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Altra picconata al Decreto Cutro: fermo annullato alla Sea Eye 4

A Reggio Calabria c’è stata l’ennesima picconata al Decreto Cutro e alla gestione dell’immigrazione che ha in mente il governo. Con la sentenza n. 811 del 5 giugno 2024 firmata dal giudice Pantano il tribunale di Reggio Calabria ha annullato il provvedimento del marzo scorso di fermo amministrativo di 60 giorni della nave di soccorso Sea Eye 4 della ong tedesca Sea Watch.

Considerate assolutamente prive di elementi di prova le accuse secondo cui l’equipaggio della nave non avrebbe seguito le istruzioni della guardia costiera libica. Il Tribunale ha confermato che le operazioni di salvataggio in mare sono sempre state doverose e rispettose delle norme internazionali e della legge del mare che, notoriamente, obbliga al salvataggio di imbarcazioni in difficoltà come priorità assoluta su qualsiasi altra considerazione.

“La sentenza di Reggio Calabria è una vittoria significativa per noi e per tutte le altre organizzazioni di soccorso in mare – commenta la ong – dimostra chiaramente che il fermo di navi di soccorso civili è un abuso dei poteri dello Stato. Ora abbiamo urgentemente bisogno del sostegno politico del governo tedesco, perché anche l’Italia sta ignorando i diritti del nostro Stato di bandiera con i suoi fermi illegittimi di navi di soccorso tedesche. Esortiamo i ministeri responsabili a cogliere la sentenza come un’opportunità per fare una campagna per porre fine a questa pratica in Italia”.

Ormai al famoso Decreto Cutro non crede più nessuno. Un provvedimento che, sentenze alla mano, complica la vita a chi si prodiga per i soccorsi in mare. Come ripetono tutti. Ora anche a Reggio Calabria.

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Le Elezioni Europee trasformate da Meloni in un referendum. Su se stessa

Non c’è che dire. Tra slogan e frasi ad effetto, nell’arte della comunicazione, Giorgia Meloni può dare lezioni. Le Europee non fanno eccezione. Con la sua candidatura – unico caso tra i leader dei Paesi Ue – la premier ha caricato la sfida elettorale di un significato che va ben oltre il rinnovo dell’Europarlamento: un referendum sul suo gradimento e una cartina di tornasole per misurare il consenso del suo esecutivo.

Un voto per confermare o smentire la “rivoluzione” di cui si fa portavoce. “Voglio sapere dagli italiani se sono soddisfatti del lavoro che stiamo facendo, sia a livello nazionale che europeo”, ha detto la premier in una recente intervista al Tempo.

Le Europee trasformate da Meloni in referendum: su se stessa

Eppure nei comizi, negli spot e nei talk show la leader di Fratelli d’Italia si è ben guardata dall’affrontare i veri nodi politici e le sfide che si giocano nell’Unione. Il target di Meloni è un risultato vicino a quello delle ultime Politiche, per distanziare il Pd e mettere una pietra tombale sui progetti di rivalsa di Matteo Salvini.

Un obiettivo ambizioso, considerando che alle politiche FdI aveva raggiunto il 26,4%. Non scendere sotto quella soglia, o avvicinarcisi, le permetterebbe di mantenere lo status quo. Un metro di giudizio probabilmente basso per chi ha parlato di “onda rivoluzionaria” e di “partito dell’interesse nazionale”.

Ma del resto coerente con un governo che finora non ha certo brillato per visione e risultati conseguiti. L’assenza di un confronto sui temi europei è fin troppo evidente. Dalla riforma del Patto di stabilità Ue alla gestione dell’immigrazione, dai rapporti con la Cina alle regole sugli aiuti di Stato fino all’enorme tema delle guerre in corso, Meloni si è trincerata dietro accuse generiche all’Ue burocratica e all’eccesso di tecnicismi.

Una linea buona per svicolare da questioni dirimenti ma non certamente utili ai canoni di una campagna elettorale. Le urne hanno oscurato il merito delle questioni, trasformando il voto in un plebiscito pro o contro Giorgia. La vera posta in gioco per Meloni è riuscire a scardinare l’asse Ppe-Socialisti-Liberali che da sempre governa le istituzioni comunitarie.

La presidente del Consiglio punta ad affermarsi come leader di un nuovo polo conservatore, alleandosi con le destre europee per insediarsi al vertice e plasmare l’Ue a sua immagine e somiglianza. Ma anche qui manca una visione organica, un progetto di società e di sviluppo.

