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Csm, punito il giudice Sirianni per l’amicizia con Mimmo Lucano

“Ieri Palazzo dei Marescialli ha scritto una brutta pagina di una storia sbagliata e si assume il rischio di riportare la magistratura indietro di sessant’anni, prima del disgelo costituzionale”. Commenta così in una nota Magistratura democratica la punizione del Csm inflitta al giudice calabrese Emilio Sirianni, colpevole di avere dato consigli al di fuori delle sue funzioni al suo amico Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace martoriato da un processo cavalcato dalla politica e finito con un buco nell’acqua per i suoi accusatori. 

Già lo scorso anno Sirianni non era stato confermato presidente della Sezione Lavoro della Corte d’Appello di Catanzaro. Ieri con 15 voti a favore, 14 contrari e due astenuti, il plenum dell’organo di autogoverno ha negato alla toga – espressione della corrente progressista di Magistratura democratica – il superamento della settima valutazione di professionalità, bloccando così il suo avanzamento di carriera e di stipendio.

Il Csm punisce il giudice Sirianni

L’amicizia tra Sirianni e Lucano è emersa grazie ad attività di intercettazione telefonica a cui era sottoposto l’ex sindaco di Riace. In quelle conversazioni il giudice offriva all’amico consigli per la sua attività a supporto dei migranti, il suo conforto morale, la sua promessa di impegnarsi per promuovere un movimento di opinione a suo favore. Tutte condotte attive di Sirianni (al di fuori della sua funzione di giudice) nei confronti di Lucano antecedenti alla notizia che il sindaco fosse indagato. 

Come ricorda Magistratura democratica per questi fatti Emilio Sirianni è stato sottoposto a un procedimento penale (archiviato); un procedimento volto ad accertare l’eventuale incompatibilità ambientale ad esercitare le funzioni nel distretto di Catanzaro archiviato per insussistenza dei presupposti; un procedimento disciplinare definito con assoluzione. Md sottolinea anche che Sirianni non sia un giudice penale, non ha ‘avvicinato’ i magistrati che si occupavano del caso di Domenico Lucano, ha espresso parole di disistima verso un collega (l’ex procuratore capo di Catanzaro Nicola Gratteri) “nell’ambito di una conversazione privata con un amico e destinata a restare privata, quantomeno nelle intenzioni degli interlocutori”. 

Magistratura democratica: “un pericoloso precedente”

Soprattutto per Magistratura democratica Sirianni “allorché si è attivato a promuovere un movimento di opinione favorevole all’attività di Domenico Lucano, ha esercitato una libertà costituzionale (e forse più d’una: diritto di manifestazione del pensiero; diritto di critica; diritto di partecipazione alla vita democratica, e via di seguito). La decisione del Csm è allarmante. Lo è per più di una ragione che riguarda tutti i magistrati italiani. Si tratta di una valutazione di professionalità che omette di valutare il lavoro giudiziario, a partire dalla qualità dei provvedimenti per finire alla capacità organizzativa, per concentrarsi sulla vita privata del magistrato. È stato attribuito rilievo a conversazioni private e tali destinate a restare, che in nessun modo hanno interferito con le indagini in corso, né con l’attività professionale di Emilio Sirianni la cui rilevanza esterna, peraltro, era stata esclusa dalle Sezioni Unite in sede disciplinare”.

Per Md si tratta di “un precedente pericoloso per tutti i magistrati italiani, che rischiano di essere bloccati nelle progressioni di carriera per le loro scelte di vita privata e non per il vaglio negativo dell’attività che svolgono nell’aula”.

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Programmi a confronto, la crisi in Medioriente vista dai partiti italiani

Dopo settant’anni di conflitto, la questione israelo-palestinese è ancora un nodo irrisolto sulla scacchiera internazionale. La spirale di morte e violenza che costantemente alimentano un tossico tifo da stadio impediscono di trovare una soluzione duratura e accettabile per entrambe le parti.

