Vai al contenuto

Un ‘sì’ amaro per la Moldavia: il referendum per l’adesione all’Ue apre una nuova guerra fredda con Mosca

Il referendum per l’adesione all’Unione Europea in Moldavia non scioglie incertezza e tensione politica che lasciano il Paese in bilico tra l’Europa e la Russia. Nonostante la vittoria del “sì” con un 50,3% contro un 49,7%, lo scarto minimo di soli 9.000 voti alimenta le accuse di frodi e interferenze straniere che la presidente Maia Sandu non ha esitato a denunciare con forza. Il risultato appare ancor più fragile se si considera che è stato il voto della diaspora a salvare l’aspirazione europea della Moldavia: ben l’88% dei votanti all’estero ha infatti sostenuto l’integrazione nell’UE.

Un trionfo fragile: il voto della diaspora salva l’aspirazione europea

Maia Sandu, in carica dal 2020 e figura emblematica del movimento europeista moldavo, si trova ora in una posizione critica. Non solo è riuscita a superare il primo turno delle elezioni presidenziali con il 42% dei voti, ma dovrà affrontare un secondo turno contro Alexandr Stoianoglo, il candidato filorusso sostenuto dai socialisti, che ha ottenuto il 26%. L’ex procuratore, abile nel catalizzare il malcontento popolare, potrebbe avere il sostegno degli altri candidati, ben otto dei quali sono schierati su posizioni filorusse. 

Il clima è divenuto rovente la notte del voto con Sandu che ha denunciato l’interferenza di “forze straniere” e “gruppi criminali”, accusando la Russia di aver orchestrato una massiccia operazione di manipolazione elettorale per ostacolare l’integrazione europea del Paese. Secondo Sandu, sarebbero stati acquistati ben 300.000 voti con decine di milioni di euro per favorire il “no” al referendum. Un’accusa che, se confermata, getterebbe un’ombra sinistra su un processo elettorale già di per sé contestato. Non è la prima volta che Sandu si scaglia contro le ingerenze russe: la presidente ha puntato con decisione verso Bruxelles, rompendo con Mosca dopo l’invasione dell’Ucraina. Tuttavia, questo referendum, pensato per legittimare il suo percorso europeista, si è trasformato in un banco di prova politicamente insidioso.

La vittoria, se così può essere definita, si rivela infatti un trionfo amaro per Sandu e per il suo progetto politico. Nonostante il risultato finale sia stato favorevole all’UE, il margine ridottissimo e il successo dei partiti filorussi nelle elezioni presidenziali mettono in luce una nazione profondamente divisa. La Moldavia, con una storia di alleanze oscillanti tra Est e Ovest, continua a trovarsi in una posizione scomoda, costantemente influenzata dalle pressioni esterne di Mosca e dalle ambizioni europee.

Il peso delle interferenze russe: accuse di frode e manipolazione elettorale

I prossimi giorni saranno decisivi per capire quale direzione prenderà il Paese. Se da un lato il “sì” ha prevalso al referendum, dall’altro l’instabilità politica potrebbe portare a nuove contestazioni e complicazioni. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha già chiesto che Sandu presenti prove concrete delle sue accuse, definendo le dichiarazioni della presidente “estremamente gravi”. La richiesta del Cremlino non sorprende, dato il delicato equilibrio geopolitico che la Moldavia rappresenta per la Russia: un ulteriore spostamento verso l’Europa significherebbe per Mosca la perdita di un’altra ex repubblica sovietica, dopo l’Ucraina, in un contesto in cui la sfera d’influenza russa si sta progressivamente riducendo.

Per ora la nazione resta sospesa, con una metà del Paese che guarda a Bruxelles come baluardo di democrazia e libertà, e l’altra che teme le conseguenze economiche e sociali di un distacco definitivo dalla Russia. Le elezioni del 3 novembre, che vedranno fronteggiarsi Sandu e Stoianoglo, saranno decisive per il futuro del Paese: un secondo turno dal risultato incerto, in cui il timore di nuove frodi e interferenze non farà che acuire le tensioni.

In questo scenario, l’esito del referendum e delle presidenziali in Moldavia non riguarda solo il destino di un piccolo Paese dell’Europa orientale ma si inserisce in una partita molto più ampia, che vede l’Unione Europea e la Russia contendersi l’influenza su una regione strategica e delicata.

