di vite sulla libertà dei media in Italia da quando Giorgia Meloni è diventata presidente del Consiglio nel 2022. Il rapporto annuale sullo stato di diritto nei paesi dell’Ue, previsto per il 3 luglio, sarà invece ritardato fino alla nomina del nuovo presidente della Commissione, che potrebbe avvenire tra luglio e settembre.

Il ritardo del rapporto è insolito ma rischia di sembrare politicamente motivato: von der Leyen sta cercando il sostegno dei leader dell’Ue, Meloni inclusa, per assicurarsi un secondo mandato di cinque anni alla guida dell’esecutivo europeo. Le interferenze governative nei media e le cause legali contro i giornalisti sono aumentate negli ultimi due anni, come avvertono le associazioni internazionali della stampa. I giornalisti della Rai hanno scioperato a maggio per protestare contro il tentativo di “trasformare la Rai in un portavoce del governo”. La Commissione europea aveva già criticato l’Italia lo scorso anno nel suo rapporto sullo stato di diritto per l’uso crescente della legge sulla diffamazione contro i giornalisti.

L’accusa di Politico a von der Leyen

Secondo un funzionario della Commissione, scrive Politico, “c’è visibilmente una volontà di mettere il freno alle questioni relative all’Italia e allo stato di diritto”, e ha indicato gli sforzi di rielezione di von der Leyen come ragione del ritardo del rapporto. Il gabinetto della presidente avrebbe chiesto al segretariato generale dell’esecutivo dell’Ue di posticipare la pubblicazione del rapporto. Almeno due altri funzionari della Commissione hanno chiesto ai giornalisti nelle ultime tre settimane di non fare domande sulla posizione dell’esecutivo dell’Ue riguardo alla “situazione in Italia”, riferendosi alle misure che minacciano la libertà dei media e agli scioperi dei giornalisti.

Von der Leyen ha tenuto aperta la porta al partito di destra Fratelli d’Italia di Meloni e al suo gruppo del Parlamento europeo, i Conservatori e Riformisti Europei (ECR), discutendo su come garantire il sostegno alla sua candidatura. Durante un dibattito elettorale a maggio, ha definito Meloni “pro-stato di diritto”. I capi di stato e di governo si incontreranno per una cena informale lunedì (stasera) e nel Consiglio Europeo formale il 27-28 giugno. Il Parlamento Ue ha segnato il 18 luglio come il giorno in cui i parlamentari potrebbero votare per eleggere il prossimo presidente della Commissione Europea, ma potrebbe anche essere spostato a settembre, se necessario.

Un funzionario parlando con Politico ha invece giustificato il ritardo del rapporto sullo stato di diritto, affermando che l’obiettivo è di evitare la sensazione che sia collegato alle discussioni politiche in corso sulla rielezione di von der Leyen. “Stiamo limitando la nostra azione per non essere accusati di politicizzare troppo”, ha detto il funzionario. “Qualunque cosa facciamo ora, per qualunque ragione, sarà accusata di essere politica”. 

I diritti in Italia

L’Italia non ha visto aumentare solo la pressione sulla libertà dei media: anche i  diritti LGBTQ+ e delle donne sono sotto attacco. Partner dell’Ue e internazionali, incluso il Primo Ministro canadese Justin Trudeau, hanno criticato le iniziative del governo per cambiare le regole sulla tutela legale per i genitori dello stesso sesso. Il recente summit del G7 di quest’anno ha acceso una nuova controversia intorno alla vicenda del riferimento agli “aborti sicuri e legali” rimosso dalla dichiarazione finale.

Da tempo le associazioni della stampa hanno aumentato i loro avvertimenti sulle interferenze governative e sulle cause legali contro i giornalisti. L’Italia è scesa di cinque posizioni al 46º posto nell’ultimo Indice Mondiale della Libertà di Stampa di Reporters Without Borders (RSF). Il capo dello stato di diritto dell’Unione Europea, Věra Jourová, ha dichiarato questo mese che la Commissione Europea sta seguendo da vicino le “tendenze negative” sulla libertà dei media in Italia, insieme ad altri paesi come la Slovacchia.