A prevalere sono le ostilità ideologiche, l’accusa contro un’Europa “islamizzata”, il richiamo all’orgoglio identitario. In Italia l’obiettivo di Meloni è blindare la leadership del centrodestra, marginalizzando gli alleati pur di presentarsi come l’unica interprete della “nazione”. La sua campagna è stata un concentrato di attacchi agli avversari. Un duello tutto giocato sullo stile e le etichette, senza proposte concrete sul futuro dell’Europa.

Slogan ad effetto

La sfida è riuscire a dar voce a italiani e patrioti, recita il mantra meloniano. Parole evocative, buone per solleticare un certo elettorato. Laddove servirebbero, però, idee per accompagnare la transizione verde e digitale, gestire i flussi migratori, riformare la governance economica.

Non un’indicazione in merito, solo frasi ad effetto come “Bruxelles non ci dica cosa mangiare” o “motivazioni folli”, rivolto all’Ue per la procedura d’infrazione contro l’Italia sui requisiti richiesti dall’Assegno unico per i figli che secondo l’Ue discriminerebbero i migranti.

Del resto la campagna con cui Meloni & C. hanno assediato le tv e le piazze è figlia di questa impostazione: spot con cori da stadio e slogan che gridano “Ritorneremo ad essere grandi”, senza spiegare come. Rimane sospesa una domanda: e se Giorgia perdesse il referendum che ha indetto su sé stessa, che conseguenze ne trarrebbe?

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La sfida tra moderati e sovranisti che può stravolgere gli equilibri dell’Ue

Si avvicina il momento della resa dei conti per i gruppi politici del Parlamento europeo. La notte elettorale del 9 giugno dirà come si divideranno i 720 membri eletti della nuova assemblea di Strasburgo e chi saranno i vincitori e i vinti del voto cruciale per il futuro dell’Unione. Gli animi e le ipotesi sui nuovi equilibri politici si surriscaldano. Il rischio è che il voto stravolga la geografia dell’emiciclo, con la destra nazionalista e sovranista in netta ascesa secondo le proiezioni degli esperti.

Un quadro che desta forte preoccupazione per le sorti della maggioranza europeista finora guidata dal tridente PPE-S&D-Renew. Gli scenari tracciati dai ricercatori Simon Hix e Kevin Cunningham dell’Istituto per le politiche europee dell’Università Bocconi sono allarmanti: i tre gruppi moderati perderebbero la maggioranza assoluta, con l’ago della bilancia che penderebbe decisamente verso la destra radicale. Uno scenario apocalittico per il fronte europeista che rappresenterebbe invece un grande successo per i falchi sovranisti come Viktor Orban e Marine Le Pen, da tempo alla ricerca di un’Unione meno integrata e più rispettosa delle prerogative nazionali.

L’ascesa dei sovranisti

Secondo le proiezioni di Hix e Cunningham, il Partito Popolare Europeo (PPE) si confermerebbe prima forza politica con 183 seggi, seguito dai Socialisti&Democratici (S&D) con 131 deputati. È però la terza piazza di Renew Europe (84 seggi) a far rabbrividire i pro-europei: il gruppo liberale guidato da Emmanuel Macron sarebbe insidiato dagli euroscettici dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR) con 78 eletti e dall’ultradestra di Identità e Democrazia (ID) con 72 seggi.

Un’evenienza che sposterebbe il “baricentro decisionale” dell’Europarlamento marcatamente a destra. La minaccia di una maggioranza alternativa, e potenzialmente anti-europeista, non è più una fantascienza: “Le famiglie nazionaliste ECR e ID insieme potrebbero raggiungere più seggi dei Socialisti”, avvertono con fin troppa chiarezza Hix e Cunningham nelle loro proiezioni. Sul piatto ci sarebbe la futura leadership della Commissione europea e le politiche dell’Esecutivo di Bruxelles nei prossimi cinque anni.

In caso di sconfitta del fronte europeista, le quotazioni di Ursula von der Leyen per un secondo mandato da presidente scenderebbero vertiginosamente. La chiave di volta per l’esito di questo “scontro di civiltà” tra l’anima sovranista e quella comunitaria potrebbe essere la presidente del Consiglio Giorgia Meloni. La leader di Fratelli d’Italia sarà, secondo lo studio, “l’attore chiave” per la formazione di un super-gruppo nazionalista, capace di sbilanciare gli equilibri politici a Strasburgo. Meloni si trova di fronte a un bivio cruciale: sostenere von der Leyen e il campo europeista oppure convergere con Le Pen, Orban e l’ala più oltranzista del sovranismo per esportare il suo modello di destra-conservatrice anche in Europa. “Una decisione tutt’altro che semplice per la leader di FdI, certamente tentata dall’ipotesi di proiettare la sua maggioranza italiana di governo anche nell’emiciclo europeo per ridimensionare il ruolo delle istituzioni Ue”.