L’articolo Un ‘sì’ amaro per la Moldavia: il referendum per l’adesione all’Ue apre una nuova guerra fredda con Mosca sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Non solo Albania, il Decreto Piantedosi sotto la lente della Corte costituzionale

Preparatevi perché tra poco i “giudici comunisti” rischiano di essere evocati anche su un altro tema. Il cosiddetto decreto Piantedosi infatti è sotto esame della Corte costituzionale. La norma, pensata per “gestire” i flussi migratori, ha introdotto sanzioni severe contro le Ong che operano soccorsi in mare. Tra queste, multe da 2.000 a 10.000 euro e un fermo amministrativo di venti giorni per le navi che non rispettano le direttive delle autorità italiane o straniere.

Il cuore giuridico della questione è l’automatismo delle sanzioni che non consente alcuna discrezionalità ai giudici nel valutare le circostanze concrete. Un dispositivo che agisce come una trappola, privando i soccorritori della possibilità di difendersi con fatti e numeri.

Decreto Piantedosi: il nodo dell’automatismo delle sanzioni

La vicenda della nave Ocean Viking è emblematica. Il 6 febbraio 2024, la nave umanitaria ha effettuato quattro operazioni di salvataggio nel Mediterraneo, l’ultima in acque internazionali, nella zona Sar libica. Durante il salvataggio, l’equipaggio ha affrontato le minacce della cosiddetta Guardia costiera libica. La nave ha portato i migranti in salvo a Brindisi ma una volta arrivata in porto, le autorità italiane hanno applicato la sanzione prevista dal Decreto Piantedosi: fermo amministrativo e multa. La ragione? Non aver rispettato le indicazioni della Guardia costiera libica, che si era dichiarata competente per l’operazione di soccorso.

Il Tribunale di Brindisi ha sospeso il provvedimento in attesa del giudizio costituzionale. La questione principale sollevata riguarda l’articolo 1, comma 2-sexies del decreto: l’automatismo delle sanzioni. Secondo il giudice la norma sottrae al magistrato la possibilità di valutare le circostanze di fatto e diritto del caso specifico, violando così il principio di proporzionalità sancito dall’articolo 3 della Costituzione. In pratica la sanzione scatta in automatico senza possibilità di apprezzare il contesto, come se tutte le situazioni fossero uguali, cancellando di fatto la possibilità di graduare le punizioni. Una nave che non rispetta i documenti di sicurezza può subire la stessa sanzione di chi salva migranti in condizioni di emergenza, senza margine di interpretazione.

Il decreto è stato pensato dal governo per contrastare l’immigrazione clandestina e dare una risposta forte all’Europa. Ma l’effetto è stato colpire duramente chi presta soccorso in mare. La nave Ocean Viking ha salvato vite ma è stata punita per non essersi piegata alle richieste della cosiddetta Guardia costiera libica. Qui sorge un altro problema: la Libia può essere considerata un porto sicuro? Secondo il diritto internazionale, assolutamente no. La giurisprudenza italiana ha già escluso che la Libia possa offrire garanzie di sicurezza per i migranti, citando le condizioni inumane nei centri di detenzione libici. La Convenzione di Amburgo, ratificata dall’Italia, impone di soccorrere e portare i naufraghi in un luogo sicuro, e la Libia non risponde a questo criterio.

Corte costituzionale: un giudizio che può cambiare le carte in tavola

Il Tribunale di Brindisi ha sottolineato che il decreto Piantedosi appare quindi in conflitto con il principio del non-refoulement, sancito dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra che vieta il respingimento di persone verso paesi dove rischiano persecuzioni o trattamenti inumani. Eppure, la nave è stata sanzionata perché non ha rispettato gli ordini di un’autorità, quella libica, che non è in grado di garantire la sicurezza dei migranti. La Corte costituzionale dovrà ora stabilire se questo decreto rispetta i principi della Costituzione italiana e del diritto internazionale.

La questione è di grande rilevanza, perché il Decreto non è solo un provvedimento amministrativo. È un atto politico che mette l’Italia in una posizione delicata sul piano dei diritti umani, Ora tocca alla Corte e le reazioni potrebbero essere la fotocopia di quelle di queste ore. 

L’articolo Non solo Albania, il Decreto Piantedosi sotto la lente della Corte costituzionale sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La maschera cade: il vero volto della destra al potere

Dai, hanno finalmente perso i freni inibitori e si sono svelati. Meglio così. La figuraccia internazionale di Giorgia Meloni e il suo governo per la fallita deportazione in Albania sta mostrando la vera faccia di questa destra che vuole comandare perché è incapace di governare.

Abbiamo visto la vera faccia di Meloni, ben lontana dalla rassicurante capa di governo dialogante in campo internazionale. La premier ritiene nemici della patria, perfino traditori, coloro che non appoggiano le sue riforme deliranti. Si identifica nella patria, vorrebbe essere al di sopra della legge, rivendica il comando. È tornata la missina che è stata. 