L’interferenza di von der Leyen per evitare critiche aperte all’Italia sulla libertà dei media avrebbe irritato il personale all’interno della Commissione. L’interferenza viene considerata dannosa, poiché molti ritengono che von der Leyen, nel suo ruolo di presidente della Commissione, e tutti i servizi della Commissione non dovrebbero interferire nel processo per eleggerla per un secondo mandato. 

L’Europa che avrebbe voluto essere “patria dei diritti” evidentemente è pronta a sacrificarli sul tavolo delle trattative politiche. Così la “ritrovata autorevolezza internazionale dell’Italia” sventolata dai partiti di governo rischia di diventare una merce di scambio sul tavolo di Bruxelles.

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Latina, anzi Littoria

In tutto sono otto milioni di euro ma è solo l’inizio. Il disegno di legge prevede la creazione di un “comitato nazionale presieduto dal presidente del Consiglio” con la presenza del ministro alla Cultura, il ministro al Turismo, il ministro all’Istruzione e il ministro all’Università oltre alla presidente del Consiglio e il presidente della Regione Lazio nonché il sindaco. Cosa c’è di così importante da smuovere soldi e personalità? Sono i 100 anni della fondazione della città di Latina. 

Per cogliere il senso dell’iniziativa bastano le parole di Cesare Bruni, capogruppo di Fratelli d’Italia nel consiglio comunale cittadino: “Oggi è una giornata storica per la città di Latina” che fu “inaugurata con il nome di Littoria”. Come racconta Marco Pasciuti sul Fatto quotidiano Bruni è l’organizzatore del “Mercatino della memoria” che ogni prima domenica del mese riempie piazza del Popolo dove i cimeli storici esposti passano in rassegna il periodo del Ventennio e che nel 2015 pubblicò un libro dal titolo “Littoria, la prediletta del Duce”. 

Diamo per scontati i commentatori che ci diranno che no, non si può non festeggiare i 100 anni di Latina. Sono gli stessi che fingono di non vedere e poi fingono di stupirsi. Sono gli stessi che in questi giorni ci spiegano che il fascismo non torna perché il fascismo non c’è più.

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44 morti

Sabato se ne sono uccisi due. Sono quattro in due giorni. Sono nove negli ultimi dieci giorni. Sono 44 dall’inizio dell’anno. I suicidi in carcere devono essere considerati “naturali”, come se fossero gli effetti collaterali previsti nella gestione di una discarica sociale. 

Il giornalismo fatica a raccontarli. Non meritano due righe, indipendentemente dal suicida di turno, che sia un detenuto modello, uno che stava per uscire poche settimane dopo oppure chi aveva già dato tutti i segnali possibili di una tragedia in arrivo. 

Il 15 giugno un documento del Consiglio d’Europa definisce la situazione carceraria italiana “allarmante” ma su quel tema ogni allarme è muto, circondato da un generale disinteresse. Nei casi peggiori siamo nel campo del “se lo meritano” perché le carceri dalle nostre parti sono intese come fase terminale di un percorso di espulsione dalla società, con buona pace dell’auspicata riabilitazione scritta su carta. 

Strasburgo “constata con grande preoccupazione” che le misure adottate finora dalle autorità non sono riuscite ad arrestare il fenomeno. L’Ue invita l’Italia “ad adottare rapidamente ulteriori misure e a garantire adeguate risorse finanziarie aggiuntive per rafforzare la capacità di prevenire queste morti”. Dolersi non vale come soluzione. 

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo scorso 18 marzo ha chiesto “interventi urgenti e immediati”. La politica dovrebbe prendersi la responsabilità di chiarire, perfino insegnare, che no, che il carcere non è una vendetta ma la politica del “buttare via le chiavi” non se lo può permettere e non ne sarebbe all’altezza. Rimaniamo quindi così. 

Buon lunedì. 

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