Gli scenari ipotizzati da Hix e Cunningham sono molteplici e coinvolgono tutto l’arco parlamentare. Gli esperti non escludono la formazione di un “nuovo gruppo a destra del PPE”, costola dei partiti nazionalisti attualmente al governo nei vari Paesi membri: dai polacchi di Diritto e Giustizia all’ungherese Fidesz di Orban, passando per Fratelli d’Italia, il Rassemblement National di Le Pen, gli olandesi della libertà e gli svedesi democratici. Un raggruppamento di questa portata scalzerebbe subito S&D come seconda forza dell’emiciclo, dando vita a una maggioranza sovranista senza precedenti e ridisegnando l’assetto dell’Europa.

Il bivio

Quello che fino a pochi anni fa sembrava un miraggio, oggi appare una concreta possibilità: i nazionalisti di estrema destra come Le Pen e i conservatori di Orban e Meloni farebbero cartello con l’obiettivo di riportare indietro le lancette dell’integrazione europea. “Potrebbe emergere un nuovo super-gruppo di tutti i partiti governativi di destra”, mettono in guardia Hix e Cunningham con uno scenario da incubo per gli europeisti. In questo caso il baricentro decisionale si sposterebbe ulteriormente, con le destre sovraniste in grado di mettere il bastone tra le ruote al processo di unificazione.

Seppur meno probabile, Simon Hix e Kevin Cunningham non escludono l’eventualità di una formazione a sinistra con posizioni anti-immigrati, con il Movimento 5 Stelle italiano e la tedesca Sahra Wagenknecht che potrebbero aggregarsi ai socialisti dissidenti di Smer per dare vita a un nuovo soggetto politico. Una mina vagante per gli equilibri a sinistra dello schieramento europeista, che finirebbe per disperdere ulteriormente il forte elettorato critico verso l’immigrazione.

Le proiezioni restano comunque semplici stime e il voto popolare del 9 giugno potrebbe ribaltare le previsioni. Ma la tendenza sembra chiara: la destra nazionalista e anti-sistema sta diventando una realtà pesante, con cui i tradizionali partiti europeisti dovranno sempre più confrontarsi nella prossima legislatura. Senza contare che un exploit dei sovranisti metterebbe a rischio anche i poteri e le attribuzioni del Parlamento stesso, con le forze nazionaliste da sempre critiche verso il processo di integrazione. Alla vigilia del voto tutto è ancora in gioco, compresa l’anima e il futuro dell’Unione europea. La partita si gioca sull’asse von der Leyen-Meloni: se prevarrà la linea europeista, l’Ue potrà rimanere unita e coesa. In caso contrario, con la vittoria del fronte anti-europeo guidato da Meloni, Orban e Le Pen, l’Unione potrebbe davvero spaccarsi con conseguenze imprevedibili per l’intero Vecchio Continente.

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Il Pd tra guerra in Ucraina e Patto di stabilità Ue: lo slalom di Schlein tra le anime del partito

“Il partito è unito e compatto attorno al programma. Ringrazio Marco Tarquinio per il contributo che viene a portare e, negli anni in cui il centrosinistra sbandava sulle politiche migratorie, già allora le segnalava. Tante sono le cose che abbiamo in comune, su altre il suo pensiero non corrisponde al programma del Partito democratico. Abbiamo voluto allargare la scelta degli elettori”.

Lo ha detto la segretaria del Pd, Elly Schlein, in un’intervista a Corriere Tv, in vista delle Europee. “Questa campagna vede il Pd più unito e compatto che mai. Abbiamo messo in lista i nostri dirigenti, i nostri amministratori e le figure della società civile che hanno voluto arricchire. Sono molto orgogliosa di questa lista. Il mio mandato è ricostruire un’identità chiara di questo partito”, ha aggiunto.

Armi all’Ucraina: le distanze tra le posizioni nel Pd

I più dolci lo chiamano “pluralismo” ma negare che la trasformazione del Pd che ha in mente la segretaria Schlein sia un percorso accidentato diventa difficile. Qualche giorno fa alla proposta di Tarquinio di superare la Nato per una nuova alleanza europea hanno risposto piccati in molti tra i dem. Il presidente del Copasir Lorenzo Guerini ci ha tenuto a precisare che “di fronte al ritorno delle ambizioni di potenza della Russia, nessuno potrebbe sentirsi più sicuro senza la capacità di deterrenza della Nato”.

Il responsabile Esteri del partito, Peppe Provenzano, ha messo in chiaro: “Com’è noto, Marco Tarquinio è un candidato indipendente, le posizioni sulla politica estera e di sicurezza del Pd le esprime il Pd. E sono chiare e note. Le abbiamo ribadite nel programma per le Europee e, a chi vuole strumentalizzare, ricordo che la questione della Nato la sinistra italiana l’ha risolta con Berlinguer negli anni Settanta”.