Matteo Salvini molla i freni e ci fa sapere che i migranti dunque sono cani e porci. È bastato che perdesse per poco l’equilibrio per mostrare la sua verve da bestemmiatore da osteria. Il vicepresidente del Consiglio non trattiene la xenofobia e punta a testa bassa contro la magistratura, come ogni patetico leader in declino.

Il ministro della Giustizia  Nordio dimostra una reazionaria interpretazione della materia del suo ministero. Sogna uno Stato illiberale con la magistratura al servizio dell’esecutivo. Voleva essere l’illuminato della compagnia e invece sta a qualche centimetro da Orbàn.

Tutti corrono a usare il servizio pubblico come predellino per la propaganda, infarcendo i telegiornali nazionali di gnegneismo di Stato. 

Hanno mostrato la vera faccia, meglio così. Ora non si può dire di non conoscere la loro natura. 

L’articolo La maschera cade: il vero volto della destra al potere sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui  

Da Berlusconi a Meloni: Il manuale del martire politico

Sfrenata, incattivita ed evidentemente nervosa la presidente del Consiglio nella sua bulimia di nemici per alimentare il vittimismo ha pubblicato sui suoi social alcune frasi estrapolate da una mail scritta dal sostituto procuratore della Cassazione Marco Patarnello. 

L’intento è di apparire fotocopia di Silvio Berlusconi per indossare la maschera della perseguitata giudiziaria. Anzi, il titolo del quotidiano Il Tempo che pubblica la mail strilla: “Meloni oggi è un pericolo più forte di Berlusconi. Dobbiamo porre rimedio”. 

Peccato che il messaggio incriminato dica tutt’altro, riferendo di un “attacco alla giurisdizione” da parte del governo che “non è mai stato così forte, forse neppure ai tempi di Berlusconi”. “In ogni caso oggi è un attacco molto più pericoloso e insidioso per molte ragioni”, scrive Patarnello, “Innanzitutto perché Meloni non ha inchieste giudiziarie a suo carico e quindi non si muove per interessi personali ma per visioni politiche e questo la rende molto più forte. E rende anche molto più pericolosa la sua azione, avendo come obiettivo la riscrittura dell’intera giurisdizione e non semplicemente un salvacondotto. In secondo luogo – continua la mail – perché la magistratura è molto più divisa e debole rispetto ad allora. E isolata nella società”. 

Se la presidente del Consiglio avesse speso un minuto per leggere l’intero messaggio avrebbe letto che il procuratore dice “Non dobbiamo fare opposizione politica ma dobbiamo difendere la giurisdizione e il diritto dei cittadini ad un giudice indipendente. Senza timidezze”. Ed è un pensiero non solo condivisibile ma addirittura urgente.

Buon lunedì. 

L’articolo proviene da Left.it qui

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa – Lettera43

BP ha tagliato di un bel 15 per cento il suo obiettivo di riduzione della produzione di petrolio e gas. Adnoc, il colosso degli Emirati, prevede di aumentare la sua capacità produttiva del 25 per cento entro il 2027. Alla faccia degli impegni contro il cambiamento climatico. Del resto è difficile che il lupo diventi vegetariano.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa

Le compagnie petrolifere non smettono di sorprenderci, ma forse la parola giusta è “deluderci”. L’ultima mossa di BP, che ha tagliato di un bel 15 per cento il suo obiettivo di riduzione della produzione di petrolio e gas, non è certo una sorpresa per chi ha seguito le precedenti promesse con un briciolo di scetticismo. Era il 2020 quando BP, in piena crisi d’immagine dopo il disastro del Golfo del Messico, si era impegnata a ridurre la produzione del 40 per cento entro il 2030. Oggi quella cifra è magicamente scesa al 25 per cento.

Perché ascoltare l’Aie quando si possono trivellare altri miliardi?

Siamo abituati ai ripensamenti delle grandi aziende del settore. Shell, ExxonMobil, BP: nomi diversi ma con lo stesso copione. L’aumento della domanda di energia dopo la crisi ucraina ha fornito una comoda giustificazione per abbandonare gli impegni presi, a favore di un più rassicurante ritorno al fossile. Eppure se leggiamo attentamente i rapporti scientifici e le raccomandazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), ci viene detto chiaramente che non c’è più spazio per nuovi giacimenti di petrolio e gas se vogliamo davvero rispettare l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto gli 1,5 gradi. Ma perché ascoltare l’Aie quando si possono trivellare altri miliardi?