Analisi delle proposte dei partiti italiani sul conflitto in Medioriente in vista del voto europeo. Idee diverse per arrivare alla pace

La recente invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano in risposta all’eccidio di Hamas dello scorso 7 ottobre e il mostruoso numero di morti civili in nome della lotta al terrorismo rimbalzano inevitabilmente anche sulla campagna elettorale per le elezioni europee. I partiti italiani hanno così dovuto delineare le proprie proposte, in vista di un auspicato rinnovato impegno dell’Unione europea per cercare di sbrogliare questa intricata matassa mediorientale. Il quadro che emerge è variegato, specchio fedele delle diverse anime che compongono l’arco parlamentare italiano. Un caleidoscopio di posizioni che riflette la complessità stessa del conflitto israelo-palestinese, dove trovare un punto di equilibrio appare impresa sempre più ardua.

Fratelli d’Italia e Forza Italia

Da una parte, alcuni partiti ribadiscono il tradizionale sostegno all’alleato israeliano, pur auspicando il ritorno a una soluzione negoziale. È il caso di Fratelli d’Italia, impegnata a “perseguire il principio due popoli, due Stati”. Formula ormai logora ma ancora unico approdo percepito come possibile. Sulla stessa lunghezza d’onda Forza Italia, che conferma di stare “al fianco di Israele, presidio democratico, nella ricerca di una giusta pace”.

L’avvertimento di Pd e M5S

Come sottolinea Pagella politica è parzialmente diverso l’approccio del Partito democratico, che pur non disconoscendo le ragioni della sicurezza israeliana, ammonisce: “L’Europa non può accettare che la reazione si trasformi in punizione collettiva del popolo palestinese”. Parole pesanti, figlie di una nuova linea che punta apertissimamente al “riconoscimento europeo di uno Stato palestinese”, visto ormai come tappa obbligata per rimettere in carreggiata il processo di pace.

Un’istanza, quella del riconoscimento, reclamata con forza anche dal Movimento 5 Stelle, che va oltre: “L’occupazione della Palestina è illegale, l’Ue deve combatterla anche mettendo in discussione l’accordo di associazione Ue-Israele del 1995”. Parole nette che difficilmente lasceranno indifferenti le diplomazie dei due campi. I 5 Stelle si spingono persino a ipotizzare contromisure economiche nei confronti di Israele, mentre ribadiscono la tesi della “soluzione dei due popoli, due Stati”.

La richiesta di Avs e la proposta di Santoro

Su una posizione più oltranzista si attesta invece l’Alleanza Verdi-Sinistra, che chiede l’immediata “sospensione dell’accordo di associazione” con Israele, oltre a “sanzioni commisurate” e il blocco delle forniture militari. Una linea decisamente più dura, che sembra non ammettere compromessi nell’immediato: l’urgenza è “un cessate il fuoco e la costruzione delle condizioni per una pace duratura”.

Più articolata la proposta di Pace Terra Dignità, la lista di Michele Santoro che punta sul pacifismo come tema centrale della sua campagna elettorale. Il partito condanna gli orrori di Gaza e conferma il diritto d’Israele a vivere in pace, ma al contempo denuncia gli eccessi della risposta militare e “il massacro in corso di donne e bambini”. La soluzione dei due Stati appare ormai “difficilmente praticabile” e si invoca la convivenza, pur nel rispetto dell’identità dei due popoli, in un’unica Terra, ribadendo il “diritto al ritorno” dei palestinesi. Una strada innovativa ma certamente impervia.

Ma non solo: c’è chi si defila e chi è fuori dal coro

Eppure, in questo frastagliato panorama di proposte, qualcuno preferisce mantenere un profilo più defilato. È il caso della Lega e di Azione, che nei loro programmi non menzionano il conflitto israelo-palestinese, come a riconoscerne l’intrinseca, bruciante complessità. Una posizione di prudente disimpegno in prima battuta, quasi a voler stemperare i toni. Gli Stati Uniti d’Europa, a trazione Italia Viva-Più Europa, immaginano invece una soluzione più “istituzionale”, puntando alla nomina di un “leader politico come inviato speciale Ue” per favorire il negoziato.