Ma contro l’invio di armi non c’è solo il candidato indipendente ex direttore di Avvenire. “L’invio delle armi in Ucraina non ha funzionato. Dopo due anni dall’inizio della guerra, se fosse bastato il sostegno militare e l’invio delle armi, staremmo festeggiando l’Ucraina in pace”, ha detto qualche giorno fa Cecilia Strada, candidata indipendente (e capolista) nelle liste del Pd.

L’europarlamentare uscente (e ricandidata) Pina Picierno ha sconfessato Strada ribadendo la posizione del partito e il senatore Filippo Sensi ha sottolineato come “il Pd abbia sempre votato a favore”. Ed è vero. Nonostante il dibattito interno i voti del Pd in Parlamento sono chiari. La stessa scena l’abbiamo vista a Bruxelles.

Patto di Stabilità Ue: divergenze nel Pd anche su questo fronte

La segretaria Schlein ha contestato il Patto di Stabilità imposto da Bruxelles e ha accusato la presidente del Consiglio Giorgia Meloni di averlo subito senza fiatare. Però quel Patto porta la firma di un dem che conta, Paolo Gentiloni, che per la Commissione europea si occupa proprio di economia.

E qui il cortocircuito ricomincia: Gentiloni difeso strenuamente da una parte del partito (qualcuno lo vorrebbe addirittura come prossimo segretario) e Gentiloni sanguisuga per un altro pezzo. La voce che circola sottovoce è sempre la stessa. Dicono che “la linea della segretaria è sicuramente più vicina alla sensibilità di Cecilia Strada”.

Raccontano che l’evoluzione del partito sia in corso, anche se lenta, anche se poco percettibile. E in effetti non è un segreto che gli eventuali buoni risultati dei candidati direttamente scelti dalla segretaria insieme a una buona percentuale del partito alle prossime elezioni europee potrebbero essere gli elementi che spostano ulteriormente l’asse. Ma allora rimane una domanda su tutte: perché non dirlo ad alta voce?

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Hamdi, deportato da copertina

Tre settimane fa Hamdi, tunisino di 21 anni, era sulle pagine patinate di Io donna del Corriere della Sera. “Parlata romana, sorriso incontenibile e un viaggio incredibile alle spalle. Hamdi ha 21 anni, viene dalla Tunisia e attraverso mille peripezie, letteralmente, è arrivato alla scuola di Fondazione Barilla Saranno cuochi”. Inizia così l’articolo di Erika Riggi che racconta del suo viaggio in barcone da Tunisi, della sua speranza di approdare a una vita migliore, prima che in uno Stato. Tre settimane fa Hamdi era tra i venti ragazzi, provenienti da situazioni socioeconomiche svantaggiate, selezionati da Croce Rossa e Comunità di Sant’Egidio per essere avviati al percorso di formazione di Fondazione Barilla e diventare cuochi. 

Oggi Hamdi è rinchiuso in un Cpr, uno di quei buchi neri illegali e disumani, a Potenza, lontano dalla rete sociale che si è costruito in questi anni. Lo fa sapere Baobab Experience, associazione dedita alla compassione in un’epoca di empietà, che spiega come Hamdi da due anni è in attesa di ricevere risposta alla sua domanda di conversione del permesso di soggiorno per attesa di occupazione in permesso di soggiorno per lavoro subordinato. Sì, perché Hamdi ha un lavoro, lavora da anni, perfino con la maturità di evitare lo sfruttamento pretendendo un contratto regolare. 

Perché l’abbiano spedito a Potenza e non a Roma è difficile da capire. Oggi si tiene l’udienza di convalida e Hamdi – come tutti i rinchiusi nei Car – non ha potuto nemmeno parlare con un avvocato. 

La “pericolosità sociale” del ragazzo consiste nell’aver rubato un cappotto quando diciottenne la casa famiglia che lo ospitava l’ha buttato in mezzo a una strada in pieno inverno. La Questura l’ha deciso violando l’articolo 5 del Testo unico sull’immigrazione, omettendo di trasmettere gli atti alla Commissione territoriale. Hamdi è abbastanza italiano per lavorare e avere una rete sociale e finire sulle pagine di un settimanale ma è troppo poco italiano per i rapporti criminali tra l’Italia e la Tunisia di Kaïs Saïed. 

Buon venerdì. 

Foto da pagina fb Baobab Experience

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Da Soros al burqa di sinistra. Salvini torna al passato

Non so se avete notato che il ministro dei Trasporti nonché leader della Lega Matteo Salvini negli ultimi giorni ha trovato come unica via per veicolare idee nuove quella di rispolverare le idee vecchie. C’è un piccolo e non trascurabile problema: le manfrine proposte da Salvini sono le stesse con cui nel 2019 galoppava in campagna elettorale per le elezioni Ue prima di collezionare un risultato impossibile da ripetere.