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Camion che trasportano stock di petrolio (Getty).

Il metano che si disperde è un potente gas serra

L’analisi del report di Reclaim Finance è illuminante: Adnoc, la compagnia nazionale degli Emirati Arabi Uniti, prevede di aumentare la sua capacità produttiva del 25 per cento entro il 2027. Non solo. La stessa Adnoc ha piani ambiziosi per espandere il suo mercato del gas naturale liquefatto (Lng), con la costruzione di nuovi impianti di esportazione e rigassificazione. A quanto pare, mentre noi discutiamo del cambiamento climatico, qualcuno si prepara a far scorta per i decenni a venire. Il gas naturale, ci raccontano, è il “ponte” verso un futuro pulito. Peccato che anche questo “ponte” sia fatto di fossili. Il metano che si disperde nell’atmosfera durante l’estrazione e il trasporto di gas è un potente gas serra e la sua espansione minaccia di farci restare bloccati in un modello energetico che avremmo già dovuto abbandonare. Ma c’è sempre un modo per renderlo appetibile: basta chiamarlo transizione e il gioco è fatto.

Si rinuncia a un po’ di coscienza, che tanto è un lusso per pochi

Se andiamo a scavare un po’ più a fondo scopriamo che la tanto sbandierata “transizione energetica” delle compagnie petrolifere è, in realtà, una farsa. Prendiamo BP, per esempio. Dei 150 miliardi di dollari previsti per gli investimenti nel periodo 2023-2027, meno del 10 per cento è destinato alle tecnologie a basse emissioni di carbonio. La gran parte del budget va a progetti di espansione per il petrolio e il gas, con una particolare attenzione proprio al gas naturale liquefatto. Sembra quasi che la transizione energetica si faccia ma senza rinunciare a nulla. O meglio, rinunciando solo a un po’ di coscienza, che tanto è un lusso che pochi possono permettersi.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Attivisti per il clima protestano contro le compagnie petrolifere (Getty).

La cattura e lo stoccaggio del carbonio? Poco affidabile

E se guardiamo Adnoc, le prospettive sono altrettanto inquietanti. Nonostante il continuo parlare di decarbonizzazione e sostenibilità, il colosso emiratino ha destinato il grosso delle sue risorse all’espansione della produzione di combustibili fossili. Le sue “soluzioni a basse emissioni” rappresentano meno del 10 per cento del budget. Il restante 90 va al petrolio e al gas. Ma con una buona grafica e qualche slogan accattivante, la percezione pubblica si manipola facilmente. Dopotutto, si sa: l’importante è sembrare green, non esserlo. E qui arriva il colpo di scena, ma non quello che ci aspettavamo. Le stesse compagnie che gridano al cambiamento e all’innovazione climatica, puntano ora su una nuova soluzione miracolosa: la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs). Sembra quasi che abbiano trovato la scusa perfetta per continuare a trivellare: «Tranquilli, cattureremo tutto il CO₂ che produciamo!». Il problema è che il Ccs, al momento, è una tecnologia non solo costosa, ma anche inaffidabile su larga scala. Basare il futuro del Pianeta su una scommessa tecnologica non sembra esattamente la strategia più prudente.

Le rinnovabili sono un bel tema solo per i convegni

A quanto pare, però, prudenza e responsabilità non sono le parole d’ordine del settore. Adnoc prevede che la sua produzione di petrolio e gas nel 2030 sarà superiore del 20 per cento rispetto ai livelli necessari per allinearsi agli scenari di decarbonizzazione dell’Aie. Il messaggio è chiaro: mentre i governi e le istituzioni internazionali continuano a parlare di transizione, le grandi compagnie energetiche marciano nella direzione opposta. Certo, le rinnovabili sono un bel tema da affrontare nei convegni, ma quando si tratta di investire davvero è meglio non esagerare. Una manciata di parchi solari qua e là può servire a distrarre l’opinione pubblica mentre i bilanci continuano a essere trainati da petrolio e gas.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Estrazione del petrolio (Getty).

Queste aziende esistono per massimizzare i profitti

Se c’è una lezione da trarre da tutto questo è che aspettarsi un cambiamento volontario da parte delle compagnie petrolifere è come aspettare che il lupo diventi vegetariano. Queste aziende esistono per massimizzare i profitti, e finché ci sarà domanda di energia fossile loro continueranno a soddisfarla. La vera domanda è: chi ha creduto che sarebbe stato diverso? E soprattutto, per quanto ancora continueremo a credere che possano essere proprio loro a guidare la transizione energetica? Le compagnie petrolifere sono maestre nel confezionare promesse accattivanti, ma i fatti raccontano un’altra storia. Le emissioni continuano a crescere, i loro piani di espansione non accennano a rallentare, e le rinnovabili, al di là degli slogan, restano una parentesi insignificante nei loro bilanci. Il mondo, nel frattempo, continua a bruciare, letteralmente e metaforicamente.