Nel turbinio di posizioni, Libertà, la lista di Cateno De Luca, esce platealmente dal coro delle proposte di parte e si rifugia in un appello semplicistico: “Un accordo di pace per fermare la strage di vite umane”. Un caleidoscopio di soluzioni e distinguo, che riflette la complessità – negata da alcuni commentatori – di una crisi senza eguali sulla scena mondiale. Un conflitto che non è iniziato oggi ma che per oltre settant’anni ha continuato a mietere vittime, tra feroci spirali di odio e vendetta, logorando lentamente la speranza di una risoluzione pacifica.
Intanto il NY Times scrive che Israele ha organizzato e pagato lo scorso anno una campagna di influenza con messaggi pro-Israele indirizzati a legislatori e il pubblico americani per promuovere il sostegno alla guerra a Gaza. Il governo di Netanyahu attraverso il ministero israeliano per gli Affari della Diaspora avrebbe stanziato 2 milioni di dollari. La campagna, iniziata a ottobre, sarebbe ancora attiva su X e, nel tempo, avrebbe utilizzato, per veicolare messaggi pro-Israele, account fake su X, Facebook e Instagram. Le parole contano in guerra e la propaganda ancora di più.

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La fame dei bambini nel mondo e l’apocalisse a Gaza

Sembra un’apocalisse biblica la fotografia scattata dall’Unicef sulla povertà alimentare infantile nel mondo. Un bambino su quattro, 181 milioni, vive in una condizione definita di “grave povertà alimentare”. Tradotto: questi bimbi non hanno abbastanza da mangiare, il loro piatto è troppo vuoto per garantirne la crescita fisica e cerebrale se non addirittura la sopravvivenza. Nella migliore delle ipotesi rimarranno con conseguenze permanenti sulla salute e lo sviluppo fisico e mentale. “I bambini in grave povertà alimentare sono in bilico tra la vita e la morte. È una realtà per milioni di loro e può avere un impatto negativo irreversibile”, ammonisce Catherine Russell, direttrice generale dell’Unicef. Il rischio di incappare in gravi forme di denutrizione è fino al 50% maggiore per chi si nutre solo di riso e un po’ di latte al giorno. Cibi che non bastano a una corretta crescita.

L’Unicef e la fame nel mondo: un bambino su quattro vive in una condizione di “grave povertà alimentare”

Un’emergenza planetaria messa a nudo da questa nuova indagine mentre il mondo fa i conti con le conseguenze socioeconomiche della pandemia di Covid-19 e con il caro-vita innescato da diseguaglianze, conflitti e crisi climatica. I prezzi dei beni di prima necessità come il cibo sono schizzati alle stelle in ogni angolo del pianeta. Una carestia moderna che miete più vittime invisibili nelle aree più disagiate e martoriate del globo. Il 65% degli affamati dell’infanzia vive in soli venti paesi: 64 milioni in Asia meridionale, 59 milioni nell’Africa sub-sahariana. Qui i campi sono arsi dalla siccità, i raccolti distrutti dalle locuste e dagli sconvolgimenti ambientali. Gli orrori della guerra poi raschiano il fondo del barile. In Somalia, dilaniata da siccità e conflitti, il 63% dei bambini è denutrito in modo grave. Nell’80% dei casi è capitato che non potessero mangiare per un’intera giornata. Nelle aree più vulnerabili, dunque, la fame nera diventa totale e abissale.