Salvini negli ultimi giorni ha trovato come unica via per veicolare idee nuove quella di rispolverare le idee vecchie

Un estratto del nuovo Salvini fotocopia di quello vecchio lo ritrovate nella sua ospitata alla trasmissione di Lilli Gruber su La7 in cui ha resuscitato perfino Soros che “finanzia le Ong che aiutano l’immigrazione clandestina”, roba che non si sentiva da anni e che oggi aleggia solo tra i sostenitori delle scie chimiche. Sfugge a Salvini che su quella frase, da ministro e vice presidente del Consiglio in carica, potrebbe tranquillamente chiamare il suo collega ministro Piantedosi per approntare una dettagliata denuncia internazionale. Obnubilato dal suo revanscismo Salvini continua anche a ripetere che la sinistra “vuole il modello della donna col burqa”.

Chi ci sia a sinistra che propone il burqa per le donne è impossibile da sapere visto che le poche volte che qualche giornalista gliel’ha chiesto (come ha fatto Lilli Gruber) Salvini ha sviato parlando d’altro. Infine c’è l’invasione, quella che Meloni voleva interrompere chiudendo i porti e che oggi imbelletta con il fondotinta albanese. È la stessa propaganda di anni fa, identica, ripetuta a pappagallo con l’illusione che il mondo là fuori sia sempre lo stesso. Solo che i cavalli di battaglia appaiono terribilmente stanchi, quasi pronti all’abdicazione.

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Avanza l’onda nera in Europa. L’allarme di Politico: “Cresce la destra radicale”

L’Europa si trova sull’orlo di un cambiamento epocale. L’ascesa galoppante dell’estrema destra nei vari paesi del Vecchio Continente rischia di riscrivere il futuro delle istituzioni comunitarie e dei delicati equilibri che hanno retto per decenni. A lanciare l’allarme è Politico, autorevole fonte di analisi e approfondimento sulle dinamiche politiche a Bruxelles e oltre.

In tutta Europa, ci avverte, “la destra radicale è in aumento”. Le prossime elezioni del Parlamento Europeo, in programma la settimana prossima, potrebbero rappresentare il punto di non ritorno, con percentuali di consenso mai viste prima per questa galassia di partiti populisti, nazionalisti, xenofobi. In Francia, il partito di estrema destra Rassemblement National viene dato in forte ascesa, con un terzo dei voti e il doppio dei consensi rispetto al partito di Macron. In Germania, nonostante gli scandali, l’ultranazionalista AfD potrebbe piazzarsi al secondo posto, superando alcuni partiti della coalizione di governo. E in Italia, la destra sovranista di Giorgia Meloni continua a galoppare, staccando nettamente gli inseguitori.

Scenari simili si profilano in molti altri paesi membri, tanto che, secondo le previsioni, il prossimo Parlamento Europeo potrebbe vedere un numero senza precedenti di eurodeputati di estrema destra, superiore persino a quello del Partito Popolare Europeo, storica forza moderata dominante. Un vero e proprio terremoto politico, paragonato al sisma provocato dall’elezione di Trump nel 2016. E con effetti dirompenti sulla politica nazionale dei singoli stati.

Politico lancia l’allarme sull’avanzata dei partiti populisti e di estrema destra in Ue

Cosa c’è dietro questo dilagare dell’onda nera Secondo Politico, diversi fattori concomitanti. C’è innanzitutto la crisi dell’immigrazione, con l’ostilità montante verso i migranti, specie se musulmani. Ma anche il crescente scetticismo verso le istituzioni sovranazionali come l’Ue, viste come una minaccia per la sovranità dei singoli stati-nazione. Una tendenza, questa, aggravata dalla pandemia e dalla crisi economica. Non stupisce che molti vedano nella destra radicale l’unica alternativa percorribile.

Gli scenari sono agghiaccianti. Basti pensare a un’eventuale vittoria del Rassemblement National alle prossime presidenziali francesi del 2027: Marine Le Pen potrebbe davvero far uscire la Francia dal comando integrato della NATO e svuotare l’Ue di molti dei suoi poteri, avviando un processo di disgregazione difficilmente reversibile.

La vera preoccupazione, però, riguarda la tenuta stessa della democrazia liberale di fronte all’avanzata di movimenti populisti ed estremisti. Emblematico il caso dell’Ungheria di Orban, dove il governo è accusato di aver minato la magistratura, eroso la libertà di stampa e manipolato il sistema elettorale. Sulla stessa, pericolosa china, sembrerebbe avviarsi – secondo Politico anche l’Italia, “con proposte di riforma in senso presidenzialista e riduzione dei poteri di controllo sugli esecutivi”.