L’articolo proviene da Lettera43 qui https://www.lettera43.it/transizione-energetica-compagnie-petrolifere-farsa/

Commissione Antimafia, tra scontri interni e piste scomode

C’era un tempo in questo Paese in cui l’antimafia era una cosa seria, serissima, che infiammava le discussioni e gli editoriali. Poi è arrivata la normalizzazione della mafia e, di conseguenza, dell’antimafia. Così “fare antimafia” è diventato qualcosa di diverso dal lottare contro la criminalità organizzata, riducendosi a una liturgia di commemorazioni.

La normalizzazione dell’antimafia: tra commemorazioni e silenzi

Il 23 maggio si ricorda Giovanni Falcone, il 19 luglio Paolo Borsellino, e così via, in una stanca sequela di anniversari sempre uguali, accompagnati da dichiarazioni fotocopia dell’anno precedente. La mafia diventa così un “fatto storico”, qualcosa da studiare – o peggio, da evocare vagamente – senza alcun legame con il presente.

Il risultato è che in questa legislatura la Commissione parlamentare Antimafia sembra concentrare tutte le sue energie in uno scontro interno contro l’ex magistrato e senatore del Movimento 5 Stelle, Roberto Scarpinato, sotto attacco da parte dei suoi colleghi della maggioranza, che ne chiedono la rimozione. Stupefacente è il disinteresse funzionale verso la vicenda.

La Commissione: lotte interne e attacchi mirati

Partiamo dall’inizio. La Commissione (guidata dalla meloniana Chiara Colosimo) a maggioranza di centrodestra sta dedicando particolare attenzione a una determinata pista processuale sulla strage di via d’Amelio, in cui perse la vita il giudice Borsellino: la cosiddetta indagine “mafia-appalti”. Da anni, la destra cerca di dimostrare che Borsellino sarebbe stato ucciso per una vecchia inchiesta su Nino Buscemi e Franco Bonura, mafiosi del settore edilizio vicini a Totò Riina e soci della Ferruzzi di Raul Gardini.

L’indagine, archiviata nel giugno 1992, era partita dalla Procura di Massa Carrara, che aveva messo in luce le infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo in Toscana. Il ragionamento politico è semplice: se Borsellino fosse stato ucciso per questioni legate agli appalti, decadrebbero improvvisamente tutti gli interessi sui rapporti – comprovati – tra Cosa Nostra e lo Stato. Così svanirebbero anche le responsabilità politiche e il collegamento con la fondazione di Forza Italia di Silvio Berlusconi, riducendo la morte di Borsellino a una questione di “mafia minore”. Ciò ridimensionerebbe le piste battute da altri magistrati come Nino Di Matteo e Luca Tescaroli, che da anni denunciano una pericolosa trattativa tra i vertici dello Stato.

Per questo la Commissione antimafia ha puntato il dito contro Gioacchino Natoli, già Presidente della Corte d’Appello di Palermo ed ex membro del pool antimafia a fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Natoli è indagato dalla Procura di Caltanissetta per favoreggiamento alla mafia e calunnia. La prova principale sarebbe un provvedimento del giugno 1992, quando Natoli, allora sostituto procuratore di Palermo, ordinò la “smagnetizzazione” dei nastri con le registrazioni telefoniche dell’inchiesta e aggiunse a penna l’ordine di “distruggere i brogliacci”.

C’è un piccolo particolare: si è scoperto che in quel periodo in Procura a Palermo quella prassi – anche con aggiunte a penna – era consuetudine. Non solo: fu proprio Natoli a denunciare che le bobine con le intercettazioni dei Buscemi non erano mai state cancellate e si trovano ancora negli archivi del Palazzo di Giustizia di Palermo.

Nei giorni scorsi, il quotidiano La Verità ha accusato il senatore del M5S Scarpinato di essersi accordato con Natoli prima della sua audizione in Commissione antimafia su alcune domande relative a quell’indagine. Peccato che non ci sia stato alcun riscontro.

In compenso, la presidente della Commissione, Colosimo, ha promesso una modifica alla legge che regola l’istituzione della Commissione antimafia, prevedendo una disciplina specifica per i casi di incompatibilità dei singoli commissari rispetto a indagini particolari dell’organo parlamentare. Ma l’antimafia sembra interessare a pochi, quasi a nessuno.