Ma c’è un inferno dantesco che oscura tutti gli altri in termini di devastazione alimentare: la Striscia di Gaza. In questa terra di nessuno, prigione a cielo aperto assediata e stremata dagli eserciti di Israele, mesi di combattimenti senza sosta e blocchi agli aiuti umanitari hanno fatto collassare il sistema alimentare e sanitario per i civili. I dati raccolti descrivono un disastro senza precedenti. Le conseguenze per i bambini sono tragiche, “catastrofiche” per usare il termine crudo dell’Unicef. Da queste parti diventa difficile perfino coltivare la speranza. Cinque diverse rilevazioni effettuate tra dicembre 2023 e aprile 2024 hanno registrato uno scenario apocalittico: 9 bambini su 10 vivono in condizioni di gravissima povertà alimentare, sopravvivendo a stento con solo due o meno gruppi di alimenti al giorno. 

L’inferno di Gaza, tomba a cielo aperto

I combattimenti hanno distrutto campi coltivati, lasciato il bestiame allo stremo, decimato le flotte di pescherecci e danneggiato strutture per la lavorazione e lo stoccaggio del cibo. E con l’assedio israeliano che blocca l’afflusso degli aiuti umanitari, milioni di persone sono state private dell’ultima ancora di salvezza. Privarle del cibo, il crimine più atroce. In questo supplizio antico dell’assedio, la popolazione civile è usata come scudo umano dai miliziani di Hamas per difendere i propri arsenali. Ma a pagare il prezzo più salato sono ancora una volta i bambini, le prime vittime innocenti. Per loro Gaza è una tomba a cielo aperto, un mattatoio di vite prematuramente spezzate dallo strapotere della malnutrizione.

Un crimine contro l’umanità perpetrato non con le armi ma con il ricatto del cibo negato. L’Unicef chiede di attivare la macchina degli aiuti umanitari, sbloccare i corridoi per far arrivare viveri e soccorsi. Ma è una goccia innocua contro il muro dell’indifferenza globale. La Storia ci giudicherà per questo scempio.

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Eccola, l’Albania

Ha ragione da vendere Riccardo Magi, deputato di +Europa strattonato e schernito dalla polizia albanese, quando prova a spiegare che se si finisce per prenderle di fronte alle telecamere e da deputato significa che la matrice diventerà ancora più violenta quando si tratterà di qualche disperato salvato in mare e versato in Albania. 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni del resto ha dismesso i panni della leader di governo per diventare leader di partito e tirare la volata a Fratelli d’Italia nelle ultime ore di campagna elettorale. Così la conferenza stampa per celebrare la deportazione è diventata un esercizio di ciò che a Meloni viene meglio: stare al governo opponendosi all’opposizione. La conferenza stampa con il premier albanese Edi Rama è una scenetta anni Ottanta, mancavano solo le Timberland e i paninari. Il primo ministro albanese ci tiene a dirci che «la mafia non esiste» e che la colpa è tutta dei giornalisti italiani, resuscitando un’iconografia del negazionismo che nel nostro Paese ci riporta agli anni bui. Meloni si inerpica in una inefficace giustificazione della deportazione albanese in nome del risparmio, con in tasca un assegno di un miliardo di euro (avrebbero dovuto essere 670) per pagare l’hotspot elettorale. Lei dice che sono tutte leggi dell’Ue. Falsissimo: qui in Albania siamo fuori dall’Ue. Il 15 novembre scorso, la commissaria per gli Affari interni Ue, Ylva Johansson, ha detto chiaro e tondo che l’accordo tra Italia e Albania, «non viola il diritto dell’Ue» perché «è al di fuori del diritto Ue».

E mentre in Albania la mafia non esiste qui da noi la presidente del Consiglio denuncia la mafia infiltrata nel decreto flussi (ben svegliata!) sbagliando il verso di lettura. La colpa sarebbe dei migranti, ovviamente, mica dello sfruttamento.

Buon giovedì. 

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A proposito di donne e di Rinascimento arabo

Da qualche tempo dalle nostre parti gira una voce, parecchio interessata, che dipinge l’Arabia Saudita come capitale del Rinascimento arabo. A sostegno di questa strampalata idea si dice che le donne dalle parti di bin Salman si starebbero occidentalizzando (qualsiasi cosa significhi questo paternalistico aggettivo applicato agli altri) e la frase più ripetuta è che “addirittura guidano”. 

Manahel al-Otaibi ha 29 anni, è un’istruttrice di fitness e da anni è anche un’attivista per i diritti delle donne. Il 9 gennaio 2024 è stata condannata a 11 anni di carcere per “reati di terrorismo” in un processo segreto. Era stata arrestata due anni prima e accusata di aver violato la legge contro i reati informatici. Le prove dei suoi “crimini” erano dei tweet a sostegno dei diritti delle donne e delle sue foto su Snapchat mentre era al centro commerciale senza l’abaya, la tunica tradizionale che devono usare le donne saudite per coprirsi il corpo. Manahel al-Otaibi è stata sottoposta a sparizione forzata tra il 5 novembre 2023 e il 14 aprile 2024, giorno in cui ha finalmente potuto contattare la sua famiglia e raccontare di essere stata tenuta in isolamento nella prigione di al-Malaz, di essersi rotta una gamba dopo essere stata brutalmente picchiata mentre era in custodia e di non avere accesso a cure mediche.

Secondo i documenti del tribunale esaminati da Amnesty International, Manahel al-Otaibi è stata accusata di “pubblicare e diffondere contenuti che riguardano la commissione di peccati pubblici, l’incitamento di individui e ragazze della società a rinunciare ai principi religiosi e ai valori sociali e a violare l’ordine pubblico e la morale pubblica sul suo account Twitter”. 

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Sorpasso di Mediaset sulla Rai targata Meloni, ma Viale Mazzini contesta i dati

È il trionfo di Piersilvio Berlusconi ma soprattutto è l’ennesima umiliazione per la tv pubblica plasmata dal governo sovranista. I dati di ascolto della stagione che si conclude sono impietosi: Mediaset ha staccato la Rai diventando il primo editore televisivo per ascolto medio in Italia con il 40,8% di share. Un sorpasso epocale, segno di un cambio di stagione. La dittatura dell’auditel consegna una verità: gli italiani hanno scelto i contenitori berlusconiani a discapito di una Rai ostaggio della politica.

Una Rai che sotto le insegne della nuova TeleMeloni ha visto programmi iconici traslocare altrove. E persino i canali tematici, un tempo fiore all’occhiello del pluralismo, arrancano. In questo scenario desolante, la fuga del pubblico è stata inevitabile. Le reti berlusconiane hanno raccolto i cocci. Non stupisce quindi che l’obiettivo primario di Mediaset – ovvero superare la Rai – sia stato finalmente raggiunto. Un traguardo quasi impensabile fino a qualche mese fa.

Mediaset sorpassa la Rai: missione compiuta

Normale, allora, che Pier Silvio Berlusconi annunci lo storico risultato con toni trionfalistici: “Il distacco ci dà un vantaggio commerciale non da poco”. Non si tratta solo dell’orgoglio del rampollo che supera il padre al timone dell’azienda di famiglia, ma della constatazione secca di una nuova supremazia televisiva ottenuta sul campo.

I dati parlano da soli: la Rai langue sotto il 40% di share nonostante i suoi fondi pubblici (il canone pagato dai cittadini), mentre Mediaset si è finalmente issata al comando. Un primato tutt’altro che simbolico visto che la filiera dei ricavi pubblicitari premia inevitabilmente i numeri e punisce le performance deludenti. La vittoria negli ascolti di Mediaset si tradurrà presto anche in maggiori introiti e prospettive economiche, a discapito della tv pubblica che rischia di vedere ulteriormente falcidiate le risorse a disposizione.

Stizzita replica della Rai: nei primi cinque mesi del 2024 viale Mazzini è primo editore televisivo in Italia, “distanziando le reti Mediaset nell’intera giornata e nel Prime Time. Considerando le reti generaliste, la Rai ha circa 5 punti di vantaggio su Mediaset nell’intera giornata e ben oltre 7 punti di vantaggio nella prima serata. Va evidenziato come sia aumentato il divario tra Rai 1 e Canale 5 nel prime time rispetto allo stesso periodo del 2023. Nel 2024 Rai 1 ha fatto registrare un 7,3 per cento di share rispetto a Canale 5”.

Intanto gli exploit dei contenitori informativi e del calcio pay di Mediaset hanno ribaltato le gerarchie tradizionali. E in questo scenario i Cinque Stelle puntano senza mezzi termini il dito contro le responsabilità del governo: “Il sorpasso di Mediaset certifica il grande ‘successo’ targato Meloni”, dicono i pentastellati in commissione di Vigilanza Rai. Un’accusa di occupazione partitica che il Pd rilancia a sua volta denunciando “l’autogol televisivo e politico dell’esecutivo”: la forzatura ideologica di Viale Mazzini avrebbe irreversibilmente minato il patto fiduciario tra telespettatori e servizio pubblico, aprendo la strada alla rivincita dei contenuti più leggeri e popolari di Berlusconi. Gli spin doctor del premier si sfregheranno soddisfatti le mani: “Missione compiuta”. La conta dei danni per la tv pubblica è tutta lì, impressa a caratteri cubitali nei dati di auditel. Un trionfo di share che sa di liberazione per milioni di italiani. La vera TeleMeloni è iniziata ed è tutto qui.

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I piani promettenti (ma non ancora abbastanza) dei governi per le rinnovabili

Le buone intenzioni ci sono, ma non bastano. Secondo l‘Agenzia Internazionale dell’Energia, i governi di quasi 150 Paesi puntano ad arrivare ad una capacità rinnovabile installata di quasi 8.000 gigawatt entro il 2030. Un balzo in avanti notevole, se pensiamo che solo pochi anni fa puntavamo molto più in basso. Eppure non è ancora sufficiente per centrare l’ambizioso obiettivo fissato alla COP28 di Dubai: triplicare la capacità green a livello globale, arrivando a quota 11.000 GW nel giro di sei anni. Insomma, le promesse ci sono ma come spesso accade manca l’ultimo sforzo per trasformarle in realtà.

È questa la sintesi del rapporto “Tracking countries’ ambitions and identifying policies to bridge the gap” pubblicato dall’AIE. Un’analisi a tutto tondo che fa il punto sulle strategie di 150 nazioni per uscire dalla dipendenza dai combustibili fossili, spostandosi verso le energie rinnovabili come solare, eolico, idroelettrico e così via. Strategie che, se attuate fino in fondo, dovrebbero permettere di raggiungere il 70% dell’obiettivo fissato a Dubai. Un bel passo avanti, soprattutto considerando i progressi a rilento degli anni passati, ma che rischia di non essere abbastanza.

L’analisi dell’AIE: un punto fermo sugli obiettivi raggiunti in tema di rinnovabili

“I governi hanno i mezzi per accelerare nei prossimi mesi e allineare i loro piani nazionali con l’impegno della COP28”, ammonisce Fatih Birol, direttore esecutivo dell’AIE. Un richiamo pressante a cogliere l’occasione della revisione degli impegni nazionali sul clima prevista per il 2025, per presentare strategie ancora più ambiziose.

Del resto, l’urgenza di svoltare verso un’economia a zero emissioni è sempre più impellente. Per avere una possibilità di mantenere il riscaldamento globale sotto la soglia critica di 1,5°C, dovremo abbandonare al più presto i combustibili fossili, causa principale dell’aumento della Co2 nell’atmosfera. Una sfida titanica, che però sembra alla portata grazie ai primi segnali incoraggianti degli ultimi anni.

La sfida impellente nonostante la propaganda: abbandonare i combustibili fossili

Dopo la firma dell‘Accordo di Parigi nel 2015, infatti, la corsa alle rinnovabili ha subito un’accelerazione significativa. Ogni anno il mondo ha iniziato ad aggiungere in media l’11% di nuova capacità green rispetto all’anno prima. Un ritmo che ha ricevuto un’ulteriore spinta grazie al crollo dei costi, con il solare fotovoltaico e l’eolico diventati ampiamente competitivi rispetto al carbone e al gas. Tanto che lo scorso anno la nuova potenza rinnovabile installata ha toccato il record di 560 GW, con un’impennata del 64% rispetto al 2022.

Anche l’Italia sembra voler cavalcare questo trend positivo, dando un’accelerata decisiva agli investimenti green, nonostante la propaganda negazionista per tenere buoni gli elettori dei partiti di maggioranza.  Proprio ieri la Commissione europea ha approvato il nuovo decreto FER2, che punta a incentivare 4,6 GW di nuova capacità da fonti rinnovabili “non mature” entro il 2028. Un’iniezione di fiducia nelle energie del futuro come l’eolico off-shore, il fotovoltaico “flottante”, il moto ondoso e l’energia marina. “Un passo in avanti importante verso i nostri obiettivi energetici”, ha commentato soddisfatto il ministro Gilberto Pichetto Fratin.

Insomma, la strada è tracciata e i primi passi sono stati compiuti. Ciò che manca è lo sprint finale per non sprecare l’occasione di rimettere il mondo sui binari giusti. “Realizzando gli obiettivi della COP28 di triplicare le rinnovabili e raddoppiare l’efficienza energetica, i Paesi hanno un’opportunità enorme per accelerare verso un sistema più sicuro, accessibile e sostenibile”, conclude Birol. Un appuntamento a cui nessun governo può permettersi di mancare, ma bisognerebbe mettere da parte la propaganda. 

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Santanchè, Sinner e la giornata di sole

È dura la vita dei politici al governo caduti in disgrazia. Devono immergersi abbastanza perché si parli poco di loro, evitando di prestare il fianco a chi legittimamente gli chiede chiarimenti dovuti o spiegazioni mai date. Eppure devono farsi vedere, ancora di più se nell’aria c’è qualche elezione, perché non possano essere accusati di essere scomparsi. È un filo sottile che dalle parti di Palazzo Chigi chiamano furbizia o moderazione. Non c’entra nulla il senso della misura: è un atavico senso di sopravvivenza applicato al mantenimento del potere che spesso è considerato protezione dal tracollo giudiziario. 

La ministra al Turismo Daniela Santanchè si porta sulle spalle una nomea di imprenditrice appannata da storie di società malgestite nonostante il probabile abuso degli aiuti di Stato. È associata al pasticciaccio brutto delle spiagge che non vengono messe al bando ingrassando imprenditori balneari che si fregiano di bagni riservati ai ricchi mentre pagano concessioni da poverissimi (il Twiga del suo socio Flavio Briatore secondo Nicola Fratoianni paga 21 mila euro all’anno e fattura otto milioni). La ministra ha quel non trascurabile problema di avere mentito al Parlamento sulla gestione della sua società editoriale, sbugiardata dalle indagini in corso. 

Ieri Santanchè ha deciso di fare capolino spiegandoci che è una brava ministra perché c’è un “record di turisti” (qualsiasi cosa significhi detto così) e perché “Sinner numero uno”. Che c’entra il tennista con il ministero? Niente. Tutto fumus. Non è facile scrivere qualcosa senza scoprirsi, quindi Santanchè si è buttata sul tennis. Il risultato è piuttosto ridicolo, da imbucata rediviva. Immaginate un lavoratore qualunque che al proprio capo che gli chiede cos’ha combinato oggi risponda che fuori c’era un bel sole. Una roba così. 

Buon mercoledì. 

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Lettera pro Israele di MacEoin. Ma è morto due anni fa

Ieri Repubblica in prima pagina pubblicava una lettera dal titolo: “Cari studenti, Israele non è un regime”. Era addirittura una doppia pagina a firma dell’accademico Denis MacEoin, accompagnata da un editoriale del direttore Maurizio Molinari dal titolo “Il seme dell’odio viene dal 7 ottobre”.

Ieri Repubblica pubblicava una lettera dal titolo: “Cari studenti, Israele non è un regime”. Una doppia pagina a firma dell’accademico Denis MacEoin e del direttore Molinari

L’introduzione della lettera di MacEoin diceva: “Pubblichiamo una risposta di Denis MacEoin alla mozione presentata dall’Associazione studentesca dell’Università di Edimburgo per boicottare tutto ciò che è israeliano e in cui si afferma che Israele è governato da un regime di apartheid. Denis MacEoin è un esperto di affari del Medio Oriente. Ecco la sua lettera agli studenti”. Per qualsiasi lettore è stato naturale collegare quella lettera agli studenti alle molte proteste in giro per il mondo.

C’è solo un piccolo particolare omesso nella doppia pagina del quotidiano: MacEoin è morto nel 2022 e quella lettera risale al 2011, 13 anni fa, in un contesto inevitabilmente molto diverso da oggi. L’account X di Repubblica ammette “l’errore di non indicare la data originaria” ma ci tiene a precisare che “i contenuti restano di evidente attualità e sono un contributo al dibattito sulla guerra in Medio Oriente”.

Nella redazione non sono molto d’accordo visto che il cdr si dice convinto che “decontestualizzando fatti e opinioni non si stia facendo un buon servizio al giornalismo e alla credibilità” del giornale e parla di “ennesimo caso sconcertante che siamo costretti a denunciare, con l’unico scopo di salvaguardare collettivamente il nostro lavoro, la nostra professionalità e la nostra reputazione”. E intanto un altro giorno di bombe su Gaza è passato.

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Omeopatia elettorale per la salute

Si potrebbe definire un decreto omeopatico, come le gocce al 99% fatte di acqua che promettono guarigioni miracolose. Che poi si tratti di un decreto che ha a che vedere con la salute degli italiani aggiunge imbarazzo. Ma tranquilli, c’è spazio per imbarazzarsi ancora poiché le decisioni uscite ieri dal Consiglio dei ministri sulle liste di attesa in Sanità prevedono un esborso pari a zero.

L’unica misura per la quale è richiesta una copertura, di circa 250 milioni, è quella che riduce le tasse al 15% per i camici bianchi che fanno intramoenia finalizzata a ridurre le liste di attesa, spingendo ancora sull’uso privatistico della sanità pubblica. Ma non è tutto. Il decreto sulle liste d’attesa che la presidente del Consiglio Giorgia Meloni sventola per accelerare la sua rincorsa alle elezioni europee non è stato scritto di concerto con le Regioni come pubblicizzato. Chi lo dice? Le Regioni. “Ci si risparmi almeno l’imbarazzo di dover smentire ogni riferimento alla concertazione con le Regioni. Ci riuniremo nei prossimi giorni e faremo pervenire le nostre proposte di modifica del decreto concordate in modo unanime”, dice a chiare lettere il coordinatore della Commissione salute della Conferenza delle Regioni, Raffaele Donini.

Così dai numeri usati dalla propaganda di governo – che sul nostro giornale con fatica ci impegniamo tutti i giorni a verificare e spesso a confutare – ora siamo passati ai decreti senza soldi che hanno come unico fine quello elettorale. Credere che parole scritte su carta senza denaro contante possano risolvere il problema di una Sanità martoriata dai tagli subiti nel corso degli anni è un gioco di prestigio che può durare qualche settimana, solo per il tempo di chiudere le urne della corsa a Bruxelles. Le liste d’attesa si ingolfano per i medici che mancano, perché quelli che ci sono vengono pagati poco e male, perché il privato si sta mangiando il Servizio sanitario nazionale. Come ovviare alla carenza di medici nella Sanità pubblica La risposta è facile, lapalissiana. E quella del governo è quella sbagliata.

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