In un contesto simile, investire nei “pannolini”, come suggeriva ironicamente il politico di estrema destra tedesco Oliver Kirchner, rischia di essere fin troppo poco. Perché quello che i partiti democratici dovrebbero davvero temere, di fronte all’avanzata inesorabile dell’”onda nera”, è la dissoluzione stessa di quei principi liberali sui quali si fonda l’intera architettura politica e istituzionale del Vecchio Continente. Un rischio da non sottovalutare, insomma, se non si vuole che le avvisaglie distopiche di oggi diventino un’agghiacciante realtà domani.

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Csm, punito il giudice Sirianni per l’amicizia con Mimmo Lucano

“Ieri Palazzo dei Marescialli ha scritto una brutta pagina di una storia sbagliata e si assume il rischio di riportare la magistratura indietro di sessant’anni, prima del disgelo costituzionale”. Commenta così in una nota Magistratura democratica la punizione del Csm inflitta al giudice calabrese Emilio Sirianni, colpevole di avere dato consigli al di fuori delle sue funzioni al suo amico Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace martoriato da un processo cavalcato dalla politica e finito con un buco nell’acqua per i suoi accusatori. 

Già lo scorso anno Sirianni non era stato confermato presidente della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Catanzaro. Ieri con 15 voti a favore, 14 contrari e due astenuti, il plenum dell’organo di autogoverno ha negato alla toga – espressione della corrente progressista di Magistratura democratica – il superamento della settima valutazione di professionalità, bloccando così il suo avanzamento di carriera e di stipendio.

Il Csm punisce il giudice Sirianni

L’amicizia tra Sirianni e Lucano è emersa grazie ad attività di intercettazione telefonica a cui era sottoposto l’ex sindaco di Riace. In quelle conversazioni il giudice offriva all’amico consigli per la sua attività a supporto dei migranti, il suo conforto morale, la sua promessa di impegnarsi per promuovere un movimento di opinione a suo favore. Tutte condotte attive di Sirianni (al di fuori della sua funzione di giudice) nei confronti di Lucano antecedenti alla notizia che il sindaco fosse indagato. 

Come ricorda Magistratura democratica per questi fatti Emilio Sirianni è stato sottoposto a un procedimento penale (archiviato); un procedimento volto ad accertare l’eventuale incompatibilità ambientale ad esercitare le funzioni nel distretto di Catanzaro archiviato per insussistenza dei presupposti; un procedimento disciplinare definito con assoluzione. Md sottolinea anche che Sirianni non sia un giudice penale, non ha ‘avvicinato’ i magistrati che si occupavano del caso di Domenico Lucano, ha espresso parole di disistima verso un collega (l’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri) “nell’ambito di una conversazione privata con un amico e destinata a restare privata, quantomeno nelle intenzioni degli interlocutori”. 

Magistratura democratica: “un pericoloso precedente”

Soprattutto per Magistratura democratica Sirianni “allorché si è attivato a promuovere un movimento di opinione favorevole all’attività di Domenico Lucano, ha esercitato una libertà costituzionale (e forse più d’una: diritto di manifestazione del pensiero; diritto di critica; diritto di partecipazione alla vita democratica, e via di seguito). La decisione del Csm è allarmante. Lo è per più di una ragione che riguarda tutti i magistrati italiani. Si tratta di una valutazione di professionalità che omette di valutare il lavoro giudiziario, a partire dalla qualità dei provvedimenti per finire alla capacità organizzativa, per concentrarsi sulla vita privata del magistrato. È stato attribuito rilievo a conversazioni private e tali destinate a restare, che in nessun modo hanno interferito con le indagini in corso, né con l’attività professionale di Emilio Sirianni la cui rilevanza esterna, peraltro, era stata esclusa dalle Sezioni Unite in sede disciplinare”.

Per Md si tratta di “un precedente pericoloso per tutti i magistrati italiani, che rischiano di essere bloccati nelle progressioni di carriera per le loro scelte di vita privata e non per il vaglio negativo dell’attività che svolgono nell’aula”.

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Programmi a confronto, la crisi in Medioriente vista dai partiti italiani

Dopo settant’anni di conflitto, la questione israelo-palestinese è ancora un nodo irrisolto sulla scacchiera internazionale. La spirale di morte e violenza che costantemente alimentano un tossico tifo da stadio impediscono di trovare una soluzione duratura e accettabile per entrambe le parti.

Analisi delle proposte dei partiti italiani sul conflitto in Medioriente in vista del voto europeo. Idee diverse per arrivare alla pace

La recente invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano in risposta all’eccidio di Hamas dello scorso 7 ottobre e il mostruoso numero di morti civili in nome della lotta al terrorismo rimbalzano inevitabilmente anche sulla campagna elettorale per le elezioni europee. I partiti italiani hanno così dovuto delineare le proprie proposte, in vista di un auspicato rinnovato impegno dell’Unione europea per cercare di sbrogliare questa intricata matassa mediorientale. Il quadro che emerge è variegato, specchio fedele delle diverse anime che compongono l’arco parlamentare italiano. Un caleidoscopio di posizioni che riflette la complessità stessa del conflitto israelo-palestinese, dove trovare un punto di equilibrio appare impresa sempre più ardua.

Fratelli d’Italia e Forza Italia

Da una parte, alcuni partiti ribadiscono il tradizionale sostegno all’alleato israeliano, pur auspicando il ritorno a una soluzione negoziale. È il caso di Fratelli d’Italia, impegnata a “perseguire il principio due popoli, due Stati”. Formula ormai logora ma ancora unico approdo percepito come possibile. Sulla stessa lunghezza d’onda Forza Italia, che conferma di stare “al fianco di Israele, presidio democratico, nella ricerca di una giusta pace”.

L’avvertimento di Pd e M5S

Come sottolinea Pagella politica è parzialmente diverso l’approccio del Partito democratico, che pur non disconoscendo le ragioni della sicurezza israeliana, ammonisce: “L’Europa non può accettare che la reazione si trasformi in punizione collettiva del popolo palestinese”. Parole pesanti, figlie di una nuova linea che punta apertissimamente al “riconoscimento europeo di uno Stato palestinese”, visto ormai come tappa obbligata per rimettere in carreggiata il processo di pace.

Un’istanza, quella del riconoscimento, reclamata con forza anche dal Movimento 5 Stelle, che va oltre: “L’occupazione della Palestina è illegale, l’Ue deve combatterla anche mettendo in discussione l’accordo di associazione Ue-Israele del 1995”. Parole nette che difficilmente lasceranno indifferenti le diplomazie dei due campi. I 5 Stelle si spingono persino a ipotizzare contromisure economiche nei confronti di Israele, mentre ribadiscono la tesi della “soluzione dei due popoli, due Stati”.

La richiesta di Avs e la proposta di Santoro

Su una posizione più oltranzista si attesta invece l’Alleanza Verdi-Sinistra, che chiede l’immediata “sospensione dell’accordo di associazione” con Israele, oltre a “sanzioni commisurate” e il blocco delle forniture militari. Una linea decisamente più dura, che sembra non ammettere compromessi nell’immediato: l’urgenza è “un cessate il fuoco e la costruzione delle condizioni per una pace duratura”.

Più articolata la proposta di Pace Terra Dignità, la lista di Michele Santoro che punta sul pacifismo come tema centrale della sua campagna elettorale. Il partito condanna gli orrori di Gaza e conferma il diritto d’Israele a vivere in pace, ma al contempo denuncia gli eccessi della risposta militare e “il massacro in corso di donne e bambini”. La soluzione dei due Stati appare ormai “difficilmente praticabile” e si invoca la convivenza, pur nel rispetto dell’identità dei due popoli, in un’unica Terra, ribadendo il “diritto al ritorno” dei palestinesi. Una strada innovativa ma certamente impervia.

Ma non solo: c’è chi si defila e chi è fuori dal coro

Eppure, in questo frastagliato panorama di proposte, qualcuno preferisce mantenere un profilo più defilato. È il caso della Lega e di Azione, che nei loro programmi non menzionano il conflitto israelo-palestinese, come a riconoscerne l’intrinseca, bruciante complessità. Una posizione di prudente disimpegno in prima battuta, quasi a voler stemperare i toni. Gli Stati Uniti d’Europa, a trazione Italia Viva-Più Europa, immaginano invece una soluzione più “istituzionale”, puntando alla nomina di un “leader politico come inviato speciale Ue” per favorire il negoziato.

Nel turbinio di posizioni, Libertà, la lista di Cateno De Luca, esce platealmente dal coro delle proposte di parte e si rifugia in un appello semplicistico: “Un accordo di pace per fermare la strage di vite umane”. Un caleidoscopio di soluzioni e distinguo, che riflette la complessità – negata da alcuni commentatori – di una crisi senza eguali sulla scena mondiale. Un conflitto che non è iniziato oggi ma che per oltre settant’anni ha continuato a mietere vittime, tra feroci spirali di odio e vendetta, logorando lentamente la speranza di una risoluzione pacifica.
Intanto il NY Times scrive che Israele ha organizzato e pagato lo scorso anno una campagna di influenza con messaggi pro-Israele indirizzati a legislatori e il pubblico americani per promuovere il sostegno alla guerra a Gaza. Il governo di Netanyahu attraverso il ministero israeliano per gli Affari della Diaspora avrebbe stanziato 2 milioni di dollari. La campagna, iniziata a ottobre, sarebbe ancora attiva su X e, nel tempo, avrebbe utilizzato, per veicolare messaggi pro-Israele, account fake su X, Facebook e Instagram. Le parole contano in guerra e la propaganda ancora di più.

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La fame dei bambini nel mondo e l’apocalisse a Gaza

Sembra un’apocalisse biblica la fotografia scattata dall’Unicef sulla povertà alimentare infantile nel mondo. Un bambino su quattro, 181 milioni, vive in una condizione definita di “grave povertà alimentare”. Tradotto: questi bimbi non hanno abbastanza da mangiare, il loro piatto è troppo vuoto per garantirne la crescita fisica e cerebrale se non addirittura la sopravvivenza. Nella migliore delle ipotesi rimarranno con conseguenze permanenti sulla salute e lo sviluppo fisico e mentale. “I bambini in grave povertà alimentare sono in bilico tra la vita e la morte. È una realtà per milioni di loro e può avere un impatto negativo irreversibile”, ammonisce Catherine Russell, direttrice generale dell’Unicef. Il rischio di incappare in gravi forme di denutrizione è fino al 50% maggiore per chi si nutre solo di riso e un po’ di latte al giorno. Cibi che non bastano a una corretta crescita.

L’Unicef e la fame nel mondo: un bambino su quattro vive in una condizione di “grave povertà alimentare”

Un’emergenza planetaria messa a nudo da questa nuova indagine mentre il mondo fa i conti con le conseguenze socioeconomiche della pandemia di Covid-19 e con il caro-vita innescato da diseguaglianze, conflitti e crisi climatica. I prezzi dei beni di prima necessità come il cibo sono schizzati alle stelle in ogni angolo del pianeta. Una carestia moderna che miete più vittime invisibili nelle aree più disagiate e martoriate del globo. Il 65% degli affamati dell’infanzia vive in soli venti paesi: 64 milioni in Asia meridionale, 59 milioni nell’Africa sub-sahariana. Qui i campi sono arsi dalla siccità, i raccolti distrutti dalle locuste e dagli sconvolgimenti ambientali. Gli orrori della guerra poi raschiano il fondo del barile. In Somalia, dilaniata da siccità e conflitti, il 63% dei bambini è denutrito in modo grave. Nell’80% dei casi è capitato che non potessero mangiare per un’intera giornata. Nelle aree più vulnerabili, dunque, la fame nera diventa totale e abissale.

Ma c’è un inferno dantesco che oscura tutti gli altri in termini di devastazione alimentare: la Striscia di Gaza. In questa terra di nessuno, prigione a cielo aperto assediata e stremata dagli eserciti di Israele, mesi di combattimenti senza sosta e blocchi agli aiuti umanitari hanno fatto collassare il sistema alimentare e sanitario per i civili. I dati raccolti descrivono un disastro senza precedenti. Le conseguenze per i bambini sono tragiche, “catastrofiche” per usare il termine crudo dell’Unicef. Da queste parti diventa difficile perfino coltivare la speranza. Cinque diverse rilevazioni effettuate tra dicembre 2023 e aprile 2024 hanno registrato uno scenario apocalittico: 9 bambini su 10 vivono in condizioni di gravissima povertà alimentare, sopravvivendo a stento con solo due o meno gruppi di alimenti al giorno. 

L’inferno di Gaza, tomba a cielo aperto

I combattimenti hanno distrutto campi coltivati, lasciato il bestiame allo stremo, decimato le flotte di pescherecci e danneggiato strutture per la lavorazione e lo stoccaggio del cibo. E con l’assedio israeliano che blocca l’afflusso degli aiuti umanitari, milioni di persone sono state private dell’ultima ancora di salvezza. Privarle del cibo, il crimine più atroce. In questo supplizio antico dell’assedio, la popolazione civile è usata come scudo umano dai miliziani di Hamas per difendere i propri arsenali. Ma a pagare il prezzo più salato sono ancora una volta i bambini, le prime vittime innocenti. Per loro Gaza è una tomba a cielo aperto, un mattatoio di vite prematuramente spezzate dallo strapotere della malnutrizione.

Un crimine contro l’umanità perpetrato non con le armi ma con il ricatto del cibo negato. L’Unicef chiede di attivare la macchina degli aiuti umanitari, sbloccare i corridoi per far arrivare viveri e soccorsi. Ma è una goccia innocua contro il muro dell’indifferenza globale. La Storia ci giudicherà per questo scempio.

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