L’articolo Commissione Antimafia, tra scontri interni e piste scomode sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Processo Open Arms: a Palermo la Lega c’è, ma la piazza resta deserta

A Palermo la difesa di Matteo Salvini ha assunto i contorni di una messinscena senza spettatori. Piazza Politeama, che avrebbe dovuto accogliere una folla di sostenitori, si è presentata desolata: 200 persone a malapena, per lo più parlamentari e ministri della Lega, riuniti per difendere il loro leader dalle accuse di sequestro di persona nel processo Open Arms. Pochi volti noti, bandiere timide, e slogan che, più che infiammare gli animi, sembravano eco di un’epoca in cui il consenso di Salvini riempiva le piazze davvero.

Open Arms, la difesa in aula e l’arringa di Bongiorno

Nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, a pochi chilometri, si giocava una partita diversa. Giulia Bongiorno, legale di Salvini, si è prodigata in un’arringa che ha cercato di spostare l’attenzione dal suo assistito alla condotta della nave spagnola Open Arms. Secondo la difesa la Ong avrebbe avuto “innumerevoli, innumerevoli” opportunità per far sbarcare i migranti soccorsi ma avrebbe preferito restare al largo delle coste italiane, rifiutando porti alternativi come quelli spagnoli. Bongiorno ha parlato di un soccorso che non sarebbe stato casuale, suggerendo che Open Arms avesse ricevuto indicazioni precise per “pendolare” vicino a Lampedusa, in attesa di un “appuntamento” con il barcone di migranti.

Mentre l’arringa della difesa veniva trasmessa in diretta dagli altoparlanti piazzati in una piazza più spoglia che mai i ministri presenti tentavano di colmare il vuoto con dichiarazioni di circostanza. Roberto Calderoli ha ribadito che la difesa dei confini italiani è un “dovere sacro”, e che Salvini avrebbe dovuto essere premiato, non processato. Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, ha giustificato la sua presenza affermando che, in quanto “cittadino libero”, ritiene giusto manifestare la sua solidarietà a Salvini. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è stato meno loquace: arrivato con i parlamentari leghisti, si è subito defilato in un bar, parlando al telefono lontano dagli sguardi dei cronisti e del pubblico.

Il processo Open Arms, uno dei capitoli più controversi della politica migratoria italiana, ha visto la Procura di Palermo chiedere sei anni di carcere per l’ex ministro dell’Interno, accusato di aver trattenuto illegalmente 147 migranti a bordo della nave spagnola per giorni, negando l’autorizzazione allo sbarco. La vicenda risale all’agosto 2019, quando Salvini, allora al governo, bloccò l’accesso ai porti italiani, lasciando i migranti in condizioni sempre più critiche. Alla fine fu la procura di Agrigento, attraverso un’ispezione a bordo, a rilevare l’urgenza sanitaria e a ordinare lo sbarco immediato. Salvini, tuttavia, ha sempre rivendicato la sua decisione come necessaria per la difesa dei confini italiani, trasformando la questione in una battaglia politica.

Una piazza spoglia e assenze rumorose

Oggi, quel fronte si è ridotto a una piazza semivuota. I parlamentari della Lega, riuniti in piccoli capannelli, indossavano magliette con la scritta “Colpevole” per ironizzare sulle accuse mosse al loro leader. Ma l’ironia non sembra aver risuonato come avrebbero sperato. Le immagini della piazza, quasi spoglia hanno fatto da contrappunto alle parole altisonanti che rimbalzavano dagli altoparlanti. “Matteo-Matteo”, intonano i presenti, ma il coro sembra spento, quasi soffocato dall’assenza di quella massa di sostenitori che, in altri tempi, avrebbe gremito le strade.

Intanto, fuori dai confini italiani, il premier ungherese Viktor Orbán ha inviato un messaggio di sostegno a Salvini, definendolo un “eroe” per aver difeso l’Europa dall’immigrazione incontrollata. Parole che fanno eco a un altro clima politico, quello dei sovranisti europei che vedono nella gestione dei migranti un campo di battaglia cruciale. Ma se l’eco di Orbán arriva fino a Palermo lo stesso non si può dire della piazza, dove le bandiere sono poche e gli slogan suonano stanchi.

Le tensioni non sono mancate: un alterco tra un cittadino e un militante leghista ha animato per un momento la scena. “Volete buttare a mare i disperati”, ha urlato il passante, mentre il militante ha replicato accusando l’opposizione di “sfruttare i migranti per lucrare voti”. Lo scontro si è presto placato, lasciando spazio a un presidio che ha faticato a riempire i vuoti.

La giornata si è conclusa con i ministri e parlamentari leghisti che, dopo le consuete dichiarazioni di rito, hanno abbandonato la piazza. Salvini, dal canto suo, ha affidato ai social il suo commento: “Qui, a testa alta, senza paura, per l’Italia e gli italiani”. Ma le immagini di Palermo raccontano un’altra storia. La difesa di Salvini si è trasformata in una prova di fedeltà per pochi, mentre il processo continua portando con sé le ombre di una stagione politica che sembra ormai lontana.

L’articolo Processo Open Arms: a Palermo la Lega c’è, ma la piazza resta deserta sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Come volevasi dimostrare

Che i Centri rimpatrio in Albania fossero illegali lo sapevano tutti. Lo sapevano i lettori di questo giornale, dove da settimane scriviamo che la sentenza della Corte di giustizia europea sarebbe stata vincolante per i giudici di Roma. Che infatti ieri la hanno applicata. Lo sa chiunque mastichi un minimo di diritto e delle sue gerarchie.

Non potevano non saperlo Giorgia Meloni, Antonio Tajani e il ministro Piantedosi, che negli ultimi giorni hanno insistito nel recitare una farsa utile solo al sensazionalismo, indicando in quei sedici sventurati, quattro dei quali (due presunti minori e due malati)rispediti peraltro subito in Italia, portati avanti e indietro dall’Albania la soluzione finale per gestire l’immigrazione.

La soluzione albanese è illegale, antieconomica e disumana. È illegale perché il diritto europeo è stato scritto basandosi sui principi per cui l’Europa è nata quando aspirava a essere la culla del diritto e dei diritti. Il rispetto della sentenza della Corte Ue, imposto dalla Costituzione italiana, avrebbe dunque dovuto fermare tutto fin dall’inizio, evitando la sceneggiata. È antieconomica perché da giorni discutiamo di sedici persone sottoposte a giudizi risultati fallaci, trasportate da una nave militare che ha raggiunto l’Albania per le foto di rito.

Militari, giudici, prefetti, medici, forze dell’ordine hanno dovuto occupare il loro tempo (e i nostri soldi) per fallire. Senza parlare del conto dei Centri in Albania e dei mostruosi costi di gestione. Roba da Corte dei conti, oltre che da vergogna politica. È disumana perché parte dal presupposto che la strategia della desistenza sia un metodo morale per bloccare le migrazioni. Sventolare la ferocia della Guardia costiera libica, il pugno duro di Frontex, le violenze tunisine o i lager libici per frenare la disperazione di chi parte è un metodo vigliacco e privo di etica. Le proteste e il complottismo del governo sono gli starnazzi di chi sapeva dall’inizio che sarebbe finita così, ma confida nella paziente ingenuità dei suoi elettori. Ora resta da vedere se anche la Commissione von der Leyen vorrà ridicolizzarsi.

L’articolo Come volevasi dimostrare sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

In piazza contro le toghe come ai tempi di Berlusconi

Un partito che assedia un tribunale mentre all’interno si processa il suo leader si era visto l’ultima volta con Silvio Berlusconi. Era il processo Ruby e il codazzo di parlamentari in protesta davanti al Palazzo di Giustizia era capeggiato da Angelino Alfano con i big azzurri al seguito. Undici anni dopo ci hanno pensato i leghisti a riunire deputati e senatori in piazza mentre nel Tribunale di Palermo si svolgeva l’udienza del processo che vede imputato il leader Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.

Undici anni dopo la scena è – se possibile – ancora peggiore. Intorno al nugolo di parlamentari che recitano le parti imparate a memoria c’è poca gente. La vittimizzazione di Salvini è uno show a cui deputati e senatori, come ragazzetti in gita, partecipano indossando magliette stampate per l’occasione, come quelle giovanili trasferte all’estero per festeggiare un addio al celibato. Il copione è sempre lo stesso.

Un partito – di governo – vorrebbe trasformare un processo penale in una persecuzione politica. Così si assiste all’ecolalia della magistratura brutta e cattiva al servizio dei poteri forti e gli stessi frignii di stampo berlusconiano. “Non è un attacco alla magistratura”, ripetono i leghisti. Sarà per questo che la magistrata Giorgia Righi, una dei pubblici ministeri, è finita ieri sotto scorta per le minacce ricevute sui social. I leghisti rivendicano il diritto di manifestare in piazza. Occhio che non arrivi il manganello del Decreto sicurezza.

L’articolo In piazza contro le toghe come ai tempi di Berlusconi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Deportare è la nuova accoglienza: l’Ue verso la svolta a destra sotto la guida di von der Leyen

Il Consiglio europeo ha segnato uno dei momenti più critici per l’Ue in tema di migrazioni. Il pendolo, ormai, si è spostato decisamente a destra, e non è stato per caso. Alla guida di questo cambio di rotta c’è la Commissione von der Leyen, che con la sua presenza e il suo sostegno alle “soluzioni innovative” ha di fatto legittimato politiche di respingimento che in passato erano considerate inaccettabili. Ursula von der Leyen, da presidente della Commissione, non solo ha partecipato attivamente agli incontri con i leader di Paesi come Olanda, Danimarca e Italia, ma ha anche appoggiato apertamente l’idea di esternalizzare il problema migratorio, spostandolo lontano dagli occhi dell’Europa.

L’Olanda e l’idea di deportare in Uganda: quando l’Ue esternalizza i migranti

Tra le proposte che emergono, quella dell’Olanda è la più esplicita. Deportare i migranti respinti in Uganda, in attesa di rimpatrio, è diventata una strategia “seria” e concreta, come ha affermato il primo ministro olandese Dick Schoof. Non è solo una trovata elettorale: il governo olandese sta effettivamente negoziando con Kampala per trasformare l’Uganda in un campo di raccolta dell’Europa. La presidente von der Leyen non ha fatto altro che sostenere questi negoziati, aprendo la strada a un modello che rischia di diventare sistematico.

L’Olanda non è sola. Anche la Danimarca, sotto la guida della socialdemocratica Mette Frederiksen, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dimostrando che lo slittamento a destra è trasversale. La Danimarca sta già lavorando per inviare i detenuti stranieri in Kosovo e ora guarda con favore alla creazione di “hub” in Africa per i migranti respinti. Il sostegno politico è forte, con il Partito Popolare Europeo che vede in queste politiche una risposta all’avanzata delle destre nazionaliste. Antonio Tajani, ministro degli Esteri italiano, ha promosso l’accordo con l’Albania (“Una scelta apprezzata da tutti”), un altro esempio di esternalizzazione del problema, come un modello da seguire.

Difesa dei confini: cosa c’è dietro il cambio di strategia

Ma non si tratta solo di chiudere i confini: si tratta di spostare la responsabilità fuori dall’Europa, in Paesi che non hanno né le risorse né la capacità di gestire questi flussi. Questa non è una strategia nuova, ma sotto la presidenza von der Leyen, ha assunto una dimensione istituzionalizzata. Ciò che era una misura eccezionale è diventato la norma. Le critiche di Paesi come la Germania, dove Olaf Scholz ha dichiarato che gli hub esterni non sono una soluzione praticabile, e del Belgio, con Alexander De Croo che ha definito queste politiche “costose e inefficaci”, vengono messe in secondo piano. La Commissione, ormai, si è allineata alla logica della sicurezza a tutti i costi, ignorando le voci contrarie e i dubbi sulla fattibilità di queste misure.

Le conclusioni del Consiglio europeo parlano chiaro: si deve agire “in modo determinato” per aumentare i rimpatri e controllare i confini esterni, anche attraverso accordi con Paesi terzi. Ma questa determinazione, che von der Leyen ha sposato in pieno, non risolve i problemi strutturali delle migrazioni. Spostare i migranti in Uganda o in Albania non ridurrà la pressione sui confini europei, non risolverà le cause alla radice della migrazione. È un modo per rimandare la questione, per renderla invisibile, almeno agli occhi dei cittadini europei.

Von der Leyen alla guida dell’Europa blindata: la sicurezza sopra tutto, i diritti in secondo piano

L’Europa che si proclamava campione dei diritti umani, che parlava di solidarietà e accoglienza, oggi ha scelto un’altra strada. Ursula von der Leyen ha contribuito a tracciare questa rotta, rendendo accettabile ciò che un tempo sarebbe stato inconcepibile. Il risultato è una politica che non affronta la realtà della migrazione, ma la respinge fisicamente, moralmente e politicamente.

Le prossime settimane saranno decisive per capire se questo modello verrà implementato su larga scala. Se così fosse, l’Unione europea potrebbe trovarsi a gestire un sistema che mina i suoi stessi valori, sacrificando l’umanità sull’altare della sicurezza. Un’eredità che la Commissione von der Leyen lascerà alla storia.

L’articolo Deportare è la nuova accoglienza: l’Ue verso la svolta a destra sotto la guida di von der Leyen sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui